Tratto da:
Il Timone n. 28, Novembre/Dicembre 2003
Plebisciti:
solo una bella parola
di Angela Pellicciari
1860: plebisciti indetti in mezza
Italia per manifestare la volontà popolare di annessione al
Piemonte. L’allora capo della polizia politica confessa la
falsificazione dei risultati. Minaccia di morte ai tipografi che
avessero stampate le schede contrarie all’annessione. Una vera truffa.
Bisogna dire che la favola dell’unità d’Italia realizzata dai
Savoia e dai liberali, in nome della costituzione e della
libertà, è stata ben raccontata. E ancora meglio
ripetuta. I popoli — si diceva (e si continua a ripetere) — “gemevano”
sotto il giogo del malgoverno papalino e borbonico. I popoli, dunque,
andavano liberati e Vittorio Emanuele era lì pronto per
l’occasione. Cuore forte e magnanimo, il Re di Sardegna si sarebbe
mosso solo perché intenerito dal pianto di coloro (tutti gli
italiani) che giustamente aspiravano ad una vita da uomini liberi e non
da schiavi. Questa leggenda, dicevo, è stata propagandata con
cura. Peccato sia radicalmente falsa. Prima di invadere (senza
dichiarazione di guerra, e sempre negando, come nel Meridione, la
propria diretta partecipazione all’impresa) uno dopo l’altro tutti gli
Stati italiani, il governo sardo-piemontese ha fatto in modo che
avvenissero “sollevazioni spontanee” in favore dei Savoia. Si trattava
di garantire il buon nome del re sabaudo di fronte all’opinione
pubblica italiana e straniera.
Ecco cosa scrive Giuseppe La Farina, braccio destro di Cavour, in una
lettera a Filippo Bartolomeo: “È necessario che l’opera sia
cominciata dai popoli: il Piemonte verrà chiamato; ma non mai
prima. Se ciò facesse, si griderebbe alla conquista, e si
tirerebbe addosso coalizione europea”. Il re Vittorio Emanuele —
continuava — dice: “io non posso stendere la mia dittatura su popoli
che non m’invocano, e che collo starsi tranquilli danno pretesto alla
diplomazia di dire che sono contenti del governo che hanno”.
Fatto sta che, nonostante il gran daffare che si sono dati, i liberali
sono riusciti ad organizzare le “insorgenze” popolari solo a Firenze, a
Perugia e nei ducati. A Napoli come a Roma non ‘è stato nulla da
fare. E dove pure sono riusciti ad organizzarle, lo hanno fatto con la
corruzione e la frode. A Firenze, per esempio, a “insorgere” sono stati
un’ottantina di carabinieri fatti venire per l’occasione da Torino e
spacciati per popolani toscani da Carlo Boncompagni, ambasciatore sardo
in città. Quando si dice la fantasia! Questa di certo non
difettava alla classe dirigente piemontese, desiderosa di conquistare
un regno prestigioso come l’Italia.
A cose fatte, a conquista avvenuta, si trattava di mostrare urbi et
orbi quanto felici fossero gli italiani del nuovo stato di cose. A
questo scopo i padri della patria hanno fatto ricorso ai plebisciti.
Hanno cioè chiamato tutta la popolazione a votare (cosa inaudita
in un’epoca in cui aveva diritto di voto meno del 2% degli abitanti)
perché tutti, ma proprio tutti, avessero modo di manifestare in
modo democratico, e cioè col voto, il proprio entusiasmo
unitario.
Indetti l’11 e 12 marzo 1860 in Emilia, Toscana, Modena e Reggio, Parma
e Piacenza, il 21 ottobre in Italia meridionale, il 4 e 5 novembre
nelle Marche e nell’Umbria, i plebisciti hanno dato un risultato
strabiliante. Praticamente tutti erano per Vittorio Emanuele Re
d’Italia. Non c’era nessuno, quasi nessuno, che rimpiangesse i vecchi
governanti. Meno che mai il Papa.
Il fatto è strano, bisogna dirlo. Come strana fu la
straordinaria affluenza alle urne, tenuto soprattutto conto che la
maggioranza della popolazione era analfabeta e che a prassi del voto
era una novità quasi assoluta. Tanta stranezza ha una facile
spiegazione: il dato plebiscitario, tanto propagandato, è stato
il risultato di una truffa gigantesca, confezionata ad arte.
