Tratto da:
IL CORRIERE DELLA SERA - giovedì 9 aprile 1998
E nel
1860 il Sud divenne Africa
Così nacque la “questione
meridionale” al momento dell’Unità
GIOVANNI BELARDELLI
Nell'ottobre 1860 Luigi Carlo Farini, inviato
nel Mezzogiorno da Cavour, scriveva a quest'ultimo: “Ma, amico mio, che
paesi son mai questi, il Molise e la Terra di Lavoro! Che barbarie!
Altro che Italia! Questa è Africa: i beduini a riscontro di
questi cafoni, sono fior di virtù civile”.
Al momento dell’unificazione del Paese, i
piemontesi erano del tutto ignari delle reali condizioni del Meridione:
Cavour, ad esempio, non si era mai spirito più giù di
Firenze. Il contatto con l'ex Regno delle Due Sicilie
rappresentò per molti un vero e proprio shock, determinando
spesso giudizi come quello di Farini.
L'Italia unita nasceva dunque sotto il segno
di un forte pregiudizio antimeridionale, che però era diffuso
anche tra i patrioti del Mezzogiorno: ìl pugliese Giuseppe
Massari scriveva nell'agosto 1860 che Napoli era «funesta
all'Italia» e che il Sud era «vile» e
«corrotto». Proprio al fatto, apparentemente singolare che
la stessa intellighenzia meridionale si trovò a condividere
un'immagine negativa della propria terra, Marta Petrusewicz ha dedicato
Come il Meridione divenne una Questione (Rubbettino editore).
Negli anni '30 e '40 del secolo scorso,
attraverso rìviste, associazioni agrarie, circoli culturali, le
élite meridionali si erano interrogate sui mali del Mezzogiorno,
giungendo a una diagnosi non del tutto negativa circa le
possibilità di modernizzazione dei Regno delle Due Sicilie.
Ma, con la sconfitta della rivoluzione del '48, si
interruppe ogni possibilità di evoluzione: attraverso un
protezionismo e una censura rigidissimi, Ferdinando Il elevava attorno
al suo regno una «muraglia cinese» che lo separasse dalla
civiltà europea. Contemporaneamente veniva attuata una
repressione durissima contro liberali e democratici (Silvio Spaventa
venne condannato all'ergastolo).
Fu allora che William Gladstone
definì il regno borbonico come la «negazione dì Dio
eretta a sistema». La Petrusewicz sottolinea come tra i
meridionali costretti all'esilio si sia determinata proprio in quegli
anni una trasformazione decisiva nella rappresentazione del Sud.
Inizialmente era prevalsa la nostalgia
della loro terra anche a causa delle difficoltà ad acclimatarsi
nel Paese ospite (che per molti era il Piemonte). Francesco De Sanctis
scriveva nel 1854 che alla gioventù piemontese mancava il
«vivace entusiasmo» dei giovani napoletani; quanto alla
vita intellettuale di Torino, gli pareva «una mezza
barbarie».
Con il passare del tempo,
però, gli esuli meridionali si ambientarono: cominciarono a
guardare con crescente apprezzamento allo Stato che li ospitava e con
occhi sempre più critici, invece, al loro Paese d'origine. Per
dir meglio, si affiancarono due rappresentazioni: quella di un
Mezzogiorno oppresso dal Borbone ma ancora capace di prendere
l'iniziativa del proprio riscatto, e quella di un popolo meridionale
ormai segnato da «turpi vizi» e «corruzione
profonda».
A molti esuli il Sud appariva sempre
più come un deserto, una società immobile e arretrata,
abitata da un popolo crudele e ignorante. La popolazione del Regno
delle Due Sicilie, scriveva nel 1855 l'economista napoletano Antonio
Scialoja, era fatta da «otto milioni e mezzo di pecore».
Giudizi del genere potevano affermarsi
tanto più facilmente in quanto riprendevano antichi stereotipi
negativi del Mezzogiorno come «paradiso abitato dai
diavoli».
Quando nel 1860 gli esuli meridionali
videro i loro compatrioti aspettare la liberazione dall'esterno, dai
garibaldini e dai piemontesi, si convinsero dunque che tra Nord e Sud
d'Italia o anzi, come qualcuno scrisse, tra Italia e Mezzogiorno,
esisteva una profonda differenza di civiltà. Se ne trovano molte
testimonianze nei carteggi del Conte di Cavour: un avvocato e patriota
napoletano, Tommaso Sorrentino, scriveva che «nel Nord si
riflette, qui nel Sud si saltella».
