Eleaml - Nuovi Eleatici



Questo di Helfert è un ottimo testo per chi voglia approfondire la conoscenza del Cardinale Fabrizio Ruffo (1) . L’autore, Joseph Alexander Helfert – anche se alla voce omonima della Treccani viene descritto come “Attivissimo ricercatore di documenti, se ne valse per illustrare la politica austriaca del sec. XIX con intenti apologetici. ” – dedica al Ruffo una opera meritoria che va conosciuta. Corredata di un imponente apparato costituito da ben 599 note, l’opera si propone di mostrare sotto una nuova luce non solo Ruffo ma anche altri personaggi:

“Il general di banditi Ruffo, la vendicativa e crudele regina Carolina, Lady Emma Hamilton assetata di sangue. e dall’altra parte il martirio del nobile Caracciolo, io non sono, per non menzionare che questi punti principali, inclinato ad ammettere tali cose, e credo di averne le mie buone ragioni.

Anche per un altro rispetto debbo confessarmi contrario alle opinioni ricevute; poiché quanto più mi son venuto facendo familiare questa parte della storia napoletana, tanto più ferma è diventata in me la convinzione della poca fede che merita P. Colletta nel riferire gli avvenimenti e i fenomeni di quel tempo. Nel corso della mia narrazione mi accade assai frequentemente di dover notare e dimostrare tal cosa.

Un grave inconveniente per uno scrittore. straniero è che, non solo presso il Colletta e gli altri storici italiani, ma anche in molti documenti ufficiali, come per esempio nei manuali della Corte e dello Stato di quel tempo, s'incontrano le persone appartenenti all’esercito o alla nobiltà menzionate quasi sempre col nome di famiglia, senza altre indicazioni, senza neppure il nome di battesimo; il che sarebbe necessario conoscere, quando avviene, per esempio, che facciano nello stesso tempo parlar di sé molti Pignatelli, molti Tschudy o Micheroux.”

Certamente nessun comune delle Provincie Napolitane seguirà l’invito di Nicola Zitara ad erigere una statua del del Cardinale nella piazza principale ma confidiamo che almeno chi si occupa di storia vada oltre ile dannazioni della memoria a cui sono stati sottoposti personaggi della nostra storia nati a sud del Tronto.

Buona lettura e tornate a trovarci

Zenone di Elea - 7 gennaio 2025

(1) “Come il Diavolo è stato fatto colpevole di tutte le immoralità dell’uomo, immagine contaminata di Dio, così il Cardinale Ruffo è stato proclamato a sintesi antonomastica dell’immoralità meridionale, che l’Italia (fortemente) unita estrae dalla storia onde qualificarsi come divinità positiva. Se però dalla retorica si passa ai fatti ci si rende conto che questo nostro diabolico antenato meriterebbe una statua nella piazza centrale di tutti i nostri paesi.” Cfr. Nicola Zitara, Il moto di Santa Fé e il Cardinale Ruffo, 2007, Rivista elettronica FORA…

FABRIZIO RUFFO

RIVOLUZIONE E CONTRORIVOLUZIONE DI NAPOLI

DAL NOVEMBRE 1798 ALL’AGOSTO 1799

del Barone von HELFERT

PRIMA EDIZIONE ITALIANA RIVISTA, CORRETTA ED ACCRESCIUTA DALL'AUTORE

FIRENZE

Locscher e Seeber

    1885

(se vuoi, scarica il testo in formato ODT o PDF)

PREFAZIONE

LIBRO 

LA REPUBBLICA PARTENOPEA
I - Mack e Nelson
II - Fuga della famiglia reale in Sicilia
III - L'armistizio di Sparanise
IV - Vittoria dei patriotti sopra i patriotti
V - La Corte in Sicilia

LIBRO II

IL CARDINAL GENERALE E L'ARMATA CRISTIANA
I - Il decreto reale del 25 di gennajo 1799
II - Ripristinazione del nome e dell'autorità reale nella Calabria ulteriore 
IV - Sulla nave ammiraglia del Nelson
V - Championnet e Macdonald
VI - Progressi della controrivoluzione nelle province
VII - Il commodoro Troubridge nel golfo di Napoli
VIII - Altamura
IX - Marcia di Macdonald verso il settentrione
X - I patriotti in casa propria

LIBRO III

LA RICONQUISTA DI NAPOLI
I - La Gallispana
II - Sbarco dei russi in Puglia
III - Apparecchi difensivi dei patriotti in Napoli
IV - Il giorno di S Antonio da Padova
V - Capitolazione
VI - Dalle acque di Marittimo a quelle di Napoli
VII - Occupazione dei castelli Nuovo e dell'Uovo
VIII - Partenza di Ferdinando IV da Palermo
IX - Il re e i suoi ministri a bordo del Fulminante
X - Capua , Gaeta, Pescara
XI - La corona al merito

DOCUMENTI


1885 Fabrizio Ruffo Barone von HELFERT

PREFAZIONE

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Anno Klopp nel proemio al settimo volume della sua opera «Caduta della casa Stuart» fa un’ottima osservazione. «L’affermare» egli dice, «che la storia abbia già da lungo tempo messo in sodo la tale o la tal altra cosa, è objezione che non regge. Che s’intende per la parola storia? Non vi è per essa un tribunale objettivo; vi sono solamente intorno ai fatti accaduti opinioni di uomini soggetti ad errare. Accade però spesso che una opinione, assodata in forma plausibile da un individuo, accettata poi senza novella prova da altri, e con l’andar del tempo da tutti ripetuta, dia luogo alla credenza che abbia sentenziato la storia là dove un solo ha in origine manifestato il suo avviso. Il quale può essere vero o erroneo, può essere erroneo con intenzione o senza; ma in ogni caso è ufficio di chi voglia formarsi una sua propria opinione l'esaminare s’è o non è fondata l’opinione in voga. E parimente egli ha il diritto di richiedere che i risultati de' suoi studj non sieno giudicati alla stregua di una opinione tradizionale, comunque potentemente da molti sostenuta, ma sibbene secondo le testimonianze e le prove ch’egli adduce in favore del suo assunto».

Questo passo, di cui da gran tempo ho preso nota, par fatto apposta per figurare in capo alla prefazione di questo mio «Fabrizio Ruffo». Poiché anch’io ho da fare con una quantità di cose, sulle quali ha già da lunga pezza formato il suo giudizio la storia, mentre io mi prendo la libertà di aver su di esse una diversa opinione. Il general di banditi Ruffo, la vendicativa e crudele regina Carolina, Lady Emma Hamilton assetata di sangue. e dall’altra parte il martirio del nobile Caracciolo, io non sono, per non menzionare che questi punti principali, inclinato ad ammettere tali cose, e credo di averne le mie buone ragioni.

Anche per un altro rispetto debbo confessarmi contrario alle opinioni ricevute; poiché quanto più mi son venuto facendo familiare questa parte della storia napoletana, tanto più ferma è diventata in me la convinzione della poca fede che merita P. Colletta nel riferire gli avvenimenti e i fenomeni di quel tempo. Nel corso della mia narrazione mi accade assai frequentemente di dover notare e dimostrare tal cosa.

Un grave inconveniente per uno scrittore. straniero è che, non solo presso il Colletta e gli altri storici italiani, ma anche in molti documenti ufficiali, come per esempio nei manuali della Corte e dello Stato di quel tempo, s'incontrano le persone appartenenti all’esercito o alla nobiltà menzionate quasi sempre col nome di famiglia, senza altre indicazioni, senza neppure il nome di battesimo; il che sarebbe necessario conoscere, quando avviene, per esempio, che facciano nello stesso tempo parlar di sé molti Pignatelli, molti Tschudy o Micheroux. Un’altra difficoltà occorre presso la nobiltà napoletana, come pressola inglese, ed è la varietà dei titoli nella stessa famiglia, in mezzo ai quali assai difficilmente un forestiero si raccapezza. Alcune preziose spiegazioni archeologiche mi hanno favorito il sig. Alfredo di Reaumont da Burgscheid presso Aquisgrana, e il marchese Maresca di Serracapriola da Napoli; quest'ultimo ebbe fra le altre cose la bontà di confermare la supposizione da me enunciata nella nota a pag. 187.

Mi corre per un' altra parte anche in questa occasione, come in quella dei miei lavori precedenti dello stesso genere, debito di singolare riconoscenza verso i signori ufficiali dell'archivio imperiale di Vienna, e più di tutti verso il soprintendente di esso, cons. di Arneth. Né meno che a lui è dovuta la mia gratitudine al sig. bibliotecario Dr. Halm di Monaco, il quale ha non solamente messo a mia disposizione tutti i larghi sussidj che quella ricca biblioteca reale poteva offrirmi, ma dovendo io progredire a tempo avanzato assai lentamente nel mio lavoro, mi ha lasciato per anni fra le mani gli scritti senza farmi né avvertimenti né inviti a restituirli. Disgraziatamente anche in quella ricchissima collezione non si trovano parecchi materiali: «Cenno storico sul cardinale Zurlo di A. Trama; Cose di Lecce 1799; Petromasi ed altri;» e poiché le biblioteche italiane, come ne ho dovuto pur troppo far l’esperienza, serbano un contegno che da' quello della real biblioteca di Monaco assai si allontana, così ho dovuto rinunziare a dare un’occhiata a siffatte opere.

Ora mi resta qualche cosa da dire circa il ritratto che ho messo in fronte al mio lavoro. Dopo molte ricerche mie e del sig. Guglielmo Ingenmev per commissionedell'editore, è riuscito di rintracciare due ritratti del mio Cardinal generale. L’uno, inciso dal Böttger di Dresda, rappresenta Fabrizio Ruffo nelle vesti di principe della Chiesa; l’altro, concepito e condotto un po’ rozzamente da mano ignota, nella divisa di generale dell'anno 1799, con un abito che può esser preso pel manto d’un cardinale. Per l'immagine che dovea servire a figurare innanzi al mio libro fu preferita una combinazione fra i due ritratti; e al primo furon tolte, sebbene corrispondenti a un’età alquanto più giovane, le fini e intelligenti fattezze, al secondo il vestiario (1).

LIBRO PRIMO

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La Repubblica Partenopea.

I

MACK E NELSON

Orgogliose illusioni, eran quelle di cui Ferdinando IV e Maria Carolina di Napoli si pascevano quando, senza aspettare gli alleati ancor titubanti, si deliberarono di combattere da sé soli le audaci novità francesi. L’ammiraglio Nelson, focoso e appassionato com'era, inclinò fin dal primo momento a tentar l’impresa. Il general Mack, che sulle prime stette in forse, si lasciò persuadere alla fine; vedendo le schiere che gli erano condotte innanzi nel campo di S. Germano, ed essendogli assicurato le altre essere anche di miglior qualità, disse al Nelson: «Il più bell’esercito di Europa!» (2)

Le speranze di buon successo apparivano per più d’un rispetto abbastanza seducenti da giustificare in qualche modo la real coppia e il suo consigliere Nelson, quando facevano osservare ai gabinetti alleati che le condizioni della lotta non potrebbero facilmente essere più favorevoli a loro e, per conseguenza, al comune proposito delle vecchie potenze. Dalla parte dei francesi manifestamente non si desiderava la ripresa delle ostilità; talché non doveano esser sufficienti gli apparecchi militari. Il nuovo inviato francese, Lacomte St. Michel, contrastando affatto all’indole boriosa e al fare aspro e non di rado rozzamente offensivo del suo predecessore, sopportò quanto era possibile di sopportare; fece le viste di non avvertire l’oltraggio di esser lasciato scortesemente due giorni al confine perché alla corte di Napoli non volevan riceverlo; e s’industriò di mettersi in buoni termini con la real coppia e co’ ministri. Non eran questi chiari indizj che il Direttorio di Parigi cercava di trattenere per quanto era in lui i napoletani dal romper guerra, consigliato senza dubbio dalla sproporzione delle vicendevoli forze? Che l’esercito napoletano contasse 60,000 uomini o solamente 38,000— forse l’uno e l’altro numero eran veri, il primo sulla carta, il secondo in realtà — avrebbe in ogni modo trovato di contro a sé nel territorio della repubblica romana non più di 15,000 uomini. Certamente — e ciò costituiva il rovescio della medaglia — la sola moltitudine non fa l’esercito. I francesi dello Championnet, gl’italiani della repubblica Cisalpina e i polacchi erano in assai minor numero; ma i duci loro aveano esperienza sul campo, all'esercito stesso il maneggio della guerra non riusciva nuovo, ufficiali e soldati eran tali da non perdersi facilmente d’animo se per poco non arridesse la fortuna. Per i napoletani stavano altrimenti le cose. Salvo forse i due reggimenti di cavalleria, che tre anni e mezzo prima avean saputo nell’Italia superiore guadagnarsi sul campo di battaglia la stima dello stesso Bonaparte, tutto il rimanente era inesperta moltitudine che non avea mai visto il nemico, mai seriamente combattuto; una gran parte non s’era neppure esercitata a modo in piazza d’armi. Quanto ai capitani, salvo il capo supremo, il suo ajutante generale conte Moriz Dietrich&tein, il brioso Damas e alcuni altri stranieri, e fra i napoletani qualche colonnello di cavalleria, nessun altro aveva mai guerreggiato, tutto ad essi tornava nuovo. Oltre di che poco o nulla scambievolmente si conoscevano. È vero che anche il generale supremo dei francesi non era giunto se non poche settimane innanzi a Roma per prendere il comando; ma egli era della nazione, apparteneva a' suoi novelli compagni, e si affiatò prontamente con loro. Mentre dalla parte francese generali e soldati per lungo abito di vita comune in campo erano divenuti familiari e s’intendevano a meraviglia, il Mack dall’altra parte non aveva mai avuto il tempo di conoscere anche superficialmente i soldati suol, ed era per giunta, come straniero, guardato con occhio bieco. Invece di fiducia e buon volere, molti di quelli che comandavano sotto i suoi ordini nutrivano verso di lui diffidenza ed invidia; e parecchi dei generali nativi provavan ' forse maligna gioja segreta, quando al «Tedesco» le cose non andavano compiutamente secondo i suoi desiderj (3).

Il disegno della campagna era stato bene ideato dal Mack. I francesi stavano parte in Roma e ne’ dintorni, parto sulla spiaggia adriatica facendo capo ad Ancona; molti de’ magazzini si trovavano di qua da Roma sul confine napoletano. Sotto l’aspetto politico sembrava che bisognasse innanzi tutto impossessarsi della metropoli, e nello stesso tempo marciando da più lati — il che era dal gran numero di soldati disponibili concesso, e da ragioni di approvvigionamenti e di comunicazioni consigliato — impedire che il nemico concentrasse, e così riuscisse a crescere e più che a raddoppiare, le sue forze. Il Mack errò forse in una cosa sola, nel non provvedere con maggior cura alla sua ala destra; se non che ne fu per avventura cagione il mancare di precisi ragguagli circa le forze della divisione Duhesme che a quella stava di fronte.

Così dunque la mattina del 23 di novembre 1798 il Mack entrò per cinque punti, al suono delle musiche e con bandiere spiegate, nel territorio romano, mentre il Nelson portava per mare a Livorno un piccolo corpo comandato dal generale Naselli, a fin che di là minacciasse i fianchi e le spalle dei francesi e potesse dar la mano all'esercito principale appena questo fosse giunto sull’altura di Bologna (4). Gli ordinamenti del Mack eran questi:una colonna forte di circa 10,000 uomini sotto Alberto Micheroux passasse il Tronto e si avanzasse sulla riva orientale verso Fermo, e intanto due colonne più piccole, Funa da Aquila verso Rieti e Terni, l’altra per Magliano, guadagnassero e tagliassero le strade maestre conducenti da Roma a Bologna; il corpo principale, presso cui si trovavano il re e il generale in capo, prendesse per Frosinone e Valmontone verso Frascati, s’incontrasse ivi con la estrema ala sinistra, comandata dal principe Ludovico di Hessen-Philippsthal e movente per Terracina (5) e le paludi Pontine verso Albano, e cosi riuniti marciassero subito direttamente su Roma.

Il principio delle operazioni avvenne da per tutto senza difficoltà. Non s’incontrò il nemico, e la popolazione, nelle cui vene non correva sangue repubblicano, si mostrò favorevole e lieta. Per contrario il tempo fu cattivo; ostinate piogge minacciarono di guastare le strade e rendere difficili i trasporti delle vettovaglie. Sicché la marcia, specialmente della colonna principale, non potè procedere altro che lentissima. Il 24, cioè un giorno dopo che la marcia era compiuta, apparve un manifesto di re Ferdinando con la dichiarazione di guerra alla Repubblica romana: la presa di Malta per opera dei francesi, la rivoluzione dello stato ecclesiastico, la minaccia di assalire 1 suoi proprj stati lo movevano a far avanzare il suo esercito per ristorare la religione e la legittima autorità del Papa; t soldati stranieri dovevano lasciare il territorio romano, i popoli italiani por giù l'armi, delle quali egli stesso non era j>er fare uso se non nel caso di attacco o di resistenza; esser egli lontano dal volere far guerra a una potenza straniera, ma bisognava pure che nessuna potenza straniera si attentasse d’immischiarsi negli affari d’uno stato, la cui sorte per ragione di vicinanza e per motivi anco più legittimi toccava specialmente gl’interessi del regno (6).

Lo Champion net si apparecchiò ad uscire dalla città eterna lasciando solo un piccolo drappello in castel Sant’Angelo. E allora si vide quanto il governo repubblicano si fosse nella sua breve durata renduto inviso. Appena il grosso della colonna Macdonald aveva abbandonato Roma, il popolo si sollevò, abbatté gli alberi della libertà e stette per assaltare il ghetto, mentre un inviato di Napoli, Gennaro Valentino (7), in mezzo a infinito giubilo della moltitudine, spiegava la bandiera dei suo re, tanto che il Macdonald si vide costretto a prendere ostaggi che mise al sicuro in castel Sant’Angelo. Anche fuori della metropoli i romani si sollevavano contro gl'intrusi francesi. In Viterbo e in Nepi accaddero a quei giorni gravi sommosse; il popolo si scagliò addosso a trenta francesi fuggiti da Roma, fra i quali erano i diplomatici Lefebure e Artaud, e ne avrebbe fatto tristo governo se al vescovo Cardinal Gallo non fesse riuscito di trarli dalle mani di quei forsennati.

Il 27 la retroguardia del Macdonald usciva dalla città, e da un(')altra parte vi entrava, salutata dalle liete acclamazioni del popolo, l’avanguardia dei napoletani condotta dal colonnello Burkhardt, che pose il suo quartier generale su monte Mario e mandò una colonna a prender possesso di Civitavecchia.

***

Né in Roma né al quartier generale del re si poteva sapere che già in due altri punti della estesa linea di operazione erano volte a male le cose. Il Micheroux, prima di raggiunger Fermo, era stato presso Torre di Palma assalito da 3000 francesi e cisalpini sotto gli ordini del generale Russo, e dopo gravi perdite ributtato verso il Tronto; mentre quasi alla stessa ora il colonnello Sanfilippo non lungi da Terni presso Papigno, attaccato da 2000 uomini comandati dal Lemoine, vedeva il suo reggimento Real Italiano quasi compiutamente distrutto. Anco alla colonna settentrionale occorsero difficoltà ma d’altra natura; il governo toscano, per non esporsi innanzi tempo all’ira e alla vendetta dei francesi, non volle saperne delle ragioni strategiche del Mack, e quindi non consentì che si occupasse Livorno, per modo che il Naselli dové il 28 contro le proteste del Granduca e de(') suoi ministri entrare nella città, e quella e il porto prendere provvisoriamente in suo potere.

Già Roma era da un capo all(')altro occupata dai soldati del re; il presidio di castel Sant’Angelo fu tenuto inoperoso con la barbara minaccia che ad ogni colpo tirato sulla città sarebbe messo a morte un prigioniero francese, specialmente di quelli che giacevano malati allo spedale. Il 29 Ferdinando vi fece ingresso, e mandò al papa Pio VI, trattenuto alla Certosa di Firenze, l’invito di ritornare nella città sua; intanto una deputazione di governo, composta dei principi Aldobrandini e Gabrielli, del marchese Camillo Massimi e del cavaliere Ricci, condurrebbe in nome del sovrano i pubblici affari. Col comandante di castel Sant’Angelo fu fatto un accordo, per effetto del quale gli ostaggi presi dal Macdonald furono rimessi in libertà. In alcuni quartieri di Roma la plebe si sollevò e dette addosso a ebrei e a persone credute amiche dei francesi; onde il governo, a evitare maggiori mali, dovè mettere alcune di queste in prigione.

Il generale Championnet s’era ritirato verso Civita Castellana ed ivi, con l’ala sinistra appoggiata al Tevere e con la destra difesa dai laghi di Bracciano e di Vico, avea preso una posizione vantaggiosa e dominava le duo strade maestre conducenti da Roma verso il settentrione. Il 1° di dicembre accadde presso Maglia un piccolo fatto d’arme con danno dei napoletani, sebbene fossero di numero superiori; il 2 i francesi gastigarono la città di Nepi prendendola d(')assalto e versando fiumi di sangue. Da allora in poi i cattivi messaggi si successero senza tregua al quartier generale napoletano. Specialmente la sconfitta della estrema ala destra vi fu cagione di gran cordoglio. Il re e il generale in capo, pieni di rovello contro il Micheroux, vollero che rendesse strettamente ragione del suo operare; se non che in fin de(' )conti non potendoglisi far carico di sventure che andavano attribuite tanto alle disposizioni generali quanto alla poca fede de' suoi ufficiali e soldati, e’ riebbe il comando, ma solamente per ritirare anco più in là le sue schiere scoraggite, e sotto la difesa dei cannoni di Pescara alquanto riordinarle.

Né le cose andaron meglio sotto gli stessi occhi del Mack. Egli avea fissato pel di 4 un movimento generale in avanti: mentre quattro colonne attacchèrebbero dal lato di fronte la posizione del nemico, una quinta doveva avanzarsi sulla sinistra riva del Tevere, e per Ponte Felice, dove stava l’ala sinistra del Macdonald, cader sulle spalle ai francesi. Il disegno fallì del tutto, meno pel valore dei francesi che pel vergognoso tradimento nelle file dei regj (8). Lo quattro colonne sulla riva destra furono alla spicciolata messe in fuga dal Kellermann e dal Kniazevicz, dal Lehur e da Maurizio Mathieu fra Monterosi, Nepi e Rignano; per il che la colonna girante, il cui ufficio era cosi venuto meno, marciò indietro verso Roma. Allora il Mack tentò l’impresa in modo opposto. Il generale Roger Damas, che avea preso, in luogo dell’Hessen-Philippsthal ferito, la condotta dell’estrema ala sinistra, doveva avanzare sulla riva destra del Tevere verso Ponte Felice; tutte le altre parti dell’esercito il Mack le menò alla riva sinistra per trovare più su verso il settentrione un passaggio del fiume e cacciarsi fra i due corpi d’esercito dello Cbampionnet, quello del Macdonald verso Civita Castellana e quello del Duhesme presso Ancona. L’ avanguardia del Mack era comandata dal generale Metsch, che il 6 attaccò Magliano senza nessun frutto, e si volse con successo migliore a Otricoli, la cui esigua guarnigione francese fu messa in fuga. Allora il Macdonald lasciò un forte presidio in Civita Castellana, una divisione sotto il generale Kellermann a Ponte Felice, e marciò col nerbo delle sue forze sulla riva sinistra del Tevere. Ivi attaccò Otricoli dove accadde un’aspra battaglia; dal lato del francesi al principe di Santa Croce, uno dei capi de' patriotti romani, una palla portò via un piede. Abbandonando cinque cannoni e un terzo de' suoi soldati, circa 2000, che caddero prigionieri del nemico, il Metsch trasse fuori da Otricoli la sua colonna, e si fece strada verso Calvi, dove il Mathieu e il Kniazevicz lo seguirono per chiuderlo compiutamente.

Avuto novella di tali fatti, Ferdinando si partì da Roma e corse ad Albano, dove intendeva aspettare l’esito. Di là (9) egli pubblicò l'8 di dicembre un proclama agli abruzzesi per invitarli a levarsi in massa ed armarsi. Rammentatevi, egli dicea loro, della vostra antica prodezza, accorrete in difesa della religione, del vostro re e padre che mette a repentaglio la vita, pronto a darla via per salvare a' suoi sudditi gli altari, il focolare, l’onore delle donne loro é la libertà! Chi si rifiuta alla chiamata del suo re, chi ne abbandona le bandiere, sarà colpito dalle pene dovute al ribelli, ai nemici del trono e della Chiesa! Il proclama era in data di Roma, della metropoli del mondo cristiano, dove il re dimorava per restaurare la santa Chiesa. E pure questa volta Ferdinando non dovea rivedere la città eterna. Pieno di tristi presentimenti si partì il 9 da Albano e si affrettò a rientrare nel suo regno (10).

Intanto mentre Roger Damas operava sulla riva destra verso Civita Castellana e Ponte Felice, il generale in capo col grosso dell'esercito si era messo in movimento per fare strada al generale Metsch in Calvi. Essendo in marcia per Cantalupo seppe già che arrivava troppo tardi; il Metsch, disperando di ricevere soccorsi, si era il terzo giorno, 9 di dicembre, dato con tutta la sua colonna prigioniero; e poiché nello stesso tempo venivano dagli Abruzzi notizie che il Duhesme si apparecchiava a marciare, il Mack riconobbe essere decisa la sorte della campagna, e deliberò di ritirarsi senza indugio per difendere quel che poteva ancora esser difeso.

Bisogna però credere che si tardasse di avvertire a tempo debito il generale Damas del mutato disegno, ovvero che qualche incidente sopravvenuto lo impedisse; per modo che gli ultimi soldati della colonna principale lasciarono Roma il 12, e il Damas, giungendovi con la sua colonna solamente il 13, trovò la città in possesso incontrastato dei nemici. Prese in fretta col commissario francese (11) un accordo, per virtù delquale, evitandosi dalle due parti qualunque ostilità, egli potesse condurre a traverso Roma i suoi soldati. Ma comparvero allora con nuove colonne i generali Rey e Bonnamv e rifiutarono di riconoscere il trattato. Sicché dovette il Damas voltarsi indietro a fin di raggiungere per una strada più lunga il confine napoletano. Il nemico gli stava con forze considerevolmente superiori alle calcagna. Presso la Storta un distaccamento di cavalleria francese gli portò via cinque cannoni; presso Toscanella lo raggiunse il Kellermann, che gli era corso dietro da Ponte Felice, e dopo due ore di accanito combattimento lo costrinse a gittarsi su Orbetello, piccola fortezza sul mare, dove Napoli aveva diritto di tener presidio. Anche ivi però, stretto dal generale francese, il Damas concluse con esso un accordo, che gli concesse di imbarcarsi co’ suoi soldati per Napoli abbandonando i cannoni (12).

***

In Napoli il 1° di dicembre Sir William Hamilton e Marzio Mastrilli marchese Gallo aveano stretto una lega offensiva e difensiva, in virtù della quale l’Inghilterra dovea mantenere un’armata nel Mediterraneo atta a mettere a dovere quella del nemico (13), e dal suo lato Napoli coopererebbe con quattro vascelli di linea, quattro fregate e quattro navi minori, e oltre a ciò in caso di bisogno somministrerebbe alla squadra inglese 3000 soldati di marina. Il 5 tornò da Livorno il Nelson; secondo glintendimenti suoi, e compiutamente d’intelligenza con esso, avea senza dubbio operato Sir Hamilton. L’ammiraglio inglese fece in fatti, senza esser legato da promesse, quanto stava in lui per proteggere la famiglia reale; se non che pel momento occorrevano ajuti piuttosto per terra che per mare. La legazione francese si trovava tuttora in Napoli, come se la più perfetta pace fra le due nazioni regnasse; il 6 diceva ancora il Lacombe al marchese Gallo: se la corte desidera di avere Roma e la Romagna, se ne potrà trattare. Ma quando ventiquattr’ore più tardi fu per ordine del re significato a tutti i francesi che dentro tre giorni avessero a lasciar la città e il regno imbarcandosi su due navi che eran già pronte nel porto (14), allora il Lacombe fece togliere dal palazzo della legazione l’arme della Repubblica, si procurò passaporto inglese e russo, e al termine fissato parti per mare con la famiglia e con la servitù alla volta di Genova.

Nel gabinetto e nella corte, per le nuove che successivamente giungevano dal quartier generale, regnava in quel tempo la più angosciosa inquietudine. E la regina, che credeva suo marito in Roma e tremava per la vita di lui, non sapeva il peggio; (avea) solo il presentimento che oramai si giocasse quasi l’ultima partita. Il suo stato impensieriva quanti la circondavano; ella non si lasciava vedere da nessuno che della famiglia non fosse (15). Chi poteva portare ancora soccorso in sì terribili congiunture? L’imperatore Francesco! Ma come osare di rivolgersi a lui? Non aveva fin da principio il ministro Thugut detto all’inviato napoletano abate Giansante in Vienna, che se Napoli fosse attaccato, l’imperatore sarebbe pronto ad ajutarlo; ma se Napoli attaccasse da sé, dovrebbe tutto il rischio essere lasciato a lui? Non aveva Sir Frederick Eden detto la stessa cosa all’abate, e non era venato al campo di S. Gennaro un corriere da Londra e da Vienna, da' cui dispacci indubitatamente si rilevava, che nel caso di un’anticipata azione l’Austria non darebbe soldati, né sussidj l’Inghilterra? Quando poi giunse a Vienna la nuova che i napoletani marciavano sul terreno romano, il Giansante, che nella massima commozione avea chiesto un’udienza, dovè sopportare che l’imperatore tutta la sua collera contro di lui sfogasse, dicendo che non c’era da fidare nella sua corte, avere l’Inghilterra condotto Napoli a guerreggiare per ficcarlo precipitosamente nel gineprajo e renderlo dall'influenza imperiale indipendente; lui, imperator Francesco, non poter mettere a repentaglio il bene de' suoi sudditi, né addossarsi il carico delle conseguenze (16). In tal modo si era operato contro la volontà del potente amico, e tuttavia — così doveva Carolina dire a se stessa — non c’era da ricorrere se non a lui. L’ansia, il terrore, la penosa angoscia dell’animo trasparivano da ogni verso che l’infelice regina scriveva in quei giorni a Vienna, dalle grida di soccorso che ella mandava a sua figlia e al «caro marito» di lei. Si studiava di rappresentare le cose in modo da fare apparire che suo marito non poteva cedere, che i francesi erano stati gli assalitori ed essi gli assaliti. Noi abbiamo, essa diceva, sulla strada che mena dai nostri confini a Boma, trovato i loro magazzini, prova manifesta che avessero in animo di assalirci. I francesi avean simulato amicizia e buon volere, si erano apparentemente ritirati, ma invece avean lasciato un presidio in castel Sant’Angelo; il loro generale Rusca si era messo in agguato contro l’ala destra dei napoletani, gli aveva assaliti, e così dato manifestamente principio alle ostilità; s’era dunque realmente verificato il caso pel quale l’imperatore Francesco avea promesso il suo ajuto; si affrettasse a tener la promessa; o se non poteva venire a soccorrere di persona, mettesse a disposizione di suo marito da 10 a 20 mila uomini, che il naviglio napoletano unito all’inglese e al portoghese andrebbe a prendere a Trieste o a Fiume, e che il re assumerebbe di pagare e mantenere; e se né anche questo potesse essere, che almeno l’imperatore si mettesse di mezzo con l’autorità sua e fermasse i francesi, che di certo non manchèrebbero di ascoltarne la voce. E l’imperatore lo farà! Egli vorrà, egli dovrà porger soccorso, non potrà fare altrimenti, lo stesso suo interesse lo chiede, e la convenienza lo impone! Egli non può sacrificare i suoi più prossimi parenti!...

