La voce della partenza di Berardo si sparse subito e destò
meraviglia, benché un cafone che vive a giornata non abbia
nessun obbligo di restare nel suo paese, neppure quando il lavoro
è più intenso, se altrove può avere una paga
superiore. Ma grande fu la nostra meraviglia nel vedere, la sera
stessa, Berardo tornare a Fontamara.
Eravamo in quattro o cinque in mezzo alla strada, assieme a
Marietta, a Baldissera e al vecchio Zompa, e parlavamo appunto di
Berardo. Egli deve essersi messo in testa di rifarsi la terra al
più presto, dicevamo. Ma come, se quello che guadagnerà
da bracciante gli basterà appena per nutrirsi?
«Lavorerà il doppio» diceva Marietta. «Si
cercherà qualche lavoro per la sera.»
«Ci rimetterà la salute» io dissi.
«Avrà la terra, sì, ma al camposanto.»
D'altronde, nessuno osava suggerirgli di rinunziare a Elvira.
«Non serve girare» disse il vecchio Zompa. «Albero
spesso trapiantato, mai di frutti è carico» Vedendolo
riapparire improvvisamente, stavamo per pensare che la voce della
partenza fosse stato uno scherzo, ma osservammo che indossava la
camicia e il cappello dei giorni di festa e portava sotto il braccio un
fagotto. Perché era tornato indietro?
«Per andare a Roma adesso ci vuole il passaporto»
gridò Berardo. «Ogni giorno ne inventano un'altra.»
«Perché?» domandò Baldissera. «Non
è più dell'Italia?»
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Il suo racconto fu molto confuso.
«Stavo alla stazione» disse. «Avevo fatto il
biglietto. È entrata una pattuglia di carabinieri e han
cominciato a domandare le carte a tutti, a chiedere le ragioni del
viaggio. Io ho subito detto la verità e cioè che volevo
andare a Cammarese per lavorare. Han risposto: "Bene, hai la tessera?".
Che tessera? "Senza tessera non si lavora." Ma che tessera? Impossibile
di avere una spiegazione chiara. Mi han fatto restituire il prezzo del
biglietto e mi han messo fuori della stazione. Allora mi è
venuta l'idea di andare a piedi fino alla stazione seguente e di
prendere il treno di là. Appena fatto il biglietto, ecco due
carabinieri. Dove vado? Dico, a Cammarese, per lavorare. Mi han
domandato: "Fuori la tessera". E io, che tessera? Che c'entra la
tessera? "Senza tessera non si può lavorare" , dicono
"così è nel nuovo regolamento dell'emigrazione interna."
Ho cercato di convincerli che io non andavo a Cammarese per
l'emigrazione interna, ma soltanto per lavorare. Però è
stato tutto inutile. "Noi abbiamo degli ordini" hanno detto i
carabinieri. "Senza tessera non possiamo permettere di salire in treno
a nessun operaio
che si trasferisca in altra regione per lavorare."
«Mi hanno fatto restituire il prezzo del biglietto e mi han
messo fuori della stazione. Ma quella storia della tessera non mi
andava giù. Sono entrato in una osteria e ho attaccato discorso
con quelli che c'erano. "La tessera? Come, non sai che cos'è la
tessera?" mi ha detto un carrettiere. "Durante la guerra non si parlava
che di tessera." Ed eccomi nuovamente qui, dopo aver perduto la
giornata.»
Il più colpito dal racconto di Berardo fu il generale
Baldissera che cercò fra le sue cartacce e tirò fuori un
foglio stampato.
«Anche qui si parla di tessera» disse assai allarmato.
Infatti si parlava di tessera. La federazione dell'artigianato
invitava perentoriamente il generale Baldissera a fornirsi della
tessera di scarparo.
«Alcune settimane fa, anche Elvira ricevette una lettera
simile» aggiunse Marietta. «Non c'è più
libertà di lavoro. Le hanno scritto che se vuole continuare a
esercitare l'arte della tintoria, deve pagare una tassa e fornirsi di
tessera.»
Questa coincidenza delle lettere arrivate a Fontamara e degli
incidenti toccati a Berardo mi indussero ad avanzare il dubbio che
probabilmente doveva trattarsi di una burla.
«Cosa c'entra il Governo con l'arte dello scarparo e del
tintore?» dissi. «Cosa c'entra il Governo coi cafoni che
vanno in cerca di lavoro da una provincia all'altra? I governanti hanno
altro da pensare» dissi. «Questi sono affari privati. Solo
in tempo di guerra si ammettono prepotenze simili. Ma adesso non siamo
in guerra.»
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«Cosa ne sai tu?» mi interruppe il generale Baldissera.
