La descrizione della situazione della Sicilia durante il periodo preunitario fatta da Giuseppe Ressa - autore, fra l'altro, dell'e-book Il Sud e l'Unità d'Italia che vi invitiamo a leggere integralmente e a diffondere - ci pare precisa e condivisibile e spiega il successo della spedizione garibaldina.
La scelta della Sicilia dove gli Inglesi avevano interessi economici e strategici fu vincente.
Altri tentativi (tra cui lo sfortunato tentativo di Pisacane (al quale i moderati avevano promesso cinquemila uomini armati in quel di Sala Consilina ed invece non se ne vide neppure uno, se non i gendarmi borbonici) erano falliti e non solamente per un mero problema di scelta geografica!
Fonte:
https://www.ilportaledelsud.org/
L’invasione e la fine delle Due Sicilie
L’antefatto: il problema siciliano
Il tallone d’Achille del regno del Sud, dal punto di vista politico, era la Sicilia che per secoli, sin dai tempi degli arabi, del vicereame spagnolo, dei Borbone aveva avanzato richieste autonomistiche nei confronti dei governi continentali; perfino nell'ultimo dopoguerra ci fu un movimento indipendentista (di Finocchiaro) e, alla nascita della attuale Repubblica Italiana, la Sicilia fu contestualmente dichiarata Regione a statuto autonomo.
La Sicilia, all’avvento dei Borbone nel 1734, era ancora una roccaforte del feudalesimo, “più di 2/3 del territorio e circa metà dei suoi abitanti sono sottoposti ai baroni; il valore dei beni, stabili e mobili…supera quelli dei beni siti nelle terre demaniali” [1]; molti proprietari non videro mai le loro terre e conducevano una vita sfarzosa in città, soprattutto nella capitale Palermo; uno di loro così spiegava ad un viaggiatore tedesco la ragione della cessione in affitto dei suoi latifondi:”cedo alli gabellotti o siano affittatori li miei propri vantaggi per non volermi incaricare della vendita de’grani, e per aver sicura e comoda senza nessuna fatiga la rendita annuale”[2]. Ma il lusso sfrenato era molto oneroso anche per i baroni che spesso si ridussero sull’orlo della bancarotta per i debiti contratti; a sua volta la classe degli affittuari non divenne mai borghesia ma scimmiottò la figura dei baroni diventandone un rapacissimo duplicato; il contadino, poi, non mostrava nessuna voglia di reagire alla miserrima condizione perché “la lunga servitù gli aveva talmente degradato l’animo che più non risentiva il peso delle catene”; “Le plebi rurali consideravano la persona del barone, oltre che rivestita d’un carattere quasi sacro, indispensabile all’ordine delle cose e garanzia della loro grama esistenza ….nell’immaginazione del contadino la figura del barone, dimorante nella capitale, appariva come quella di un personaggio della massima importanza il cui consiglio e la cui opera erano indispensabili alla vita del Regno e alla persona del Re”[3].
I baroni siciliani avevano alcune prerogative particolari, sconosciute ai feudatari di altre parti d’Italia e d’Europa, ad esempio il diritto di dare in eredità il feudo ai discendenti fino al sesto grado e la loro piena ed autonoma giurisdizione civile e penale sui feudi. Essi giustificavano questi privilegi col fatto che, secondo la tradizione, il feudalesimo era nato nell’isola prima dell’avvento dei Normanni, addirittura ai tempi dell’Impero Romano d’Oriente e che comunque l’investitura feudale era stata concessa dal primo re Ruggero II, come riconoscimento dei servigi prestati, a coloro che avevano militato nella sua guerra contro gli Arabi; questi privilegi implicavano che il barone non si sentisse un vassallo del re ma quasi un suo pari; “alcuni baroni delle più antiche casate come, per esempio, quella del marchese di Geraci - il Marchese per eccellenza di tutta la Sicilia - oltre a fregiarsi, negli atti pubblici dei titoli più altisonanti, lasciavano procedere direttamente da Dio l’investitura dei loro possessi feudali: per grazia di Dio primo Signore nell’una e nell’altra Sicilia, Principe del Sacro.
