Tratto da:
Sette, settimanale del Corriere della Sera, 24 Maggio 2001
Dibattito - Resistenza e revisionismo
"La politica contro la storia"
Il libro di Paolo
Mieli sul revisionismo. Le opinioni di Salvadori, Campi, Macrì,
Perfetti, Rumi, Tranfaglia e Messori.
di Michele Brambilla
Da una parte i buoni, dall'altra i cattivi: così siamo stati
abituati, per molti anni, a leggere la storia. Buoni erano, per
esempio, tutti gli artefici del Risorgimento italiano - i Savoia,
Cavour, Mazzini, Garibaldi; e cattivi erano Pio IX e i Borbonì.
Buono come il popolo italiano che aveva dovuto subire il fascismo, al
quale si era poi ribellato con un movimento di massa chiamato
Resistenza. Cattivi erano tutti i totalitarismi di destra, mentre
quelli di sinistra erano - se non buoni nella realizzazione - perlomeno
buoni nelle intenzioni. Una storia dogmatica, indiscussa e
indiscutibile. Poi è arrivato
Renzo De Felice, che ricordò il consenso popolare di cui il
fascismo, a un certo punto, godette. Libri duramente e chiaramente
antifascisti, quelli di De Felice; chi li ha letti lo sa. Eppure De
Felice, solo per avere rotto lo schema fissato dalla storiografia
dominante dopo il '45, è stato considerato un
para fascista.
Da quelle polemiche su De Felice - anni Settanta - molto tempo è
passato, e da allora altri schemi storiografici sono stati ridiscussi,
molti altri studiosi hanno cercato di reinterpretare la nostra storia,
soprattutto dal
Risorgimento in poi. Ma spesso a questi studiosi è stata
appiccicata un'etichetta squalificante: l'aggettivo "revisionista" una
sorta di marchio d'infamia affibbiato indistintamente sia agli storici
seri che tentano di
approfondire sia a personaggi inquietanti come i cosiddetti
'negazionisti'. Così siamo arrivati a una paradossale
situazione: da un lato, il dibattito sulla storia è molto
più vivace di vent'anni fa; dall`altro questo dibattito è
viziato da una sorta di scomunica rivolta verso coloro che portano
nuove interpretazioni del passato. A questo tema Paolo Mieli ha
dedicato il suo nuovo libro, Storia e politica. che appena uscito da
Rizzoli ha già provocato un vivace dibattito tra Sergio Romano,
Lucio Villari, Luigi La Spina. Dino Cofrancesco e Stenio Solinas, e che
venerdì scorso è rimbalzato in un acceso confronto al
Salone del libro di Torino tra lo stesso Mieli e Denis Mack Smith.
Secondo Mieli, questa scomunica che i custodi della storiografia
ortodossa rivolgono ai "non allineati" è originata dal timore
che un nuovo punto di vista sul passato possa comportare un nuovo punto
di vista sul presente. Insomma: dal timore che la rilettura dei fatti
di ieri possa avere una ricaduta politica sull'oggi.
Scrive Mieli che questa paura, questo freno a mano tirato ai danni
della libertà di ricerca storica è un fatto solo
italiano: "Qui da noi, quel naturale sconfinamento della politica,
quando non dalla Sinistra più ortodossa, genera, invece, un
clima di sospetto e intolleranza".
Aggiunge Mieli: «Qui da noi l'intreccio tra politica e storia ha
prodotto qualcosa di esiziale. Perché non si è risolto il
fecondo rapporto tra l'ovviante mutevole punto di vista sul' oggi e il
riesame delle vicende di ieri, bensì si è imposto come
dogma del presente che restringe il campo visuale del passato. Come se
ci dovessimo continuamente difendere da un pericolo. Dal rischio che
una ricerca sia pure la più stravagante , la più bizzarra
potesse mettere a repentaglio qualcosa di prezioso per il nostro vivere
civile. Invece niente è più pericoloso di questo
atteggiamento merito sanzionatorio». Mieli termina l'introduzione
al suo libro con un appello: «Si aprano tutti i libri, si
discutano con garbo le tesi più diverse dalle nostre. Si
rifugga, come ha opportunamente esortato a fare Barbara Spinelli, dall'
uso improprio e calunnioso dell'aggettivo "Revisionista".