«Cosa ne sai tu se siamo in pace o in guerra?»
Questa domanda ci impressionò tutti.
«Se il Governo impone la tessera, vuol dire che siamo in
guerra» continuò in tono lugubre il generale.
«Contro chi la guerra?» chiese Berardo. «È
possibile che siamo in guerra senza che se ne sappia nulla?»
«Cosa ne sai tu?» riprese il generale. «Cosa ne
vuoi sapere tu, cafone ignorante e senza terra? La guerra sono i cafoni
che la combattono, ma sono le autorità che la dichiarano. Quando
scoppiò l'ultima guerra, a Fontamara sapeva qualcuno contro chi
fosse? Pilato s'incaponiva a dire che fosse contro Menelik. Simpliciano
affermava che fosse contro i Turchi. Solo molto più tardi si
seppe che era soltanto contro Trento e Trieste. Ma ci sono state guerre
che nessuno ha mai capito contro chi fossero. Una guerra è una
cosa talmente complicata che un cafone non può mai capirla. Un
cafone vede una piccolissima parte della guerra, per esempio la
tessera, e questo lo impressiona. "Il cittadino" vede una parte molto
più larga, le caserme, le fabbriche d'armi. Il re vede un intero
paese. Solo Dio vede tutto.»
«Le guerre e le epidemie» disse il vecchio Zompa,
«sono invenzioni dei Governi per diminuire il numero dei cafoni.
Si vede che adesso siamo di nuovo in troppi.»
«Ma insomma, tu la tessera la prenderai?» chiesi a
Baldissera, per farla finita.
«Prenderla? La prenderò» egli rispose. «Ma
pagarla, puoi star sicuro, non la pagherò.»
Nonostante il diverso modo di esprimerci si può dire, dunque,
che in fondo eravamo pienamente d'accordo. Quella sera molte altre cose
furono dette sulla guerra e non ci fu famiglia in cui non se ne
parlasse! Ognuno faceva all'altro la domanda : «Ma contro chi, la
guerra?».
E nessuno sapeva rispondere. Seduto davanti alla cantina di
Marietta, il generale Baldissera dava spiegazioni con pazienza, a tutti
quelli che si recavano a chiedere informazioni da lui. Lui era felice
di questo.
«Contro chi la guerra? Nemmeno io lo so; nel foglio non
è spiegato; il foglio dice solo che bisogna pagare la
tessera», egli diceva ad ognuno.
«Pagare, sempre pagare», commentavano i cafoni.
La confusione che era già negli spiriti aumentò il
giorno dopo con l'arrivo inaspettato di Innocenzo La Legge.
Perché Innocenzo si azzardasse a tornare nuovamente a Fontamara,
dalla quale una legittima paura lo teneva lontano da vari mesi, doveva
ben esserci un grave motivo; di sua spontanea volontà certamente
non sarebbe venuto. Quando egli arrivò all'altezza della cantina
e vide accorrere verso di lui gente da tutte le parti, ebbe un momento
di panico. Marietta fece a tempo a porgergli uno sgabello, prima che
cadesse per terra.
«Scusate, scusate», cominciò a dire con un filo
di voce. «Non abbiate paura. Perché avete paura? Sono io
che vi faccio paura? »
«Parla», gli impose Berardo con voce poco incoraggiante.
«Ecco, intendiamoci», riprese Innocenzo
«intendiamoci, non si tratta di tasse, vi giuro su tutti i santi
che non si tratta di pagare. Se si tratta di tasse, che Dio mi tolga la
vista.»
Vi fu una piccola pausa, giusto il tempo per permettere a Dio di
esaminare il caso. Innocenzo conservò la vista.
«Continua» gli comandò Berardo.
«Ecco, voi ricordate che una sera venne qui un graduato della milizia? Un certo cavaliere Pelino? Lo ricordate? Bene, benissimo, questo mi fa un grande piacere.
Dunque, il cav. Pelino ha fatto un rapporto alle autorità superiori in cui afferma di aver constatato che Fontamara è un covo di nemici dell'attuale Governo. Non vi spaventate, non c'è nulla di male. Il cav. Pelino ha riferito, parola per parola, certi discorsi fatti qui, in sua presenza, contro l'attuale Governo e contro la Chiesa.
Senza dubbio, egli ha mal capito i vostri discorsi, senza dubbio. Ma
le autorità superiori hanno deciso di prendere certi
provvedimenti verso Fontamara. Niente di grave, vi assicuro, niente da
pagare, niente. Si tratta di sciocchezze, alle quali in città si
dà grande importanza, ma un cafone, una persona seria nemmeno vi
bada.»