Appena rientrato a Napoli, Giuseppe Massari
descriveva la città come una «anarchia pittoresca a un
tempo e grottesca», caratterizzata da «un sudiciume da
digradarne Costantinopoli».
L'autrice, Marta Petrusewicz, per la verità,
tende a sottovalutare il fatto che, dietro queste e altre simili
caricaturizzazioni del Sud, v'erano anche delle realtà obiettive
di arretratezza e di degrado. Ad esempio, i poderi modello di cui
dibattevano gli agrari meridionali più illuminati influivano
assai marginalmente su una realtà agricola complessivamente
arretrata.
E le iniziative per l'istruzione,
su cui questa studiosa richiama l'attenzione, non avevano certo potuto
eliminare la realtà di un analfabetismo elevatissimo: nel 1861
risultava in media dall'85 per cento nel Sud contro il 42 per cento
dell'Italia nord-occidentale. Insomma, affermare che la questione
meridionale è frutto di un confronto bipolare NordSud, nel quale
le realtà concrete diventano rappresentazioni stereotipizzate,
non deve far sottovalutare che quelle rappresentazioni in qualche
misura testimoniano anche l'effettiva condizione della società
meridionale nel 1860.
Comunque, è giusto
ricordare che l'immagine del Mezzogiorno come «questione» o
addirittura come «barbarie» è anch'essa un prodotto
storico, che si affermò al momento dell'unificazione.
Nei primi anni del nuovo
Regno d'Italia quell'immagine era destinata a consolidarsi in
conseguenza del brigantaggio, un fenomeno che riproponeva, agli occhi
dell'opinione, pubblica del Paese, lo shock subito nel '60 dai
settentrionali giunti nel Sud.
Attraverso i reportages e le
fotografie di briganti veniva diffuso lo stereotipo di una terra fosca
e misteriosa: si diceva che i briganti mangiassero cuore e fegato del
loro nemico e che bevessero da teschi umani. Mescolando in modo
inestricabile osservazioni «scientifiche» e gusto del
pittoresco, realtà e rappresentazione, quelle immagini del
Mezzogiorno avrebbero avuto una lunga
storia.
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Da Farini a Prezzolini, storia di un pregiudizio
Le parole di Luigi
Carlo Farini («Altro che
Italia! Questa è Africa») non costituiscono affatto un
esempio isolato della raffigurazione in chiave negativa del Sud
d'Italia.
Chi volesse ricostruire la storia
dell'immagine
«africana» del Mezzogiorno si troverebbe anzi a comporre
una nutrita serie di citazioni.
Al momento dell'unificazione
quell'immagine era piuttosto
diffusa.
In Calabria, scriveva Diomede
Pantaleoni a Marco Minghetti nel
1861, bisogna «viaggiare come carovane nel deserto per difendersi
dagli Arabi e da “Beduini”.
Gli stessi napoletani erano abituati a
considerare
«Africa» il resto del Mezzogiorno; anche per loro un
viaggio in Calabria equivaleva a un viaggio in Marocco.
Per i garibaldini le cose non stavano
diversamente. Giuseppe Bandi
nel libro che dedicò al racconto dell’impresa dei Mille, cui
aveva partecipato, definiva la lingua dei siciliani
«africanissima».
E raccontava che, nel tragitto verso
Palermo, s'era visto venire
incontro sette o otto uomini, «tutti a cavallo, colle papaline in
testa e cogli schioppi attraverso la sella, come tanti
beduini».
Nel 1909 uno dei più illustri
meridionalisti, Giustino
Fortunato, scriveva che «il Nord è tutt'uno con l'Europa
centrale, il Sud si riattacca alla zona mediterranea; da una parte
l'Europa che finisce, dall'altra l'Africa Settentrionale e l'Asia
Minore che incominciano».
In quella stessa epoca Vito de
Bellis, il deputato meridionale
reso famoso dai duri attacchi di Salvemini, utilizzava l’immagine
«africana» del Sud per giustificare l'uso di metodi
elettorali ben poco ortodossi nel collegio di Gioia del Colle:
«Qui stiamo in un Paese di selvaggi e di
beduini».
Nel 1921 Giuseppe Prezzolini scrisse che
l'Italia si divideva in due
parti: «una europea, che arriva all'incirca a Roma, e una
africana o balcanica che va da Roma in giù».
Ancora nel 1959, dunque un
secolo dopo la lettera di Farini
che abbiamo citato, il settimanale L'Espresso, dedicando un'inchiesta
alle zone più misere del Mezzogiorno, la intitolava:
«L'Africa in casa».
(g.b.)