Nei giorni 8 e 11 dicembre 1816 la costituzione siciliana del 1812 veniva di fatto soppressa e con essa gli istituti parlamentari indipendenti, il regno di Sicilia cessò di esistere e venne accorpato alla parte continentale del regno meridionale nel neonato Regno delle Due Sicilie: questo aumentò l’odio inestinguibile nella classe dirigente aristocratica siciliana verso Napoli, essa non si accontentò del fatto che, contestualmente, una nuova legge riservava ai siciliani la maggior parte delle cariche amministrative della Sicilia, come pure l’amministrazione della giustizia a magistrati locali, per di più la coscrizione obbligatoria non fu introdotta nell’isola. Nel 1819 la legislazione amministrativa centralizzata ed antifeudale fu estesa anche alla Sicilia ma trovò ancora moltissime resistenze tanto che solo nel 1838 si riuscì ad abolire la giustizia patrimoniale dei baroni, il feudalesimo opponeva una strenua resistenza e se alla fine del 1700 si contavano 142 principi, 95 duchi, 788 marchesi, 95 conti, 1274 baroni, ancora nel 1840 Frederic von Raumer, uno scrittore di libri di viaggi, riferisce che aveva constatato che nell’isola, su una popolazione di circa 2 milioni di anime, si contavano 127 principi, 78 duchi, 130 marchesi, innumerevoli conti (per tacere dei baroni), “molti dei quali ben di rado hanno visto i loro possedimenti e mai hanno posto mano alla loro amministrazione” [4]
Nel 1820 ci furono altri moti indipendentisti, in concomitanza della rivoluzione incruenta avvenuta a Napoli sotto la guida di Guglielmo Pepe; i siciliani non si accontentarono della costituzione concessa da Ferdinando I a Napoli ma volevano riottenere quella del 1812, inalberarono la bandiera della Trinacria e formarono un governo provvisorio; la rivolta fu repressa nel sangue dalle truppe napoletane.
Nel rivoluzionario 1848 era stata proprio l’isola a manifestare i primi fermenti, “in questa fase nell’isola scarso era il seguito popolare (esso esisteva solo tra gli intellettuali) per le idee mazziniane e il programma di unificazione dell’Italia; l’unico obiettivo era la liberazione dal dominio napoletano”[5]; si arrivò a proclamare, il 13 aprile, la decadenza di Ferdinando II e ad offrire la corona ad un principe di casa Savoja, che declinò l’invito anche perché il re delle Due Sicilie mandò una nota diplomatica al Piemonte in cui fece intravedere la possibilità di un conflitto in caso di accettazione.
All’inizio della prima guerra di indipendenza i siciliani “dai forti di Messina spararono contro le navi di Ferdinando II che si dirigevano in Adriatico per operare, congiuntamente con la flotta sarda, contro la marina austriaca. Era la riprova che per la Sicilia, il nemico ereditario era Napoli e non Vienna”[6].Romano Impero, Primo conte d’Italia ecc..”.[7]
In Sicilia era, inoltre, in vigore dai tempi dei Normanni, una Costituzione di cui i siciliani erano orgogliosi e gelosissimi e alla quale giuravano fedeltà tutti i sovrani succedutisi nel dominio nell’isola; lo stesso Carlo di Borbone, quando prese possesso del regno del Sud nel 1734, si recò a Palermo per cingere nel duomo la corona che era stata di Ruggero II d’Altavilla e di Federico II di Svevia; in quel momento storico “nessuno dei vecchi Stati d’Italia era in possesso di un patto, che determinasse le attribuzioni del potere supremo e riconoscesse dei diritti, attraverso una assemblea rappresentativa, alla Nazione”[8]; in realtà, però, questo Parlamento rappresentava solo lo strapotere dei baroni i quali, tramite questa istituzione, pretendevano di avere un rapporto alla pari col sovrano tanto che le leggi non potevano essere modificate senza l’approvazione di questa Assemblea. I rapporti tra il Re e i vicerè borbonici da una parte, e i baroni siciliani dall’altra, erano comunque rimasti cordiali fino al 1780 quando, però, sulla spinta dell’assolutismo riformatore di stampo illuministico che trovava nel re di Napoli Ferdinando IV e della sua consorte Maria Carolina dei validissimi interpreti, fu inviato nell’isola il marchese Domenico Caracciolo, col compito di ridurre al minimo il loro potere.