Le condizioni della real famiglia parvero anche assai peggiori, quando al disastro che minacciava dal settentrione si aggiunse all’opposto confine del regno un colpo di mano pel quale erano già fatti gli apparecchi. A quel che pare, innanzi ancora che le prime infauste nuove pervenissero alla metropoli, Giuseppe Logoteta, partitosi da Napoli, era corso alle Calabrie col proposito di guadagnare a una segreta intrapresa compagni in Reggio, sua patria, in Palmi e in altri luoghi. Si trattava di dar mano a una schiera di francesi, che, come Logoteta credeva di sapere, stava per esser mandata dal generale Bonaparte a fin di accendere la rivoluzione nelle province napoletane, e che da navi della squadra francese doveva essere sbarcata a tèrra. Ma raccordo fu tradito il 12 di dicembre; nella notte seguente Don Angelo di Fiore, uditore della R. Corte a Catanzaro, fece arrestare il Logoteta con altri sessantaquattro, e rinchiudere la più parte nella fortezza di Messina, il rimanente in vicine carceri. Per tal guisa fu spenta in germe una congiura che poteva in quello stato di cose esser cagione di gravissimi pericoli; e il di Fiore, giovandosi delle famiglie rimaste o trattenute come di ostaggi, fu in grado con pochissime forze di mantener l’ordine e far rispettare la legge in quelle contrade (17).

Nella metropoli regnavano allora ansia e spavento presso alcuni, maligna gioja e speranza presso altri, inquietudine e scompiglio da per tutto. Gli audaci imprecavano e stringevano i pugni, i paurosi tremavano e torcevan le mani. Nei tempj si facevano pubbliche preghiere, predicatori per le strade eccitavano il popolo contro i nemici di Dio e della Chiesa, poiché il pericolo sempre più vicino alla città soprastava. Le schiere, partite tre settimane innanzi in bell’ordine e in parata guerresca, erano adesso in gran parte disfatte e distrutte; quel poco che ancor ne rimaneva, raccolto insieme cercava, con fretta simile a fuga, la via per ripassare i confini.

La mattina del 13 di dicembre re Ferdinando era di nuovo a Caserta; alle 11 di sera ritornò alla metropoli, dove gli animi erano in preda alla più viva commozione. Il di seguente il marchese di Niza con una squadra portoghese, che avea tre vascelli di linea, facea gittar l’ancora nel porto di Napoli; e quasi nel medesimo tempo, venendo dalle acque egiziane, giungeva nel golfo il capitano Hope con l’Alkmene, entrambi opportuni e bene accetti rinforzi al naviglio che per ogni emergenza stava lì a disposizione.

Imperocché per terra gli avvenimenti stringevano e precipitavano, tanto che in corte e nella città tutti perdevano la testa, e dove prima avean nutrito le più ardite speranze, ora davano ogni cosa disperata e persa. Già le colonne dello Championnet marciavano da tutti i lati verso 1 confini, il Rey per Terracina, il Macdonald per Frosinone e Coprano. Già il Duhesme stava presso il Tronto, già il Lemolne entrato negli Abruzzi minacciava Aquila per avanzare di là verso Popoli, dove le due colonne settentrionali dovean darsi la mano. Il Mack di certo non indugiò a fare apparecchi dal canto suo. Mentre egli col nerbo delle forze faceva di Capua il suo punto d’appoggio, il Micheroux con le sue schiere riordinate, fra cui non poca cavalleria, doveva coprire il forte di Pescara, e il Gamba con sei battaglioni tener Popoli. In generale l’esercito regio, non ostante che avesse sofferto gravi perdite, soperchiava sempre per numero di combattenti il repubblicano; oltre di che ai soldati di Ferdinando sovveniva potente alleato il gagliardo popolo degli Abruzzi, nel quale la devozione verso il sovrano aaccompagnava all’odio ardente contro i francesi, talché il proclama reale ebbe facilmente virtù d’infiammarlo. Già cominciavano a raccogliersi su’loro monti, già formavano delle piccole schiere di milizia, che tanto si mostravano coraggiose e risolute quanto i soldati regolari si erano mostrati in campo codardi ed inetti (18).

In fatti sull’esercito, per quel che si sentiva dire, non c’era quasi più da fare assegnamento veruno. Indecisione e sconsigliatezza nei generali, mancanza di disciplina, di buona volontà e di obbedienza nei soldati apparivano ogni giorno maggiori, e si estendevano anche alle forze di mare, senza eccettuarne gran parte degli ufficiali; sicché la famiglia reale doveva reputarsi felice vedendo sventolare nel golfo le bandiere d’Inghilterra e di Portogallo. Il Mack, al quale Ferdinando e Carolina continuavano a testimoniare grandissima stima, giudicandolo non altrimenti che una vittima trascinata all’infortunio, se non per colpa, almeno per amor loro, non poteva in nessun modo confortarli, come colui che aveva anch’esso perduto ogni fiducia nell’attitudine dell’esercito alla guerra (19). Vedeva da per ogni dove tradimenti, mentre dall’altra parte egli, e con lui tutti quelli che avevano in mano la direzione suprema della guerra, erano di tradimento accusati. Nella metropoli si sentivano in quest'ultimo senso voci così altamente minacciose, che per ordine del re il direttore della segreteria di guerra, generale Ariola, non fu solamente dimesso dall’ufficio ma anche arrestato e, sigillategli tutte le carte, condotto nel castel dell’Uovo, più per sua sicurezza personale che per infliggergli una pena, della quale erano piuttosto meritevoli i generali sul campo.

In fatti avvenivano ancora ogni giorno cose che sbugiardavano ogni calcolo, ogni previsione del generale in capo. Il Duhesme avea passato il Tronto. Innanzi a lui stava Civitella, piccola fortezza situata sopra un’altura quasi inaccessibile, sovrabbondantemente provvista di tutto il bisognevole; dopo un investimento di circa due ore il colonnello Lacombe ne apri ai francesi le porte. Il Duhesme entrò come vincitore nella vicina Teramo, città principale della provincia, vi piantò l’albero della libertà, mise fuori una quantità di prigionieri, congedò gl’impiegati regj, ne pose altri nel luogo loro,si comportò insomma da padrone in terra conquistata. Oramai egli poteva volger l’occhio alla importante fortezza di Pescara, per muovere di là contro Popoli, dove incontrerebbe la colonna Lemoine.

II

FUGA DELLA FAMIGLIA REALE IN SICILIA

Nello stesso giorno, che la squadra inglese nel golfo di Napoli era cresciuta delle navi del Niza e dell’Hope, nel palazzo reale avean cominciato a fare i bauli, poiché fuori della Sicilia non appariva altro rifugio (20). Bisognò per altro fare alla chetichella, e senza che punto ne trapelasse, gli apparecchi della partenza, dacché il pubblico invigilava con diffidente sospetto tutti i passi della corte e peggio ancora le relazioni di quelli di fuori con essa. La gente minuta odiava i francesi, e gl inglesi non amava punto, perché gli uni e gli altri stranieri. Invece i desiderosi di novità tenevano segretamente da quelli, e notavano con isdegno come questi esercitassero efficacia predominante sul gabinetto e validamente sostenessero e puntellassero dal lato del mare il tiranno borbonico. Né all’Hamilton né all’ammiraglio parve in quei giorni prudente consiglio l’andare a corte, poiché correva voce che i «giacobini» o, come da sé più volentieri si denominavano, i «patriotti» spiasser l’opportunità d’impossessarsi del Nelson o dell’ambasciatore per conservarli come ostaggi. Il commercio della real famiglia co’ suoi protettori inglesi era mantenuto solamente per mezzo della regina e di lady Hamilton, tra le quali da parecchi anni correvano tali termini d’intima dimestichezza da non potere facilmente dar ombra neppure nelle presenti congiunture. E lady Hamilton si mostrò veramente in quei giorni sotto il suo più bell’aspetto, prestando alla real protettrice e a quelli che le appartenevano di tal maniera servigi, quali non dalla moglie del rappresentante d'una gran potenza alleata, ma da una donna piena di sincera pietà, daun’amica devota e capace d’ogni annegazioue si sarebbero solamente potuti aspettare. E a quante cose occorreva provvedere in quei momenti, quante cose salvare e custodire! Il tesoro di S. Gennaro; i danari pubblici, parecchi milioni di moneta, oltre a oro e argento in verghe; i capi più preziosi dei reali palazzi, dei musei di Capodimonte e di Caserta, degli scavi di Pompei e d’Ercolano; giojelli e oggetti di valore, vestiario e biancheria; finalmente carte, scritti ed archivj. Di molte cose prese cura la regina in persona, non disdegnando di lavorare con le proprie mani, ajutata dalle sue figliuole e dall’amica Emma, nella cui abitazione furono portate non le cose di maggior valore soltanto, ma anche le sacche con entrovi le masserizie più necessarie da dover essere momentaneamente custodite (21).

Sempre più sconfortanti giungevano di fuorivia le novelle; ed anche su questo punto lady Hamilton era quella a cui la regina Carolina poteva confidare tutto ciò che le occupava, commoveva, scompigliava l’anima: il dolore e la disperazione, la vergogna e l’ira, per l’onta che le toccava a sopportare, per le bassezze e le volgarità che si vedeva dattorno. «La viltà, il tradimento, la paura, la costernazione generale e il nessun vigore mi fanno molto temere», così ella scriveva il 17 di dicembre alla Hamilton. «I miei complimenti all’eroe Nelson e alla sua buona nazione: arrossisco della infame viltà della nostra!... I nostri sono de' vili, degli infami, degli esseri esecrati!» Una infausta nuova teneva dietro all'altra, non annunziando solmente che i soldati di terra fuggivano a schiere, ma anche che i soldati di marina e i marinari si mostravano svogliati e vili, sotto pretesti di ogni maniera rifiutavano obbedienza, sicché era da temere che, avvicinandosi il nemico, abbandonassero le navi e di null’altro, dal loro scampo in fuori, si curassero. Né il tentativo di trattenerli con promessa di doppia paga riuscì con gran parte di loro; per modo che bisognò preparare i cannoni e minacciare di far fuoco senza rispetto. Sulla regina, che in tutto questo tempo era già maliscente né il cavarle sangue le aveva recato benefizio, tutte queste cose produssero tanta impressione da abbatterne profondamente l’animo e le forze. «L’anima mia è così trista, i colpi che da ogni parte ricevo mi hanno sbalordita, sono al colmo dello sconforto, temo di perdere la ragione.» Le sue lettere in quei giorni di terrore e di calamità dovevano spezzare il cuore della sensibile ladv. «La più infelice delle donne, delle madri, delle regine, sebbene amica devota», così ella sottoscrisse più d’una volta. «I pericoli crescono, Aquila è caduta con 6000 uomini, a eterna vergogna della patria nostra; il Mack scrive lettere disperate.» Il principe ereditario, senza dubbio per desiderio della madre, era andato a Capua; le sue descrizioni intorno alla stato dell’esercito erano tali dà annientare ogni sorta di coraggio. «L’orribile ruina,» così ella si lamentava, «distrugge due terzi della nostra stessa esistenza. Il momento è crudele, mortale. Sono nel colmo della desolazione e delle lagrime, persuasa che il colpo sarà da sbalordire, la rapidità soprattutto, e parrai di non venirne mai a fine. Mi rimetterò alla divina provvidenza.» «Sono stordita e disperata,» dice in un altro luogo, «questo cambia a un tratto il nostro stato, la vita e condizione nostra, tutto quanto ha finora formato le idee mie e della mia famiglia; non so più dove m’abbia il capo.» Poi ritorna in sé e riprende animo: «Siate sicuro che nulla, nulla farà vacillare i nostri principj e che, se il nostro paese è vile, noi dureremo sempre onesti e sinceri...» (22).

Il 18 di dicembre comparve il general Mack innanzi al re e alla regina, dei quali conservava sempre la piena fiducia, per significar loro che non era in grado di contrastare al progresso del nemico e per raccomandar caldamente che cambiassero la residenza di Napoli con quella di Sicilia. Non rimaneva quasi altro scampo; si trattava per altro di condurre in atto il disegno. Da un lato c’era d’intorno a loro della gente che, subodorata la partenza della corte, non badava se non a spiarne il momento per propalarlo al pubblico; e quando, non ostante tutte le precauzioni di segretezza, la cosa si venisse a risapere, chi poteva assicurare che non si rinnovasse nel napoletano la scena di Varennesl E anche da altri lati la fuga andava soggetta a gravi pericoli. Non era in certo modo un abbandonare al nemico la città e il paese? Oltre di che si separavano dagli alleati, si riducevano in una isola «à la pointe de l’Europe», segregata da ogni immediato commercio, senza opportune novelle di ciò che nel resto del mondo accadeva! Da ultimo, viaggiando per mare, in una stagione che s’annunziava singolarmente cattiva e tempestosa, qual sicurezza avevano di toccar sani e salvi l’altra riva? Ciò nondimeno continuarono gli apparecchi della partenza. La Vanguardia, nave ammiraglia del Nelson, fu messa in assetto per accogliere gli ospiti coronati; sgombrate a poppa le camere e ogni cosa abbellito con nuove pitture alle pareti, occupati nella corderìa gli artefici a preparare d’ogni maniera brande, e via discorrendo. Tutto ciò ch’era stato nascosto presso l'ambasciata inglese e tutti gli oggetti di valore rimasti nelle stanze reali furono a poco a poco portati di soppiatto, o, come il Nelson diceva, di contrabbando, a bordo della Vanguardia. L’essenziale era di condurre inosservata la real famiglia dal palazzo sotto la protezione della bandiera inglese; il modo per effettuare tal disegno fu lungamente e in mille maniere ventilato.

Del naviglio napoletano da guerra dovevano il Sannita e l’Archimede fare anch’essi il viaggio in Sicilia; furono su quelle due navi trasportati i tesori principali de' musei e delle gallerie, le gioje della corona, e denaro per circa due milioni e mezzo di lire sterline. L’altra parte, e di gran lunga maggiore, del naviglio fu fatta uscire dal molo e messa in luogo dove dalla città non potesse recarlesi offesa; e poiché buon numero dell’equipaggio era sceso a terra, bisognò che ufficiali e marinari inglesi cooperassero al lavoro. Il comando del Sannita lo riteneva per sé il Caracciolo; quello dell’Archimede era, a quel che sembra, commesso al conte Giuseppe Thurn-Balsassina, al quale, come ad uno dei più abili e reputati ufficiali della marina napoletana, toccarono in questo congiunture parecchi incarichi di fiducia (23).

Francesco Caracciolo, rampollo principesco di un ramo di questa famiglia ricca, cospicua e numerosa (24), era senza dubbio entrato al servizio di marina fino dalla prima giovinezza, e nell'anno 1795, essendo già capitano di vascello, avea fatto più volte parlare di sé. L’ammiraglio Hotham nel marzo di quell’anno avea preso dalle mani di Lord Hood il comando della squadra inglese nel mediterraneo e quindi l’ufficio di tenere in iscacco, con la cooperazione dei legni da guerra napoletani, la squadra del contrammiraglio Martin che si trovava a Tolone. Uno di essi legni napoletani, e a quel che pare il più rilevante, era il Tancredi, vascello di linea di 74 cannoni, che il 12 di marzo si accompagnò alla squadra che operava contro il Martin. Però sebbene il 13 e il 14 fra Savona e Capo Mele si venisse ad aspra battaglia, nella quale il capitano Nelson col suo Agamennone riportò gli allori, tuttavia né il Tancredi e il suo capitano Caracciolo, né alcuno in generale dei legni napoletani non trovò l’occasione di segnalarsi e nemmeno di prender parteall’azione, siccome apparisce dalle relazioni navali di quel tempo, dove sono nominati solo di passaggio e piuttosto dal lato negativo, indicando dove non avean preso parte e ciò che non avean fatto e simili. Non c’è dubbio che l’essere così avvenute le cose non dipendesse dal Caracciolo; ma dall’altro canto non c’era neppure nessuna ragione per attribuirgli, come si fece più tardi, il merito d'un eroe di prim'ordine mentre non avea fatto nulla da ciò, per parlare di battaglie navali che niuno era in grado di indicare, e per vantare il suo coraggio del quale non aveva avuto occasione di dar prova in fazioni importanti (25). D’altronde si capisce che a' suoi compatriotti e’ fosse particolarmente caro come quegli che, al contrario dello straniero Thurn, era uno dei loro. Essendo stato nel 1795 compagno d’arme degl’inglesi, anco presso di questi il Caracciolo ebbe credito; e tal circostanza, unita alla fiducia che, come appartenente a una delle prime famiglie, godeva in corte, può aver contribuito efficacemente a fargli affidare la condotta delle navi nel viaggio in Sicilia. Egli aveva allora il grado di contrammiraglio.

Intanto ogni giorno gli esterni pericoli, le agitazioni interne crescevano. Il Mack mandava lettere su lettere e un ajutante dietro all'altro per ammonire la corte che non indugiasse più a lungo l’imbarco, poiché le colonne nemiche si venivano da tutti i lati sempre più appressando alla città. In questa il popolo non era più da tenere in freno. Già i lazzaroni cominciavano!a loro caccia contro gli odiati francesi. Torme di plebaglia si cacciavano nelle case dove sospettavano si trovassero giacobini; e furti ed altri delitti non mancavano in tali irruzioni. Quanti forestieri erano in Napoli cercavano di nascondersi o studiavano espedienti per fuggire, ma i persecutori loro non di rado gli scoprivano, gli oltraggiavano, li trattavan male; corse voce che anche qualcuno ne uccidessero.

La sera del 19 di dicembre crocchi di gente, raccolti innanzi al palazzo reale, concitati gridavano verso le finestre: «Viva il re, muojano i giacobini.» Alcuni chiedevano che si mostrassero al popolo i nemici interni perché si avventasse su loro e gli annientasse. Altri domandavano armi contro i francesi, e si dicevan pronti a uscir fuori per cacciare gli stranieri dal regno. Il re e la regina, il principe ereditario e sua moglie, arciduchessa Clementina d’Austria, si fecero al terrazzino, salutarono con affabili gesti la folla, mentre il general Pignattelli e altri confidenti della corte si mescolavano fra quel la, con buone parole la confortavano, e a poco a poco la inducevano a diradarsi. Ma la mattina seguente la scena ricominciò, e prese da un’ora all’altra un carattere minaccioso. Già la sera innanzi erano stati notati degli aizzatori che domandavano il capo del ministro della guerra Arida, al quale non cessavano di attribuire i disastri della spedizione; sicché parve necessario per la sua sicurezza farlo in tutta fretta e segretezza partire per Messina. Per le vie della città correvano bande armate; una di esse, forte di 1500 uomini e capitanata da un certo de' Simone, portava innanzi come simbolo una bandiera con una piccola croce (26), annunzio e forse primo segno della susseguente armata cristiana e del napoletano sanfedismo. Se s’imbattevano in qualcheduno che all’aspetto paresse francese, lo trattenevano, lo maltrattavano, talvolta anche l’uccidevano, come accadde a un mercante tirolese, chiamato Peratoner, e poi a un piemontese, creduti entrambi esser di Francia.

La mattina del 21 di dicembre la regina Carolina attendeva appunto a scrivere al suo genero per descrivergli la sua disperata condizione, l’angustia dell’animo suo; per pregarlo e scongiurarlo di prendere sé e i suoi sotto l’alta protezione imperiale, di non abbandonare la sua fedel Napoli in preda ai nemici; poiché ella doveva lasciar loro piazza libera per quanto la spaventasse il pensiero che altri potesse giudicarla timida e codarda; lei come lei rimarrebbe pure; in tali circostanze la morte non sarebbe forse per lei una liberazione? Ma ell'era moglie, era madre, e le correva obbligo di provvedere alla sicurezza de' suoi... Quand’ecco giungerle all’orecchio il suono di selvaggio tumulto, e grida e pianti di moltitudine appassionatamente concitata. L’infelice corriere di gabinetto Antonio Ferreri, poco innanzi spedito dal palazzo con un messaggio all’ammiraglio Nelson, giungendo sul Molo e domandando in lingua francese una barca, era stato scambiato per francese e assalito e crudelmente ucciso dalla folla, che ora, trascinatone il cadavere mutilato sotto le finestre del real palazzo, fra gli urli e le maledizioni lo metteva in brani. Su in corte non si sapeva ancora chi fosse stato dal furor popolare colpito; si diceva in genere che la folla infuriava contro gli emigrati (27). Il re, dopo aver mandato abbasso alcuni de' suoi ufficiali che furono maltrattati anch'essi, comparve in persona sul terrazzino, e ad alta voce arringò il popolo: «Che fate? Chi vi ha ordinato questa scelleraggine? Andate, ohe mi vergogno d’esser napoletano!» Il tumulto fu così sedato, e la folla a poco a poco si disperse.

Ma giunsero altri ragguagli: il popolo dimandava armi, voleva occupare i castelli; la sete popolare di vendetta non si rivolgeva solamente contro i francesi aperti o mascherati, ma anche contro il capo della polizia, a cui si faceva carico di tenere il re e la regina lontani dal popolo. Le righe che Maria Carolina alle tre dopo mezzogiorno vergò sulla carta significavano le sue ansie mortali: «Il pericolo è imminente! A Dio piaccia di salvarci, ma a voi raccomando chi fra quelli che m’appartengono sopravviverà a quest’ora...» In lattiche cosa soprastava, mancando i mezzi sufficienti per resistere? La signoria terribile dei discendenti di Masaniello, ovvero quella dei regicidi francesi! Non c(?) era da perdere un momento. In fretta furono da Ferdinando sottoscritti i decreti, senza dubbio già preparati, co’ quali Francesco Pignatelli era nominato regio vicario, il barone Mack capitan generale, e al Simonetti e a Giuseppe Zurlo si affidavano gli affari della giustizia e della finanza. Il marchese Gallo ebbe ingiunzione di tenersi pronto senza indugio al viaggio, a fine d’imbarcarsi a Manfredonia o, se lì non fosse più possibile, a Brindisi per Trieste, e recarsi presso l’imperatore Francesco per ragguagliarlo a bocca dello stato delle cose e implorare istantaneamente il soccorso degli alleati...

Gran sopraccapo dette alla real famiglia la quantità di persone che, accompagnandosele e sotto la sua protezione, volevano riparare in Sicilia. Oltre alla Vanguardia, al Sannita e all’Archimede, erano disponibili due navi noleggiate da Sir Hamilton e destinate ai francesi emigrati, parecchi trasporti inglesi e diversi bastimenti mercantili, in tutto 25 vele. Se non che quelli che desideravano d’imbarcarsi crescevan sempre di numero, tanto che in breve non c’era più luogo. Perché non s’introducessero di straforo persone estranee, Maria Carolina avea fatto preparare dei biglietti, incisovi tre «puttini, uno dei quali seduto sotto un cipresso dava dato alla tromba, due altri facevano cenni e invitavano a salire, e scrittovi sotto di mano propria della regina: Imbarcate, vi prega M. C. (28). Ella parve darsi singolarmente pensiero che nessuno di coloro che, appartenendole e prestandole servigi, si erano attirato Podio della fazione francese, fossero, o per cattiveria o per vendetta, dimenticati, ed affermava d’essere piuttosto angustiata del pericolo altrui che del proprio. Tuttavia, non ostante la sua buona volontà, c’erano limiti che non si potevano oltrepassare. Uno di quelli che rimasero esclusi, disperato nel vedersi esposto alla vendetta de' suoi numerosi nemici, si uccise con una pistolettata nel capo. Fu questi il marchese Vanni, uno dei giudici criminali degli ultimi otto anni; ma senza dubbio non fu tal qualità che gl’impedì di essere accettato fra i compagni di viaggio. La regina, sentendo dell’orribil caso, fu fuori di se e si fece amari rimproveri di non aver trovato un posticino anche per lui (29). Fra quelli che dovevano essere imbarcati con la famiglia reale erano, oltre il ministro Acton e i conjugi Hamilton, il ministro austriaco conte Francesco Esterhazy (il segretario di legazione barone Cresceri rimase in Napoli a reggere la legazione), il personale della legazione russa, i principi di Belmonte, Cicala, Villafranca, il cavalier Vivenzio, il marchese Del Vasto, il Cardinal Buschi, don Innocenzo Pignatelli, il marchese Giuseppe Hans, Giuseppe Castrone ecc. (30).

Volentieri la regina avrebbe accolto due principesse, maturo di été e crudelmente perseguitate dall’infortunio, Madama Adelaide e Madama Vittoria, figliuole di Luigi XV. Cresciute fra le pompe della corte di Versaglia, allo splendore dell’onnipotenza regale, in mezzo alla società più raffinata e alla più squisita etichetta, rimaste immacolate tra quei costumi di lusso e di sensualità esternamente attrattivi ma profondamente corruttori, esse aveano nel febbrajo del 1791 lasciato la Francia per recarsi a Roma e colà vivere vita conforme a' loro sentimenti religiosi. Di tal viaggio se n’era fatto allora un affare di stato; s’era detto che aveano seco un seguito di 80 persone e 12 milioni di franchi; le dames de la halle s’eran condotte a Belle-ville, e senza dubbio vi avrebbero fatto delle scene simili a quelle del 5 e 6 di ottobre 1789, se le principesse, avvisate a tempo, non si fossero rifugiate la notte innanzi nelle Tuileries, di dove in uno dei giorni seguenti chetamente si partirono. Ma non avean portato punti tesori; il popolo di Parigi non avea neppure concesso il trasporto dei bagagli; talché a Roma toccò loro a vivere tutt’altro che con lusso e negli agi. Cacciate di lì al mutarsi del governo ecclesiastico in repubblica, accolte pietosamente dalla corte napoletana a cui le legavano vincoli d’amicizia e di parentela, avean menato fin allora in Caserta, con i modesti sussidj somministrati loro dalla linea spagnuola della famiglia, una vita tranquilla e ritirata senza essere a carico a chicchessia, fino a che si videro minacciate da una visita de(1) loro compatriottl persecutori. Il re e la regina le aveano avvisate dell’imminente viaggio; ma vedendo il popolo tanto concitato contro tutto ciò che avea nome francese, non s’erano arrischiati a lasciarle venire di giorno a Napoli, proponendo invece che il proprio consiglio seguissero, e all’occorrenza facessero un giro più largo, e prima a Portici e poi di lì si lasciassero condurre alle navi (31).

***

Importava che la real famiglia uscisse inosservata dal palazzo, e però bisognava aspettare che annottasse. Dopo le 8di sera tre barche, condotte dal capitano Hope, si accostarono al Molosiglio ch'è al canto meridionale dell’Arsenale. Il Nelson in persona scese a terra; ed essendo il re e la regina, il principe ereditario con la moglie e la fìgliolina di appena sette mesi, i due fratelli suoi minori Alberto e Leopoldo, e le tre principesse ancora nubili, in tutto dieci persone, usciti da una porta segreta e per una galleria coperta fuori del palazzo, gli accompagnò alle barche, nelle quali presero anche posto i principi Belmonte e Cicala, l’Acton e il conte Thurn. Alle 9 e mezzo eran tutti a bordo della Vanguardia, dove i conjugi Hamilton, il capitano Hardy e gli altri ufficiali fecero a gara per rendere agiata ai fuggitivi la dimora.

Era il giorno di S. Tommaso e un venerdì. Si trovavan salvi, ma in che condizioni! Quali pensieri dovean rivolger nell’animo, quali rimproveri fare a sé medesimi! E come tristo e sconfortante dovea loro apparire il futuro! Ceder Napoli, la bellissima città, l’ameno paese, forse per non mai più rivederlo! «Mai non dimenticherò Napoli», scrive Carolina a bordo della nave ammiraglia inglese, «vi bo passato trent’anni della mia vita! Voglia Dio guardarla da una sventura, da un eccidio, per opera di amici o di nemici! O mio genero e nipote, lasciate ch'io ve la raccomandi, e fate quanto sta in voi perché possiamo un giorno tornare!» Era suo conforto il sapere che i suoi cari si trovavano nascosti...

La mattina del 22 grande fu la maraviglia dei napoletani nel sentire che la real famiglia avea lasciato il palazzo e la città, né minore in tutto il popolo e in gran parte delle alte classi il desiderio che il re potesse essere indotto a restare. Sino dal far del giorno il golfo si riempì di barche d’ogni qualità, che circondarono la nave dell’ammiraglio inglese. Il cardinale arcivescovo Capece Zurlo con una rappresentanza del clero, l’eletto del popolo con i consiglieri municipali, la magistratura e va discorrendo, salirono a bordo della Vanguardia e pregarono che il re volesse concedere loro udienza. Ma solo il cardinale fu ricevuto, e Ferdinando gli fece intendere «che egli s’ era messo per mare poiché s’era visto tradito per terra.» Le altre deputazioni furono ascoltate e congedate dal ministro Acton.

Pel Nelson era cosa di gran momento il decidere intorno all'armata reale, di cui, per effetto della viltà dei marinari e poca voglia che avean di combattere, appariva mal sicura la sorte, e pure bisognava a qualunque costo impedire che cadesse in mano dei vittoriosi nemici. Gli ufficiali inglesi l’avrebbero volentieri incendiata tutta. Al che il re e la regina si opposero, giudicando di dover serbare questo partito estremo per 1 ultimo momento, e ordinando piuttosto che il Forteguerri, comandante superiore della marina, si procurasse alberi di ricambio per condurre con l’ajuto di essi in salvo verso i porti siciliani almeno una parte di quel naviglio ch’era costato tanti anni di fatiche e molti milioni. Simili ordini ebbero dal Nelson il marchese de' Niza e il commodoro Campbell, che dovevano intanto rimanere con le navi loro nel golfo di Napoli (32).

Il 23 innanzi mezzogiorno il general Mack, chiamato dalla corte, si recò sulla Vanguardia, ed ebbe una lunga conferenza col re, presenti l’Acton e il Nelson, il quale vedeva assai di buon occhio lo sfortunato generale, cui le sofferte disfatte aveano non solamente abbattuto l’animo ma anche prostrate le forze (33). Furon prese per il caso estremo le seguenti risoluzioni: se la città non potesse resistere, l’esercito si ritirerebbe verso Salerno o attraversando le due Calabrie si avvicinerebbe alla Sicilia, dove dal mare riceverebbe appoggio ed ajuto. Senza dubbio si faceva assegnamento sulla fedeltà e risolutezza delle popolazioni meridionali, siccome appunto in quei giorni quelle del settentrione, svergognando la viltà dell’esercito regolare, fedeli e risolute si mostravano. Non era da esse minacciato il Lemoine? Il Duhesme, vittorioso fino a Pescara, non doveva egli pensar seriamente ai casi suoi, se ai prodi abruzzesi riusciva di occupar Teramo, di distruggere i valichi sul Tronto e di impedirò così la riunione co’ romani? Ma quando pure le speranze sul sollevamento dei calabresi fallissero, o quando siffatto mezzo si chiarisse inadeguato al fine, poteva il Mack coi resti del suo esercito passar facilmente da Reggio a Messina, attendere in Sicilia a riordinarlo, e aspettare il momento opportuno per ricominciare la guerra.

Poi che il Mack ebbe lasciato la Vanguardia, la squadra reale rimase ancora quasi tutta la domenica a vista di Napoli; pareva che si aspettasse qualche cosa (34). In fatti le principesse francesi non erano ancora giunte. Sia che per effetto della loro indole timida non sapessero risolversi in tempo, o che incontrandosi al luogo fissato fosse stata dimenticata qualche cosa, fatto sta che non rimase loro altro se non tentare di recarsi a Taranto o a qualche porto della costa adriatica per imbarcarsi quivi alla volta della Sicilia o di Trieste, dove potevano esser sicure che la regina caldissimamente le raccomanderebbe a sua figlia e al suo genero imperiale.

Il 23 di dicembre, sul far della sera, le navi della squadra reale levarono le ancore; fine del viaggio era Palermo.