Il capo della polizia politica Filippo Curletti, cosi ricorda nel suo
Memorandum: “Ci eravamo fatti rimettere i registri delle parrocchie per
formare le liste degli elettori. Preparammo tutte le schede per le
elezioni del parlamenti locali, come più tardi pel voto
dell’annessione. Un picciol numero di elettori si presentarono a
prendervi parte: ma, al momento della chiusura delle urne, vi gittavamo
le schede, naturalmente in senso piemontese, di quelli che si erano
astenuti. Non è malagevole spiegare la facilità con cui
tali manovre hanno potuto riuscire in paesi del tutto nuovi
all’esercizio del suffragio universale, e dove l’indifferenza e
l’astensione giovavano a maraviglia alla frode, facendone sparire ogni
controllo”.
Curletti ci tiene a chiarire che le cose stanno proprio come le
racconta e specifica: “per quel che riguarda Modena, posso parlarne con
cognizione di causa, poiché tutto si fece sotto i miei occhi e
sotto la mia direzione. D’altronde le case non avvennero diversamente a
Parma ed a Firenze”. Per quanta riguarda la Toscana abbiamo una
divertente testimonianza raccontata dalla Civiltà Cattolica.
Lì una pressante campagna di stampa aveva dichiarato “nemico
della patria e reo di morte chiunque votasse per altro che per
l’annessione. Le tipografie toscane furono poi tutte impegnate a
stampare bollettini per l’annessione: e i tipografi avvisati che un
colpo di stile sarebbe stato il premio di chi osasse prestare i suoi
torchi alla stampa di bollettini pel regno separato. Le campagne furono
inondate da una piena di bollettini per l’annessione. Chiedevano i
campagnuoli che cosa dovessero fare di quella carta: si rispondeva che
quella carta dovea subito portarsi in città ad un data luogo, e
chi non l’avesse portata cadeva in multa. Subito i contadini, per non
cader in multa, portarono la carta, senza neanche sapere che cosa
contenesse”.
Il 9 ottobre, da Ancona, Vittorio Emanuele aveva indirizzato ai Popoli
dell’Italia meridionale il seguente proclama: “Le mie truppe si
avanzano fra voi per raffermare l’ordine: io non vengo ad imporvi la
mia volontà, ma per fare rispettare la vostra. Voi potrete
liberamente manifestarla: la Provvidenza, che protegge le cause giuste,
ispirava il voto che deporrete nell’urna”. Forte del favorevolissimo
risultato plebiscitario, il 7 novembre il Re aveva dichiarato: “Il
suffragio universale mi dà la sovrana podestà di queste
nobili province. Accetto quest’alto decreto della volontà
nazionale, non per ambizione di regno, ma per coscienza d’italiano”.
“Uscite, popolo mio, da Babilonia” (Ap 18,4). Bene ha fatto Pio IX a
proclamare il non expedit. I cattolici, con quel tipo di Stato, non
dovevano aver nulla a che fare.
Ricorda
“In alcuni collegi, questa introduzione in massa, nelle urne, degli
assenti – chiamavano ciò completare la votazione – si fece con
sì poco riguardo che lo spoglio dello scrutinio dette un numero
maggiore di votanti che di elettori iscritti”. (Filppo Curletti,
stretto collaboratore di Cavour, nel suo Memoriale, cit. in Angela
Pellicciari, I panni sporchi dei mille, liberal edizioni, Roma 2003, p.
29).
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Bibliografia
Patrick Keyes O'Clery, La Rivoluzione
italiana. Come fu fatta l'unità della nazione, Ares 2000.
Angela Pellicciari, L'altro
Risorgimento. Una guerra di religione dimenticata, Piemme, Casale
Mon.to (AL) 2000.
Angela Pellicciari, I panni sporchi
dei mille, liberal edizioni, Roma 2003.
Massimo Viglione [a cura di], La
rivoluzione italiana. Storia critica del Risorgimento, Il Minotauro,
Roma 2001.
Lorenzo Del Boca, Maledetti Savoia,
Piemme, Casale Mon.to 1998.
Paolo Gulisano, O Roma o morte! Pio
IX e il Risorgimento, Il Cerchio. Rimini 2000.
Geraldo Lentini, La bugia
risorgimentale. Il Risorgimento italiano visto dalla parte degli
sconfitti, Il Cerchio, Rimini 1999.
Associazione culturale
Identità Europea [a cura di], Il risorgimento italiano, Itaca,
Castel Bolognese 2000.
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Novembre/Dicembre 2003