La reazione a questo attacco fu fortissima ma il dado era tratto e i successivi vicerè cercarono di continuarne l’opera aumentando così il distacco e la diffidenza reciproca tra Napoletani e Siciliani: nel 1788 furono limitati i diritti di trasmissione in eredità dei feudi, il 4 maggio 1789 abolite tutte le servitù personali, nel 1790 fu approvato il progetto di un nuovo Catasto che doveva essere la base di un sistema fiscale al quale i baroni, fino a quel momento, si erano sottratti per i loro privilegi feudali.
Durante l’occupazione francese della parte continentale delle Due Sicilie i sovrani si erano rifugiati in Sicilia con la protezione degli inglesi e, sotto la spinta di questi ultimi, nel 1812 era stato abolito il feudalesimo e promulgata una nuova Costituzione sul modello inglese, con due camere, una di “pari”, nominata dal Re, ed una elettiva con sistema censitario; l’aristocrazia terriera appoggiò questa svolta costituzionale che rafforzava le secolari tradizioni parlamentari siciliane e ne accentuava il carattere antimonarchico. Gli inglesi furono i promotori della trasformazione da monarchia assoluta a rappresentativa, il loro scopo di facciata era quello di estendere all’isola un istituto di cui essi andavano fieri ma, in realtà, si trattava di un espediente politico per ingraziarsi le classi dominanti siciliane e mettere le basi per un futuro protettorato sull’isola più grande ed importante del Mediterraneo (dopo essersi già appropriati di Malta che faceva parte delle Due Sicilie) tanto è vero che, nel gennaio 1814, il plenipotenziario inglese in Sicilia Lord Bentinck avviò dei negoziati con emissari del Murat che si svolsero nell’isola di Ponza: si promise di appoggiare il re francese circa il mantenimento del suo potere sulla parte continentale del regno una volta che Napoleone fosse stato definitivamente sconfitto, in cambio si pretese la definitiva rinuncia alla Sicilia; queste trattative divennero di dominio pubblico e il Corso andò su tutte le furie[9]
Successivamente, al Congresso di Vienna, fu Metternich a far naufragare le mire inglesi sulla Sicilia imponendo la restituzione al restaurato Ferdinando I di tutti i suoi possedimenti; egli faceva senza dubbio gli interessi dell’Austria che mirava ad estendere la sua influenza sulle Due Sicilie ma anche i propri visto che come “tangente per il suo impegno personale per la restituzione della Sicilia al regno dei Borboni, pretese due milioni di franchi. Ferdinando avrebbe voluto limitarsi a pagarne 1.200.000 ma il famoso statista austriaco fece sapere di non potersi accontentare di questa cifra perche’ il suo patrimonio familiare era stato dilapidato dal padre “[10]; in Sicilia “gli inglesi non hanno lasciato alcun monumento degno di un potere che meriti il nome di sovrano…..e tuttavia non c’è classe sociale che non li rimpianga, semplicemente perchè, almeno per un certo tempo hanno salvato i siciliani da Napoli “[11].Eppure sotto il governo dei Borboni la Sicilia godeva di eccezionali privilegi: le imposte non erano gravose, non esisteva, come già detto, la coscrizione obbligatoria, la vita e la proprietà erano sicure tanto che la famosa guida turistica del Murray[12] affermava che i Borbone “ebbero almeno il merito di rendere le strade della Sicilia sicure come quelle del Nord Europa“; nel decennio 1850-1860 si costruirono nuove arterie, si ampliarono i porti, si eressero scuole ed ospedali, nondimeno i Siciliani erano scontenti e desideravano il distacco dalla parte continentale del regno.
La forte presenza commerciale e finanziaria inglese aveva generato una diffusa anglofilia la quale andava di pari passo con la convinzione che si potesse realizzare l’indipendenza sotto un protettorato inglese per fare della Sicilia un'altra Malta, protesa tra Europa e Africa; questa soluzione era stata nuovamente incoraggiata da Londra ma, a questo punto, nella primavera del 1860, Napoleone III dichiarò che se l’Inghilterra avesse occupato anche solo in parte la Sicilia ci sarebbe stata la guerra e la Francia si sarebbe annessa il Belgio.