III

L’ARMISTIZIO DI SPARANISE

Nei giorni che precedettero la partenza della famiglia reale, i movimenti militari non eran cessati. Già il Duhesme stava innanzi alla fortezza di Pescara e la circondava da tutte le parti. Provvista di tutto il bisognevole pel mantenimento e per la difesa, non avea quella potente fortezza da temer molto le forze non troppo numerose che la minacciavano. Alla intimazione dei francesi il governatore Préchard rispose in modo così risoluto da far credere che con coraggio e costanza si sosterrebbe; tuttavia, appena ventiquattr’ore più tardi, egli fece come il Lacombe in Civitella del Tronto, e il 23 di dicembre capitolò (35). Allora ebbe effetto quello che da più settimane si apparecchiava. Mentre coloro ch'erano propriamente addetti a servire e difendere Ferdinando in maniera così vergognosa sbigottiti cedevano, la popolazione dei monti dietro alle spalle del nemico si sollevava selvaggia e sfrenata, crudele e vendicativa, con l’animo pieno d’implacabile odio verso i francesi, e tanto risoluta, tanto sprezzante di fatiche, di pericoli e della morte stessa, che in breve il nemico messo alle strette dovè tremar dallo spavento. Un par di mille abruzzesi, in gran parte malamente armati, incendiarono il ponte di legno sul Tronto; impadronitisi della città di Teramo occupata dai francesi ne cacciarono i nuovi ufficiali, e di lì sul paese circostante si estesero. Di certo non erano essi in grado di tener testa in campo a schiere esperte e agguerrite; sicché il capo di brigata Cbarlot, mandato da Duhesme contro a loro, non durò fatica a sgominare quegli stuoli indisciplinati, rioccupò Teramo, e sul fiume di confine fece gittare un nuovo ponte. Ciò non ostante il pericolo a cui erano esposti i francesi non era allontanato. Poiché cominciava allora la piccola guerra, per la quale la popolazione dell’antico Sannio sapeva egregiamente giovarsi di tutti i vantaggi che le offriva il suo territorio montuoso e pieno di caverne, a ogni maniera d’agguati favorevole. Dovunque piccoli drappelli di francesi si mostravano, dovunque carriaggi o corrieri erano in via, invisibili nemici sbucavano e i male apparecchiati assalivano, uccidevano, precipitavano negli abissi, talora, a onta o esempio di terrore, inchiodavano in croce, e tutti i bagagli e le salmerio o guastavano o portavau via come bottino.

Nella metropoli i primi giorni dopo la fuga della corte passarono abbastanza tranquilli. Il popolo riconosceva l’autorità degli ufficiali, specialmente del real vicario e del corpo di città, collegio composto di sei nobili e di un borghese, e deputato a rappresentare la città di Napoli e tutto il regno, ma quasi dimenticato e fuori di esercizio negli ultimi decennj (36). Le numerose pattuglie, che il Pignatelli a tutte le ore del giorno e della notte faceva girare per la città, provvedevano al mantenimento della pubblica sicurezza. Nondimeno le classi possidenti non dimenticavano i passati atti di violenza, poco fidandosi dei lazzaroni, i quali, confesse credevano, dal loro odio verso le novità e gli stranieri potevano ogni momento essere condotti a nuovi eccessi (37). Dall’altra parte non mancavano teste calde che giudicavano opportuna la congiuntura per rammentare gli antichi privilegi della città, massimamente quello di avere a ricevere ordini dal re e non da un vicario generale. Come primo provvedimento atto a far valere il loro credito, proposero l’ordinamento d’una milizia urbana, e mandarono per ciò una deputazione al vicario reale Pignatelli. Uomo senza nessuna attitudine, tanto che da un pezzo il popolo gli aveva affibbiato il nome dell’animale dalle lunghe orecchie (38), e nello stesso tempo pieno di ogni maniera di pregiudizi egli accolse a dì 25 di dicembre i deputati della città con gran sussiego, e dichiarò che la dimanda loro offendeva i suoi diritti, avendo egli solo l’ufficio e il carico di invigilare la pubblica sicurezza. Occorsero pratiche di parecchi giorni perché il principe in massima cedesse; nacquero poi contese fra gli eletti e i deputati, che Gaetano Spinelli riuscì a metter d’accordo; finalmente, fatte le liste di sottoscrizione, in brevissimo tempo si raccolsero 14,000 nomi. Se non che a quel punto il Pignatelli osservò di non avere armi disponibili; a stento e dopo rinnovate e difficili pratiche i cittadini ottennero prima 400, poi 500 fucili, co’ quali risolutamente si accinsero a provvedere al servizio di sicurezza pubblica (39).

Commoventi erano le novelle che, circa lo stato delle cose nel campo, alla città pervenivano. Gli amici delle novità, che erano a un ora amici de' francesi, si studiavano con appassionata diligenza di diffonderle, con ogni maniera di giunte e di esagerazioni abbellendole. I partigiani del re dall’altra parte spargevano la voce che l’ammiraglio Nelson, dopo aver messo al sicuro in Sicilia la real famiglia e i tesori, tornerebbe nel ' golfo per sostenere e ajutar dal mare i difensori della patria. Il Mack dal canto suo si fortificava alla meglio presso Capua; ma di fronte a tanti e così spesso rinnovati esempj di tradimento e di viltà, come poteva egli sperare di mantenersi a lungo? Con lui era compiutamente d’accordo il real vicario, angustiato sempre più dalle tristi voci che correvano. Già vedeva in ispirito il nemico alle mura della città, la quale non era in ¡stato di opporre valida resistenza; e però restringeva principalmente l’opera sua a toglier di mezzo tutto ciò che poteva preparare al nemico la via o fargli cader nelle mani gli strumenti di guerra. E così un giorno (28 di dicembre) ordinò che si ardessero 120 cannoniere ancorate presso la grotta di Posillipo; le fiamme si riflettevano lontano sui quartieri della angosciata città e il cielo e i flutti tingevan di rosso, mentre più di 1000 quintali di polvere e una gran quantità di palle d’ogni specie erano buttati nel mare (40). Nello stesso tempo il Pignatelli pregava il Mack che venisse in Napoli e convocasse un’assemblea di generali; la quale in fatti il dì 30 si adunò, e fu concorde nel deliberare che si chiedesse al supremo generale nemico un armistizio (41).

A dire il vero, i francesi, non ostante i buoni successi spicciolatamente ottenuti, non si trovavan mica in quei termini vantaggiosi che, dalla parte dei napoletani, la viltà degli uni e la slealtà degli altri immaginavano. Il 28 di dicembre il general Mathieu del corpo Macdonald aveva passato presso Isola il Siri, il 80 era a Sangermano, dove anche il Macdonald. ed il capo supremo s’incontrarono: alla fine dell’anno occupavano essi le alture di Cajanello, a mezza strada tra Venafro e Calvi, e di lì dominavano la via fra Roma e Capua. Mentre in quel torno di tempo il general Rey lungo le coste di Terracina si avvicinava alla fortezza di Gaeta, negli Abruzzi il Lemoine avanzava verso Popoli, dove, com’è detto di sopra, le due colonne del settentrione dovean porgersi la mano. Il generale Gamba, che stava lì con alcuni battaglioni napoletani, offrì battaglia al nemico, e da' due lati con gran valore e con accanimento si combattè. Già era caduto un generale francese, già i napoletani, a cui soccorso era sopraggiunta la cavalleria del Micheroux, aveano preso il disopra, quando il Lemoine fece un ultimo sforzo e gli riuscì di rivolgere la giornata a suo vantaggio. Allora le squadre napoletane si scompigliarono, e fu compiuta la disfatta del Gambs, che avrebbe avuto certa vittoria se il Micheroux avesse potuto condurgli a tempo anche la sua fanteria. Ma questa rimase tagliata fuori, e un giorno o due dopo si sciolse e disperse per modo che solo una parte degli ufficiali giunse al quartier generale in Capua (42).

Il 3 di gennajo il general Rey stava innanzi Gaeta. La qual piazza, assai forte per se stessa, era difesa da 4000 uomini e sovrabbondantemente provvista di tutto il bisognevole per la guerra: IO o 12 mortaj, 70 cannoni, 20,000 fucili, viveri per un anno. Il Rey non disponeva per il momento altro che di un obice, col quale ordinò che si tirasse granate sulla fortezza; ed ecco che, tratto appena il primo colpo, si vide alzare la bandiera bianca, e il governatore Tschudy si dette a discrezione con tutto il presidio; i soldati furon mandati prigionieri a castel S. Angelo, gli ufficiali, promettendo di non riprendere le armi contro la Francia, lasciati liberi.

Lo stesso giorno doveva per ordine dello Championnet tutto il corpo del Macdonald andare avanti. La linea del Mack si stese lungo il Volturno da Castellammare, presso la foce di quel fiume, per Capua sino al passo del fiume medesimo presso Cajazzo, ed era in tutti i punti principali riccamente fornita di cannoni. Il Macdonald avanzò presso Capua e ottenne qualche vantaggio, cosi che il Mack per tener fermi i suoi soldati dovè minacciare di far fuoco sui fuggitivi. Intanto il corpo nemico, che disponeva solo di deboli pezzi di campagna, era venuto a tiro dei cannoni del Mack, il cui fuoco egregiamente condotto devastò talmente le file del Macdonald, che questi credè opportuno ritirarsi verso Calvi (43). Cercò presso Scafa di Cajazzo forzare il passaggio del Volturno; ma quivi un giovane nobile napoletano, il duca di Roccaromana della famiglia dei Caracciolo, tenne valorosamente testa ai francesi e li costrinse a tornare addietro. Costò quell(')aspra giornata ai francesi non meno di 400 fra morti e feriti; 100 prigionieri, fra cui il colonnello Darnaud; il general Mathieu perse un braccio, il generale Boisregard cadde. I napoletani contarono 100 morti o feriti, fra questi ultimi il prode Roccaromana. La sconfitta dei francesi, secondo l'opinione degli stessi scrittori loro, sarebbe stata intera, se il principe di Moliterno, a cui il Mack aveva affidato due reggimenti di cavalleria, e del resto valente capitano che nella campagna del 179495 si era singolarmente segnalato, fosse con quei due reggimenti venuto fuori dalle trincee per assalire le schiere nemiche che non troppo ordinate si ritiravano (44).

Le condizioni dello Championnet erano in ogni modo assai pericolose, e più ancora divenner tali quando la sollevazione popolare crebbe e si estese. Con le colonne del settentrione il corpo principale area perso ogni attinenza, tanto che non sapeva dove si aggirassero nò in che termini fossero. Il Duhesme in fatti da Pescara, dove rimase un debole presidio, avea mosso verso Chieti, mentre il Busca con un’altra colonna doveva risalire il fiume Pescara per dar la mano al Lemoiue. Se non che il Busca, continuamente contrariato dagli agguati, dalle offese, dagli assalti degli abruzzesi, perse uomini e carriaggi, e giunse a Popoli quando il suo compagno d’armi, dopo averlo aspettato alquanti giorni, ne era già partito per riunirsi di là da Sulmona all’esercito principale, il 2 di gennajo. Il 6 si trovava il Lemoine in Alife e Piedimonte; la cavalleria dello Championnet in Venafro; la linea del Volturno la guardavano il Macdonald da Cajazzo fino alla strada di Napoli, il Rey di là sino al mare; una piccola riserva era in Calvi.

Ma allora dietro le spalle dello Championnet scoppiarono le sommosse popolari. Cominciò Sessa appena sgombrata dai francesi, e appresso furono sossopra Teano, Itri, Castelforte, e Fondi sin verso San Germano. E cosi lo Championnet, che pareva tenesse bloccato il suo avversario, si trovò piuttosto lui stretto in un largo cerchio e come tra due fuochi. Le cattive novelle si succedevano senza posa. Qui quelle torme disperate distruggevano i ponti che il Bey, venendo di Gaeta, aveva gittati sul Garigliano; li assalivano un parco d’artiglieria francese e lo facevano saltare in aria; alle forze mandate contro di loro virilmente tenean testa, o attaccavano il nemico persino ne’ suoi proprj accampamenti, per modo che in tale impari lotta lo Championnet contava quasi 600 uomini perduti (45). Oltre di che, impediti i trasporti o presi dai ribelli, soprastava minacciosa la mancanza di viveri e munizioni; interrotte erano le comunicazioni con Boma, ed era anche da temere di peggio, se le colonne napoletane rimaste dietro i francesi, giovandosi delle angustiate condizioni del nemico, si avanzassero verso le terre che la ribellione agitava e questa con le loro forze raccolte e disciplinate rinvigorissero. La qual cosa si poteva sospettare di Roger Damas e di Diego Naselli. Quest'ultimo, cedendo finalmente alle rappresentazioni del Granduca ed ai rigorosi avvertimenti del ministro toscano, per l’appunto in quei giorni, fra il 31 di dicembre e il 3 di gennajo, avea sgombrato Livorno. Se non che né lui né il Damas aveano la minima idea di ciò che inaspettatamente su i patrj campi di battaglia avveniva, e stimarono fosse miglior consiglio il condurre le schiere loro direttamente alla metropoli.

E così il maggiore dei pericoli che minacciavano lo Championnet fu allontanato. Ma quelli che rimanevano erano pur nondimeno tali da dargli grave pensiero e metterlo in forse, se convenisse arditamente tener sodo, o piuttosto guadagnar tempo e, innanzi che fosse troppo tardi, ripassare il Garigliano. Prima di tutto si condusse verso Venafro per apparecchiar la strada alla divisione Duhesme. Ma questo generale si batteva nel cuore degli Abruzzi con le popolazioni armate, che andavan sempre crescendo di forze e di audacia. Aveano fra le altre cose ripreso valorosamente la città di Aquila, talché i francesi si dovettero chiudere nella fortezza col pericolo imminente di perire o per assalto o per fame. Più vicino verso Terra di Lavoro il distretto di Molise formicolava di bande armate; ivi la sommossa aveva un punto d’appoggio nella forte Isernia, che il Duhesme doveva prendere innanzi di avviarsi verso l’esercito principale.

Non era da maravigliare che i generali Damas e Naselli, lontani e tagliati fuori, non avessero punto notizia dello stato delle cose fra il Garigliano e il Volturno. Ma è impossibile che o non se ne avesse del pari nessuna notizia in Napoli, o che sulle persone cospicue ed autorevoli tanto la viltà e la spensieratezza dominassero che, invece di mettere a profitto, in favore della causa reale, le condizioni singolarmente difficili e pericolose del nemico, si figurassero di essere piuttosto essi in condizioni di tal fatta, e però facessero proposte, delle quali nessuno poteva essere più stupito di quello a cui erano rivolte.

È vero però che in questo mentre le cose avean preso in Napoli un minaccevole aspetto. La nuova milizia cittadina, fin da principio troppo scarsa, non bastava a tenere in freno gli animi, dalle alterne nuove ora per un verso ora per l’altro agitati. Al che s’aggiunse la discordia sempre più aspra fra il vicario generale e le commissioni municipali. Per liberarsi dell’incomodo viceré, una parte dei nobili, capitanati, come alcuni credono, dal principe di Canosa, ebbero l’idea di chiedere che un principe della linea spagnuola prendesse il posto del re fuggito. Uno spettacolo che in quei giorni si offerse agli occhi dei napoletani, fornì al partito la occasione desiderata di eccitare la opinione del pubblico contro il Pignatelli. Quando il re partì, le navi da guerra Partenope, Tancredi (che nel 1795 avea comandata il Caracciolo), Guiscardo, ciascuna di 74 cannoni, S. Giovacchino di 64, la fregata Pallade di 40, la corvetta Flora di 24, e alcune altre piccole navi da guerra, piuttosto che mandate a Messina, dovettero esser lasciate nel golfo di Napoli, perché degli ufficiali e degli equipaggi la massima parte aveva abbandonato il posto, e i rimasti eran tali da fidarsene poco. Ecco che a dì 8 di gennajo i cittadini scorgono fiamme che sembrano sorger dal mare, che lambiscono i larghi fianchi delle navi, che guadagnano il ponte, si fanno strada verso gli alberi, si attaccano alle antenne, alle vele, alle corde, fino a che tutta la squadra è in fuoco, e poi adagio adagio, consumata la lor preda, si estinguono o s’immergono nei flutti coi frammenti bruciati (46).

Nella metropoli, dove durava sempre incancellabile l’impressione dell'altro spettacolo del 28 di dicembre, la commozione per questa nuova opera di esterminio fu immensa, e i nobili seppero volgere al fine da essi desiderato lo scontento universale. In un’assemblea tempestosa, che si tenne in San Lorenzo Maggiore l'8 e 9 di gennajo, vinse il partito di chiedere la deposizione del Pignatelli. Il colpo fu grande pel po vero vicario generale che perse ogni prudenza, ogni assennata pacatezza. Gli occupò l’animo il timore che potesse rimetterci il capo; nello stesso modo che il Mack, suo compagno di sventura, non ostante parecchi buoni successi ottenuti nelle ultime battaglie, non aveva altro innanzi agli occhi se non la poca fede de' suoi ufficiali e soldati e il pericolo del tradimento.

E così mentre il supremo duce francese, vedendosi alle strette, pensava di rischiare in una gran battaglia la vittoria o la morte, il principe di Migliano e il duca di Gesso, deputati dal Pignatelli, si presentavano nel campo francese a fin di proporre la cessazione delle ostilità. Padroneggiando la sua impazienza, divenuta per l'appunto maggiore a cagione della recente novella che le schiere napoletane avean preso terra all’imboccatura del Garigliano, il francese si dette un’aria superba da vincitore, onde i due negoziatori napoletani furono percossi e sbigottiti. In tal modo fu fermato a Sparanise presso Calvi un armistizio di due mesi, dal quale i francesi senza impugnare la spada trassero i maggiori vantaggi: sgombro immediato di Capua; linea di separazione fra i due eserciti che, principiando dalle due imboccature del Lagno, a nord ovest di Napoli e passando per Benevento con una larga curva, faceva capo alle bocche dell’Ofanto all’oriente della Puglia; con che ai francesi eran concessi territorj dove nessuno dei soldati loro avea per anche messo piede, ed altri dove, serrati da tutte le parti, si trovavano a dover combattere con le popolazioni esasperato; oltre di ciò chiusi tutti i porti napoletani alla bandiera inglese, alla francese aperti; finalmente una indennità di guerra di 10,000,000 di tornesi, da esser pagati una metà il 15, l’altra il 25 di gennajo (47).

In questa guisa la causa reale fu tradita e venduta. Tale fu l’impressione del popolo napoletano, quando la mattina del 12 lesse con maraviglia e tristezza sulle cantonate l'annunzio. L’esercito ci rimise quel poco che gli restava di spirito militare. Quando il 1213 di gennajo senza trar colpo il Mack sgombrò la forte Capua che appena dieci giorni prima era stata così efficacemente difesa, i soldati a schiere si dispersero, di maniera che di 5000 uomini a mala pena mezzi ei ne condusse ad Aversa. Nello stesso tempo, a poche giornate di marcia verso il settentrione, aveva il Duhesme espugnato Isernia e fieramente punitala per avergli così ostinatamente resistito. Niente più s'opponeva alla riunione della colonna col corpo principale, e in fatti il giorno 14 s'incontrarono. Il supremo duce dei francesi pensava già seriamente ad avanzare su Napoli e già studiava i nuovi ordinamenti di governo che vi voleva introdurre. Nel suo campo si trovava, con altri fuggiti o cacciati che speravano adesso di ritornare in patria, Carlo Laubert, stato accanito cospiratore su i principj del decennio; a lui lo Championnet dette la presidenza della commissione che a quei nuovi ordinamenti doveva attendere.

Il Hack e il Pignatelli non ci si raccapezzavano. Che bisognava egli fare? Difendere la metropoli? Due battaglioni di svizzeri e altrettanti di albanesi, oltre a qualche centinajo di artiglieri, costituivano tutte le forze disponibili per proteggere così estesa città. Il Mack destinò la brigata Dillon a rinforzare il presidio; ma appressatasi essa a Capodichino, fu dai lazzaroni assalita che la disarmarono; i soldati inermi fuggirono o si confusero co' cittadini. Il Mack non attentandosi più di entrare in città, dove già si udivano minacce e grida: morte ai Tedeschi!» rimase al suo quartier generale a settentrione di Napoli sulla strada di Caserta. Forse così facendo secondava il vicario generale, il cui unico sforzo era di evitare ogni lotta. Quando il capitano Simeoni, in nome del presidio del castello Nuovo, domandò che cosa avesse a fare nel caso che il popolo attaccasse il forte, gli fu risposto che dovesse difendersi, ma senza far danno agli assalitori. «Non si deve dunque tirare?» «Sì, ma a polvere.» Allontanatosi il capitano, gli corse dietro il duca di Gesso, che in nome del Pignatelli gl’ingiunse assolutamente di non tirare.

Il 14 comparvero in Napoli ufficiali francesi; per vedere la città, e per andare al teatro, essi dissero; ma in verità per ricevere il giorno seguente, sotto la condotta del commissario Arcambal, la prima rata dell'indennità di guerra. Il Pignatelli fece chiamare i rappresentanti della città, e volle che mettessero insieme la somma occorrente gravando di una tassa i proprietarj di case e i commercianti; ed essendosi quelli rifiutati, egli dichiarò di lavarsene le mani. Intanto saputosi dal popolo perché i francesi eran venuti, furono a un tratto piene d’armati le strade; le grida: «Viva la Santa Fede! Viva San Gennaro!» s’ alternavano con le altre: «Morte ai francesi, ai giacobini, al Mack, al Pignatelli!» Verso sera il popolo accorse al S. Carlo, supponendo che vi fosse l’Arcambal; irruppe nel teatro con tale impeto e violenza che molti spettatori vi rimisero la vita; fu rapidamente calato il sipario; l’Arcambal fuggì nel palazzo reale, per un corridojo che fa comunicare i due edificj. Mentre alcuni savj cittadini procuravano di trarre, col favor della notte, fuori della città il commissario e i suoi compagni, innanzi ai palazzi de' due negoziatori dell'armistizio si formavano minacciosi assembramenti; su tutte le piazze principali si aggruppavano armati; dove appariva un drappello di milizia urbana, il popolo l’assaliva e gli toglieva le armi.

Il giorno appresso, un’onda di popolo sempre crescente accorse al castello Nuovo, s’impadronì della porta esterna, occupò il ponte levatojo, fece alzare la bandiera reale, chiese armi e polvere. Aperte dai cacciatori del reggimento Sannio le entrate, il popolo irruppe dentro, cacciò via gli ufficiali e si fece padrone del forte. Il simile accadde a S. Elmo, al Carmine, al castel dell'Uovo, al grande arsenale, non opponendo in nessun luogo i soldati seria resistenza. Intanto, vedendo giunger nel golfo la nave che riconduceva il Naselli da Livorno, i popolani messisi in barche a quella si appressarono, si fecero dai soldati consegnare le munizioni, s’impadronirono infine anco della fregata e vollero per forza che s’accostasse al molo. D’armi e munizioni erano ormai le infime classi sovrabbondantemente provviste; talché, quando l’ira loro o all'interno o contro gli esterni nemici scoppiasse, c’era da temere estreme calamità. Il lazzarone non si fidava più di nessuno, né del vicario, né dei nobili, né dei generali, né dei soldati; tutti li sospettava traditori, tutti segretamente di balla co’ francesi. Il consiglio di città, i cui membri nobili avean creduto trarre il Pignatelli nella rete, vi si trovò impigliato esso medesimo e cessò le adunanze. Il cardinale arcivescovo Capece Zurlo s’industriò d’indurre la moltitudine a deporre le armi e a riprendere le pacifiche faccende; ma il suo tentativo fallì del tutto.

Lo stesso giorno verso sera uno stuolo di gente armata mosse verso Casoria per togliere al Mack il comando; ma questi, avvisato in tempo, riparò a Caivano presso Acerra, e di là il di seguente (16 di gennajo) si condusse travestito al campo dello Championnet che onorevolmente lo accolse. Egli aveva all'ultimo momento commesso il supremo comando nelle mani del duca di Salandra; al quale toccò a pagare la pena per lui. Volendo in fatti, accompagnato dal colonnello Parisi e altri ufficiali, recarsi al campo, s’imbattè fra Caivano e Casoria in un drappello di cittadini che, pigliandolo forse pel Mack, gli si scagliarono addosso, lo ferirono nel capo, gli ruppero un braccio, e fu gran fortuna ch'e’ne campasse la vita. Allora né anche il vicario generale stimandosi più sicuro, fece chetamente portare a bordo una somma di 4000 ducati confidatagli dal tesorier generale Taccone e, abbandonando la città e il regno al loro destino, nella notte fra il 16 e il 17, indossate le vesti di sua moglie, si mise in salvo.

In tal frangente, mentre tanto minaccioso il disordine soprastava, seppero alcuni delle classi superiori, parte con la persuasione, parte, come altri ha detto (48), con la corruzione, indurre il popolo a scegliersi un capo fra i nobili. Il principe di Moliterno fu in tal maniera nominato generale e duce supremo; gli eletti gli misero compagno al fianco Lucio Roccaromana; e poiché anche il comando dei forti fu affidato a quattro nobili, avvenne così che la nobiltà avesse i più importanti ufficj e quindi tutto il potere nelle mani (49). E sul principio la cosa andò bene. La gente facea chiasso per le strade, tirava fucilate in aria, si compiaceva di far pompa delle armi carpite, ma senza recar danno a nessuno; giravano per la città pattuglie di lazzaroni, che avevano un contegno tranquillo e conveniente (50).

Ma presto le cose mutarono aspetto. Una lettera, diretta da Giuseppe Zurlo al Mack, nella quale si leggeva il nome dello Championnet, cadde la mattina del 17 in cattive mani; e tosto si levarono voci che volevano far giustizia sommaria del direttor di finanza traditore. Il duca di S. Valentino, amato dal popolo, calmò gli agitati spiriti dogli schiamazzatori, proponendo che si conducesse l'accusato nel castello del Carmine e ivi si giudicasse. E cosi avvenne. Lo Zurlo fu preso e non senza gravi maltrattamenti trascinato al castello, mentre altra gente, assaltata la sua casa, la saccheggiava e devastava. Anche i colonnelli Bardella, Bologna e Beaumont furono dal popolo tratti innanzi al tribunale; i due primi rimessi in libertà, il terzo mandato a Castellammare (51). Non c’era più sicurezza per le persone. Chi era notato come giacobino nei registri della polizia, nei quali ogni popolano poteva oramai cacciare il naso, gli ufficiali che aveano abbandonato le bandiere, infine tutti i possidenti, si videro fatti bersaglio di una moltitudine avida di vendetta e di preda, e desiderarono in cuor loro la venuta dei francesi che soli potevano proteggerli (52).

Il Moliterno riconobbe la necessità di adoperare gravi espedienti. Intimò alle moltitudini che deponessero le armi, e in gran parte l’ottenne; sulle principali piazze della città fece rizzar forche ad ammaestramento dei malfattori e riottosi. Nello stesso tempo volle provvedere alla esterna sicurezza di Napoli. Una deputazione cittadina, nella quale era il principe di Canosa, si recò al quartier generale nemico, per proporre che si manterrebbe l’armistizio se i francesi cessassero dall’avanzarsi verso la città. Ma lo Championnet, che si sentiva oramai forte abbastanza, respinse la proposta, dichiarò rotto l’armistizio, e beffardo soggiunse: «Son forse i napoletani i vincitori, e i francesi i vinti?»

Il 18 sul far della sera si diffuse per la città la voce che s’era tentato di trattare col nemico, che le pratiche eran fallite, che lo Championnet voleva marciare su Napoli. Allora scoppiò daccapo lo sdegno popolare e più sfrenato che mai. Il Moliterno e il Roccaromana furon chiamati traditori e indegni che più a lungo si prestasse loro fede e obbedienza. Persone dell'infima plebe si buttarono sulle forche e le abbatterono; altri corsero ai luoghi dove nei giorni precedenti avean deposto le sciabole e i fucili, e si armarono di nuovo; altri finalmente presero dei cannoni e li trascinarono a Poggioreale, a Capodichino, al ponte della Maddalena. Soldati dei reggimenti dispersi; bassi ufficiali del corpo Naselli, capi dei camiciotti, divennero i conduttori. Un mercante di farina, di nome Paggio, e il figliuolo di un trattore, detto Michele il Pazzo, furono acclamati generali. Tutte le selvagge passioni presero il sopravvento; preti fanatici e frati col crocifisso in mano accendevano gli animi alla vendetta contro i francesi, alla distruzione degli eretici, e benedicevano le armi che il popolo divotamente presentava loro. Ricominciò la caccia ai giacobini. Chiunque portasse un abito di nuova foggia o i capelli corti correva pericolo di esser preso per amico e alleato dei francesi: cosi che molti poveramente si vestivano, un po’ per propria sicurezza, un po’ per mescolarsi ai lazzaroni, scoprirne i disegni e giovarsene. Fra le altre cose essi persuasero il popolo a liberare i prigionieri politici. Ma in tal modo anco le celle di molti comuni malfattori si aprirono, i galeotti ruppero le catene, e, cresciuta cosi con grave pericolo la popolazione, salì a 40,000 il numero di quelli che portavano armi.

Accadde allora che un servitore del duca della Torre si lasciò inconsideratamente uscir di bocca che il suo padrone avea ricevuto lettere del generale Championnet (53) e preparava per lui un sontuoso convito. Vi fu subito gente che andò ad assaltare il palazzo del duca; il suo appartamento, ricco di preziose collezioni, di libri, di strumenti fisici, d’incisioni, di quadri, saccheggiarono e dettero alle fiamme. Il duca stesso strapparono dalle braccia della vecchia madre che invano piangeva e supplicava per lui; presero anche il secondogenito, Clemente Filomarino, uomo non meno dell'altro stimato e colto, e trascinatili entrambi nella strada della Marina, sopra un rogo prestamente messo insieme vivi li bruciarono. Oramai l’angoscia e il terrore s’insignorirono della miglior parte della società. Il campo dello Championnet formicolava di messi mandatigli dai proprietarj, dai nobili, dagli eletti della città per pregarlo che non indugiasse l’entrata, assicurandolo che poteva fare assegnamento sulla cooperazione di tutti i migliori cittadini. Il generale francese volle che in malleveria di siffatta assicurazione fosse messo in suo potere il forte Sant’Elmo, e a tal domanda per parte dei nobili fu consentito (54). Un certo numero di patriotti che solevano ritrovarsi in casa Niccola Fasulo, formarono fra loro un comitato centrale (55), che seppe tirare alle proprie opinioni il Moliterno e il Roccaromana. Si trattava innanzi tutto di sedare il furor popolare. Il cardinale arcivescovo fece portare solennemente in giro il capo e il sangue del santo protettore fino alla statua di lui sul ponte della Maddalena, dove i preti gridarono le parole di S. Giovanni Battista: «Poenitentiam agite, facite fructus dignos poenitentiae!» Il Moliterno, in vesti da penitente, con capelli sciolti, scalzo, accompagnò la processione, che, percorse le strade principali, tornò finalmente verso la mezza notte in Duomo. Ivi egli si fece avanti; sospirando e piangendo arringò la moltitudine; deplorò l’infortunio che colpiva la città confortò ad aver fede nella protezione del Santo, che. non ne concederebbe ai francesi la signoria; volle che in nome di S. Gennaro si giurasse di perseverare nella causa della patria, e primo egli prestò tal giuramento che fu con entusiasmo dalla folla ripetuto. Ma nello stesso tempo esortò che tutti per quel giorno tornassero pacificamente alle case loro, in seno delle loro famiglie; sperava il di seguente trovarli radunati al palazzo municipale in S. Lorenzo. Ciò accadde dal 19 al 20 di gennajo (56).