Innocenzo non sapeva quali fossero tutti i provvedimenti decisi contro
Fontamara. Egli era il cursore del comune e conosceva quindi solo le
decisioni del comune, che aveva l'incarico di comunicare; il resto non
lo sapeva né lo incuriosiva. La prima decisione riguardava il
ristabilimento forzoso nella frazione di Fontamara dell'antica legge
del coprifuoco; un'ora dopo l'avemaria nessun cafone doveva trovarsi
fuori di casa e doveva restare in casa fino all'alba.
«E le paghe restano uguali?» domandò Berardo
incuriosito.
«Cosa c'entrano le paghe?» rispose Innocenzo.
«Come, cosa c'entrano? Se non possiamo uscire di casa prima
dell'alba» spiegò Berardo «vuol dire che arriveremo
a Fucino, sul luogo di lavoro, un po' prima di mezzogiorno. Se soltanto
per un paio d'ore di lavoro ci daranno lo stesso salario di prima, viva
la legge del coprifuoco.»
«E l'irrigazione?» domandò Pilato. «Come si
fa a regolare l'irrigazione notturna se tutti restiamo in casa?»
Innocenzo La Legge rimase interdetto.
«Voi non mi avete capito», disse «oppure, scusate,
fingete di non aver capito, per torturarmi. Chi vi ha detto che voi
dovete cambiare le vostre abitudini? Voi restate cafoni e farete i
vostri lavori quando volete. Ma l'Impresario è podestà e
voi non potete impedirgli di fare il podestà. Ed io che cosa
sono, io? Cursore del comune, e non dovreste impedirmi di fare il
cursore. L'Impresario, come podestà, decide, per mettersi al
riparo dalle proteste e dai reclami delle altre autorità, che
voi durante la notte dovete stare in casa. Io, come cursore, vi porto
il suo ordine. Voi, cafoni, fate naturalmente quel che vi pare.»
«E la legge?» si mise a urlare il generale Baldissera.
«La legge dove va a finire in questo modo? La legge è o
non è la legge?»
«Scusa», gli chiese Innocenzo «tu la sera, a che
ora vai a dormire?» «Appena si fa buio» rispose il
vecchio scarparo miope.
«E la mattina a che ora ti alzi?»
«Alle dieci, perché il lavoro è scarso e la
debolezza è grande.»
«Ebbene», sentenziò il cursore «io ti
nomino custode ed esecutore della legge.»
Tutti ci mettemmo a ridere, ma Baldissera rimase cupo, e siccome era
già quasi buio, se ne andò a dormire.
Innocenzo fu felicissimo per l'insperato successo di ilarità e
divenne più spigliato. Accese una sigaretta e cominciò a
fumare. Ma fumava in un modo mai visto: invece di fare uscire il fumo
dalla bocca, lo tratteneva e poi lo soffiava dalle narici, ma non da
entrambe, come anche noi sappiamo, sebbene, alternativamente, prima
dall'una e poi dall'altra.
Approfittò del momento di ammirazione in cui ci sorprese per comunicarci la seconda decisione del podestà riguardante Fontamara. In tutti i locali pubblici doveva essere affisso un cartello che dicesse:
IN QUESTO LOCALE È PROIBITO PARLARE DI POLITICA.
Di locale pubblico a Fontamara c'era solo la cantina di Marietta.
Innocenzo consegnò alla cantiniera un ordine scritto del
podestà col quale le si comunicava che lei sarebbe stata
ritenuta responsabile se nella sua cantina si fossero fatte discussioni
politiche.
«Ma a Fontamara nessuno sa neppure che cosa sia la
politica» osservò giustamente Marietta. Nel mio locale
nessuno ha mai parlato di politica.»
«Di che si parla, dunque, se il cav. Pelino tornò al
capoluogo tutto infuriato?» chiese Innocenzo sorridendo.
«Si ragiona un po' di tutto» riprese a dire Marietta.
«Si ragiona dei prezzi, delle paghe, delle tasse, delle leggi;
oggi si ragionava della tessera, della guerra, dell'emigrazione.»
«E di questo non si dovrebbe più parlare, secondo
l'ordine del podestà» chiarì Innocenzo. «Non
è ordine speciale per Fontamara, ma in tutta Italia è
stato diramato quest'ordine. Nei locali pubblici non bisogna più
parlare di tasse, di salari, di prezzi, di leggi.»
«Dunque, non bisogna più ragionare» concluse
Berardo.
«Ecco, bravo, Berardo ha capito perfettamente»
esclamò Innocenzo soddisfatto. «Non bisogna più
ragionare: questo è il senso della decisione del podestà.