Massimo Salvadori , docente di Storia delle dottrine politiche all'
Università di Torino, non è d'accordo con Mieli sul fatto
che sia la Sinistra a scomunicare come "revisionisti" tutti coloro che
portano nuovi punti di vista sulla storia: «lo credo che non
abbia molto senso dire che la
Sinistra si oppone a nuove interpretazioni storiografiche. Intanto
perché oggi non esiste più una Sinistra ideologica che
porta avanti una visione del mondo. Non c'è più il Pci
che imponeva, con i suoi intellettuali organici, un'interpretazione
marxista della storia. E poi ricordiamoci che
molte rivisitazioni del passato sono venute, in questi anni, proprio da
uomini di sinìstra: pensiamo al discorso dì Violante
sulla guerra civile del '43-45, e al libro di Pavone sulla Resistenza.
«Detto questo» continua Salvadori, «sono d'accordo
che sia assurda la connotazione negativa data al termine revisionista:
la ricerca storica è per sua natura una continua revisione del
passato. Ci mancherebbe che non si potessero mettere in discussione le
tesi consolidate. Certo, non tutto è
"revisionabile": quando sento dire che partigiani e repubblichini vanno
messi sullo stesso piano, oppure che il Risorgimento ha cancellato
l'eredità positiva del regionalismo, non posso non
oppormi».
Diverso il parere di una delle vittime di "quell' atteggiamento
sanzionatorio" di cui parla Mieli: Alessandro Campi, ricercatore di
Storia delle dottrine politiche all'Università di Perugia e
autore di una biografia di Mussolini
pubblicata dal Mulino. Il libro cerca di comprendere il rapporto tra il
fondatore del fascismo e la storia italiana; ma siccome è uscito
nella collana diretta da Ernesto Galli della Loggia, uno degli storici
scomunicati da una certa Sinistra, subito è stato messo all'
indice dei testi inaccettabili. Da gente che, magari, il libro non lo
ha neppure letto. «Il fatto è», dice Campi,
«che c'è una cultura del sospetto. Si ragiona "per
cordate": quello lavora con Galli della Loggia, se ha scritto del
fascismo, chissà dove vuole andare a parare». Un sospetto,
continua Campi, che avvelena il lavoro dello storico: «Se uno va
a Mosca a cercare documenti sull'Unione Sovietica, subito c'è
qualcuno che dice: ecco, è alla ricerca del colpo grosso per
favorire la Destra. Ci si dimentica che uno storico scrive invece per
la semplice ragione che sta facendo il suo lavoro. Sono d'accordo con
Mieli: c'è una guerra sulla storiografia combattuta per fini di
politica interna, attuale. Davvero un brutto clima: pensi che Bocca ha
parlato di "pidocchi revisionisti". Sono scoraggiato: non si riesce a
dialogare serenamente, vien voglia di ritirarsi, di starsene
fuori». «Il risultato di questo clima», dice ancora
Campi, «sarà che tra dieci-quindici anni la nostra
storiografia sarà così indietro che, per studiare la
storia d'Italia, bisognerà leggere i libri degli stranieri.
Già oggi gli studi più avanzati sul fascismo
vengono dal mondo anglosassone». Rimedi possibili? «occorre
che i personaggi più autorevoli dei due schieramenti, che per
semplicità chiamo defeliciani e antidefeliciani, intervengano
per dire «basta" e favorire un
dialogo sereno ».