Poiché lo Championnet ebbe fatto venire la divisione Duhesme, Napoli si trovò chiusa in un gran cerchio da Capua ed Aversa fino a Sarno. Una colonna sotto gli ordini del colonnello Broussier marciando per i passi caudini, dove le truppe reali, senza trar profitto del luogo, presero la fuga, avanzò verso Benevento che senza resistere le aprì le porte. Dietro le spalle della linea principale francese il general Rey ebbe l’incarico di disperdere le milizie lungo il Garigliano inferiore, di sottomettere novamente Castelforte, Traetto, Itri, e ripristinare le comunicazioni col territorio romano.

Le divisioni Macdonald, Lemoine e Duhesme si accostavano sempre più alla città. Il Broussier ebbe ordine di tornare, dopo la presa di Benevento, al fianco sinistro del Duhesme che stava presso il Vesuvio. Ed egli partì carico di tesori predati per la più parte alle chiese. Ma quelle stesse gole caudine, che pochi giorni innanzi una codarda soldatesca aveva abbandonate al nemico, erano intanto state occupate dalle squadre de' contafi ini, desiderosi di dare al duce francese la stessa lezione che più di duemila anni prima i padri loro avean data ai consoli Tito Venturi© e Spurio Postumio. In numero di 4,000 perseguitarono, impedirono e molestarono in mille modi il nemico; fino a che il 20 di gennajo non venne fatto al Broussier di fermarli presso Campizze e, dopo averne messi fuori di combattimento 470, disperderli e fugarli.

Nello stesso tempo vi fu anche su altri punti presso Napoli accanito combattimento. Non appena i capi del popolo conobbero i movimenti dei francesi, chiamarono le loro genti all'arme; dai forti tonò il cannone, su tutti i campanili della città e dei dintorni sonarono a stormo le campane per eccitare il popolo a combattere il nemico che si avanzava. Una grossa schiera di lazzaroni uscì con alquanti cannoni dalla città, assalì un posto francese presso i Ponti rossi, corse ad Aversa, passò il Lagno per andar contro Capua; ma il generale Poitou accorso in fretta gli attaccò così risolutamente che, abbandonati i cannoni, tornarono fuggendo in città.

La sera dello stesso giorno i patriotti di Napoli tentarono di mantener la promessa che avevan data al general francese. Una colonna sotto la cqudotta del cavaliere’ di S. Giovanni Frane. Grimaldi si ragunò sulla piazza Madonna dei sette Dolori e si avvicinò verso le 11 pomeridiane a Sant’Elmo; ma sbagliarono la parola gridando «Napoli» invece di «Partenope» per modo che furono accolti a colpi di fucile e anche di cannone. L’impresa pel momento fallì; bisognava con altro disegno e con maggior prudenza rinnovarla. Nelle prime ore del 21 una mano di patriotti fra cui Vincenzo Pignatelli di Strangoli, Vincenzo e Giuseppe Riario di Corleto, Leopoldo Poerio, Vincenzo Pignatelli di Marsico, si presentò innanzi la porta del castello, la quale dal comandante Niccolino Caracciolo di Roccaromana, che era d’intesa, fu loro aperta sotto colore che venissero a rinforzare il presidio. Luigi Brandi, ardito condottiero di 130 popolani armati, prese ombra. Ma il capitano Simeoni seppe con un pretesto mandarlo a fare una ricognizione, e intanto mise i patriotti e la gente loro nei punti più importanti del forte. Richiamato il Brandi allora dalla sua ronda, come se gli si volesse fare una comunicazione di fiducia, fu per ordine del Simeoni preso, bendato, messo in ceppi e mandato via. Della sua schiera parte fu rimandata a casa, parte dovè obbedire. Altri patriotti furono via via lasciati entrare nel castello, che in breve con tutte le sue opere, armi, cannoni e provviste d’ogni maniera fu iù piena loro balìa,, pronto ad esser ceduto ai francesi. Su proposta del Simeoni fu a questo fine formata una bandiera tricolore con una striscia bianca dell'antica bandiera, aggiuntovi un lembo di mantello turchino e un pezzo di divisa rossa, perché al momento decisivo potesse essere inalzata come segno di alleanza (57).

Si ebbe anco previdente cura di apparecchiar la città a quello che stava per succedere. Tra i prigioni del castello, liberati dai patriota, si trovava Giuseppe Logoteta, quel cospiratore di Reggio che il consiglier Di Fiore avea fatto prendere e mettere in custodia; egli profittò della riacquistata libertà per raccogliere compagni e con l’ajuto loro introdursi nel governo. Nelle ultime ore si era formato in Napoli un comitato col proposito di mantenere in certo modo l’ordine e la sicurezza nell’agitata città; ne facevano parte il principe di Canosa, il duca di Castelluccio, Ottaviano Caracciolo Cincelli, Michele Picenna, Gennaro Presti. A quel comitato i nuovi padroni di castel Sant'Elmo indirizzarono uno scritto, nel quale li chiamavano sindacabili di qualunque nuovo eccesso popolare, dichiarando che, se questo accadesse, si bombarderebbe la città e così si faciliterebbe allo Championnet l’entrata. Nella risposta che il Canosa e i compagni suoi mandarono il 21 di gennajo al castello, dovettero riconoscersi impotenti a trattenere una moltitudine di 40,000 armati, e diedero così tacitamente a intendere che conferivano ai patriotti di Sant’Elmo pieno potere di fare al momento definitivo quel che loro sembrasse opportuno.

IV

VITTORIA DEI «PATRIOTTI» SOPRA I PATRIOTTI

Coloro che avean chiamato lo straniero e, dopo avergli apparecchiata la via, erano ora in procinto di aprirgli le porte di Napoli, si davano da sé medesimi, e volevano che i francesi lor dessero, il nome di patriota. Ma quelli che si sollevavano per difendere con la propria vita la patria loro, la metropoli e il focolare domestico dall’irrompente nemico, quelli erano i veri patriotti. Tale è il riscontro fra patriotti e patriotti.

Il 21 di gennajo 1199 il supremo duce francese mosse dal suo accampamento. Era una domenica, e forse lo Championnet aveva a bella posta scelto un tal giorno, nel quale poteva supporre che i napoletani bigotti fossero più in visitar le chiese e in recitare il rosario che nelle faccende mondane occupati (58). La marcia avvenne da due parti: il general Dufresse andò da Aversa per Melito verso Capodimonte, di dove potea porgere la mano ai patriotti di Sant'Elmo; il general Duhesme da un lato per Capodichino, da un altro per Poggioreale verso Porta Capuana. Sembra che il primo giungesse al fine senza incontrare gravi ostacoli; all’altro invece toccarono ostinati combattimenti. Già il possesso di Capodichino e di Poggioreale dovette essere con la forza acquistato; né senza molte e gravi perdite potè occupare la piazza di Porta Capuana, alla cui difesa la popolazione di Napoli atta alle armi era accorsa con tutte le sue forze. Un battaglione di svizzeri e 2000 lazzaroni con 12 cannoni resistettero a tutti gli assalti che diedero, l’uno dopo l’altro e con grande accanimento, il capitano Ordonneau e il capo di stato maggior generale Thiébaut. Già uno dei generali francesi era ferito, già eran caduti parecchi ufficiali; uno di questi ultimi rimase in mano del popolo che, staccato il capo dal cadavere e messolo in cima a un palo, lo portò intorno in trionfo. I francesi ricorsero allora all’astuzia; simulando la fuga trassero i camiciotti fuori della lor forte posizione, e poi si voltarono a un tratto, mentre drappelli di granatieri e cacciatori improvvisamente irrompevano da un lato. Né nacque lo scompiglio nelle file dei cittadini che disordinatamente si volsero a precipitosa fuga; i francesi presero i cannoni, e con quelli si cacciaron dentro per quella stessa porta, per la quale aveano innanzi così sanguinosamente e inutilmente combattuto (59). Intanto il Broussier era anche lui dal lato di Benevento arrivato presso Ottajano, dove, incontrata una parte dell'esercito popolano, la ricacciò dalle falde del Vesuvio al ponte della Maddalena.

E così la sera di quel giorno tempestoso il duce francese aveva ottenuto grandi vantaggi, senza avere per altro abbattuto la forza e il coraggio degli oppositori. I quali, stretti in più piccolo spazio, più risoluti si fermarono in certi punti principali, al ponte della Maddalena, ai castelli Nuovo, dell’Uovo e del Carmine, al palazzo reale, al Reclusorio sulla strada di Capodichino, e in altri grandi e forti edificj. Il Dufresse si era, come abbiam detto, nel corso del dì 21 impossessato di Capodimonte, ma non aveva ancora stabilito la comunicazione con Sant’Elmo; per modo che i patriotti gli mandarono ufficiali travestiti da contadini per pregarlo di rinnovare dai Ponti rossi l’assalto che essi dalle mura del forte appoggerebbero. Poiché più che mai temevano la vittoria del popolo, nell’animo del quale con l’odio contro i francesi era anche cresciuto il furore contro i nativi che gli avean favoriti. La più parte dei patriotti e 1 più cospicui essendo nascosti fra le mura di Sant’Elmo, l’ira popolare si volse contro altri che forse non ci avean mai avuto che vedere; furon fatte perquisizioni domiciliari; veri o supposti giacobini furono fucilati, uccisi a furia di sassate, o buttati giù dalle finestre. Bra severamente ordinato che tutti gli usci rimanessero aperti. Trovando chiuso il palazzo della legazione imperiale, il popolo tentò di abbatterne la porta: il baron Crescer! dovette col danaro calmar gli assalitori.

Il 22 cominciò su due punti la battaglia; presso il ponte della Maddalena attaccarono i francesi, a Capodimonte i napoletani. Difendevano il ponte 1500 camiciotti e un battaglione di albanesi con 6 pezzi da campagna; ed erano appoggiati dai cannoni del castello del Carmine. Gli assalì dal lato del Vesuvio il Broussier, che dopo quasi sei ore di ostinata e sanguinosa zuffa si fece padrone di quella importante chiave della città.

La battaglia a Capodimonte fu combattuta dai napoletani in mezzo a due fuochi, poiché non tiravano solamente su loro i francesi, ma anche di dietro i patriotti da Sant’Elmo. Tuttavia resistettero fino a che fu mandata dallo Championnet una forte colonna comandata dal Kellermann e guidata da Vincenzo Pignatelli Strongoli, alla quale dopo un’aspra lotta riuscì di stabilire la comunicazione col castello. Una schiera di francesi sotto gli ordini del Girardon entrata nella fortezza, ebbe dai patriotti capitanati dal Moliterno e dal Roccaromana, festosa accoglienza. Alzata la bandiera tricolore, salve di artiglieria salutarono; sulla piazza del forte fu rizzato i! primo albero di libertà, proclamata la «repubblica indivisibile» e solennemente giurato di difenderla col sangue e con la vita.

Una deputazione di patriotti portò al supremo duce francese lo chiavi del castello.

L’ingresso dei francesi in Sant’Elmo, e la comunicazione cosi stabilita fra quel castello a cavaliere della città e l’esercito principale dei francesi stessi fu l’avvenimento più rilevante della giornata. I napoletani dovettero cessar l’attacco di Capodimonte e retrocedere nell’interno della città. Già lo Championnet credette di aver raggiunto il suo fine, e mandò un messo ai lazzaroni, che a fin di por termine allo spargimento di sangue proponesse un accordo; ma non riuscì al parlamentario di poter parlare; fu respinto a fucilate, e la battaglia ricominciò. Il Kellermann cercò di trar vantaggio da tutti i lati. Occupò il convento delle Alcantarine a Santa Lucia del Monte, situato sotto il castello, e fece scendere una schiera di francesi e patriota; i quali, avanzatisi fino al largo delle Pigne, dettero 11 la mano al Rusca che veniva allo stesso luogo da porta Capuana. I napoletani, che avean fatto del palazzo Solimene il lor punto d’appoggio, offrirono vigorosa resistenza; né di quivi sgombrarono prima che il Rusca appiccasse fuoco all’edificio. Meno felici furono due altre colonne, anche di francesi e patriota, mandate parimente da Sant’Elmo; delle quali l’una doveva per la via dei Sette Dolori e la Pignasecca farsi strada verso Toledo, l’altra per S. Carlo alle Mortelle e il Ponte di Chiaja verso il palazzo reale; ma entrambe dopo gravi perdite furon costrette a tornare addietro.

E così nel corso del 22 i francesi avean fatto senza dubbio importanti progressi, e i camiciotti erano ristretti in uno spazio assai più angusto di quello del giorno innanzi; ma non per questo sbigottiti, anzi più sdegnati che mai, vedendo che i patriota, prese apertamente le parti del nemico, faceano con questo causa comune contro di loro. Anche gli studenti di medicina aveano dallo spedale degl’Incurabili appoggiato i francesi nelle zuffe sul largo delle Pigne; e da alcune case private era stato tirato sul popolo combattente; il che accese il desiderio di vendetta negli animi dei popolani e a crudelissimi atti li spinse. Donne del popolo tempestavano per le strade, mettean fuoco alle case dei giacobini e le saccheggiavano. Si narrò che moltitudine inferocita, come avea fatto co’ fratelli Filomarino pochi giorni innanzi, ardesse vive alcune persone e ne divorasse le carni, fe chiaro che in mezzo a tali atrocità non apparisse dall'altra parte scampo se non nei francesi, e che i patriotti facessero, unendosi a questi, ogni sforzo per domare i temuti camiciotti; né la conquista della ribelle città sarebbe stata forse possibile ai francesi senza la zelante cooperazione degli interni nemici della dinastia, o almeno non sarebbe stata cosi presto e così interamente compiuta (60). Essi accomunavano già la loro causa con quella dei precursori della libertà francese. Già nel corso del 22 di gennajo Giuseppe Logoteta stese un decreto composto di undici articoli, nel quale si dichiarava il trono di Napoli vacante, si proclamava la repubblica sui fondamenti della libertà e dell'uguaglianza, e si fissavano i principj di un governo nuovo. Il Moliterno e il Boccaromana sottoscrissero quel decreto, che portava la data: «Nel primo giorno del primo anno della libertà napoletana» (61).

Lo Champion net prese la sera del 22 le disposizioni per dar l'attacco il domani. Ancora si trovava il popolo in possesso della strada di Toledo, grande arteria della vita cittadina, dei tre castelli del Carmine, Nuovo e dell’Uovo, del quartiere di Pizzofalcone presso quest’ultimo, del palazzo reale e della Darsena presso il secondo, senza contare molti altri punti forti nel laberinto di strade interne. I corpi delle divisioni Dufresse e Duhesme ebbero le loro diverse destinazioni; un colpo di cannone tirato da Sant’Elmo doveva dare il segnale, a cui terrebbe dietro da tutti i lati contemporaneamente l’attacco. Furono distribuite fra i soldati fiaccole incendiarie, e ingiunto loro di non dar quartiere, di fucilare senz’altro chiunque fosse preso con le armi alla mano. Il generale in capo si alloggiò al largo delle Pigne.

E così giunse il giorno 23 di gennajo 1799, nel quale doveva compirsi il destino di Napoli e di quella casa regnante. Dal ponte della Maddalena avanzò il Broussier verso il castello del Carmine, mentre il Kellermann, scendendo da Santa Lucia del Monte, e il Girardon a capo del presidio di S. Elmo cercavano di guadagnare la via di Toledo per giungere di li agli altri castelli e al palazzo reale. Dopo una breve zuffa il Carmine fu espugnato; due ufficiali dei camiciotti furono per ordine del Broussier fucilati; per contrario al direttore di finanza Zurlo, imprigionato nei di precedenti, sonò Torà della libertà. Più tardi fu tolta ai lazzaroni Porta Nolana, per modo che nelle ore pomeridiane tutta la parte orientale di Napoli era in poter dei francesi.

Nei quartieri non ancora conquistati da loro e dai patriotti duravano gli orrori della guerra civile. Che era mai divenuta quella città lieta e smagliante di sole e di gioja, nido dei gaj giuochi e del dolce far niente, tanto atta ad allettare da tutte le contrade d'Europa i ricchi stranieri desiderosi di godimenti! Da due lunghi e angosciosi giorni era un sonar di campane a stormo, scoppiar di fucilate, tonar di cannoni, clamoroso infuriar di combattenti, pietoso gemere di feriti, e per tutto vapore, fumo ed incendj! «Non si sente altro che lamenti,» scriveva con ragione la regina, «tanto più che son cose tanto nuove per questo paese.» Anche chi non prendeva parte alla lotta correva pericolo di vita, arrischiandosi per le strade o alla finestra; poiché quando i ribelli occupavano le case, specialmente i conventi, pigliavano di mira dall'alto tutti quelli che si lasciavan vedere di sotto; ed essendo per le strade, tiravano alle finestre delle case dove supponevano che si trovassero francesi. «Regnava,» come scrive Filippo Hackert, «la più compiuta anarchia che si possa immaginare; uccisioni a tutti i momenti e da per tutto. A chiunque s’affacciava alla finestra poteva toccare una palla.» Secondo che i terrori del dominio della plebe crescevano, cresceva pure il numero degli amici dei francesi; e tutti quelli che appartenevano ai ceti benestanti contavano le ore, i minuti che l’ingresso dei francesi da tanta ansietà li liberasse (62). La qual cosa del resto non poteva più tardare a lungo. Il Kellermann cacciò da un luogo all’altro fino al largo del Castello il capopopolo Paggio ch’era alla testa di alcune centinaja di albanesi e di artiglieri di marina. Il general Rusca avanzò combattendo dagli Studj al largo del Mercatello verso porta Sciuscella, dove Michele il Pazzo accanitamente si difese, sino a che, arrischiatosi tropp’oltre, fu preso prigione. Verso mezzogiorno il Kellermann stava innanzi al palazzo reale, di cui come di ultimo riparo si serviva il Paggio.

Ma presto si avvertirono le conseguenze della cattura di un capo influente qual era Michele il Pazzo. Lo Championnet, innanzi al quale fu condotto, lo trattò con riguardo, gli fece notare l’inutilità di più lunga resistenza, lo rassicurò intorno agl’intendimenti de' suoi soldati; non sarebbe fatto male a nessuno, si rispetterebbe la religione, sarebbero tenuti in altissimo onore i Santi protettori di Napoli; insomma seppe così efficacemente parlare che quel semplice popolano proruppe alla fine in un «Viva la Repubblica, vivano 1 francesi, viva San Gennaro!» e promise di adoperarsi a tutt’uomo per far chetare i suoi. Una nuova singoiar circostanza venne a proposito pei francesi. Una cannonata dei giacobini spezzò la stanga della bandiera napoletana sul castello Nuovo, il che ai superstiziosi parve segno che la resistenza fosse inutile. Il Paggio sgombrò il palazzo reale, su’cui tetti fu senza indugio inalberata la bandiera tricolore. Alcuni dei camiciotti cominciarono a dar sacco, e l’esempio trovò presto imitatori; ognuno in quell’ultimo momento di trambusto cercò di agguantare quel che gli veniva alle mani. Un drappello, avido di bottino, si slanciò sul convento delle monache di San Gaudioso, dove parecchi ricchi aveano portato i loro oggetti di valore, e dopo averlo saccheggiato vi appiccarono il fuoco. Al palazzo reale furono in poche ore votate e denudate tutte le stanze, e portato via persino il piombo delle finestre; una cannonata di Sant’Elmo colpì un abate e un contadino, e allora i saccheggiatori fuggirono. Così anco il palazzo di Francavilla, dove, al dire dei lazzeroni, la regina avea riposto molte galanterie, fu salvato dal saccheggio; i fratelli Hackert, che vi abitavano, avean già messo insieme i migliori oggetti per riparare al casino del Vomero passando dal giardino, quando a un tratto la sedizione cessò (63).

Alle 4 di sera il generale Championnet fece la sua entrata nel centro della città, deserta in molti luoghi e desolata per le recenti lotte, e piena di cadaveri di francesi, di patriotti e di camiciotti, che non si era potuto ancora scegliere e trasportar via dalle strade. Egli cavalcava innanzi a una parte della cavalleria, circondato da uno splendido stato maggiore e accompagnato da una gran quantità di cittadini, fra i quali spiccavano Michele il Pazzo e il giovane avvocato Giuseppe Poerio. La folla dalle strade e dalle case applaudiva i francesi e il generale supremo (64), mentre Michele le gridava senza posa: «Viva S. Gennaro! viva la libertà!» e la assicurava che il santo patrono sarebbe tenuto in grande onore. Lo Championnet si volse verso Capodimonte, dove pose il suo quartier generale.

Il Moliterno, il Roccaromana e gli altri patriotti di Sant’Elmo mandarono al cittadino Championnet un indirizzo — «il secondo giorno del primo anno della Repubblica napoletana» — nel quale lo chiamavano lor difensore contro l’arbitrio e la tirannia della corte, massimamente della «furibonda regina,» e giuravano al potere reale «eterno e implacabile odio,» esortavano i concittadini a considerare l’esercito francese come liberatore, ad abbandonare al generale di esso, unito ai patriota, la cura di mantenere la tranquillità e la sicurezza, e a tornarsene alle loro ordinarie faccende. Il generale dal canto suo salutò i napoletani come un popolo oramai libero, e gli assicurò non desiderare altro la Francia se non la gloria di aver loro apportato tal dono. Dette a' suoi soldati il titolo di «esercito napoletano,» e commise loro il sacro dovere di «morire per la causa della libertà, e di non adoperare altrimenti le armi che per conservare l’indipendenza loro.» Assicurò agli abitanti della città vita ed averi, a patto che deponessero le armi e nel castello Nuovo le consegnassero; promise pace ed oblìo del passato. Ma guai a chi non si acconciasse al nuovo ordine di cose! La casa da cui partisse un colpo sarebbe bruciata, e quanto vi si trovasse dentro vivente messo a morte! In un giorno solo in fatti fece lo Championnet fucilare sette lazzaroni. Anche al cardinale arcivescovo egli diresse uno scritto; lo pregò di tenere aperte tutte le chiese, e di esporre il Santissimo; a S. Gennaro destinò una guardia d’onore (65).

Grande fu la gioja dei patriotti pel mutamento così lungamente desiderato, alte le lor voci di giubilo, vive le loro effusioni di cuore. Persone che non si conoscevano, scontrandosi per istrada, si abbracciavano e rallegravano a vicenda dei superati affanni e dei terrori svaniti. Sulle pubbliche piazze furon piantati gli alberi della libertà; e sotto di quelli collocandosi ardenti giovanotti convocavano il popolo, al quale con accese parole dipingevano i giorni futuri come una nuova été dell’oro; faceano giuramenti di fedeltà eterna, e invitavano gli altri a tenersi costantemente stretti alla causa della libertà. Gridando e schiamazzando accorrevano popolani i quali, facendo cerchio intorno all’albero, tessevano danze che con l’inoltrarsi della notte divenivano sempre più matte e sfrenate, mentre mille lumi dalle case rischiaravan le strade, e il Vesuvio, da parecchi anni tranquillo e come spento, col pacato splendore della sua colonna di fuoco diradava intorno intorno le tenebre.

Gli ufficiali del municipio profittarono della ripristinata tranquillità per far togliere i cadaveri, a fin che il sole sorgente non illuminasse altro che una scena gioconda.

***

Nei primi giorni dopo l’entrata dei francesi parve che tutte le ire e discordie fossero bandite, e che veramente, come gli accesi aderenti della libertà francese annunziavano, dovesse cominciare un nuovo tempo di universal gioja e contentezza, di felicità e benessere universale. Lo Championnet, col suo prudente procedere verso Michele il Pazzo, che poco dopo egli nominò colonnello, della qual cosa tutti i lazzaroni andarono superbi, e col riguardo che ebbe verso le opinioni e le indicazioni del popolo, voltò a un tratto gli eccitabili napoletani di aspri nemici in caldi partigiani e ammiratori. Quand’egli, alla testa d'uno splendido corteggio, comparve in Duomo per far omaggio al Santo nazionale; quando il miracolo, con maraviglia di tutti, si compì davanti agli occhi suoi più presto che non avesse mai fatto; quando poi, in ringraziamento delle propizie disposizioni di S. Gennaro, gli portò l’offerta d’una mitra riccamente adorna d’oro e di gemme, si sparse rapida la novella di queste cose per tutti i canti della città, e le intime classi non rifinirono di lodare e benedire colui che poco innanzi avevano esecrato e maledetto. «Tre giorni dopo l’entrata dei francesi in Napoli,» è detto nel Goethe-Hackert, «i lazzaroni parevano mutati in agnelli.»

Gli animi delle classi superiori erano in gran parte favorevoli ai francesi, dai quali riconoscevano la facoltà di sentirsi novamente sicuri, di poter liberamente respirare in pace. Oltre di che molti della migliore società di Napoli i quali, pieni delle idee medesime, avean da lunghi anni sospirato fra le strette d'un diffidente e arbitrario sistema di polizia e sopportato d’ogni maniera persecuzioni e angherie, vedevano ora sodisfatti ed orgogliosi, benché con armi straniere ottenuto, il trionfo di quella causa a cui fra tribolazioni e travagli avean lungamente cooperato. Guglielmo Pepe, allora quindicenne, non dimenticò più per tutta la vita il sentimento che provò in quei giorni proferendo per la prima volta impunemente le parole: «libertà» ed «uguaglianza,» e sentendo, secondo il nuovo costume, la gente chiamarsi a vicenda col nome di «cittadini» (66). E che gioja doveva essere il potere, sotto la protezione delle bajonette francesi, sfogarsi a piacimento contro il «caduto dispotismo,» contro il «tiranno» vilmente fuggito in Sicilia, contro quell’intrigante, quell’intrattabile «megera» di Maria Carolina; giurare odio eterno ed implacabile al regio potere, abolendo per sempre la monarchia con tutte le sue dipendenze. La reggia fu ribattezzata palazzo nazionale; a tutti i soldati, appartenuti all’esercito del tiranno, fu ingiunto di svestir la divisa, di consegnar le invise bandiere, e prendere invece le insegne con i colori e le immagini della Repubblica: «La rigenerazione lo esige, e la Repubblica non soffre di più vedere si odiose insegne.» Fa ordinato che dai pubblici uffici si togllessero le armi e le cifre reali; si sostituissero a quelle i colori napoletani turchino, giallo e rosso; negli scritti ufficiali si tralasciassero tutte le parole e frasi che rammentavano il caduto sistema, e invece si adoperassero le repubblicane, e soprattutto le due parole d’ordine: Libertà, Uguaglianza (67).

Poiché con l’entrata dei francesi doveva anche sorgere la repubblica. Fin dal 22 e 23 di gennajo i patriotti di Sant'Elmo apponevano, come abbiamo visto, a' loro scritti la data secondo i giorni della Libertà, della Repubblica napoletana; e lo Championnet annunziava al suo governo: «la rivoluzione è riuscita; un monarca di meno, una repubblica di più» (68). Dovunque s’ eran finora spinte le armi dei nuovi cospiratori francesi, ivi ordinare le acquistate terre a repubblica o almeno tentarlo era la immediata conseguenza dell’opera loro. La geografia classica fu studiata più diligentemente che mai per dare quanto era possibile alle moderne creazioni nomi pomposi accattati all’antichità greca e romana. Erano nate l’una dopo l’altra, e poi più volte uscite di moda e trasformate, la repubblica cis e transpadana, la cisalpina ligure romana, la cisrenana ed alemanna, la lemanica rodanica raurarica od elvetica; per Napoli si ricorse all'antico nome ellenico, e si creò la repubblica partenopea. Si volle che una costituente eletta dal suffragio universale decidesse definitivamente la creazione e l’ordinamento di essa; intanto si provvederebbe con disposizioni prese dallo straniero vincitore e sotto la sua egida. Fin dal 24 fu nominata dallo Championnet una rappresentanza nazionale di 25 cittadini, che dovea fare ufficio di governo provvisorio, dividendo fra sei commissioni gli affari: Direzione centrale — Legislazione — Polizia — Guerra — Finanze — Interno. Né nominò presidente il Laubert, e gli mise come segretario a canto il francese Jullien; fra i membri di essa si trovavano il Moliterno, Giovanni Riario, Mario Pagano, Domenico Cirillo, Niccola Fasulo, il Forges d’Avanzati, Francesco Pepe, Giuseppe Albanese. Il 25 a mezzogiorno il supremo generale francese comparve con solenne corteggio nella casa comunale di San Lorenzo per salutare i napoletani divenuti liberi, e presentar loro i nuovi ufficiali; il Laubert rispose al generale con un discorso che infarcì de' più ricercati improperj contro il caduto governo e colei che principalmente lo rappresentava (69).

Il giorno appresso fu istituito un nuovo consiglio municipale, composto di venti membri, fra i quali Giuseppe Serra — in luogo di Luigi Serra Cassano che non aveva accettato —, Luigi Carafa Jesi, Giuseppe e Diego Pignatelli, Andrea de' Dino, Pasquale Daniele; anche un lazzarone era fra gli eletti, l’oliandolo e bettoliere Antonio Avella detto Pagliuchella (70).

I provvisorj reggitori — che entrando in ufficio ordinarono fosse illuminata la città per tre giorni sotto pena di venti ducati di multa — senza indugio e con l’approvazione espressamente significata volta per volta dal generale Championnet, dettero opera a sconvolgere gli antichi ordinamenti del paese.

Il 25 di gennajo furono dichiarati aboliti «dal giorno della promulgazione della legge per tutti i tempi futuri» i diritti di primogenitura, i fidecommessi e le sostituzioni con ogni loro conseguenza ed effetto. Il 2 di febbrajo fu mandato a tutti i magistrati l’ammonimento di conciliare con la più severa e coscienziosa applicazione della legge «tutta quella umanità, moderazione e fratellanza, e tutte quelle altre qualità che sono il contrassegno di buoni repubblicani.» Il 5 fu concessa la libertà della stampa con sindacabilità dell’autore o, nel caso che questi volesse rimanere innominato, dello stampatore, ma nello stesso tempo fu severamente proibito di pubblicare o diffondere scritti sediziosi, calunniosi e simili (71).

Tali decreti e avvertimenti piacquero in sommo grado ai caldi fautori delle idee moderne; e alla moltitudine poco curante delle teorie e degl'ideali non poterono dispiacere, come quelli che praticamente poco o niente la toccavano. Ben altrimenti avvenne per effetto delle contribuzioni di danaro e di sangue, le quali, come in breve fu manifesto, la Repubblica impose nella stessa, se pur non più larga, misura che l’antico e tanto sfatato governo. Già nel discorso rivolto in S. Lorenzo al nuovo governo provvisorio lo Championnet avea notato che la Francia «per le spese e le perdite di sì gloriosa campagna, per la grandezza del sacrificio che avea fatto alla libertà di Napoli» dovea chiedere un’adeguata indennità. La quale fu provvisoriamente fissata in 2 milioni e mezzo di ducati per la città di Napoli — alle province furono più tardi assegnati 15 milioni di franchi — da pagarsi in danaro o in verghe d’oro e d’argento. I commissarj superiori Arcambal e Dubreton ebbero incarico di ricevere via via le rate, e il governo provvisorio fece noto che i beni di coloro che indugiassero a pagare la parte a loro spettante sarebbero senz’altro sequestrati (72).