Infine la rivolta del 1860 con la successiva invasione garibaldina e piemontese:“la Sicilia, impegnata come tràvasi in una guerra contro Napoli e non potendo sperare d’altri che dagli Italiani e dal sentimento italiano, deve seguire e se si vuole anche subire, senza condizioni, almeno per adesso, questo sentimento e neppur mostrare semplici velleità separatiste”[13]; nel luglio 1860, quando gli avvenimenti erano nel vivo, il siciliano Francesco Ferrara così scriveva a Cavour “in Sicilia la rivoluzione operatasi e il partito da prendere hanno un solo movente: il desiderio irresistibile di emanciparsi da Napoli. Le grida che si innalzano, i principii che s’invocano, sono semplici frasi a cui si ricorre per politica necessità, e che possono da un’ora all’altra mutare col mutarsi delle circostanze: la nazionalità, l’unità, sono propriamente mezzi e non fine….il Piemonte non ha soltanto l’interesse di secondare alla cieca l’attuale voga di annessione, ma gli deve molto più importare di operarla in modo che essa dallo stato di semplice necessità passi a quello di volontà, e che la Sicilia non divenga la piaga del regno italiano com’è stata quella del regno borbonico”[14]
Dopo l’annessione al regno d’Italia i siciliani stettero molto peggio che sotto quello delle Due Sicilie: Cavour non concedette nessuna forma di autogoverno, impose nuove e più gravose tasse come pure la coscrizione obbligatoria; i nuovi funzionari piemontesi, che si succedettero ad un ritmo serrato fallendo tutti nei loro compiti, erano completamente insensibili nei confronti della Sicilia della quale ignoravano usi e costumi, per non parlare della lingua. L’ordine pubblico non venne più garantito tanto che solo a Palermo si contarono millecinquecento assassinii nei primi due anni dall’unità; i latifondisti che avevano così tenacemente appoggiato i piemontesi continuarono a perpetrare i loro soprusi, bande di malfattori si scontravano quotidianamente in tutta la regione, iniziava l’era della mafia e bisognerà aspettare il 1937 per avere la prima legge di colonizzazione del latifondo siciliano.Ricordiamo, infine, la brutale repressione che nel 1866 insanguinò Palermo: c’era stata una rivolta contro i nuovi padroni piemontesi e nell’occasione la seconda capitale delle ex Due Sicilie fu bombardata dal mare e devastata dalle truppe di Raffaele Cadorna, in un sol giorno si ebbero 2000 morti e 3600 prigionieri.
[1] Ernesto Pontieri, Il tramonto del baronaggio siciliano, Sansoni, 1943
[2] citato da Rosario Romeo, “Il Risorgimento in Sicilia”, Laterza, 2001
[3] E.Pontieri, op. cit.
[4] Raleigh Trevelyan, op. cit..
[5] ibidem
[6] Mario Costa Cardol, Venga a Napoli, signor conte, Mursia, 1996, pag. 133
[7] Ernesto Pontieri, op. cit. pag.107
[8] Ernesto Pontieri, op. cit. pag.1
[9] Silverio Corvisieri, “All’isola di Ponza”, Il Mare,1985
[10] Walter Maturi, “ La politica estera napoletana dal 1815 al 1820”, in Rivista storica italiana, serie V, 30 giugno 1939, vol.IV, pag.247 riportato da Silverio Corvisieri, op. cit.
[11] dal racconto dello scrittore di viaggi Simond, riportato da Raleigh Trevelyan, “Principi sotto il vulcano”, BUR, 2001
[12] pseudonimo del console inglese George Dennis
[13] Rosario Romeo, Il Risorgimento in Sicilia, Laterza, 2001, pag.365
[14] Rosario Romeo, op. cit. pag. 368
Ai sensi della legge n.62
del 7 marzo 2001 il presente sito non costituisce testata giornalistica.
Eleaml viene aggiornato secondo la disponibilità del materiale e
del web@master.