Ma il dialogo non è facile. Proprio in questi giorni il
settirnanale Diario ha pubblicato un numero speciale intitolato
«Libro di storia» e dedicato alle nuove interpretazioni
degli avvenimenti italiani dal Risorgimento al fascismo. E un durissimo
atto d'accusa proprio contro Mieli, Sergio Romano ed Emesto Galli della
Loggia. Nel sottotitolo, in copertina, si legge: «Esistevano i
buoni, esistevano i cattivi. Ma adesso che è passato molto
tempo, si rimescolano le carte ... ». Il seguito, e la risposta
ai tentativi di questa rilettura chiamata «rimescolamento di
carte», è scritto nell'editoriale del direttore Enrico
Deaglio: «A noi sembra che, nella nostra storia, i Buoni e i
cattivi si riconoscano abbastanza facilmente».Che bisogno
c'è, dunque, di approfondire?
«Il problema sollevato da Mieli é reale», dice
Giorgio Rumi, docente di Storia contemporanea alla Statale di Milano.
«In Italia c'é stato un pregiudizio favorevole alla
Sinistra, evidente - più che nella storiografia in senso tecnico
- nella sua vulgata, cioè nei libri di testo delle scuole, nelle
enciclopedie, nelle trasmissioni televisive, nelle recensioni ...
». Troppo coinvolgimento ideologico, secondo Rumi. «Si
tende a scrivere la storia del
Novecento iscrivendosi idealmente a una certa parte della barricata.
Come se fosse un obbligo morale il dover prendere posizione. Invece
bisognerebbe avere più serenità, come se si studiasse il
Medioevo. Ma é possibile la neutralità, per uno storico ?
«Non voglio dire che lo storico debba rinunciare ad avere un
proprio sistema di valori. Però non deve fare il giudice: lo
storico deve capire che cosa accadde e perché, non deve dare un
giudizio etico». Rumi dice di essere d'accordo, con Mieli anche
sull'eccessiva preoccupazione di una ricaduta sul presente:
«Prendiamo il Risogimento. A lungo é stato considerato
come una rivoluzione mancata. Poi, quando è scoppiato il
problema Lega, del Risorgimento è stata fatta una difesa
rabbiosa. Anche per il periodo 1943-48 si è
parlato di rivoluzione mancata, si é discusso per anni di quello
che avrebbe potuto essere e non è stato. Ma che senso ha? Lo
storico non è un tribunale che giudica gli antenati».
Secondo Paolo Macrì, docente di Storia contemporanea
all'Università Federico II di Napoli, é piuttosto
«ingenuo» temere che una rilettura della storia possa
provocare conseguenze politiche sul presente. «La
commistione tra storia e politica c'è sempre stata, pura o
impura che fosse. In Italia, non ciò, dubbio che sia esistita
per anni un'egemonia marxista che ha determinato un senso comune della
storia. Quindi, semmai é stata
la Sinistra a fare, a lungo, un uso pubblico, e politico, della storia.
Perché dovrebbe ora denunciare come strumentale un nuovo filone
storiografico di orientamento liberale?». Anche Macrì,
dunque, é d'accordo, con Mieli
quando dice che chi cerca di «ripensare la storia» é
guardato con sospetto: «é un fatto, che negli ultimi dieci
quindici anni una serie di interpretazioni storiografiche siano state
messe in discussione, e che a queste novità la
mia categoria abbia reagito in modo un po' corporativo».
Francesco Perfetti, docente di Storia contemporanea alla Luiss di Roma
e direttore del periodico Nuova Storia Contemporanea, é
naturalmente d'accordo con il fatto che lo storico deve, per sua stessa
vocazione, compiere sempre una revisione del passato. Ma pensa anche, a
differenza di Salvadori, che sia stata proprio la storiografia di
sinistra a inventare il termine dispregiativo di
«revisionista». «Un termine», dice, «che
io mi batto per cancellare dal vocabolario storiografico. La Sinistra,
con quell'aggettivo, ha cercato di assimilare concetti molto diversi
tra loro: negazionismo, oblio, revisionismo. Ogni nuova interpretazione
é stata messa nello stesso pentolone. Ma se è vero che il
Pci non c'e più, qual é questa Sinistra intollerante nei
confronti del nuovo in campo storiografico? «Non è, stata
solo la Sinistra marxista. C'é stata anche la Sinistra
azionista. Sono tutte e due posizioni ideologiche che tendono a dare un
giudizio moralistico, e non morale, sulla storia. Mentre fare ricerca
storica vuol dire solo indagare sui fatti e cercare di interpretarli.