Nel luogo dei due citati commissarj entrò in breve il Favpoult, uomo severo e senza rispetti, il quale, dopo essersi già fatto un nome odioso nel marzo 1798 a Roma e in luglio ed agosto nella Cisalpina, venne ad eseguire in Napoli con la massima durezza l’ordine del conquistatore. Egli dichiarò tutti i beni reali proprietà della repubblica francese, anche il privato patrimonio de) re, quello dell’ordine di Malta, quello delle scuole pubbliche, il danaro esistente nelle pubbliche banche, tutte le casse pubbliche, le tasse, persino le già decorse. Tutti i tesori del paese, i musei e le biblioteche, persino ciò che ancora giaceva sepolto sotterra a Pompei e ad Ercolano, tutto doveva essere proprietà nazionale della repubblica vittoriosa, cioè della repubblica francese. Né i suoi subalterni si mostrarono negligenti nell'esecuzione del loro incarico. Le condizioni erano oramai diverse; nei giorni dello scompiglio i lazzaroni aveano rubato secondo il lor talento, nei giorni dell’ordine rubarono i francesi secondo la legge. Un giorno comparvero quattro commissarj nel palazzo Francavilla, vollero sigillare ogni cosa, e dallo studio di Giorgio Hackert portaron via diciassette grandi marine appartenenti al re. Nello studio di Filippo trovarono tre marine di egual grandezza, e avrebbero portato via anco queste, se egli non avesse con gran fatica e con lunghi discorsi significato loro che, non essendo i quadri ancora pagati dal re, appartenevano sempre a lui Hackert. La sicurezza delle persone era in pari condizioni; se prima altri correva pericolo di essere perseguitato e maltrattato come giacobino, si dava adesso anche peggio la caccia a quelli che eran giudicati realisti. Il general Rey, che nel palazzo Francavilla, dove avea posto il suo quartier generale, conobbe e prese a stimare i due artisti tedeschi, gli esortò calorosamente a lasciare quanto più solleciti potessero la città e il paese, altrimenti non potrebbe rispondere delle conseguenze. In fatti s’imbarcarono sopra un bastimento mercantile danese; se non che accadde che, scampato un pericolo, incorressero in altri (73). Lo Championnet, che sapeva accoppiare il valore alla mitezza e alla severità la prudenza, revocò alla fine quel decreto draconiano «assurdo nei principj suoi, indecente nelle forme, ingiurioso nell’espressione, funesto negli effetti;» e ordinò al Faypoult ed a' suoi subalterni che dovessero uscire dentro 24 ore dalla città e 10 giorni dopo dai contini napoletani e romani, se non volevano essere violentemente espulsi e condotti dall'uno all’altro posto militare (74). Se non che non ¡scemarono per questo le esigenze pecuniarie e materiali dei francesi; al contrario tutte le antiche tasse, gabelle, prestazioni e sportale, come pure tutte le pene comminate at contravventori di tali prescrizioni, furono dichiarate espressamente in pieno vigore (75).

Le condizioni di una città conquistata vollero che si tenesse fermo alla consegna delle armi d’ogni qualità, della polvere e delle munizioni; la qual cosa andò poco ai versi di quei cittadini che avevano tanto cooperato a domare i lazzaroni. Lo Championnet dovette più volte ripetere il decreto, e il 5 di febbrajo aggiungervi minaccia di terribili provvedimenti contro chi tardasse a obbedire, e promessa di buona ricompensa a chi indicasse agli ufficiali pubblici le armi nascoste. Anche i cavalli da sella e da tiro del disciolto esercito doveano essere consegnati in certi luoghi della città (76), a Pizzofalcone, a Piedigrotta, al ponte della Maddalena e via discorrendo. Più gravi difficoltà occorsero per la restituzione degli oggetti rubati. Un editto del Municipio provvisorio — firmato dal Presidente Bruno e dal segretario Moltedó — minacciò ai restii giudizio statario e immediata fucilazione, e fra i luoghi dove a' era maggiormente rubato indicò specialmente il «palazzo dell’ex-re,» quelli del duca della Torre, del cittadino Niccola Fasulo, il convento di S. Gaudioso, la casa della cittadina Gabriella Caracciolo (77).

L’ordine di consegnar le armi si riannodava al disegno del supremo comandante francese e dei patriotii che era quello di sostituire al disfatto esercito reale un nuovo esercito repubblicano. Un proclama sottoscritto dallo Championnet e dal Roccaromana ingiunse a tutti i militari di ritrovarsi nella metropoli dove si volevano riordinare i reggimenti: «poiché non basta l'aver liberato il paese dalla tirannia dei re, bisogna anco dalla Sicilia e da qualunque altro loro rifugio scacciarli: è della massima necessità prevenire le trame dell’aristocrazia» (78). Nello stesso tempo si mise mano alla formazione di una guardia nazionale: «Voi, o prodi paMotti che non ostante gl’inutili ma terribili sforzi del distrutto dispotismo, avete serbato nelle carceri e fra i maltrattamenti il sacro amore della patria, accorrete ora sotto il vessillo tricolore e servite con zelo le antiche e le nuove repubbliche ecc.» Dovevano provvisoriamente formarsi quattro compagnie; un comitato militare, preseduto da Giuseppe Pignatelli e più tardi dal Manthoné, aveva da curarne l’ordinamento (79). Il Moliterno voleva anche metter su una squadra di 400 usseri; chiunque possedeva un cavallo si facesse avanti e ne facesse dono; il foraggio sarebbe somministrato dal governo, al proprio mantenimento e vestiario provvederebbe ciascuno da sé; né la Repubblica dimentichèrebbe i cittadini devoti e volenterosi (80). Per rispetto alla creazione di una nuova marina, il governo provvisorio ebbe incarico dallo Championnet di far costruire da prima un vascello di linea, e poi due fregate (81).

Il 10 di febbrajo 1799, 21 piovoso anno VII della libertà, furono pubblicate dallo Championnet, sovvenuto in tal congiuntura dal suo concittadino Bassal, disposizioni relative a un complessivo ordinamento. Tutto il territorio napoletano fu, a immagine della Francia, diviso in undici dipartimenti, ai quali i fiumi e i monti somministrarono i nomi: del Vesuvio, che abbracciava Napoli e i suoi dintorni; della Pescara, del Garigliano, dell’Ofanto, della Sagra e via discorrendo. Ciascuno di essi si dividevano in cantoni, da dieci (dipartimento del Crati) a diciotto (dipartimento del Volturno). Ciascuno sarebbe retto da un consiglio composto di tre amministratori; a questi commessa la conservazione e amministrazione del patrimonio nazionale — strade, poste, istituti pubblici, beni dello stato e della corona — la distribuzione delle imposte dirette e la sorveglianza delle indirette, la cura della pubblica sicurezza. Tal consiglio sarebbe assistito da un commissario del governo, il quale non avrebbe parte nelle deliberazioni, ma osserverebbe l'andamento legale e impedirebbe gli abusi. Le città di 10,000 abitanti e più avrebbero in regola un consiglio municipale di sette membri; ogni cantone un’amministrazione municipale di tanti membri quanti il suo territorio comprendeva comuni; gli ufficiali, così della città come dei cantoni, non corrisponderebbero se non con l’amministrazione dipartimentale, salvo che per casi eccezionali bisognasse rivolgersi al governo. La città di Napoli fu partita in sei regioni, ciascuna con una municipalità particolare, alla testa di tutte una commissione centrale di tre cittadini (82).

L’incaricato degli affari della legazione imperiale rimasto a Napoli rappresentava al suo Gabinetto il generale Championnet come uomo di modi gentili e cortesi e «pieno di moderazione e di umanità;» e di certo se mai qualcuno fra i potenti guerrieri francesi ebbe il dono di riconciliare una città vinta col suo destino, quegli fu il supremo comandante dell'«esercito di Napoli» (83).

Senza lasciarsi forviare dalle frasi e dalle utopie dei patriotti napoletani, egli avea saputo trovare la vera via di cattivarsi la moltitudine. Al primo suo ingresso in città, aveva a un uomo del popolo concesso di partecipare al suo trionfo cavalcandogli a lato; e nella stessa guisa, formando alcuni giorni dopo il municipio provvisorio, ebbe cura che un altro popolano vi fosse compreso. I boriosi patriotti nobili arricciavano certamente il naso; «così Caligola creò console il suo cavallo,» dissero essi motteggiando, e credettero che lo stesso popolo di tale insulsaggine ridesse (84). Ma che il generale repubblicano avesse colto nel segno, lo provò il favore che i suoi eletti incontrarono presso il popolo; e quand’anche i discorsi, che attribuiti a Michele il Pazzo corsero per le bocche di tutti, non fossero esattamente suoi, non c’è dubbio ch'essi erano conformi allo spirito dei tempi e appropriati alle circostanze, e rendevan testimonianza della fiducia che si riponeva in lui. Chiestogli una volta da uno del popolo che cosa fosse l’eguaglianza, Michele rispose: «Poter essere (e indicava sé stesso) lazzaro e colonnello. I signori erano colonnelli nel ventre della madre; io son tale per 1 eguaglianza; allora si nasceva alla grandezza, oggi vi si arriva.» B un’altra volta: «Ora si chiaman tutti cittadini; quelli di su si chiamano così da sé e danno a noi lo stesso titolo; sicché i nobili cessano di chiamarsi Eccellenza, e noi di chiamarci lazzaroni; il nome di cittadino ci fa tutti uguali.» Secondo la condizione in cui si trovava, s’intende benissimo che nei discorsi ch’e’ teneva per istrada, a una cantonata, da un terrazzino, di sopra un parapetto, non mancassero bottate alla corte di Palermo: «Vi lagnate che il pane è caro; di chi è la colpa se non del tiranno che preda le navi che di Sicilia e d’Affrica vengon cariche di grano per voi? Che importa a lui se voi morite di fame! E però a lui guerra, a lui odio, piuttosto morire che vederlo ritornare!» E poi, quando la sua gente mostrava impazienza perché tutte lo cose non andavano a un tratto meglio di prima, egli si dava a calmarli così: «Sotto il tiranno quanti mali e dolori ci sono gli avete sofferti tutti, guerra, peste, fame, tremuoti; aspettiamo tranquillamente quello che ci porterà la repubblica che non abbiamo ancora, che è ancora da venire. Chi vuole aver presto qualche cosa da mangiare semina ravanelli e mangia radici; chi vuol mangiar pane, semina grano e aspetta un anno. Così è della repubblica; per le cose durevoli bisogna tempo e fatica» (85).

Lo Championnet si dava pensiero di rendere agli abitanti di Napoli sopportabile, per quanto stava in lui, l'occupazione straniera. Parte immediatamente da lui, parte dal general Dufresse comandante della città e dei forti, furono rivolte ài soldati le più severe ammonizioni perché si guardassero da qualunque prepotenza, non dessero noja ai cittadini con ingiustificate esigenze, né con l’arroganza gli offendessero. Già d’avanzo il carico degli alloggi militari pesava sugli abitanti; gli ufficiali non erano di facile contentatura, volevano anche la statla per i cavalli, e che si somministrasse oltre di ciò il vitto e il lume. Né questo bastava ai guerrieri della «gran nazione,» che non volevano aver conquistato per nulla Napoli col sangue loro. Bisognava in fatti che le cose andassero assai male, se furono necessarj editti per dichiarare che nessun cittadino potesse essere arrestato senza ordine scritto dal municipio o del governo provvisorio; che i cittadini non dovessero somministrare merci o vettovaglie se non ricevendone il pagamento in danaro, né apprestare alloggio se il comando di piazza non ne dava loro l’avviso; che quegli ufficiali, che sotto pretesto di ordini superiori si facevan fornire da privati cavalli e carrozze, dovessero o restituirli o pagarne in danaro contante il prezzo, e simili (86).

Veramente tali disposizioni si prendevano anche nell’interesse dell’esercito francese, il quale in condizioni tanto peggiori si sarebbe trovato quanto più avesse data al popolo materia di malcontento e di odio, e occasione di sfogare tali sentimenti con atti di violenza. E così accadde in fatti. Con astuzia, da un agguato, o col favor delle tenebre, il vinto prendeva le sue vendette; si sentiva di continuo parlare di francesi scomparsi, o di cadaveri francesi ributtati dal mare (87). Dai ricchi cittadini non aveva il francese da temer nulla, specialmente perché i più aveano abbracciato le idee che il conquistatore si proponeva di attuare; ma vi era un altro inconveniente. Molti nobili dovettero ristringersi nelle spese, congedarono gran parte dei servitori, o si allontanarono essi medesimi dalla città, e questa vide il suo commercio e la sua prosperità declinare secondo che cresceva il numero dei disoccupati e però bisognosi, scontenti, e propensi a qualunque misfatto. Il governo provvisorio e il municipio cercarono di riparare con severissimi provvedimenti; a qualunque proprietario che lasciasse Napoli minacciarono di fargli aprire a forza e senza nessun riguardo la casa; esortarono tutti a ritrovarsi in città fra cinque giorni, o fra quindici se fossero in paesi lontani, altrimenti si procederebbe a sequestrare i loro beni o a confiscarli a pro dell’erario nazionale; ingiunsero ai padroni, ai maestri d’arte, ai commercianti di non licenziare i sottoposti, se non volessero essere considerati «come cittadini nocivi,» e condannati a pagare al licenziato doppio salario (88). Se non che tali prescrizioni poco giovavano. Anzi accrebbero il numero dei malcontenti, essendo cosa dura e contraria al buon senso il pretendere che i ricchi facessero lo stesso lusso quando dall'altra parte aveano tanti carichi, e che gli artefici dovessero pagare gli operaj come prima, mentre i nobili non facean lusso e non davano occasione di guadagno. E i guadagni scemarono anche in altro modo. Per ragioni di pubblica sicurezza il general Dufresse si rivolse a invigilar severamente il traffico dei forestieri, e ordinò che, sotto pena di 100 ducati di multa nel primo caso e di 300 nel secondo, tutte le botteghe e osterie fossero chiuse sul far della notte, provvedimento singolarmente inopportuno presso un popolo che, in grazia del clima mite, è avvezza a fare della notte giorno (89).

In generale, non ostante l’accorgimento e le attrattive personali dello Championnet, non ostante i suoi sforzi per evitare ogni cosa che potesse disturbare il buon umore del popolo, le disposizioni di questo nella metropoli, già poche settimane dopo la rivoluzione, non poteano punto dirsi favorevoli. L’incaricato di affari austriaco barone Cresceri, che s’accorse dei brutti segni e presenti un cattivo esito, non si lasciò scappare la prima occasione; il 14 di febbrajo partì da Napoli e, fatto a quel che pare un gran giro, s’imbarcò per Palermo dove giunse il 26.

V

LA CORTE IN SICILIA

La squadra del Nelson aveva, sulla sera del 23 di dicembre, lasciato il golfo di Napoli con lieti auspicj; il vento spirava da oriente, il tempo prometteva discretamente bene. Se non che appena fu passata l’isola di Capri, grosse nubi si raccolsero sull’orizzonte occidentale e diedero in una dirotta pioggia. Tutta la notte, e assai oltre nel giorno seguente, continuò il temporale, che anzi con l’andar delle ore prese una tal violenza, come il Nelson nella sua lunga carriera di marinaro non rammentava l'uguale. Tanto maggiormente egli se ne impensierì, quanto più gli alti personaggi, che s’eran messi sotto la protezione della sua bandiera, si raccoglievano angustiati intorno a lui; quantunque, com’egli scrisse in seguito al conte St. Vincent, neppure una esclamazione che indicasse sbigottimento non uscì dalle labbra dei principi reali. Emma Hamilton mostrò un ammirabile contegno, mentre suo marito, tenendosi in disparte con una pistola carica in ciascuna delle mani, le diceva risolutamente pacato: «Non vo’ morire col glo glo dell'acqua salata nella gola; come vedo andar giù il bastimento mi tiro» (90). Alcune delle minori navi, cariche di fuggiaschi e di merci, s’eran già perse di vista, o che la tempesta le avesse portate via o il furioso mare inghiottite; la stessa Vanguardia era terribilmente mal concia, tre vele di parrocchetto messe in pezzi, e la vela maestra anch’essa, benché tuttora imbrogliata. Il giorno di Natale la furia degli elementi posò. Tuttavia alla famiglia reale, già a tante tribolazioni soggetta, toccò ancora peggio. Il principe Alberto, che contava sette anni, aveva fatto colazione con buon appetito, quand’a un tratto lo colse un malessere che andò d’ora in ora crescendo finché nelle braccia di Lady Hamilton la tenera vita si spense (91). «Tutti raggiungeremo fra poco il mio figlio,» disse con tranquilla rassegnazione la regina quando le fu portata l’infausta novella. Però non doveano giungere a tal segno. Il 27 di dicembre alle 2 antimeridiane si trovavano già in vista di Palermo. Il mare era sempre grosso, e la Vanguardia avea sofferto tante avarie, che il capitano siciliano Bausan dovè andare innanzi sopra un piccolo trasporto per rimorchiarla (92). Carolina, percossa e infranta da tanti colpi del destino così rapidamente succedutisi, senza aspettare che facesse giorno si fece chetamente portare in terra. Re Ferdinando sbarcò alle 9 antimeridiane, e fu ricevuto con tutto il pomposo cerimoniale fra il tonar dei cannoni e il giubilar della folla (93).

Gli animi degli augusti fuggiaschi, e più di tutti della regina malazzata e sofferente, arrivando dalla terra ferma in Sicilia erano addirittura sbalorditi per gli avvenimenti passati e per quelli che forse soprastavano. «In mia vita non saprò capire,» scriveva Carolina qualche tempo dopo a sua figlia, « né consolarmi, come un 16 o 20 mila furfanti abbian potuto conquistare e assoggettarsi 4 milioni di anime che non volevano saperne!» Ella scese a terra, tacita e abbattuta, con gli avanzi mortali del suo caro Alberto che collocò nei sepolcri di Monreale. Nei giorni seguenti fu tanto malata che si temé per la sua vita. Poi si riebbe in qualche modo, ma per un gran pezzo non potè dirsi sana, e piccoli incomodi continuamente riapparivano (94). Quando nel corso del gennajo lady Templeton chiese di essere co’ suoi figli presentata alla regina, questa certamente acconsentì, ma pregò nello stesso tempo l’amica Emma che esortasse i suoi compatriotti a non portar seco odori; «poiché io sono in uno stato tale che ciò potrebbe farmi danno, e la mia salute è giù tanto giù che io non posso più arrischiarmi a nulla» (95).

A questi mali fisici si aggiunsero indicibili dolori morali, o, per meglio dire, gli uni sugli altri ebbero vicendevole efficacia. Cure e pene d’ogni specie, e soprattutto profonda amarezza per tutto quello che, com’essa diceva, così innocentemente le era toccato soffrire, la laceravano come un verme roditore e la andavano sempre più consumando il più profondo dell’anima. «Possa Dio sempre guardarvi dagl’incomodi e dagl’infortunj che abbiam noi sofferto, e soprattutto dall’ingratitudine che abbiamo sperimentata!» Un’altra volta dice: «Mi maraviglio che non sono ancora divenuta cieca dal tanto piangere che ho fatto! Non posso avvezzarmi né alla nostra sventura né alla Sicilia.» Ella avrebbe preferito ritirarsi in un cantuccio tranquillo per passarvi i suoi giorni o piuttosto per finirveìi, dacché talora tal desiderio le prendeva il cuore: «Son vissuta abbastanza, anzi almeno due o tre anni di troppo, e però non temo la morte, però la tempesta che ha minacciato di seppellirci tutti, a me non ha fatto paura» (96). Poi riprendeva coraggio dicendo: «Bisogna fare il proprio dovere, e il mio in questo momento è di non lasciare alcun mezzo intentato per riconquistare al mio caro consorte, a' miei diletti figli la proprietà loro; soltanto allora che quest'opera sarà compita, potrò pensare al mio ritorno, unico fine de' miei desiderj.»

Sì fatta opera era assai ardua. Nelle prime settimane, dopo aver lasciato il continente, tutto le spiacque a Palermo, l’aria, il clima (97), il palazzo che, a quel che sembra, aveano in fretta e furia ripulito alla meglio e rimesso a nuovo; poi si lamentò delle pareti nude, dei pavimenti freddi e umidi, senza tappeti, e neppure dipinti. Oltre a ciò mancavano tutte le suppellettili, né da Napoli s’era portato nulla; fino della biancheria gran parte era andata male nella traversata, né si poteva così presto sostituirla. I dintorni della città, le nude balze, le disamene pendici non la svagavano punto; se talora faceva con le figliuole una piccola passeggiata verso Monreale, ogni cosa le dava noja, ogni cosa contribuiva a crescere la sua profonda tristezza. Tutto le appariva «affricano,» anche gli abitanti, ai quali non si poteva negare arguzia, vivacità, spirito intraprendente, ma neppure la qualità di essere sudicissimi (d’une crasse cochonnerie) e pochissimo colti; «non conoscono l’acciajo, non sanno fare una chiave; e tutto il resto alla stessa stregua!» Più lunghe gite non facevano, non foss’altro perché la regina, essendole tanto assottigliate le rendite — «de toutee nos rentes trois quarte anèantis» — non si arrischiava a metter su carrozza e cavalli, e malvolentieri s’acconciava a pigliarne a nolo. Anche la servitù ella aveva scemata; parecchi del suo seguito gli aveva congedati e mandati a Vienna con raccomandazioni; fra gli altri il suo onesto segretario Reiner, per cagion del quale aveva un giorno avuto tante noje col conte Richecourt (98).

Le tenevano costantemente compagnia le ottime figliuole, che con le tenerezze loro e cure d’ogni maniera l’ajutavano a sopportare il suo cordoglio, e Leopoldo che stava ancora sotto la vigilanza e guida d'una governante. Era un conforto per lei che i bambini avessero a loro disposizione una galleria piuttosto spaziosa e adorna di piante e di fiori che dal palazzo sporgeva sul mare, e potevano dalle stanze uscir su quella, come i prigionieri dalle celle, a godere dell’aria fresca. Di rado andavano in città, tutt’al più una volta o due per settimana solevano visitare qualcuno dei numerosi istituti femminili; e in congiunture specialissime, come per il giorno di nascita del re, o qualche volta nel carnevale, si recavano al teatro.

Nei primi tempi, quando non era ancor pronto un conveniente alloggio per il principe ereditario, tutta la famiglia viveva ristretta insieme in modo abbastanza disagiato e, stante la malattia della giovine principessa, non del tutto scevro di pericoli. Più tardi Francesco mise su casa da sé in una villa fuori di città, dove si tratteneva quasi tutta la giornata, occupandosi nell'agricoltura, la quale era per lui attrattiva più delle esercitazioni venatorie del padre, e sembrava gli facesse dimenticare quanto succedeva nel mondo e nel regno sul cui trono sarebbe dovuto salire. Vera immagine di suo padre, la salute e la robustezza in persona, egli si faceva corpulento; ma di ciò non si curava affatto. Essendo d indole punto vana — «n'ayant nul amour propre à un point criminel» — non dava nessun motivo di gelosia alla sua angelica moglie, disgraziatamente per lo più malaticcia, né pareva sapesse neppure che altre donne ci fossero al mondo. La regina per principio non s’immischiava punto nelle faccende domestiche dei suoi figliuoli, sebbene molte cose non approvasse, altre le dessero non poco pensiero, specialmente il crescere della piccola Carolina nata il 5 di novembre 1798, la quale aveva resistito all’orribile traversata tempestosa, ma ebbe bisogno di mesi per ripigliar le forze e lo spirito.

Chi si trovava meglio fra tutti quelli che si vedevano sbanditi dalla vista di Napoli era senza dubbio il re. Per lui la dimora in Sicilia non era presso a poco altro se non un cambiamento di scena pe’suoi esercizj di. caccia e di pesca; e poiché ogni cambiamento di tal genere ha il suo lato dilettevole, né la salute né l'umore di Ferdinando davano a divedere che la perdita del suo regno continentale gli stesse singolarmente a cuore. Come il principe ereditario, cosi pure il re s’era fatto accomodare una villa, piccina e semplice ma comoda e graziosa, con poderi di cui faceva portare i prodotti al mercato; in una mirabile situazione sul lido del mare, che gli procurava svago di passeggiate in barca e di pesca, e non lontana dalla città, della quala poteva nello stesso tempo godere i divertimenti.

In tale stato di cose qual maraviglia che Orazio Nelson non parlasse se non leggermente di quel sovrano, di cui egli si sentiva chiamato a difendere i diritti reali, e invece rivolgesse la sua devota ammirazione e profonda riverenza alla regina, a cui non ebbe nessuna difficoltà di dare il nome di grande? (99)

Forse più ancora delle ristrettezze della vita, fu alla real famiglia cagione di sofferenza lo star lontana da Napoli, segregata dal resto del mondo, e nell’ignoranza di tutto ciò che d’importante vi succedeva. Non mancavano in Palermo i rappresentanti delle potenze europee; insieme ai ministri d’Austria e d’Inghilterra vi si era trasferito il russo conte Mussin Puskin; e il consigliere di stato Italinskij, che era stato lungamente in un ufficio diplomatico a Napoli, aveva anch'esso avuto dalla sua corte l’incarico di rimanere presso la persona del re. Appunto in quei giorni, il dì 29 di dicembre, era stata conclusa a Pietroburgo una lega offensiva e difensiva fra la Russia e Napoli; la prima s’era obbligata, oltre all’appoggio che già prestavano nel Mediterraneo l’armata sua e quella ottomana, a fornire un sussidio di 9 battaglioni coi cannoni necessarj e 200 cosacchi, le quali forze, appena la stagione e le strade lo concedessero, si metterebbero in marcia, andrebbero, attraversando una parte degli stati turchi, Uno a Zara in Dalmazia, e di là sarebbero a spese di Napoli portate sulla riva opposta (100). Poco meno di un mese più tardi, il 21 di gennajo, una lega simigliante fu formata fra Napoli e la Porta, la quale si profferì nello stesso tempo a procurar la pace fra il re e i barbareschi; e in breve, con somma gioja della corte palermitana, corse voce che Abdul Kadir Bey, avuto come comandante della squadra turca ordine dal gran Visir di appoggiare con tutte le forze disponibili ré Ferdinando, aveva a questo fine già pronti 10,000 albanesi. A Corfù stava pure l’ammiraglio russo Usakof con una piccola squadra; dopo che in ottobre e novembre erano state prese le altre isole già veneziane Cerigo, Zante e Cefalonia, quella era la sola che rimanesse in potere de' francesi. Con l’Usakof tenevan da Palermo carteggio il Mussin-Puskin e l’Italinskij. Soltanto con la potenza più intimamente legata alla casa reale siciliana, ogni relazione era del tutto cessata. Da più settimane non si avevano notizie dirette della corte di Vienna, e ciò in un tempo nel quale ogni momento recava seco nuove angustie e nuovi terrori, nel quale tutto dipendeva dal sapere che cosa fosse per fare l’Austria, e se e quando intendesse di entrare in campo, poiché cosi solamente erano in Palermo persuasi che le cose ormai disperate potessero prendere una piega migliore.

In fatto a ogni nuova che perveniva dal continente, l’inquietudine, i dubbj, i timori della corte siciliana crescevano. La prima fu la distruzione della più gran parte della propria armata per opera dell’ammiraglio portoghese Niza e del commodoro inglese Campbell; il quale estremo espediente era stato dal Nelson riservato pel caso che le navi corressero pericolo di cader nelle mani dei ribelli o del nemico straniero, ma quei due, come dalle circostanze appariva, senza sì fatta necessità lo aveano innanzi tempo recato ad effetto. Fu questo un gran colpo per la casa reale, né giovava il sapere che il Nelson avesse sottoposto il Campbell a severissima inchiesta, alla quale per altro per desiderio della regina fu messo termine (101).

«lAbbiamo tutto perduto,» così ella si lamentava con sua figlia Teresa, «la nostra bella e costosa flotta è distrutta, bruciata; cannoni, polveri, materiali da guerra, danaro, tutto è perduto!»

Ciò era accaduto l'11 di gennajo, lo stesso giorno che il vile e vergognoso armistizio di Sparanise era stato firmato dal principe Pignatelli. Quando ne giunse la nuova a Palermo, anche la gaja indifferenza del re ne fu scossa. Egli chiamò assurdi gli ordini che il suo vicario generale avea dati al principe di Migliano e al duca di Gesso per trattare co’ francesi, e disonorante il trattato che avean concluso. Egli scrisse al Pignatelli: «Io fui sommamente maravigliato in vederla operare in modo così ingiustificabile. Non aveva da me ricevuta nessuna facoltà di dar codesto passo. Bisogna che le sia uscito di mente che aveva un padrone, ovvero che abbia voluto a bella posta costringerlo ad accettare condizioni estremamente vergognose ed indegne.» Che assegnamento non si era fatto sul Mack, quante speranze fondate su lui! Anche quando le cose erano giunte a tale da dover cedere la metropoli, egli, a bordo della Vanguardia, aveva assicurato i reali di Napoli che si ritirerebbe verso sud e, appoggiato dalla Sicilia, difenderebbe le Calabrie. In fatti sui primi del 1799 il Nelson avea mandato ordine al marchese Niza di tener presso Messina la sua squadra pronta a combattere, di schierare le sue cannoniere lungo le coste calabresi, e, presentandosi il Mack, non ajutarlo solamente dal mare, ma prestargli ancora, se lo richiedesse, uomini e cannoni (102). Ed ecco giungere l’infausta nuova, che il Mack era scomparso da Napoli! Non si sapeva in che modo né dove fosse ito; solo più tardi si seppe ch’egli, riparatosi campo francese, s’era fatto dare un passaporto dallo Championnet; la qual cosa parve che agli occhi della corte gittasse anche più ombra su tutti quei misteriosi avvenimenti, e voltasse l’antica inclinazione e fiducia verso il Mack In profonda animosità ed esasperazione contro di lui.

Si ricominciò poi a riprendere alquanto di coraggio nella metropoli siciliana quando si venne a conoscere la condotta del popolo; come non solamente contro l’esterno minaccioso nemico ma anche contro gl’interni favoreggiatori di esso si fosse levato in armi, come abbandonato da' suoi legittimi condottieri avesse scelto proprj generali (103), come avesse solennemente giurato di spargere in difesa de' patrj focolari sino all'ultima goccia del suo sangue. E in Palermo si attendeva a trovar mezzi da portare ajuto all’assediata città, allorché fu vista nel porto una piccola nave con bandiera austriaca; era il vicario generale del re, e un certo numero di ufficiali superiori della guardia, che con lui avean cercato scampo nella fuga. Il Pignatelli ebbe ordine di non lasciar la sua nave, e di pensare a dar giustificazione della sua inesplicabile condotta.

Sul continente le cose peggiorarono daccapo. I duci scelti dal popolo lo tradirono; il Moliterno e il Roccaromana s’iutesero col supremo comandante francese — «teux polissons» li chiamava ora la regina, «giovani non buoni ad altro che a cavalcare, senza religione, senza principj né costumi;» — il Salandra dichiarò che co’ suoi 2500 uomini pon potea far nulla; i soldati consegnarono le loro armi al popolo, il quale, secondo che giudicavano a Palermo, era caduto nella rete dei nobili tràditori. «Io preferisco l’entrata dei francesi,» scriveva Maria Carolina estremamente irritata alla sua amica e confidente inglese, «e che essi tolgano a quei miserabili la camicia, piuttosto che vedere i nostri sudditi spergiuri, queste misere bestie,, questi vili bricconi condursi in tal modo! Gli esempj dati da sì compassionevole genia mostrano che la rivoluzione è compiuta, e che la nobiltà è stata quella che ha fatto ogni cosa» (104). Quando poi accadde realmente ciò che la regina, appassionata com’era, avea desiderato ai napoletani traditori, allora jl colpo fece un effetto terribile anche sul suo consorte. Ora che tutto era perduto, che bisognava depor la speranza di. ricuperar così presto il continente, che egli vedeva nella sua Napoli abolito il nome e titolo regale e sostituitovi forme repubblicane, parve ora che egli stesso non trovasse più nessun diletto ai favoriti suoi diporti; così almeno giudicò la regina: «egli è fuor di misura triste; sembra colpito e mi dà gran pensiero.»

Veramente è da dubitare che Carolina, per non fare apparire il re sotto luce troppo sfavorevole agli occhi de' suoi parenti di Vienna, nel dipingerne la tristezza non caricasse alquanto le tinte. A ogni modo tal disposizione nell’animo di lui non fu di lunga durata; e altri luoghi delle lettere di Carolina mostrano ch’ella non sapeva sempre padroneggiare in ugual modo i proprj sentimenti, e che l’indifferenza del marito, in quelle condizioni ch’erano a lei stessa cagione di pena infinita, tanto più le riusciva grave quanto più il suo primogenito appariva per tal rispetto non dissimile del padre.