Bisogna farla finita coi ragionamenti. E poi, siamo sinceri, a che
servono i ragionamenti? Se uno, ha fame, può nutrirsi di
ragionamenti? Bisogna farla finita Con questa cosa inutile.»
La soddisfazione d'Innocenzo fu grande nel constatare che Berardo gli dava ragione e perciò accettò la sua proposta di rendere più chiaro il cartello che doveva essere appeso al muro e che egli stesso scarabocchiò in nostra presenza, su un largo foglio di carta bianca, nel tenore seguente:
Per ordine del Podestà sono proibiti tutti i ragionamenti.
Berardo provvide ad affiggere il cartello, in alto, sulla facciata
della cantina. La sua condiscendenza ci sbalordiva assai. Come se il
suo atteggiamento non fosse già abbastanza chiaro, Berardo
aggiunse:
«Adesso, guai a chi tocca quel cartello.»
Innocenzo gli strinse la mano e voleva abbracciarlo. Ma le
spiegazioni che Berardo subito aggiunse, moderarono il suo entusiasmo.
«Quello che il podestà ordina da oggi, io l'ho sempre
ripetuto» disse Berardo. «Coi padroni non si ragiona,
questa è la mia regola. Tutti i guai dei cafoni vengono dai
ragionamenti. Il cafone è un asino che ragiona. Perciò la
nostra vita è cento volte peggiore di quella degli asini veri,
che non ragionano (o, almeno, fingono di non ragionare). L'asino
irragionevole porta 70, 90, 100 chili di peso; oltre non ne porta.
L'asino irragionevole ha bisogno dl una certa quantità dl
paglia. Tu non puoi ottenere da lui quello che ottieni dalla vacca, o
dalla capra, o dal cavallo. Nessun ragionamento lo convince. Nessun
discorso lo muove. Lui non ti capisce, (o finge di non capire). Ma il
cafone invece, ragiona. Il cafone può essere persuaso.
Può essere persuaso a digiunare. Può essere persuaso a
dar la vita per il suo padrone.
Può essere persuaso ad andare in guerra. Può essere
persuaso che nell'altro mondo c'è l'inferno benché lui
non l'abbia mai visto. Vedete le conseguenze. Guardatevi intorno e
vedete le conseguenze.»
Per noi, quello che Berardo diceva, non era una novità. Ma
Innocenzo La Legge era atterrito.
«Un essere irragionevole non ammette il digiuno. Dice: se
mangio lavoro, se non mangio non lavoro» continuò Berardo.
«O meglio neppure lo dice, perché allora ragionerebbe, ma
per naturalezza così agisce. Pensa dunque un po' se gli ottomila
uomini che coltivano il Fucino, invece di essere asini ragionevoli,
cioè addomesticabili, cioè convincibili, cioè
esposti al timore del carabiniere, del prete, del giudice, fossero
invece veri somari, completamente privi di ragione. Il principe
potrebbe andare per elemosina. Tu sei venuto qui, o Innocenzo, e tra
poco, nella via buia, farai ritorno al capoluogo. Che cosa può
impedire a noi di accopparti? Rispondi.»
Innocenzo avrebbe voluto balbettare qualche cosa, ma non
potè; era livido come uno straccio.
«Ce lo può impedire» continuò Berardo
«il ragionamento delle possibili conseguenze dell'assassinio. Ma
tu, Innocenzo, di tua mano, hai scritto su quel cartello che, da oggi,
per ordine del podestà, sono proibiti i ragionamenti. Tu hai
rotto il filo al quale era legata la tua incolumità.»
«Ecco», riuscì a balbettare Innocenzo
«ecco, tu dici di essere contro i ragionamenti, ma invece, scusa,
a me sembra, scusa, dico per dire, a me sembra che tu ragioni fin
troppo. Tutto il tuo discorso non è che un ragionamento. Io non
ho mai sentito un asino, cioè un cafone irragionevole, parlare
in quel modo.»
«Se i ragionamenti sono a vantaggio solo dei padroni e delle
autorità», io domandai a Berardo «perché il
podestà ha deciso di proibire tutti i ragionamenti?»
Berardo rimase un po' in silenzio. Poi rispose:
«È tardi, domani mi devo alzare alle tre per andare a
Fucino. Buona notte.»
E se ne andò a casa.
Le discussioni con lui finivano così. Egli parlava, sbraitava
per ore intere, come un predicatore, dicendo le cose più assurde
e violente che gli venivano in testa, in un tono che non ammetteva
repliche. Poi, quando aveva finito, uno gli faceva una domanda e lui
rimaneva imbarazzato e se ne andava senza rispondere.
Per noi la Patria ha più vasti confini perché sappiamo cos'è una siepe. (M. Parrella - poeta lucano)
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