Anche Marc Bloch, che morì fucilato dai nazisti, sosteneva che
lo storico non deve fare mai il giustiziere, ma semplicemente
comprendereo».
Libertà di ricerca, dunque. Lo dice anche Nicola Tranfaglia,
docente di Storia dell'Europa dell'Università di Torino e uomo
di sinistra. Ma Tranfaglia fa una precisazione: «Voglio
distinguere tra chi fa nuove ricerche, scoprendo nuovi fatti e nuovi
documenti, e chi invece - come molti hanno fatto in questi anni -
presentano solo nuove interpretazioni, nuove opinioni. I primi sono i
benvenuti, anche se i documenti e i fatti che portano conducono a
conclusioni diverse da quelle che io stesso potevo pensare. Dei
secondi, invece, non mi voglio neppure occupare». Ma é
vero, come dice Mieli, che molta storiografia é bloccata per un
eccessivo timore di ricadute politiche sul presente? Tranfaglia taglia
corto: «Preoccupazioni per il presente? Non ne ho. Faccio lo
storico, non il politico».
Dunque la storia può essere ridiscussa solo con la scoperta di
nuovi documenti? Vittorio Messori, autore di best-seller religiosi ma
anche di fortunati saggi come Pensare la storia, non è d'accordo
con Tranfaglia: «Non c'è affatto bisogno di nuovi
documenti per ridiscutere certe interpretazioni storiografiche che
avevano la pretesa di
essere definitive: basta ricordare fatti evidenti, già noti, ma
purtroppo rimossi, cancellati dalla storiografia dominante».
Qualche esempio? ce ne sarebbero migliaia. Prendiamo La "lettura" del
Risorgimento. E stato
addirittura inventato un nuovo aggettivo, "borbonico", per indicare
qualcosa di arretrato, di inefficiente. Eppure, con i Borboni il Sud
era molto più florido che con lo Stato Unitario: Napoli era la
prima città industriale
della penisola, e non esisteva emigrazione verso l`estero, emigrazione
che è cominciata solo dopo l'Unita. C'è bisogno di nuovi
documenti per ricordare queste cose? O per smentire l`iconografia
risorgimentale classica, che
raffigura sempre Cavour, Mazzini e Garibaldi uno accanto all'altro,
come fossero una cosa sola, mentre Cavour aveva condannato a morte
Mazzini?
E c'é bisogno di nuovi documenti per dire che la legge
elettorale proposta da De Gasperi, e demonizzata dai comunisti come
"legge truffa", era una legge in vigore in tutte le più moderne
democrazie, una legge che avrebbe
garantito la governabilità? O per dire che Gramsci, il cui nome
é da decenni sulla testata dell'Unita, morì scomunicato
dal Pci? E come mai le decine di Istituti storici per la Resistenza
hanno impiegato quarant'anni per
scoprire il massacro di Porzus, e hanno taciuto su altri crimini
commessi dai partigiani e noti a tutti? Insomma, basta ricordare i
fatti. Cosa che la vulgata imposta dalla Sinistra nel dopoguerra non ha
voluto fare».
La storia scritta dai vincitori non è attendibile, vuol forse
dire Messori? «Non direi. Perché i comunisti sono stati
vinti, non vincitori. Vinti dal voto del 1948, e poi dalla caduta del
Muro. Eppure in Italia per decenni la storia
l`hanno scritta loro, e oggi c`e ancora una certa Sinistra che
demonizza chiunque cerchi di ripensare il passato».