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Tutte le nuove giunte negli ultimi tempi da Napoli erano venute a caso o per vie traverse. La diretta comunicazione con la metropoli continentale era quasi del tutto cessata, del che la regina non si angustiava soltanto fuor di misura, ma vi scorgeva anche il tristissimo indizio che la catastrofe fosse colà irreparabilmente compiuta. Quanti pochi esempj occorrevano di fedeltà e costanza, e quanta gratitudine destavano nell’animo suo! Non c’era uno di tali valorosi, per infimo che fosse, al quale ella non pensasse e, potendo, non facesse significare la sua riconoscenza (105). Ma «dove sono il de' Marco, il Simonetti, lo Spinelli? Dove l’arcivescovo, dove tutti i magistrati? E nessuno si rammenta del suo sovrano? Questo è per me un crudele e tristissimo ammaestramento,» ella scriveva in una lettera alla sua imperiale figliuola, «ed io ti assicuro che io vivo appena, non esisto più e non fo se non pregare Iddio che non mi privi della ragione.» Tutto quello che udiva dire o vedeva intorno a sé le accresceva la malinconia, la diffidenza, l’amarezza dell’animo. Il Gallo era partito per recarsi prontamente a Vienna; di certo non era da fargli colpa del non poter prendere la via più breve, ed arrivar presto; ma Tesser egli ancora a Brindisi il 21 di gennajo, cioè un mese preciso dopo la sua partenza da Napoli, e il fare intanto vendere tutte le sue suppellettili a Palermo, era pure una cosa singolare che suscitava forti sospetti contro di lui nell’animo del re e della regina. Delle nobili famiglie che stavano più vicine alla corte, non poche l’aveano accompagnata in Sicilia, altre per una ragione o per un’altra eran venute dopo. Ma non di tutte potean esser contenti Ferdinando e Carolina; e alcune si apparecchiavano apertamente a tornare a Napoli. Del contrammiraglio Caracciolo si raccontava ch’era rimasto offeso dell’essersi la famiglia reale servita per andare in Sicilia piuttosto della Vanguardia inglese che del Sannita comandato da lui; secondo altri dell’aver levato dalla sua nave una parte dei tesori che vi erano stati nascosti, e trasportatili sopra un altra, come se non si avesse in lui fiducia (106). Checché ne sia, un giorno egli si presentò al re e pregò, sotto pretesto di dover visitare i suoi possessi continentali, che gli fosse concesso di lasciar l’ufficio e tornare a Napoli. Ferdinando accordò l’una e l’altra cosa, ma soggiungendo che «il cavaliere non dimenticasse trovarsi Napoli in poter del nemico» (107). La regina non si oppose, ma si sentì ferire il cuore come da una pugnalata; conosceva abbastanza la volubilità di quell’uomo da prevedere quali potessero essere le conseguenze del suo allontanamento. Ma era egli veramente possibile che mancasse di fede? «Ha ogni giorno al palazzo vedute le nostre lacrime!» Quando egli venne all'udienza di congedo, ella lo scongiurò a non tralasciar nulla che potesse tornar utile alla real casa (108).

Il suo scudo, la sua difesa, il protettore della infelice sua famiglia e dell’isola ch’ella poteva ancora chiamar sua, era il così prontamente divenuto celebre vincitore di Abukir o, secondo il nome che gl’inglesi davano allora alla battaglia, del Nilo, viceammiraglio Orazio Nelson. A lui il conte St Vincent, che comandava la squadra inglese nel Mediterraneo, aveva affidato il comando dalle coste meridionali di Francia sino alle settentrionali di Affrica. Parte con lui, parte sotto di lui, servivano il commodoro Duckworth, che da Minorca teneva d’occhio il porto di Tolone, ma doveva nello stesso tempo star pronto a ricevere l’attacco dal lato degli spagnuoli e però domandava rinforzo di qualche vascello di linea; il capitano Troubridge — «gallant and most excellent second in command,» come il Nelson disse parlando al St. Vincent,— il quale era comandato in Egitto, e là dovea distruggere i trasporti francesi e mantenere comunicazioni e accordi con Sir Sidney Smith, che aveva un comando in Asia Minore; il capitano Ball, che incrociava con una squadra innanzi a Malta, e in breve cosi strettamente la bloccò, che si sperava di vedere da un giorno all’altro il presidio francese costretto a capitolare per fame; finalmente il capitano Louis, che Nelson avea mandato da Livorno col Minotauro, con la Tersicore e l’Alleanza, perché si mettesse in relazione col ministro inglese Sir Wyndham, e si tenesse pronto pel caso che la famiglia granducale di Toscana o il re di Sardegna già scacciato da' suoi stati, essendo stretti dai francesi, chiedessero agl'inglesi soccorso.

Il Nelson con la Vanguardia era a Palermo, dove la real famiglia lo tratteneva. Più volte dopo il suo arrivo in Sicilia avea fatto proposito di far novamente vela verso Napoli ovvero verso Malta secondo che apparisse di potere in un luogo o nell’altro condur le cose a un passo definitivo. Ma tuttavia rimaneva fermo cedendo alle rappresentazioni, alle preghiere della real coppia, che non si sentiva tranquilla e sicura senza di lui (109). Era manifesto che il ministro inglese o piuttosto la sua vezzosa lady avessero gran parte in tal risoluzione; e dall’altro lato il re e specialmente la regina dovevano esser persuasi che, se si fosse allontanato il Nelson, anco gli Hamilton non sarebbero probabilmente rimasti a lungo.

Intanto il Nelson si dava a credere che la sua condiscendenza fosso cavalleresco dovere di annegazione verso una «casa reale colpita dall’infortunio,» alla quale egli sacrificava anco la sua salute, sapendo che solo l’aria dell’Inghilterra e oltre di ciò la pace e il riposo. potevano ristabilirla: «finché vivo e finché la regina lo desidera, rimarrò per sua sicurezza al posto onorevole che m’è assegnato.» E a lady Hamilton scrisse una volta: «Io dichiaro innanzi a Dio che tutti i miei sforzi son rivolti a guadagnarmi quanto meglio io possa l’approvazione della regina» (110).

L’ eroico marinaro estendeva si fatto reverente contegno a tutto ciò che toccava gl'interessi del re e della «grande regina.» Così raccomandò premurosamente al capitano Ball che, cadendo Malta, lasciasse da parte quanto poteva offendere i sentimenti della real casa, la quale vantava diritti sull'isola, e piuttosto avesse cura che la bandiera siciliana a canto alla inglese sventolasse. Di certo da buon inglese egli faceva assegnamento sicuro che a nessun altro, dall’Inghilterra in fuori, la famiglia reale sarebbe per ceder Malta al cui possesso non attribuiva gran valore; e in fatti i desiderj di Carolina, nelle condizioni in cui trovavasi, si ristringevano a volere che quella piazza importante non fosse in mano de' francesi (111).

A soccorsi dalla parte degli alleati non c’era da pensare in quel momento. Né sul principio c’era neppur da parlare di siffatti soccorsi col Nelson, specialmente di quelli dei russi ch'egli profondamente odiava, tanto che con l’ammiraglio loro a Corfù non voleva aver niente che vedere (112). Quello però ch’egli non poteva dall’altra parte comprendere era l'«inerzia del gabinetto austriaco,» essendo chiaro che, cadendo Napoli in balìa de' francesi, anco i possessi italiani dall’imperatore e la secondogenitura dell’augusta casa in Toscana dovevano andar perduti; se ciò avvenisse, sarebbero, più che i francesi con le loro armi, i ministri di Vienna con la mollezza e irresoluzione loro cagione di tanta sventura; «l’entrare in azione e non il restar passivi è il mezzo di attraversare i disegni di quei bricconi» (113).

LIBRO SECONDO

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Il cardinal generale e l’armata cristiana

IL DECRETO REALE DEL 25 DI GENNAIO 1799

Dopo la perdita del regno continentale non restava alla real casa altro che l’isola di Sicilia. Ma se la regina Carolina aveva molto da apporre alla sua nuova dimora e a quelli che vi abitavano, anco i siciliani dal canto loro non sapevano lodarsi di tutto ciò ch’era venuto d’oltre il Faro. Una quantità di persone, che aveano accompagnato eseguito la corte, le erano parte a carico, parte cagion d’inquietudine; costretta a ristringere da ogni lato le spese per le persone di famiglia, bisognava ch’ella mantenesse da 80 a 100 estranei, e si esponesse intanto, di fronte ai permalosi isolani, al rimprovero di aver allagata la Sicilia di forestieri. Tali erano in fatti, secondo loro, i napoletani del continente, incomodi, sgraditi e forse odiati sempre, ed ora anche con maggiore animosità e sfiducia accolti, come quelli cui erano tutte le migliori cariche affidate, mentre i nativi, certamente più atti a conoscere e curare i bisogni dell’isola e i modi da provvedere alla pubblica sicurezza, si vedevano dai più alti posti quasi interamente esclusi.

Ma più dell'avversione contro i compatriotti continentali era aspro in Sicilia l’odio contro i francesi, le origini del quale risalivano ai famosi Vespri. Nelle sue presenti condizioni la real famiglia aveva motivo di chiamarsene contenta. Poiché se occorreva far qualche cosa contro i francesi, i siciliani si prestavano volentieri di là dal bisogno. Quando il 20 di gennajo una nave proveniente dall’Egitto sbarcò presso Augusta 140 uomini, quanti si trovavano ne’ dintorni, marinari e popolani, accorsero per dare addosso ai francesi, 87 ne uccisero, e gli altri respinsero al mare dove furono da una nave napoletana raccolti. Sì fatto odio si estendeva anche ai circoli di corte; e poco dopo l’arrivo di questa in Palermo, fu ordinato in nome di Ferdinando IV che tutti i francesi venuti con essa dovessero lasciar la Sicilia, il che per altro, per la lontananza dell'isola e per la poca sicurezza dei mari traversati da navi da guerra di tutte le nazioni, non era facile di mettere prontamente in atto. Si dettero anche dei casi degnissimi di speciale riguardo, ne’ quali la regina avrebbe volentieri stesa la sua mano protettrice (114). E così sembra che prendesse provvedimenti per accogliere le due sue zie francesi, e con tal proposito mandasse a Taranto una nave per prenderle; se non che poi fu costretta a revocare gli ordini, come colei che tanto meno osava contrastare alla opinione pubblica, quanto più ella e i suoi erano soggetti ai capricci degli eccitabili isolani.

La regina, appena rimessasi alquanto in forze, avea rivolto la sua attenzione alla difesa della Sicilia per il caso che i francesi portassero contro di essa le armi. «Io desidero,» aveva ella scritto fin dal primo dell'anno a lady Hamilton, «di poter pacatamente conferire intorno a ciò col nostro ottimo ammiraglio; poiché tutto quello che vedo e sento non mi fa star punto tranquilla» (115). Non che mancasse, per quanto ella poteva scorgere, la buona volontà; ma gli ordini che la previdenza dei superiori impartiva, erano dai subalterni e dal po polo così lentamente messi in opera e così fiaccamente e trascuratamente condotti a fine, che si veniva a perdere il tempo più prezioso. Carolina non senza ragione attribuiva questo inconveniente ai difettosi ordinamenti dello stato: «Qui non si ha nessuna idea di ciò che vuol dire governo o ordine; non si conosce diligenza né sforzo; erano avvezzi a vivere dall’oggi al dimani» (116). Però non è dubbio che vi contribuiva la sua parte la scontentezza del popolo per essere il governo quasi esclusivamente in mano ai napoletani.

Gl’inglesi non si dissimulavano punto tali condizioni di cose. Non ostante l’affetto verso la sventurata coppia reale, non erano tanto ciechi da non vedere i torti che gl’isolani sopportavano; ed è certamente da notare che lo stesso Nelson, di sentimenti così benevoli e delicati, indicasse il punto, sopra il quale un decennio più tardi il brutale Bentinck dovea fondare i suoi pieni poteri. Tanto è vero che ciò risiede negl'istinti politici della nazione a cui entrambi appartenevano, e che le opinioni e le tendenze, che pigliano origine dalla natura, passano in eredità dagli avi ai nepoti. Sebbene il Nelson probabilmente lasciasse di rado la sua nave, tuttavia sino dalle prime settimane della sua dimora in Sicilia non gli sfuggì che i pubblici affari e gli ordinamenti dell’isola erano tutt'altro che ben condotti, e non senza colpa della corte e de' più intimi consiglieri di essa (117). Bisognava, a suo avviso, pensar sul serio a dotare il regno di migliori istituzioni, altrimenti era da temere di perdere la Sicilia come s’ era perduto Napoli.

Quanto al più prossimo futuro, così a Palermo come sulla nave ammiraglia inglese si confortavan pensando essere il numero dei francesi (118) talmente esiguo, che aveano abbastanza da fare per prendere e conservar la metropoli, e non che avanzarsi aggressivamente contro la Sicilia, potevano difficilmente attentarsi ad andar oltre nel paese. Se non che col correre delle settimane tal conforto andò dileguandosi, secondo che i francesi si rinforzavano a Napoli e il seme rivoluzionario da essi sparso cominciava a germogliare. Almeno così pareva. È vero che dalle province orientali giungevano a Palermo voci indeterminate che sonavano pienamente favorevoli. Si diceva che in Puglia, Lecce ed Otranto non s’era visto ancora un francese, e le popolazioni da per tutto duravano al re fedeli. Ma di diversa qualità erano le novelle che pervenivano dalle parti occidentali, e specialmente da quelle situate a sudovest, e quindi alla Sicilia più prossime e in continuo commercio con Messina, Siracusa e Palermo. Le isole nel golfo di Napoli erano state le prime a essere attratte nell’orbita della rivoluzione; il 27 di gennajo, cioè quattro giorni dopo la conquista della città, il marchese de Curtis, regio governatore di Procida, dovè far fagotto, e pochi giorni appresso giunse fuggiasco con sua sorella in Palermo. Sul continente erano quasi esclusivamente le città dove i giacobini contro i fautori del vecchio sistema si sollevavano, e ora gli uni ora gli altri prendevano il sopravvento. In molti luoghi la paura degli eccessi della moltitudine avida di sangue e di bottino era cagione che la classo dei possidenti in braccio alla repubblica si gettasse.

Così per una via o per l'altra la rivoluzione avanzava per Salerno e pel Cilento sino alle Calabrie, dove Paola, Rosarno ed altre città compiutamente ad essa si abbandonavano. In Cosenza, città capo della provincia, i realisti formavano un potente partito, il quale per altro in breve rimase al di sotto per cagione, a quanto pare, della mancanza di carattere di un antico ufficiale, per nome de' Chiara, che era dai fautori della monarchia tenuto per uno de' loro (119), ma che all’ultimo momento si mostrò alla testa dei rivoltosi patriota, Nella città capo della Calabria ulteriore II la rivoluzione ebbe pieno trionfo. Appena giunse a Catanzaro la nuova dell’entrata de' francesi in Napoli, i patriotti sollecitamente raccolti, seppero ridurre tutto il potere nelle loro mani; il preside regio, Don Antonio Winspeare, provvedendo alla propria sicurezza, riparò in Sicilia; il Tribunale, pochi giorni prima prodigo di dichiarazioni di lealtà, si fece ligio del nuovo potere e con proclami indegni oltraggiò l’antico. Nella vicina Cotrone il presidio fu costretto a passare al servizio della repubblica, il colonnello Fogliar che lo comandava fu messo in carcere, un antico ribelle, che per aver preso parte alla congiura del Logoteta era stato condannato, fu sciolto dai ceppi e in luogo del Fogliar incaricato del supremo comando militare. Via via la febbre rivoluzionaria sempre più ardente alle città della Calabria ulteriore 1 si estese, sicché da ultimo sole quattro rimasero nelle quali i realisti predominavano: Reggio, Scilla, Palmi e Bagnara. Il che era dovuto principalmente alla vigilanza e all’opera pronta e vigorosa dell’auditor Di Fiore in Reggio. Poi si parlò di un padre Minasi, che prese con buon successo a difendere la causa del re e, raccolta una mano di armati, si fortificò a S. Domenico di Soriano, su i confini della Calabria meridionale (120).

Ma quanto poteva ciò durare? E non durando, le cose volgevan male per la Sicilia. Tutto quello che l’isola possedeva in fatto di armamenti e mezzi di difesa era stato, innanzi che cominciasse la guerra, mandato nel continente, dove nel corso dell’infelice campagna parte era caduta in mano dei francesi, parte, nella confusione che accompagnò la partenza per Palermo, fu lasciata indietro, parte finalmente, che era stata creduta salva, andò perduta per l’imperversare degli elementi: armi e munizioni, approvvigionamenti da guerra d’ogni qualità, cannoni e navi. Onde la Sicilia si trovava quasi del tutto sprovvista. Non vi erano magazzini, né fabbriche di armi, né fonderle; e poiché anco le opere di fortificazione erano state da molti anni trascurate, quel poco che rimaneva ancora appariva o rovinato o in tali condizioni da essere inservibile. Messina però dava con ragione maggior pensiero alla corte, tanto più che il governatore di quella piazza importante, di nome Dañero, era uomo debole e da persone poco degne di fiducia circondato (121).

Il Nelson, spinto senza dubbio dalla regina e da lady Hamilton, scrisse al Niza e al commodoro Mitchell nella rada di Messina, a Carlo Stuart, al Troubridge a fin che pigliassero provvedimenti per la sicurezza dell'isola.

Allora vi fu un uomo che non era soldato di professione e fino a quel giorno avea consacrato l’operosità sua piuttosto al vicino stato romano che alla sua patria, il quale concepì il disegno di trapiantare dalla Sicilia al continente la controrivoluzione, e procedè con tanto valore all'attuazione del suo disegno, con tanta costanza al conseguimento del suo fine, che tanto più ammirabile ci apparisce, quanto più esigui erano i mezzi che i poteri costituiti erano in grado di somministrargli. Sì fatti mezzi — così diceva egli fin da principio a se stesso — doveva principalmente trarli da quel medesimo paese ch’egli voleva riconquistare al suo re; e fece assegnamento sulle relazioni e parentele che la sua famiglia, da lungo tempo risedente nel mezzogiorno della Calabria, aveva in quelle regioni, che essendo vicinissimi alla Sicilia potevano sperare in caso di bisogno dalla Sicilia stessa appoggio ed ajuto.

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Fabrizio Ruffo, nato il 16 di settembre 1744 a San Lucido presso Paola in Calabria, dove la sua famiglia, a cui appartenevano i feudi di Bagnare e Scilla, di Scaletta (di faccia a Reggio) ed altri, aveva una numerosa dipendenza di sudditi e aderenti, d’impiegati e di ecclesiastici, era figliuolo di Littorio Ruffo, duca di Baranello, e di Giustiniana della casa principesca dei Colonna. Uno zio, Tommaso Ruffo, cardinale della Chiesa romana e decano del sacro collegio, prese sotto la sua custodia il fanciullo, che in tal modo a quattro anni cominciò a riguardare come sua seconda patria Roma. Fra gli amici dello zio e tutore era l’auditore Giovanni Angelo Braschi da Cesena; co’ capelli del quale copiosi e riccioluti volendo un giorno baloccarsi il piccino, e mal soffrendo che l’altro facesse atto di difendersi e d’impedirglielo, preso da sdegno infantile gli menò uno schiaffo, con gran diletto dell’auditore a cui il vivace fanciullo era caro.

Nò mai schiaffo ha certamente portato migliori frutti a colui che lo diede. Mentre Fabrizio compiva la sua educazione nel collegio dementino, il suo protettore Braschi a grado a grado s’inalzava, sino a divenire uno de' più autorevoli cardinali e a sedersi finalmente nel 1775, come Pio VI, sulla sedia di S. Pietro. Il papa prese da prima il suo giovine amico presso di sé come chierico di camera, poi nel 1785 lo nominò tesoriere generale, nella qual carica il Ruffo non solamente attuò una quantità di provvedimenti utili all’universale, ma rimise in ordine e assetto tutto il sistema delle finanze papali. Non mancò senza dubbio d’attirargli disfavore la fermezza con la quale quei provvedimenti recò ad effetto; una gran parte delle classi privilegiate era sdegnata contro di lui per aver loro diminuito gli antichi diritti feudali; i contrabbandieri l’odiavano e maledicevano perché i nuovi ordinamenti doganali sciupavan loro il mestiere; e via discorrendo. Non si può dall’altro canto negare che il Ruffo corse in molti casi tropp’oltre con le sue riforme e dopo più maturo esame fu costretto a tornare addietro, del che Pasquino e Marforio presero argomento di motteggi, presentando una volta fra le altre l’immagine del tesoriere generale del papa, scrittovi in una mano: «ordine» nell’altra: «contrordine» e sulla fronte «disordine.» Però la vastità delle sue cognizioni era ammirabile; si hanno suoi scritti sulle fonti e condotture d’acqua, sui costumi delle diverse specie di piccioni, sui movimenti delle milizie, sull’equipaggiamento. della cavalleria. I romani in complesso aveano più ragione di essergli grati che di sbeffarlo; il suo nome è collegato a istituzioni di cui dura ancor oggi la benefica efficacia. Nessuno poteva attaccarlo nella interezza del suo carattere pubblico. Anco gli avversarj doveano rendergli giustizia e confessare, che tutto quello a cui egli metteva le mani sapeva con rara energia e con incontrastabile abilità condurlo a fine. Oltre di che si raccontavano di lui tratti umani e pietosi, che lumeggiavano favorevolmente l’indole sua; così per esempio una volta, essendo a caccia nelle paludi pontine — nel prosciugamento delle quali gran parte del merito spettò a lui — s'imbatté in un uomo colpito dalla malaria; e poiché nessuno del seguito si trovava vicino, ei lo caricò sulle sue proprie spalle, e per un miglio quasi di strada lo portò fino alla sua carrozza, nella quale adagiatolo, lo menò a Roma e lo consegnò da sé allo spedale di S. Spirito.

Scoppiata la gran rivoluzione francese, Fabrizio Ruffo attese con grandissimo zelo a mettere in istato di difesa lo stato pontificio, provvide a reclutare, ordinare ed esercitar l’esercito; a restaurare e porre in buon assetto le piazze forti come Civitavecchia; a introdurre riforme negli armamenti e nel servizio dei cannoni, le quali fecero così buona prova e levarono tanta fama, che Ferdinando IV mandò a Roma due ufficiali di artiglieria perché col consenso del papa più da vicino in tal servizio si ammaestrassero. Conferitogli nel concistoro del 29 di settembre 1791 il cappello cardinalizio, il Ruttò lasciò il suo posto di tesoriere, che avea dato modo ai predecessori suoi di accumular grandi ricchezze, e lo lasciò con le mani vuote, tanto che gli fu mestieri di contrarre un imprestito per coprire le prime spese occorrenti alla sua novella dignità (122). Sulla proposta delI’Acton il nuovo cardinale — che del resto avea soltanto gli ordini minori, e per conseguenza non potea dir messa né amministrare i sacramenti né impartire neanche la benedizione (123)— fu invitato a tornare in patria, dove però non ebbe altro se non l’intendenza di Caserta e l’alta vigilanza della colonia di San Leucio, opera favorita del re, assai modesto e tranquillo ufficio per colui che dalla operosità spiegata a Roma aveva acquistato la reputazione di uomo intraprendente e vago de' più arditi disegni. Tuttavia seppe anche in quell’ufficio rendersi utile occupandosi fra le altre cose nell'allevamento dei bachi da seta. E al suo solito zelo avrebbe di sicuro corrisposto un felice successo, se l’esito sventurato della campagna del novembre 1798 non l’avesse impedito, inducendolo, come tanti altri personaggi di uguali sentimenti, a lasciare la città ed il paese per seguire la corte fuggitiva a Palermo (124).

Pietro Calà Ulloa duca di Lauria, riferendosi alla sentenza di Tacito, che le cagioni delle grandi cose sono per la più parte sconosciute o mal note, congettura che la vicendevole gelosia fra l’Acton e il Ruffo abbia portato a maturità l’impresa di quest’ultimo. E forse l’Ulloa non ha interamente torto. Poiché se ha un alto grado di verisimiglianza l'opinione che l'ambizioso e accorto britanno e l’operoso e appassionato calabrese non sentivano scambievolmente singolare benevolenza, risulta pure dalle lettere del Nelson, ed è da alcune espressioni della regina confermato, che dopo l’arrivo della corte in Palermo nacquero d’ogni maniera malintesi e screzj che dettero per un momento all’Acton Videa di ritirarsi (125). L’arditissimo disegno di muovere dalla punta meridionale della Calabria contro le forze repubblicane Ano alla metropoli continentale, dall'estremo termine del regno cominciar la riconquista di esso, e arrischiarsi a una impresa di tal momento con mezzi così incerti, si confaceva compiutamente col carattere e col grande animo del Bagnare, mentre l'Acton, quando non potè più lungamente contrastare, dovè senza dubbio adoperarsi per attraversar sottomano la via all'incomodo rivale, essergli apparentemente largo di conforti, ma in realtà abbandonare il temerario a se stesso, alla sua follia, alle sue illusioni (126). Dall’altra parte non c’era da far carico all'assennato ministro, che l’esito dell’ultima campagna, tanto dolorosamente e vergognosamente contrario alle sue aspettazioni, gli stesse sempre, come un avvertimento, innanzi agli occhi; dove il general Mack con un bell’esercito di 60,000 uomini avea dovuto soccombere, potrebbe forse trionfare un cardinale di Santa Chiesa col crocifisso in mano? Sulla riuscita degli ampollosi disegni del Ruffo, quando forze alleate non soccorressero, la regina medesima non faceva assegnamento veruno; non ostante la vivacità e l’impazienza del suo spirito immaginoso ella non riguardava quell’impresa se non come un impedimento al progredire dei repubblicani; il cardinale occuperebbe le Calabrie e cerchèrebbe di tenerle, a guisa di antemurale di Sicilia. Questo doveva, secondo lei, essere senza indugio e risolutamente eseguito, poiché il malato era agli estremi e occorrevano estremi rimedj. E il Ruffo, quale ella oramai lo conosceva, era l’uomo da eseguir ciò. Né apprezzava l’ingegno, ne vedeva il coraggio, ne ammirava la operosità indefessa. Quanto le rincresceva di non averlo meglio conosciuto per lo innanzi! non sarebbe stato lui, invece dell’inetto Pignatelli, l’uomo chiamato a difender la metropoli? (127) Ma oramai non c’era da far nulla; non si poteva tornar addietro, bisognava drizzare avanti lo sguardo. Fabrizio Ruffo rimaneva solo ad appoggiarla, ed ella lui. Era lei il miglior amico ch’egli avesse alla corte di Palermo; onde prese cognizione de' suoi divisamenti, si fece spiegare i suoi disegni, e instancabilmente con lui cooperò. Quando tutti disperavano del buon successo, ella restava non meno del Ruffo ferma nel proposito. Con la pertinacia propria delle donne che, fatto un proponimento, voglion raggiungere il fine, ella tanto tornò sulla medesima idea, che la vide finalmente recata in atto.

E cosi fu pubblicato il dì 25 di gennajo dalla cancelleria reale di Palermo un decreto firmato da Ferdinando, che incaricava il fedel cardinale nientedimeno che di riconquistare il continente napoletano. Vi si diceva che il re sperava soccorsi d’ogni sorta dall’imperatore; il Turco avea promesso il simile, e la Russia altresì, e lo stesso gl’inglesi che si erano obbligati a invigilare con la loro squadra la sicurezza della Sicilia. Per ottenere tal sicurezza e potere appoggiare dalla parte di terra le operazioni sul mare, per impedire commerci pericolosi e tentativi di seduzione dal continente sull’isola e viceversa — «per rendere immune l’una e l’altra parte da ostilità e da mezzi di seduzione» — bisognava in prima linea che nei luoghi ancora liberi delle Calabrie mettessero piede e si fortificassero le milizie reali. Il cardinale nella sua qualità di vicario generale del regno e alter ego del re aveva pieni poteri di adoperar tutti i mezzi che reputerebbe necessarj al ristabilimento della religione, alla difesa della proprietà, della vita e dell’onore delle famiglie, alla ricompensa di coloro che per tal rispetto avessero meriti, e anche alla severa punizione de’ rei. Egli aveva autorità di privare dell’ufficio qualunque presidente e amministratore reale, giudice e impiegato di qualunque grado, e sostituirgli qualunque persona gli sembrasse più capace: «acciò tutti i dipendenti del governo riconoscano nell’Eminenza Vostra il Superiore primario da me destinato a dirigerlo.» Tutti i corpi di esercito ancora raccolti o che fossero per raccogliersi e tutti i comandanti di essi gli dovevano essere sottoposti; e così pure tutte le casse reali (128). Queste ampie facoltà non contenevano che una clausola, la quale, se dalle due parti non si concorreva con pari fiducia,

senza ombra di gelosia e di sospetto, era capace di essere diversamente intesa ed applicata: «Mi darà conto regolare di ciò che sull’assunto avrà stabilito e penserà di stabilire, e sopra di cui vi fosse tempo da sentire le mie risoluzioni e ricevere i miei ordini» (129).

In fatto di danaro furono dati al cardinale 3000 ducati pel viaggio e pel primo equipaggiamento, 500 altri doveva in breve portarglieli il marchese Taccone a Messina; come assegno regolare gli furon promessi 1500 ducati mensili, salvo il di più che gli potesse occorrere per la sua impresa. Pel servizio militare il re mise il suo ajutante, marchesino S. Filippo Malaspina, a disposizione del cardinale; al general Dañero in Messina fu in pari tempo ordinato che si somministrassero al cardinale armi, munizioni e in generale tutti i soccorsi e sussidj adattati.

Con quella rapida risoluzione che gli era propria il cardinal generale, come da indi in poi fu chiamato, prese congedo dalla corte e partì due giorni dopo che fu firmato il decreto, il 27 di gennajo. Avea mandato innanzi nella Calabria meridionale il consigliere Di Fiore, che probabilmente in quella congiuntura era stato chiamato a Palermo, ingiungendogli che dai possessi di Ruffo Scilla e di Ruffo Bagnara levasse quanta più gente armata gli fosse possibile, e mettendosi alla testa di quelli aspettasse sulla spiaggia a nord di Reggio l’approdo del contingente siciliano.

Ma un tal contingente.... mancò affatto; giunto appena in Messina a dì 31 di gennajo il cardinal Fabrizio dové per questo rispetto rimanere del tutto disingannato, come in generale riuscirono vane e false tutte le promesse che gli erano state fatte a Palermo. Il tesoriere generale Taccone non sapeva di ordini relativi al pagamento di 500 ducati; e il general Dañero non credette di potere arrischiarsi a spogliare di uomini e di strumenti da guerra quella città, la cui sicurezza era nelle sue mani commessa. La regina dal canto suo non cessò dal mostrare zelo e avvedutezza. Dal primo momento che il cardinale lasciò Palermo, ella cominciò con lui un carteggio inteso a tenerli entrambi informati, per quanto la crescente lontananza fosse per concederlo, delle circostanze e degli avvenimenti, di ciò che a lui per condurre la sua impresa abbisognasse, e di ciò che ella co’ mezzi che aveva a sua disposizione potesse somministrargli. Il Ruffo era appena arrivato a Messina, e già ella gli mandava una risposta stampata al primo proclama dello Championnet, «a fin che per le Calabrie la diffondesse da sé dove gli sembrasse opportuna; altrimenti la bruciasse.» Qualche giorno appresso gli raccomandava di invitare i soldati e ufficiali del disciolto esercito reale ad accorrere sotto le sue bandiere e a servir da quadri alle indisciplinate masse calabresi. Né si contentò soltanto di scrivere. Si sforzava indefessa di mandargli danaro, armi, munizioni; dava al governatore di Messina ordini a questo medesimo fine; stimolava i fornitori a sollecitare l’esecuzione delle commissioni ricevute, gli armatori a caricare senza indugio e spedire la roba ch’era pronta. Se nondimeno le cose procedevan tutte con lentezza e le promesse non erano compiutamente mantenute, ella non ci aveva certamente colpa. Altro era dare ordini, altro eseguirli; e noi sappiamo in che pessime condizioni s’era in Sicilia per questo secondo rispetto.

