Fonte:
https://home.nikocity.de/contrasto/napolet.htm
La lingua napoletana
di
Mena Moscato
Per circa sette anni ho abitato nel
cuore di Napoli. Ora mi sposto accà e allà (di qua e di
là) ma sempre a Spaccanapoli mi ritrovo. Il richiamo al Ventre
è troppo forte, un ventre materno come lo consacrò
Matilde Serao da cui è difficile staccarsi, un legame viscerale
con tradizioni e persistenze misteriose che attraversano i secoli.
Sarà per quell’ombra onnipresente della morte, il Vesuvio,
l’innominabile, temuto in silenzio, un promemoria per non
dimenticare che ‘a vita è nu ‘muzzeche (la vita
è un morso), na’ sciuscata ‘e viento (un soffio di
vento) e il vivere alla giornata è l’unica via
d’uscita.
Vivere a Napoli significa appropriarsi di questa filosofia esistenziale
e imparare a sentirla e a comunicarla, per quanto possibile, con una
lingua calda, piena di pathos, spesso icastica, affascinante per la
carica preziosa dei suoi significati, elemento indispensabile per
comprendere una civiltà, connotarla e renderla riconoscibile in
tutto il mondo. Ancora oggi la parlesia, la parlata popolare di un
tempo, si ascolta, fortunatamente sulla bocca di moltissimi, il gergo e
la lingua della posteggia (attività dei cantanti girovaghi)
appartengono, come sempre, ad ogni strato sociale. Il signore ha sempre
vissuto accanto al popolo e quando si parla di centro storico
pittoresco spesso si allude a questa connivenza vivace tra i piani alti
e i piani bassi nei maestosi palazzi barocchi come in quelli più
moderni.
La lingua – perché non si tratta di dialetto – nasce
come fusione tra il greco (Napoli fu fondata dai Greci nel VI secolo a.
C. col nome di Partenope) e le parlate osche e sannite delle
popolazioni indigene. Poi regolata dalla lingua latina ha subito
l’influenza degli Spagnoli, la cui presenza si avverte ancora
oggi, e più tardi dei Francesi. Si direbbe un popolo sbattuto da
una dominazione all’altra. Eppure la città, che
fondamentalmente è anarchica, o per meglio dire ingovernabile,
è stata spesso teatro di rivoluzioni popolari: gloriosi
masanielli hanno spesso arrevutato (rivoltato) le piazze. Il
napoletano, in più di un caso, è polisemantico e
polivalente.
Ma l’intonazione della voce e il gesto sono complementi
essenziali utilizzati da questo popolo drammatico per farsi comprendere
universalmente. Ad esempio, un lemma certamente fastidioso, degradante
ed offensivo se pronunziato senza una scintilla di calore e un brivido
di humour, un lemma rimbalzato per l’intera penisola, è la
battuta superlativamente espressiva cca nisciuno e’ ffesso.
Questa frase, a seconda dell’inflessione di voce con cui la si
pronuncia può esprimere un avvertimento, una sfida, un monito,
una diffida. Spesso è il tocco finale che suggella tutto un
discorso. Ma, se ci avviciniamo all’intima e polivalente
sfaccettatura semantica, scopriamo che fesso è lo “scemo
integrale”, chi non afferra a volo il significato di quanto gli
si dice; ma lo è anche chi non si accorge che la moglie lo
tradisce. Fesso è chi si brucia le dita accendendo la sigaretta;
fesso è chi perde ‘a capa per una donna; fesso è
chi paga più del dovuto o del necessario. Ma fesso è
classificato soprattutto chiunque agisca scriteriatamente. Di
conseguenza dare del fesso a uno non sempre costituisce
un’offesa. «Quanto sì (sei) fesso!», detto con
frequenza esasperante, finisce per lasciare indifferente chi se lo
sente ripetere. A conti fatti, ogni buon napoletano riceve e regala
l’epiteto almeno... tre volte al giorno. Al pari delle tazzulelle
di caffè che sorbisce. Senza contare che non di rado fesso lo
dice a sé stesso: «M’hanno fatto fesso!»,
mormora a fior di labbra con una punta di bonomia o di rabbia.
Accanto alle colorite espressioni di derisione e di affermazione, un
intramontabile frasario amoroso si ascolta nelle canzoni del repertorio
classico (Io te vurrìa vasà = Io vorrei baciarti,
Malafemmena = Femmina che fa soffrire, ‘O
surdato’nnammurato = Il soldato innammorato, Core ‘ngrato =
Cuore ingrato), quelle scritte tra la fine dell’800 e gli inizi
del ‘900, quando nell’immaginario collettivo affiorano
eleganti carrozze sul lungomare di via Partenope e inguantate signore
fanno lo struscio (passeggiano su e giù) per via Toledo, mentre
nei vicoli, tra i bassi affollati di popolani e panni stesi da una
finestra all’altra, gli scugnizzi (tipici monelli laceri,
cenciosi, ma furbi e di animo generoso), rincorrono il leggendario
strummolo (trottolina in legno con punta metallica lanciata e fatta
girare con sorprendente abilità, per mezzo di uno spago).
Gran parte dei termini ed delle espressioni oggi usate si leggono
già nel ‘600 ne Lo cunto de’ li cunti del Basile,
come pure nelle commedie di Eduardo de Filippo o nelle uscite di
Totò. Date dunque un’occhiata alle espressioni nel
riquadro sotto: forse ne ricorderete alcune abbinate proprio alle facce
e al mimo di quei due impareggiabili artisti. Sul napoletano ci sarebbe
da scrivere un papiello (discorso prolisso del Papa), ma spero lo
stesso di avervi incuriosito abbastanza.