E così il futuro vicario generale del regno sin dal principio si vide ridotto a quegli spedienti che il suo spirito vivace, la sua operosità e costanza, la sua risoluta volontà erano per trovare e per mettere in opera. Avendo il Di Fiore scritto da Reggio che i paesi tenuti fino a quel momento in soggezione da lui, qualora non sovvenissero pronti soccorsi, minacciavano di cadere in braccio alla rivoluzione, credette il Ruffo di non potere più a lungo aspettar la risposta che alle domande del Danero e del Taccone dovea giungere da Palermo, e, confidando nella sua stella e nell’ajuto del Dio degli eserciti, mosse da Messina all’opposta riva. L’accompagnavano, oltre il cameriere e un servo, il marchese Malaspina, gli abati Lorenzo Sparziani come segretario particolare, Domenico Sacchinelli come sotto segretario della segreteria (130) e Annibale Caporossi come cappellano, il primo e il terzo romani e nella sessantina. Come insegna gli serviva una bandiera, impressovi da un lato le armi reali, dall'altro la croce con l’iscrizione: In hoc signo vinces,

Per regola di prudenza, forse consigliata dal Ruffo, fu dato da Palermo l’ordine di mandare sotto sicura custodia da Messina a Siracusa tutti i calabresi che erano per motivi politici in prigione (131).

***

Secondo le nuove che si avevano in Palermo della repubblica napoletana recentemente istituita, non c’era nessun motivo da credere che ella dovesse aver lunga durata. Navi di Austria e di Ragusa portavano di continuo siciliani fuggiaschi, che non avean potuto allontanarsi più presto da Napoli e che facevano dello stato di cose lassù descrizioni da destar raccapriccio, narrando come il popolo esercitasse atti frequenti di vendetta contro gli odiati invasori, come ogni notte uccidessero francesi e gli gittassero nel mare che poi ne ributtava nel lido i cadaveri, come si giovassero delle donne loro per adescarli e poi gli ammazzavano, e via discorrendo.

Dal canto suo la regina manteneva, per quanto era concesso, relazioni col continente, riceveva segreti messaggi da aderenti serbatisele fedeli, mandava ragguagli, esortazioni, ordini a coloro che giudicava ancora devoti, al governatore d Ischia, al comandante di Longone; barche d’ogni maniera sotto colore di pesca o di trasporto di comestibili erano adoperate per tenere aperte senza destar sospetto le comunicazioni. Anco manifesti, proclami, giornali ella facea diffondere sulla terra ferma; intendeva bene che parecchi, la più parte forse di quei fogli, andavano smarriti per via, o erano per paura di tradimento distrutti,ocadevano in altre mani; ma pensava pure che alcuni giungerebbero finalmente al recapito; né altrimenti adoperavano dalla parte loro i nemici, che bisognava con le stesse loro armi combattere (132). Se non che doveva convenire che con tutto questo non c’era da avanzare gran cosa, quando non venissero adeguati soccorsi di fuori via, e specialmente l’imperatore non entrasse in campo; senza di ciò il male, ancor leggiero in principio, andrebbe a poco a poco aggravandosi ed estendendosi, e l’animo del popolo, fino allora ancor buono, sarebbe ammaliziato e guasto. Se eran bastati da sei a ottomila francesi a conquistare il regno continentale, di mille soli ne avanzerebbe a impadronirsi dell’isola (133). In tali momenti le sue speranze si ristringevano in angustissimo spazio, e tanto lo sconforto la signoreggiava da farla disperare di tutto e di tutti. In una lettera a Vienna del 28 di gennajo, cioè tre giorni dopo la partenza del cardinale da Palermo, ella scriveva: «Io fido poco nella buona riuscita del Ruffo, che deve conservarci le provincie ancora rimasteci, e rifacendosi dalla Calabria ricondurle alla fedeltà e alla lotta per la buona causa; perché io scorgo il disegno pur troppo ben condotto dei nostri avversari, che riuscirà compiutamente e ci renderà infelici. Ho la trista convinzione, che quando il regno di Napoli sarà in rivoluzione da un capo all’altro, la Sicilia non tarderà a seguire il cattivo esempio, e tal rivoluzione sarà sfrenata e selvaggia; son persuasa che nessuno di noi ne uscirà con la vita salva.»

In fatti indizj rivoluzionarj apparivano in più luoghi delF isola; o almeno nei circoli di corte, spaventati dopo le esperienze delle ultime settimane, si credeva di essere sulle tracce di essi. Non ostante l’ingenita repugnanza contro tutto ciò che veniva di Francia, le parole di libertà e d’indipendenza erano tuttavia tanto seducenti che non potevano non esercitare efficacia sul vivace animo dei siciliani. Accadeva or qua or là qualche disordine, qualche subbuglio, talora qualche piccola sommossa che doveva essere sedata con le armi (134). Per parte della corte non s’indugiò a convocare secondo le forme tradizionali il parlamento, ma senza impromettersene gran vantaggio. Si sarebbero sentiti più sicuri potendo ancora disporre di un esercito, o se il Niza e il Campbell non avessero distrutto il real naviglio, e tutto il materiale di guerra non fosse caduto in mano del nemico. Spogliati di tutti questi strumenti di difesa, si vedevano ridotti in balìa de' siciliani; e bisognava aspettarsi, così si andava dicendo nel circolo della regina, a vedere un giorno o l’altro rizzare l’albero della libertà: «e questo sarebbe il segnale della nostra fuga; poiché presso a quell'infausto albero noi non possiam rimanere.» Carolina non aveva minor paura di un altro viaggio per mare in quella stagione burrascosa, già stata cagione della perdita di uno dei suoi figli, che non ne avesse pensando all’indole «sanguinaria e selvaggia» degl’isolani, in mezzo ai quali, raccolti in folla e concitati, bisognerebbe passare per andar dal palazzo reale lungo la via Cassaro al porto e alla nave liberatrice. E dove dovrebbero cercar rifugio? Ferdinando pensava all’Inghilterra, che a lei «per più d’un motivo» non andava a genio; ella preferiva, quando fosse necessario cercare scampo in paese straniero, «Pera o Costantinopoli.» Certamente i suol pensieri e desiderj la traevano a riparare nella cara sua patria, o almeno a farvi riparare le due innocenti figliuole e il bambino Leopoldo; ella, suo marito e il suo primogenito dovevano trattenersi fino all’ultimo momento in Sicilia; Mimi, Amalia e Toto troverebbero asilo in Vienna presso i Salesiani del convento della Visitazione della B. M. V., Leopoldo a tutti i casi nel vicino Belvedere, fino a che per l’uno e per l’altro di loro si presentasse occasione di miglior collocamento.

In tali ore d’angoscia l’infelice regina era piuttosto pronta a rassegnarsi a perdere anche la Sicilia che ad abbandonarsi alla speranza di riacquistar Napoli. Sopra tutto però le dava pensiero la sorte di Messina. «Io mi corico la sera,» scriveva ella a Vienna, «e mi alzo la mattina sempre con la paura di sentire che Messina è perduta; perché questa perdita si tirerebbe dietro quella di tutto il regno.» Si giudicava che in Messina dominassero peggiori sentimenti che nelle altre città dell’isola; la qual cosa per la vicinanza del continente appariva pericolosissimo. Oltre di che il comando di quell'importante piazza si trovava in mano del governatore Danero, che da gran tempo alla regina era noto come uomo di debol cervello e ligio alle persone assai dubbie che lo circondavano; tuttavia non le bastava l’animo di licenziare quel vecchio servitore per sostituirgli un uomo più vigoroso e fidato; il che sarebbe apparso tanto più necessario, in quanto che nel porto di Messina si custodiva tutto ciò che in fatto di navi da guerra era rimasto alla real casa: due vascelli di linea, quattro fregate, quattro corvette e alcuni piccoli trasporti. Perciò subito dopo la partenza del Ruffo, la cui impresa non ebbe immediatamente ma doveva avere per effetto una nuova diminuzione di presidio sull'isola, si provò di mandare a Corfù il cavaliere Antonio Micheroux perché chiedesse all'armata russo-turca i soccorsi formalmente promessi, e innanzi tutto almeno 3000 uomini per presidiare Messina. Il Micheroux parti con una lettera del ministro russo Mussin-Puskin all’Usakof intesa ad appoggiare le sue domande (135), e nello stesso tempo con incarichi relativi alle due principesse francesi, che la regina desiderava vedere al più presto possibile in asilo sicuro (136).

Il Nelson giudicava, sebbene Corfú non fosse ancor presa, che i due ammiragli potessero facilmente privarsi di un certo numero di bastimenti da guerra con soldati a bordo e cosi ottemperare, «con vantaggio della causa comune,» al desiderio di re Ferdinando (137). In fatti l’Usakof, al quale si presentò il Micheroux nel giorno 20 di febbrajo, si mostrò pieno di buon volere e tanto maggiormente inclinato a far qualche cosa, perché poco prima eran venute deputazioni da Brindisi e Lecce a chiedere premurosamente ajuto contro le minacce dei giacobini. Ma, oltre che la presa di Corfú, principal proposito dell'Usakof e di Kadir bev, non era ancor riuscita, non erano di tutto punto armate le navi, né gli approvvigionamenti e altri apparecchi pienamente condotti a termine; sicché la faccenda andò in lungo (138). La sola cosa che per il momento potè fare l’Usakof fu di mandare a Brindisi la fregata Sciastlivni e un bastimento mercantile, perché accogliessero le principesse di Francia. Se non che sembra che queste non si trovassero allora in quel luogo ma in Taranto, di dove speravano imbarcarsi sopra qualche nave diretta verso la Sicilia; onde passarono settimane innanzi che la fregata potesse eseguire l'incarico.

È singolare che il Nelson, il quale conosceva cosi esattamente i disegni e le speranze della regina, in tutte le lettere che da tutti i lati scriveva nel febbrajo non menzionasse minimamente il cardinale e continuasse a riguardar le due Calabrie come perdute. Da poi che la «Repubblica vesuviana», com'egli la chiamava, era sorta, e Gaeta, Castellamare, il golfo di Napoli, le isole aveano inalberato la nuova bandiera tricolore, mentre dall’altra parte l’imperatore tedesco, secondo il giudizio dell'eroe inglese ardente d’impazienza, in modo inconcepibile e imperdonabile esitava sempre a far valicare al suo esercito le Alpi, non solamente il continente italiano era divenuto un possedimento francese, ma tutte le monarchie della penisola sarebbero presto o tardi rovesciate, e presa anche la Sicilia (139).

Perciò la difesa della Sicilia dalla parte della terra ferma fu la prima cosa, alla quale il Nelson, d’accordo con la regina, rivolse la sua attenzione. «Se la Calabria è occupata dai francesi,» scriveva egli l'11 di febbrajo all’Acton, «il conservare Messina e la torre sul Faro è di capitale importanza.» Lo stesso giorno mandò al marchese Niza ordine di far partire alla volta di Palermo un vascello di linea; il quale poi portò il giorno 14 da Palermo a Messina 500 uomini per rinforzarne il presidio. Dal lato del mare la squadra portoghese era per il momento l’unica difesa dello stretto verso Reggio, poiché le forze navali del Nelson, sebbene assai rilevanti, si trovavano parte trattenute in diversi punti del Mediterraneo, parte in alto mare, a fin di mantenere le comunicazioni fra le varie stazioni, ovvero per potere a un caso accompagnar sicuramente qualche squadra di bastimenti mercantili appartenenti ad inglesi (140). Il Nelson in persona stava nel porto di Palermo a vicenda sulla Vanguardia o sul Bellorofonte. A Malta il capitano Ball avea tentato nella seconda metà di gennajo un assalto contro il forte di La Valetta; le colonne avean già varcato il primo fosso, quando i soldati nativi— «damn them» scriveva al Nelson al St. Vincent nel 3 di febbrajo — si volsero io fuga, e l’impresa fu abbandonata. Ma fino a che Malta non era sgombrata dai francesi, e sulle mura della metropoli piantata la bandiera di Ferdinando come di «legittimo sovrano,» non poteva il Nelson né richiamare né naturalmente indebolire il navilio che stava colà fermo, il cui comandante godeva dell’amicizia e piena fiducia sua. Il simile accadeva col Troubridge, che incrociava innanzi alle bocche del Nilo con sei vascelli di linea da 80 e 74, una fregata da 38 cannoni e le due cannoniere Perseo e Bulldog, né poteva facilmente cedere alcune delle sue navi innanzi che trasporti da guerra russi e turchi non venissero a sostituirle. Nondimeno il Nelson deliberò finalmente di chiamare il Troubridge con la maggior parte delle sue navi nelle acque tirrene, del che la corte di Palermo gli fu singolarmente grata. Da un’altra parte fu G. L. Stuart invitato a mandar da Minorca 1000 uomini per presidiare il forte di Messina; il qual desiderio si avea motivo di credere che fosse per essere prossimamente compito. Le forze proprie, sulle quali il re poteva fare allora assegnamento per la difesa dell’isola, montavano, secondo i calcoli del Nelson, a 4,000 uomini; 10,000 stavano per essere sollecitamente raccolti e messi in ordine di combattere; al che c’era da aggiungere 26,000 uomini della milizia (141).

In tutti questi provvedimenti non era punto questione di aver riguardo all’impresa del Ruffo, e di appoggiarla dalla parte del mare, come lo stesso real decreto del 25 di gennajo avea promesso. Tanto preoccupava gli animi la sicurezza dell’isola, a cui la sollevazione calabrese nel miglior dei casi serviva di antemurale, e tanto poco presso gl’inglesi avea favore l’audace impresa d’un uomo, che per la sua origine e precedente educazione non era giudicato degno compagno di guerra!

II

RIPRISTINAZIONE DEL NOME E DELL’AUTORITÀ REALE NELLA CALABRIA ULTERIORE

A dì 8 di febbrajo 1799 il Cardinal Ruffo co’ suoi pochi compagni scese a terra presso la Catona all'imboccatura dell’Aleccio (142), dove il preside D. Antonio "Winspeare, il Di Fiore e Don Fr. Carbone, già ufficiale della milizia, a capo di circa 80 uomini l’aspettavano.

Era un venerdì, ed è stato poi notato che tutte le vicende decisive di quell'audace campagna occorsero in tal giorno. Dalla Catona il cardinale, andando lungo la spiaggia, si recò a Pezzo, lontano circa cinque chilometri, dove si acquartierò nel casino del fratel suo, duca di Baranello, e presto fu veduta sventolare sul tetto la sua bandiera. Mandando a Messina la nuova del suo sbarco sul continente pregò che gli si spedisse due pezzi di campagna con le necessarie munizioni. Nello stesso tempo il porporato della chiesa romana pubblicò un manifesto ai vescovi e parroci, e a tutto il clero, e lo fece da celeri messi per ogni dove diffondere; gli invitava «a difendere la religione, il re, la patria, la proprietà,l’onore delle famiglie,» a raccogliere schiere armate e condurle, quelle del piano a Palma, quelle dei monti a Mileto (143). La voce dei sacerdoti tonò dai pulpiti e tutti gli animi accese. Tutti i paesi si commossero e si agitarono; chiunque aveva braccia e gambe sane si armò e scese in campo; i facoltosi, che non potevano andar da sé o non volevano, assoldarono i poveri. Cosi adoperarono specialmente e senza risparmio parecchie corporazioni religiose, i certosini di S. Stefano del Bosco, i frati di S. Domenico di Soriano. Il vescovo di Mileto Capece Minutalo si fe’ zelante sostenitore dell’impresa, provvide all’alloggio delle torme che, condotte da' suoi preti, precedute dall’insegna della croce e con una piccola croce bianca sul cappello, provviste di viveri per più giorni, da tutte le contrade, da tutti i monti agl’indicati ritrovi affluivano.

Non avea da gran tempo il Cardinal Fabrizio preso possesso del casino di famiglia, quando una piccola nave s’accostò a terra, e ne scesero Don Francesco Caracciolo e un emigrato di nome Périer. Erano diretti a Napoli e, per non cadere in mano degl’inglesi, volevano fare il viaggio lungo le coste parte per terra e parte per mare. Invitati a casa del cardinale, significarono la loro riconoscenza ma non accettarono, non avendo tempo da perdere. Richiesto il Ruffo, che cosa pensasse di fare in quel luogo, rispose: Vedete quella barca? È destinata a ricondurmi a bordo come prima apparisca necessario (144). Non gli riuscì però d’ingannarli; pare invece che il Caracciolo e il Périer lungo il viaggio contribuissero principalissimamente a diffondere la nuova della strana apparizione del Ruffo di qua dal Faro. Del resto, anche senza di ciò, con la rapida ed estesa diffusione del suo manifesto, non poteva a lungo ciò che egli andava apparecchiando rimanere ignoto agli ufficiali della repubblica. Il tribunale provvisorio di Catanzaro, preseduto dal caporuota Vincenzo Petroli, non indugiò un momento a mettere al bando tutti e singoli i partigiani realisti, e a porre una taglia sulle teste del Ruffo, del Fiore, del Carbone. Se non che l’effetto non corrispose all’aspettativa. Il moto realista andò di giorno in giorno guadagnando estensione e forza. Là dove qualche tempo innanzi, eccitate dai messi della Partenopea, s’eran levate le grida: Viva la repubblica, muojano i tiranni!, si sentiva adesso gridare: Viva il re, viva la religione, muojano i giacobini! Guai a chi fosse per questo ultimo rispetto in mala fama! Fin dal terzo giorno dopo l’arrivo del Ruffo un 120 armati da S. Eufemia di Sinopoli comparvero presso Bagnara; i cui abitanti, rimasti perla più parte fedeli al re, credendo che quelli fossero repubblicani, dettero tutti, uomini e donne, vecchi e fanciulli, di piglio alle armi per respingere l’assalto, mentre tre giovani ardenti, facendo assegnamento su pronti ajuti, gridavano: viva la libertà! L’inganno fu presto chiarito, quando quelli di S. Eufemia gridando: viva il re, viva la Santa Fede! si avvicinarono; e allora il popolo di Bagnara diede addosso a quei tre apostoli della libertà e gli uccise (145). I fautori e strumenti del governo francese, non istimandosi più sicuri in aperta campagna, si andarono rifugiando tra le mura delle città, che si vennero popolando di fuggiaschi dalle vicine e dalle lontane contrade. Di queste forze raccolte il partito repubblicano si giovò per opprimere i realisti, tanto più che faceva assegnamento sul prossimo arrivo delle schiere francesi. Apparve in fatti in quel tempo una nave con bandiera repubblicana presso la spiaggia di Cotrone; la quale però non da Napoli per portare ajuto, ma veniva dall’Egitto per chiederne, e sbarcò 32 bassi ufficiali d’artiglieria con un ufficiale e un chirurgo; che furono accolti volentieri come rinforzo del presidio nel forte, e contribuirono non poco ad attizzare il fuoco repubblicano.

In tali circostanze non erano le condizioni dei realisti nelle città meno difficili e pericolose di quelle dei repubblicani nelle campagne. Molti fra essi, per evitar danni a sé ed alle proprie famiglie, nascondevano i loro veri sentimenti ed aspettavano chetamente l’ora che dall'indegno freno gli sciogliesse; altri in non minor numero erano segreti partigiani del cardinale, e gli apparecchiavano la strada. Ma il nuovo reggimento si adoperava esso pure a crescere il numero de' seguaci del Ruffo. L’abolizione assoluta dei diritti feudali, dei fidecommessi,, dei tribunali provinciali aveva tolto il pane a una quantità di persone; talché poteva, come i mercenarj del medio evo, prenderle al suo servigio chiunque offerisse loro speranza di lavoro e di guadagno. In tal modo a' ingrossarono di giorno in giorno le schiere de' volontari, che raccolte presso Palmi e Mileto contarono in breve i loro armati a migliaia. Era certamente la più strana accozzaglia di gente che altri potesse immaginare o dipingere; ricchi possidenti, ecclesiastici d’ogni qualità e grado, cittadini e operaj, armigeri baronali licenziati e militi delle disciolte corti di giustizia. Questi ultimi, come pure alcuni soldati e ufficiali del disfatto esercito reale, erano i soli elementi disciplinati in mezzo a una moltitudine, che pur troppo concorrevano a comporre in gran copia scioperati e bricconi, non tratti certamente sotto le bandiere del cardinale dal sentimento del diritto o dalla devozione alla monarchia, ma piuttosto dai più volgari motivi, dal gusto per la vita sfrenata, dal desiderio del bottino, dalla sete di sangue e di vendetta contro personali nemici. Il Ruffo, massime in principio, non poteva nella scelta esser severo; non avendo a sua disposizione corpi di soldati regolari, come gli avean fatto sperare a Palermo, gli rimaneva l’unico spediente di operar con le masse. Ma queste masse non potea lasciarle lungo tempo disoccupate, mancandogli il danaro per il soldo e mantenimento loro; e perciò riusciva difficile il serbarle in qualche modo ordinate. Ottenne da Messina due piccoli cannoni e poi due obici, ma poche munizioni e per giunta inservibili. Bisognò dunque che pensasse a provvedersi del materiale da guerra per via di contrabbando. Anche uomini per servire i cannoni mancavano affatto; un antico caporale d’artiglieria, De Rosa, assunse provvisoriamente l’incarico di prender cura di quelle armi e d’istruire de' soldati à metterle in opera.

E così il 13 di febbrajo il Ruffo montò sul suo cavallo di battaglia, e partito da Pezzo alla testa della schiera di Carbone e del suo parco di artiglieria, in tutto 350 uomini (146), si avanzò da prima su Scilla, il cui principe, suo cugino, dimorava nella lontana metropoli. Senza indugio continuò la marcia lungo la costa per Bagnara verso Palmi, dove era raccolta la prima massa di crociati che avean risposto al suo invito. Colà, dal suo «quartier generale,» pubblicò come «vicario generale del Regno di Napoli» in nome di Ferdinando IV un nuovo proclama, col quale esortava tutti i cittadini ad accorrere sotto la bandiera della santa croce e della legittima monarchia, per cacciare gli stranieri dai confini di Napoli e d’Italia, e infrangere le indegne catene fra le quali il santo Padre languiva: «Il vessillo della Santa Croce ci assicura una completa vittoria» (147). Non essendovi in quel tempo in tutte le tre Calabrie neppure una stamperia, il proclama dovette essere scritto a mano, nel che i numerosi ecclesiastici che si trovavano fra i suoi aderenti mostrarono zelo e diligenza grandissima. In Palmi cominciò anche il Ruffo a prendere i primi provvedimenti per ordinare la sua «armata cristiana» improvvisata, che da allora in poi ebbe tal nome. Quell'armata moltitudine fu divisa in compagnie di 100 uomini con tre capi, non subordinati l’uno all’altro ma pari; i già soldati e militi furono raccolti in un corpo distinto sotto gli ordini di ufficiali della milizia territoriale o sottufficiali di linea. Il danaro occorrente fu tratto, con promessa di rivalsa sul tesoro dello stato, dalle rendite di quei beni, i cui proprietarj, lontani dai sudditi loro, vivevano sotto la protezione francese; il principe di Scilla e il duca di Bagnara, fratello del cardinale, che dimoravano in Napoli, furono i primi, dei quali in tal modo si sequestrarono i beni. Don Pasquale Versace, uomo facoltoso di Bagnara, fu nominato provvisoriamente tesorier generale dell'armata cristiana, e a capo dell’intendenza militare fu messo il consiglier Di Fiore (148).

Da Bagnara il cardinale co’ suoi combattenti, a cui in ogni luogo per dove passava s’aggiungevano nuovi drappelli, avanzò per Rosarno verso Mileto, dove era pronta la seconda armata, quella dei volontarj montanari. Colà ordinò a tutti gli uomini atti alle armi levatisi in massa nei paesi circostanti a mettersi in marcia il 28 di febbrajo verso Monteleone; e in tal guisa portò le sue forze a circa 17,000 uomini, quasi tutti in armi. Di spavento furon compresi a tal nuova quanti erano repubblicani in Monteleone; in una notte tutti i patriotti se la svignarono e la più parte ripararono a Catanzaro. Così la maggioranza realista ebbe campo libero; caddero gli alberi della libertà, e nel luogo loro s’inalzarono croci; il consiglio municipale repubblicano dové ritirarsi, e una processione in oaore del santo protettore della città festeggiò solennemente la felice rivoluzione. Nello stesso tempo andarono legati al cardinale per fargli conoscere l’accaduto e invitarlo a prender possesso della città in nome del re: una contribuzione volontaria di 10,000 ducati fu con segnata nelle mani del regio vicario generale, cui la città promise oltre di ciò tredici cavalli forniti d’ogni cosa. Il 1° di marzo (149) fece Fabrizio Ruffo la sua entrata in Monteleone, dove prese alloggio nel palazzo del duca. Da Tropea ed altre città calabresi giunsero deputazioni, che fecero atto di sommissione, e offrirono di aggiungere combattenti all’esercito, o di levarsi in armi nel proprio territorio.

L’incruento e generoso sottomettersi di Monteleone, l’aderire spontaneo di quella città, forse la più importante e cospicua della Calabria meridionale, alla causa regia, fu il primo felice e decisivo successo del Ruffo, e la fama rapidissimamente se ne sparse da tutti i lati. Anche le sue forze militari erano alquanto cresciute; oltre di che con la volontaria contribuzione entrò la prima somma rilevante nella cassa. Due pezzi di campagna, abbandonati dai patriotti fuggenti, gli vennero singolarmente opportuni. Soldati congedati e militi si presentarono in gran copia, tal ché in breve ei fu in grado di formare tre battaglioni di 600 uomini; e fattone il primo reggimento reale Calabria Ultra, ne nominò colonnello il De Sectis (150), già comandante della milizia, e luogotenente colonnello il Carbone.

Questo corpo regolare, benché di poco momento, gli fu già utile durante il suo soggiorno a Monteleone occorrendogli di dare un serio esempio alla sua indisciplinata soldatesca. Le cose andarono nel modo seguente. Alcune compagnie irregolari, acquartierate nel convento dei Cappuccini, avean cominciato a frugare per tutte le stanze cercando patriotti nascosti. Non se ne trovò nessuno, ma invece uno dei volontarj scoperse nella cassetta di un povero frate coccarde repubblicane, il che bastò a' suoi compagni per metter sossopra e saccheggiare il convento. L’esempio fu contagioso, le parole: incendio e distruzione, corsero fra quelle squadre selvagge, e l’armata cristiana minacciò di cambiarsi in una masnada di ladri ed assassini. Sollecito raccolse il cardinale i soldati regolari, fece avanzare il De Rosa co’ cannoni accompagnati dai cannonieri con le micce accese in mano, ed egli innanzi a loro traversò a la città, la quale a tal vista tornò subito tranquilla. Coloro che avevan fatto danno al convento furon sottoposti a severo giudizio; tre dei capi condannati alle forche e senza indugio giustiziati. Le cose rubate dovettero essere restituite, tanto più che venne in chiaro come il povero frate non sapesse nulla del nascosto tesoro; alcuni patriota, che qualche giorno innanzi erano stati nel convento, s’erano prima di fuggire affrettati a deporlo nella cassetta.

I tredici cavalli regalati dai Monteleonesi al vicario generale, formarono con altri parecchi che sopravvennero il nucleo della sua cavalleria. Ei ne fece due squadroni, assai disugualmente armati; alcuni portavano lunghe aste appoggiate all’arcione con la punta inclinata innanzi. Due architetti, Giuseppe Vinci da Monteleone e Giuseppe Olivieri da Sinopoli, furono destinati a comandare il genio, ohe consisteva in due compagnie di zappatori borghesi. Faceva da comandante dei trasporti militari Don Antonio Falange; a provvedere agli affari giudiciali fu deputato il giurisperito Don Saverio Lacquanitl, facoltoso cittadino di Lauriana. Più vicino al cardinale stava l’abate Domenico Sacchinelli, che scrisse la biografia del Ruffo e la storia della campagna; il Caporossi e il Presta ebbero ufficio di ajuti.

***

Fra i torbidi delle ultime settimane erano rimaste giacenti una gran quantità di lettere alla posta di Monteleone; dal contenuto di esse il Ruffo rilevò, che tra Napoli e Palermo si faceva un diligentissimo spionaggio, e che però gli conveniva usare il massimo riguardo possibile nel mandare ragguagli alla corte e nel dare ordini a quelli che sotto di lui comandavano. Alla prima egli prese per regola di non annunziare se non i fatti compiuti, di non rispondere alle domande intorno alla forza e agli ordinamenti del suo esercito, di non far conoscer nulla dei propositi e disegni suoi. E anche co’ suoi soldati ebbe il medesimo accorgimento; neppure i capi sapevano con certezza il fine della prossima marcia; e spesso accadde ch'e’ facesse improvvisamente cambiar la direzione di essa e volgere verso un luogo che non sarebbele venuto in mente a nessuno (151). Così avvenne alla sua partenza da Monteleone. Mentre mandava una colonna sotto Giuseppe Massa alla volta di Nicastro, un’altra sotto Frane. Ciglio a quella di Catanzaro, egli stesso moveva verso il Pizzo, dove giunse in tempo per salvar la vita a tre ufficiali del re. Erano il general Naselli e due aiutanti che, fuggiti tardi da Napoli, cadevano colà nelle mani d’una moltitudine inferocita, la quale, accagionandoli della sventurata ultima campagna, voleva senza tanti complimenti farne giustizia da sò. Il cardinale ordinò che da una parte e dall’altra stessero fermi, e fatti prendere i tre ufficiali, ingiunse al marchese Malaspina che alla cittadella di Messina li conducesse, dove il re sentenzierebbe sul loro destino (152).

Nel marciare verso Pizzo il cardinal Fabrizio aveva principalmente mirato a ottenere dal lato del mare novelle delle province settentrionali e a far pervenire a esse la sua voce. La apparizione sua aveva già di lontano commosso, ñno a Salerno e più oltre, il clero, e per mezzo del clero le popolazioni; in molti luoghi del Cilento erano abbattuti gli alberi della libertà e ripristinate le insegne reali; si mandavano messaggi al vicario generale del regno, gli si chiedevano consigli ed ordini, si sperava da lui ajuto e protezione. Ma pel momento egli non era in grado di ajutare e proteggere, bisognava che si ristringesse a dar consigli ed ordini; e così fece scrivendo al vescovo Ludovici di Policastro; lo esortò a seguire il suo esempio, a porsi a capo del movimento,a ordinarlo; a questo fine lo nominò suo rappresentante e plenipotenziario nel Cilento, gli mise a lato per governare le faccende della finanza il proprietario Domenico Romano da Scido, e lo munì di commendatizie pel comandante della squadra inglese, perché questi dal mare appoggiasse l’impresa dei rivoltosi.

Dopo uh giorno di fermata al Pizzo — dove furon trovati due cannoni di bronzo che aumentarono il parco del cardinale e lo portarono a otto pezzi — l’armata cristiana proseguì verso il settentrione, e giunse dopo difficile e faticosa marcia nel cuor della notte a Maida, feudo di casa Ruffo. Così si trovò il Cardinal Fabrizio sulla stessa linea di Catanzaro, dove frattanto era arrivato il suo sottocomandante Fra. Giglio. Questi, noto nel paese dove avea molti amici, seppe appiccar pratiche con provati realisti, con ufficiali licenziati dal governo repubblicano, e con altri che del nuovo ordine di cose erano ristucchi, per modo che ebbe quasi mestieri di combattere per impadronirsi della città. Le sue orde selvagge unite al popolo cominciarono a scorrere sfrenatamente per le strade, alcune case saccheggiando, bruciandone altre, nel che, come in quella guerra accadde da per tutto, non avea poca parte il bisogno di sodisfare personali vendette. Vi furono anche uccisioni di tali che eran segnalati come giacobini; un gran numero di essi fu messo in prigione, a pochi riuscì di salvarsi con la fuga.

Appena informato di questi avvenimenti, il Ruffo mosse da Maida verso sud, passò i fiumi degli appennini meridionali, e scese dall'altra parte nella valle di Palagoria. In Borgia gli venne incontro una deputazione di Catanzaro, che lo pregò sollecitasse la marcia e corresse a por fine agli eccessi delle masnade inferocite. L’avvocato Saverio Laudari parlò in nome della deputazione, a capo della quale stava Vincenzo Petroli, uno di quelli che aveano apposto il loro nome alla dichiarazione che metteva al bando il cardinale e i suoi seguaci. In questa prima congiuntura il Ruffo si mostrò quale in tutto il resto della campagna rimase, libero da meschini sentimenti di vendetta, sempre inclinato a perdonare le offese, a stendere all'avversario, che non era più da temere, la mano, a fin che, sorreggendosi a questa, potesse il raumiliato rialzarsi. Con nobile e prudente contegno egli non dimenticò solamente la condotta ostile del Tribunale di Catanzaro, ma fece atto di stima all'uomo autorevole, che poco innanzi era stato suo oppositore, e dette alla deputazione benigna risposta.

Quanto al Giglio, e’ si contentò di ammonirlo, doversi condur quella guerra contro i giacobini ostinati e non già contro gl’infimi cittadini che alla clemenza reale si assoggettavano; e giunto in Catanzaro si sforzò di ordinare provvisoriamente la città e la provincia in modo da evitare qualunque turbamento pel futuro. A reggere l’amministrazione provinciale della Calabria ulteriore I egli chiamò il vescovo Varano di Bisignano, e non già l’antico preside Winspeare, che s’era unito all’armata cristiana, ma che egli avea mandato a Messina perché ivi aspettasse altra destinazione. Nominò il Giglio comandante militare di Catanzaro, nel quale ufficio si troverebbe sottoposto al preside provvisorio della provincia; gli affidò nello stesso tempo la cura della pubblica sicurezza, facendolo in tal guisa custode di quelle leggi che le sue orde sfrenate nell’occupar la città aveano cosi gravemente offese. In siffatta maniera egli sapeva, dando incarichi di fiducia a persone, che apertamente o in segreto sarebbero potute tornargli a danno, a sé legarle e renderle innocue. Il Petroli ebbe ufficio di auditore dell’armata cristiana, gli avvocati Laudari e Greco di assessori. Oltre di che il Greco fu fatto difensore, e il D. Alessandro Nava procuratore della commissione straordinaria di Stato, la quale preseduta dal Di Fiore doveva «ad modum belli et per horas» giudicare e condannare. Innanzi a tal tribunale di guerra ebbero subito a comparire i «giacobini» messi in carcere al tempo dell’occupazione della città. Il loro processo ebbe termine quando il cardinale era già partito da Catanzaro; quattro furono fucilati, parecchi condannati alla galera: ad alcuni toccò la prigionia, altri ne uscirono con multe, e dovettero andare presso i padri missionarj di Stilo e Mesuraca a far gli esercizj spirituali, che ridestassero nell’animo loro dolore e pentimento di ciò che contro il sovrano aveano slealmente pensato o fatto.

In quel mentre il Mazza, ajutante del cardinale, non era rimasto inoperoso. Da Nicastro s’era recato alla spiaggia, avea preso la forte Amantea, assaltato dopo un vivo bombardamento Paola e abbandonatala al saccheggio. Poi s’avvicinò a Cosenza, capoluogo della Calabria citeriore. La città era piena di gente fuggita da tutte le contrade circostanti, e contava fra le sue mura circa 7000 armati, che il già mentovato De Chiara comandava. Ma all’appressarsi del Mazza ei si perse d’animo, ovvero, antico ufficiale del re, si risvegliò in lui Incoscienza; forse ebbe anche paura di un moto realistà in città, e per questo deliberò di sgombrarla. Se non che il popolo sollevatosi dette addosso ai 'patriota che si trovarono a dover combattere gl’interni ed esterni nemici. Due de' più zelanti fra loro, il Labonia e il Vanni, si partirono di Cosenza sotto colore di tornare alla lor città natale e portare ajuto agli oppressi e travagliati concittadini. I repubblicani che in Cosenza rimasero, dopo breve resistenza e gravi perdite batterono in ritirata, mentre le schiere del Mazza prendeano possesso della città. Da Cosenza questi marciò, traversando la provincia, verso Rossano sul golfo di Taranto, e l’ebbe per capitolazione in suo potere. Ivi si deliberò di aspettare l’arrivo del suo generale, al quale mandò incontro una deputazione per fare atto di omaggio e di sottomissione della città.

***

Il lavoro del cardinale era di gran lunga più difficile e da dover quindi durare maggior tempo. Dopo la presa di Catanzaro ei si proponeva innanzi tutto d’impadronirsi di Cotrone, a cui, per la situazione della città presso i confini della Calabria citeriore e pel porto fortificato, egli attribuiva importanza grandissima. Mandò avanti il luogotenente colonnello Perez de' Vera con due compagnie di linea e tre cannoni, oltre a 2000 irregolari, fra cui le compagnie di Giuseppe Spadea e di Giovanni Celia; e gli diede compagno per le trattative diplomatiche il capitano Dardano da Marcedusa, il quale aveva incarico di chiedere senza indugio la resa della fortezza, di offrire ai francesi libero ritorno in patria, e di lasciare ai triottì la scelta fra l’implorare la clemenza sovrana o riparare a Napoli.

Le cose però presero un’altra piega. Il recente esempio del sacco di Catanzaro, la speranza di far nuovo bottino e di sfogar l’ira contro gli abitanti repubblicani delle città, attirò da tutti i dintorni torme di volontarj, per modo che la colonna ingrossava secondo che andava accostandosi alla meta (153). La città di Cotrone, quando il tenente colonnello Perez comparve sotto le sue mura il giovedì santo 21 di marzo, si vide circondata da innumerabili armati, il che non fece altro che accendere maggiormente la pazza ira dei repubblicani. Il Dardano, venuto qual parlamentario con occhi bendati in mezzo a loro, fu preso e messo in catene; e a lui e a parecchi fra i cospiratori realisti della città, al luogotenente colonnello Fogliar, al barone Farina, fu fatto processo che finì con la loro condanna a morte. Ne# campo dell'esercito cristiano fu vanamente atteso il ritorno del parlamentario; e nella notte dal 21 al 22, non vedendolo altrimenti ritornare, si fecero gli apparecchi dell’assalto. Sull’alba del venerdì santo le prime granate caddero nella città; il presidio tentò una sortita, ma si vide tosto sopraffatto ai due fianchi dal rapido allargarsi delle schiere del famigerato ladro e assassino Panzanera, tanto che dovette sollecitamente tornare indietro lasciando sul campo i cannoni. Il Panzanera penetrò insieme col nemico dentro le mura, le due compagnie di soldati regolari lo seguirono, mentre i cannoni tiravano sul forte. Una palla colpì la stanga della bandiera repubblicana, e con la caduta di questa cadde anche l’animo dei difensori. I vecchi soldati che si trovavano fra il presidio si dichiararono per la causa del loro re, i francesi e i patriotti intimoriti resistevano debolmente, il ponte fu abbassato, entrambe le compagnie di linea marciarono dentro e misero in libertà Dardano, Fogliar, Farina, la cui condanna di morte i repubblicani fortunatamente non aveano avuto il tempo di eseguire. Tuttavia toccò alla città maggiore sventura che a Catanzaro. Specialmente le nuove torme venute durante la marcia, e fra esse quelle del Panzanera, predarono e saccheggiarono, distrussero e devastarono con avidità sfrenata, senza che preghiere, esortazioni, comandi valessero a trattenerle.

Il cardinale s’era, dietro il Perez, senza indugio condotto innanzi col nerbo delle sue forze da Catanzaro fino alla Tacina, le cui acque erano per le piogge di più giorni tanto cresciute da non potersi tentare senza gravi pericoli il passo con una moltitudine per la più parte inesperta e con pesanti carriaggi. Bisognò dunque fermarsi sulla riva destra e aspettare che Tacque calassero. Il Ruffo aveva il suo quartier generale in Calabricata, possesso della famiglia Schipani, ed ivi gli giunse un messo da Sicilia lungamente desiderato, il Marchese di Taccone, che gli dovea portare da Palermo i sussidj promessi per la impresa calabrese. Se non che venne con le mani vuote; invece di danaro, del quale il Ruffo avea tanto desiderio e bisogno, gli consegnò una lettera dell’Acton che lo proponeva al cardinale come «tesoriere dell’armata.» Pel quale ufficio il Ruffo sapeva, come abbiam visto, provvedere meglio che non avrebbero potuto fare i consiglieri lontani; onde rimandò senz’altro in Sicilia il raccomandatogli finanziere. Di certo questo incidente non dispose l'animo del potente ministro in favore dell'ostinato calabrese, il quale dal canto suo sospettò che gl’inglesi avessero intercettato il danaro, e non tardò a mandarne avviso al re (154).

Non prima del sabato santo, 23 di marzo, il cardinale volle che si passasse la Tacina; occorsero tuttavia gravi difficoltà, ma non si ebbe a lamentare nessuna perdita. Presso Cutro, di là dal fiumiciattolo littorale Dragone, si raccolsero di nuovo le sue schiere, le quali, ricevendo ivi l’annunzio della presa della città e fortezza di Cotrone (155), ne furono tanto riconfortate da dimenticar presto le durate fatiche e i travagli sofferti. La sera del lunedi di Pasqua il Ruffo entrò nella città conquistata, piantò con le proprie mani la croce in luogo dell’abbattuto albero di libertà, e poi mise il suo quartier generale nel palazzo Farina, solo forse fra i migliori edifìcj non danneggiato dall’orrenda furia de' suoi volontarj. Mandò i francesi prigionieri in Sicilia, e fece sottoporre a severo giudizio i nativi ch'erano stati a capo del movimento, quattro dei quali furono fucilati, il 3 di aprile (156).

Poco meno degli umiliati ribelli gli davano però da fare i suoi proprj sfrenati aderenti, a cui bisognava come a Monte leone dare una lezione. Ma la cosa non potè altrimenti aver effetto per la semplice ragione che coloro i quali erano stati questa volta colpevoli, si trovavano già lontani da quei luoghi in via di tornare alle case loro per mettervi in sicuro il pingue bottino. E, quel ch'è peggio, il cattivo esempio fu efficace su quelli che, entrati col cardinale, si mostravano scontenti di rimanere in mezzo a così ricca preda con le mani vuote. Una minima parte soltanto si mostrò afflitta degli orrori ch'erano stati commessi, e questa dimostrazione era forse anche per molti un pretesto col quale nascondevano la loro poca voglia di assoggettarsi per l’avvenire a disagi e travagli da non dover essere con qualche bottino ricompensati. Il cardinale e quelli che gli stavan dintorno dovettero durare indicibil fatica, esser larghi di lusinghe e promesse per tenere in freno, oltre ai soldati di linea, almeno quelli della milizia regolare e qualche migliajo degl’irregolari; la maggior parte di questi ultimi andaron via, e sebbene promettessero di ritornare, non si rividero più.

Il disperdersi d’un esercito a mala pena formato, ed efficace piuttosto pel numero che per le attitudini guerresche di coloro che lo componevano, fu cagione al general vicario di non poca inquietudine; poiché troppo si era già inoltrato da poter pensare a tornar addietro. Scrisse all’ammiraglio, che comandava nelle acque di Corfù, pregandolo che mandasse senza indugio un corpo di russi; nondimeno su tal ajuto non potea fare assegnamento se non che come su cosa secondaria; il paese stesso bisognava che gli somministrasse l’appoggio principale. Furono dunque invitati il nuovo preside di Catanzaro e tutti i vescovi calabresi, che per mezzo degli ufficiali secolari e dei paroci esortassero quelli ch'eran partiti a far ritorno. A fin di rinforzare la cavalleria, il cardinale richiese la milizia provinciale a cavallo; e invitò i signori feudali, che tenevano dal re, a provveder di cavalli i capi degli armigeri loro e a concedere che al suo esercito si accompagnassero. Con lo stesso proposito sospese a tutti gl’impiegati regj lo stipendio fino a che, messo in campo un cavallo in buon ordine e assetto, non lasciassero rinnovare da lui, come general vicario del regno, i lor pieni poteri.

Qualche tempo innanzi, il 23 di marzo, Francesco fratello minore del Ruffo era venuto al campo in Cutro; come avea sentito dei fatti e dei felici successi dell’armata cristiana, non bastandogli l’animo di trattenersi più lungamente a Palermo, avea preso dalla corte congedo. Il cardinale gli commise «l’ispezione della truppa e il ripartimento delle finanze,» e gli dette per segretario il canonico Giuseppe Antonio Vitale, per «commissario dei viveri» l’arciprete della cattedrale di S. Severino Giuseppe Apa, e per ajutante Giov. Batt. Rodio. Quest’ultimo, stato fino a poco tempo prima partigiano dei francesi, s’era trovato fra quei fuggiaschi giacobini che avean cercato ricovero dentro le mura di Catanzaro; raccomandato caldamente da suo zio, cavaliere Pasquale Governa, fu ripreso in grazia dal Ruffo, il quale avea per principio far ponti d’oro agli avversari ravveduti, e questa volta non ebbe a pentirsi di avere applicato tal principio (157).

Lo zelo e la indefessa operosità del cardinale e de' suoi cooperatori portarono presto i loro frutti. Ogni giorno o spicciolati o a frotte tornavano al campo quelli che n’eran partiti, o nuova gente veniva, cosi che sui primi d’aprile fra regolari e irregolari s’eran raccolti di nuovo 7000 uomini, alla cui testa il Ruffo poteva far disegno d’invadere la Calabria citeriore. La deputazione di Rossano, venutagli innanzi a quei giorni, gli era stimolo ad affrettar la sua marcia a quella volta. Innanzi di lasciar Cotrone egli vi stabili come governatore interino civile e militare il cavaliere Governa, sotto gli ordini del vescovo Varano, preside provvisorio della provincia.

III

SULLA NAVE AMMIRAGLIA DEL NELSON

Il cardinal generale non avea mancato di far pervenire via via alla sua real protettrice in Palermo relazioni intorno ai fatti della campagna, accompagnate regolarmente da lagnanze circa il difetto di danaro e di armamenti. La regina di certo non ne avea colpa, come quella che unica forse in corte si studiava di agevolargli il modo di conseguire ancor più rapidi e più felici successi. Questo carteggio, condotto dal Ruffo veramente con una certa riserva, fu soggetto a più lunghe interruzioni secondo che Tarmata cristiana andò allontanandosi dai lidi del Tirreno e per conseguenza dalia Sicilia (158). Anche il re scrisse ma di rado (159).

Quanto nel real palazzo di Palermo era, come abbiam visto, minore da principio l'aspettazione circa l'impresa di Fabrizio Ruffo, tanto furono maggiori la maraviglia, la gioja e le dimostrazioni di gratitudine, quando, poche settimane dopo la partenza di lui, giunsero l'uno dopo l’altro i lieti messaggi. «Ella fa miracoli con un sì piccolo esercito» gli scriveva la regina il 28 di febbrajo, «si può dire eh(1) Ella crea dal nulla. Qui non c’è che una voce per applaudirle, per vantare il suo coraggio, la sua fermezza, la sua prudenza, il suo senno.» «Come possiamo ringraziarla abbastanza» scrive alcune settimane più tardi, «per avere riconquistate le due Calabrie e ricondotte all’obbedienza, per averci insomma reso il più utile, il più importante dei servigi! La riconoscenza che le debbo posso vivamente sentirla, ma non saprò mai adeguatamente significarla con parole! Ma ella stessa sarebbe commosso se vedesse come qui tutti parlano con ammirazione di lei; il nostro cardinale è nella bocca di tutti, l'eroico cardinale, l'uomo coraggioso e zelante, l'uomo di genio! E pure qualunque cosa si dica di lei è inferiore a quanto Ella merita!»

Nello stesso modo si esprimeva Carolina scrivendo all'imperatore Francesco e alla sua imperial figliuola. Già il 17 si lamentava con loro, che tutto il regno era caduto nella democrazia, che appena una piccola città o due rimanevan fedeli per effetto degli sforzi del Cardinal Ruffo, il quale con zelo indicibile faceva rivivere una specie di crociata. Il 21, più confortata, scriveva che il bravo Ruffo aveva raccolto un piccolo corpo di quattrocento uomini, ai quali avea dato come segnale una croce bianca; andava predicando per le strade, e avea già abbattuti parecchi alberi di libertà. Quattro giorni dopo le prime piccole vittorie del Cardinal generale, quando Monteleone non era ancora nelle sue mani, ella ne piglia argomento di felici speranze: «Nelle Puglie, negli Abruzzi, nelle Calabrie si raccolgono i fedeli, nella Romagna si va sempre più allargando il malcontento, e io credo che se truppe di fuori, sieno russi o quelle del tuo caro marito, prendessero a marciare avanti, sarebbe forse il momento di liberare tutta l’Italia da quei mostri.» E progredendo il cardinale nell’impresa, i desiderj di lei e le speranze crescevano. Sul principio credette la cosa non potesse approdare ad altro che a tenere il nemico lontano dalla Sicilia; poi fu grata al cardinale per avere riacquistato le Calabrie e sgomberatele dagli elementi rivoluzionarj; ma non aveva egli ancora dal tirreno raggiunto il lido jonio, che giù ella vagheggiava il mantenimento d’un regno e la ricuperazione dell’altro: «Conservarci l’uno e riacquistarci l’altro regno» (160). Già il suo spirito vivace pensava all'assalto della metropoli; se non che la fantasia era presto costretta a ripiegare le ali, troppo essendo manifesti i pericoli d’un’impresa, alla quale mancavano sufficienti apparecchi. Che gloria se i calabresi cacciassero i francesi dal regno!... Ma se soggiacessero a una disfatta? E però pensava che bisognasse procedere con gran prudenza, acquistar prima conoscenze e relazioni con le altre province, e chiuder Napoli da vicino a fin che, effettuando i russi il loro sbarco, l’assalto venisse insieme da tutti i lati (161).

I russi eran quelli su’ quali Maria Carolina confortava il general vicario a fare assegnamento; poiché dalla Sicilia stessa, non ostante le continue preghiere ed esortazioni del Ruffo e i più zelanti sforzi della regina, all’armata cristiana non veniva quasi nulla. Su i primi tempi dopo l’entrata del Ruffo in campagna il disegno della corte era che fosse protetto dalla parte del mare, e però una quantità di piccole navi costeggiando lo accompagnassero; per il che furon dati ordini di armare a tal fine galeotte. Ma eran queste appena pronte, che, temendo non potere con esse in quella stagione arrischiarsi sul mare, si pensò di sostituir loro delle feluche, lo quali, come la regina scriveva al cardinale a mo’di consolazione, «presterebbero quasi gli stessi servigi delle galeotte.» Sembra tuttavia che le feluche non arrivassero meglio delle galeotte opportunamente al luogo fissato; e il simile accadde per rispetto ai cannoni che il cardinale badava a chiedere e che non gli furono mai mandati (162).

Del resto i desiderj del Ruffo andavano assai oltre un puro ajuto materiale; il re in persona, così egli fece più volte osservare, doveva recarsi sul continente per rinvigorire con la sua presenza il cuore dei bene intenzionati, ravvivarne il coraggio, assodarne la fedeltà. La regina ne fu del tutto persuasa; ma dipendeva forse da lei? Poteva farne accenni al marito, ma non ardiva adoperare su di lui efficacia diretta: «a siffatti partiti deve decidersi colui medesimo che li concepisce.» Ah se fosse stata lei il re! «Quanto e quanto vorrei essere uomo! sarei già volata presso di Vostra Eminenza, e mi lusingherei che avrei agevolate e spinte le sue tante utili e coraggiose intraprese» (163). Ma non era se non una donna, e le toccava, rimanere a casa senza poter fare altro che porgere da lontano augurj e consigli. E ciò nobilmente ella faceva. Con indefessa attenzione seguiva i progressi dell’armata cristiana e i concetti politici del gagliardo e prode conduttore di essa; in ispirilo era sempre a fianco di lui, riflettendo e pensando agli espedienti da menare innanzi l’impresa. Non bisognava trascurar nulla per attirare a sé e tener ferma la massa della popolazione: amnistia per tutto il passato, agevolezze e favori pel futuro, abbuono di tasse e di doni, abolizione del feudalismo; «principalmente farsi innanzi con tutti quegli ordinamenti, che i francesi, venendo, introdurrebbero guadagnandosi così l’animo del popolo.» Per contrario non andava usato riguardo ai ricchi; si doveva, per esempio, far loro pagare anticipatamente dieci anni di tasse, e innanzi tutto sequestrare i beni di coloro che s’eran buttati in braccio alla rivoluzione: «Gerace, Cassano Serra padre, Vaglio Monteleone accettano ufficj nella municipalità della così detta repubblica, ed io vi fo osservare che i beni loro sono situati in Calabria; Riario, Canzano, Auletta, Montemiletto, Marsico, Roccaromana non posseggono, io credo, niente in Calabria, ma sono ribelli dichiarati» (164).

Questi esempj di mancata fede, di doveri trascurati e di vergognosa ingratitudine, che in tutte le relazioni pervenuto dal continente si rinnovavano, questi amari disinganni per parte di coloro che la corte nei giorni di felicità e di splendore avea contato fra i suoi più fidi, davano maggior risalto alla condotta del Cardinal generale e a quella delle popolazioni di campagna che alla voce di lui premurose da tutti i lati accorrevano. Di fronte agli sleali Ferdinando si mostrava assai più severo di Carolina, la quale, tuttoché in principio alle idee del marito partecipasse, pure in ciascun caso, quando avvertiva segni di sincero ritorno alla fede, era sempre inclinata a lasciar luogo piuttosto alla clemenza che al diritto (165). Se il Ruffo andò anche più innanzi e, per rispetto alle confische e alle pene personali, dissuase di adoperare tutto il rigor dei principj, egli mostrò senza dubbio gran prudenza politica, alla quale forse si accompagnava un’innata inclinazione a mite e conciliativa indulgenza. Apparteneva a una razza di signori potenti e ricca di possessi, la quale nelle prime famiglie del regno avea rami; non erano forse suoi pari quelli su cui doveva cadere la inesorabile ira del suo real padrone? Non erano anzi legati a lui con vincoli di parentela o di affinità coloro che intorno al suo proprio germano, il duca di Baranello, dimoravano ancora nella ribelle metropoli, né pel momento egli poteva sapere se e quanto si fossero lasciati, magari a malincuore, trascinare nel turbine repubblicano? Il cardinale avea trattenute a suo fratello le rendite dei bèni posti nella Calabria meridionale; ma poteva tornargli indifferente, nel caso che il lor padrone feudale non riuscisse a purgarsi di ogni complicità nel delitto di alto tradimento, che quei beni fossero staggiti e ricadessero allo stato? Forse per riguardo dei meriti di uno dei membri della famiglia non si arriverebbe a tanto; ma se la severissima punizione fosse, come principio, ammessa, si estenderebbe si fatta eccezionale clemenza ai lontani parenti, ai cugini e cognati, ai più cari amici e favoriti?...

I messaggi che giungevano dall’armata cristiana a Palermo, avevano una efficacia benefica sulle condizioni dell'isola.

In generale colà le disposizioni non eran cattive, la corte e il governo si adoperavano in diversi modi a tranquillar gli animi, facevano fare ai fornaj distribuzioni di pane ordinario, in parecchi degli alti ufficj collocarono persone nate in Sicilia (166). Tuttavia nascevano a volte disordini, sedizioni e sommosse che lasciavan supporre pericolose influenze di dentro o di fuori, e parer desiderabile che di qua dal Faro fosse al più presto possibile schiacciata la testa al serpente. «La repubblica vesuviana dev’essere annientata,» scriveva la regina al cardinale, «o il cattivo esempio farà sorger presto una repubblica mongibelliana.» Il Cardinal Ruffo co’ suoi calabresi era in fatti riguardato come il salvatore dai due lati, sul continente e in Sicilia, poiché ciascun suo annunzio di vittoria sgomentava i segreti giacobini dell’isola e li tratteneva dal farsi avanti coi loro disegni intesi a rovesciare gli attuali ordini di governo.

Non mancavano certamente di tanto in tanto dissensioni dall'una e dall'altra parte dello stretto, alle quali davan luogo per lo più questioni di persone, come accade spesso nei pubblici affari, massime quando se ne mischia una donna. Degli ufficiali che avevano seguito la corte in Sicilia appena qualcheduno s’era accompagnato al Cardinal generale, allorché questi, non essendo militare, appartenendo anzi al ceto ecclesiastico, era partito di Palermo per riconquistare al suo re, alla sua regina, mezzo regno perduto. Ma quando l’impresa cominciò a sembrar meno difficile di quel che prima si credeva, ne vennero fuori parecchi desiderosi di aver la loro parte negli allori di una campagna, secondo essi, poco pericolosa. La regina Carolina si tenne generalmente assai riservata; anche quando da altri lati le venivano raccomandazioni e proposte, che eran poi subito trasmesse al quartier generale dell’armata cristiana, ella significava espressamente al Ruffo che non s’intendeva punto menomare la piena autorità delle sue decisive risoluzioni; doversi egli semplicemente servire di quelle persone che stimava atte a prestare utili servigi (167). Tuttavia ella non potò sempre tenersi in disparte. Da un lato la sua femminile irrequietezza e impazienza, la sua vivace suscettibilità verso le nuove impressioni rendevano la sua conoscenza degli uomini imperfetta e fallace; da un altro lato facevan ressa frotte di persone che, o chiedendo per sò o per altri, si recavano a Palermo, si affollavano intorno alla corte, portavano da Napoli messaggi, vantavano la loro propria fedeltà, se ne dicevan vittime o pronte a divenir tali; da tutto ciò a volte nascevano per necessità inconvenienti ed errori, su i quali l'accorto ed acuto cardinale, che avea preso su di se tanto carico, non voleva e non poteva passar sopra (168). Talora entrò di mezzo personalmente il re sotto pretesto che il cardinale gli avea manifestato il desiderio che gli mandasse dei generali. Però quando il Ruffo acconsenti o chiese che gli si mandassero il NarbonneFritzlar, già oltre negli anni ma per lunga dimora in Calabria conoscitore del paese e degli abitanti, ovvero uno degli Tschudv, egli intendeva che gli dovessero portare rinforzi; poiché ufficiali senza soldati gli erano di poco giovamento (169).

Da un’altra parte parecchie disposizioni del cardinale intorno ad affari personali, come per esempio la nomina del Petroli che in Catanzaro avea fatto causa comune co’ repubblicani, o per contrario l’imprigionamento di Diego Naselli, fecero cattiva impressione nei circoli di corte a Palermo, e senza dubbio somministrarono argomento a quelli che si sforzavano di farlo cadere dall’alto favore della riconoscente regina. La quale non fece mistero di tali chiacchiere col Ruffo, dichiarandosi convinta ch'egli avesse avuto buone ragioni per operare in quel modo (170); se non che, come accade sempre a questo mondo, qualche ombra sì fatti intrighi lasciavano nell’animo di Carolina, nel quale l’immagine di Fabrizio Ruffo, già così risplendente, cominciò ad offuscarsi. In generale però prevalse sempre il sentimento di gratitudine verso i grandi e maravigliosi servigi da lui prestati alla causa reale. La regina operò veramente da donna, in modo da far ricorrere il pensiero ai tempi della cavalleria, agli uomini che combattevano in campo e alle donne ohe filavano e cucivano in casa, quando deliberò di dedicare ai fedeli che pugnavano per il diritto e per i possessi de' suoi figliuoli un segno della sua grazia e riconoscenza reale, atto a confortarli, a ravvivare ed accendere il loro coraggio. Scelse a tale ufficio una bandiera, e insieme con le tre figliuole Cristina, Amalia e «Toto,» e con la nuora Arciduchessa Clementina lavorò a ricamarla; persino il piccolo Leopoldo dové mettervi mano (171). Da un lato dovevano esservi trapunte in oro le armi reali, dall’altro il segno della croce con le parole «In hoc signo vinces.»

*

Né al cardinale Fabrizio Ruffo né all’impresa da lui condotta si mostrò fin dal principio favorevole l’eroe di Abukir, diventato oramai anche cittadino onorario di Palermo con diploma statogli presentato solennemente in cassetta dorata da una deputazione municipale. Il Nelson era ambizioso e suscettibile, geloso di qualunque gloria che non toccasse la sua propria nazione; di qui la sua avversione ai russi, mentre la regina, non ostante il rispetto, anzi l’entusiasmo che professava pel suo liberatore» e «protettore,» non poteva non esser convinta che senza la cooperazione della Russia non si approderebbe a nulla (172).

E ora l’orgoglioso britanno doveva partecipare al merito della riconquista di Napoli con un uomo estraneo al mestiere delle armi di terra e di mare, con un uomo in sottana che s’era messo a quell’impresa non altrimenti che a un giuoco arrischiato! Per molte settimane Lord Orazio non chiese nessuna notizia di Fabrizio Ruffo. Il 2 di marzo per la prima volta, scrivendo per affari di servizio al conte St. Vincent, e’ fece menzione di «un cardinale,» senza neppure citarne il nome, il quale nelle Calabrie «by preaching and money» avea raccolto una quantità di gente; «ma non si può dire ancora se tutto è perduto o se qualcosa potrà salvarsi. Dipende dall’imperatore. Appena questi si metterà in moto, io prenderò tutte le navi disponibili e andrò nel golfo di Napoli per respingere il nemico — to create a diversion.» Quattro giorni dopo scrivendo al conte Spencer il Nelson tornò sul medesimo argomento: «In Calabria il popolo abbatte gli alberi della libertà; tuttavia io non giudicherò assicurata una parte del regno di Napoli e neppur la Sicilia, finché non avrò sentito che l’imperatore è passato in Italia.» Solo in uno scritto del 12 diretto a William Sidney e J. Spencer Smith egli affermò essere tutta la Calabria tornata all’obbedienza, tutto il paese sino a 40 miglia da Napoli aver sentimenti di devozione al re, la Puglia e Lecce non tollerare punto i francesi, insomma francesi e napoletani essere cordialmente stufi gli uni degli altri.

Il Nelson non perdeva d’occhio un sol momento l’impresa contro la metropoli continentale; ma non avea vele sufficienti. Il 10 di marzo cinque grosse navi da guerra e due legni da trasporto gli condussero da Minorca il 30° e 89° reggimento di fanteria, circa 2000 uomini (173), ma senza cannoni; il loro duce, luogotenente generale Carlo Stuart, non rimase più di tre ore a terra; egli e i suoi soldati si recarono già il giorno seguente parte per terra parte per mare a Messina, dove rinforzarono il presidio della cittadella; altri 3000 uomini dovevano ancora venire (174). Da un giorno all’altro il Nelson aspettava le navi ch’egli avea richiamate dalla squadra egiziana. Intanto si sforzava di procurare a re Ferdinando tranquillità dal lato dei barbareschi. Con questo proposito anche la Porta aveva nel trattato del 21 di gennajo offerto i suoi buoni uffici. Il Nelson non si stancava di rappresentare istantemente ai Bey di Tunisi e di Tripoli, o con lettere a loro scritte o per mezzo del console inglese, che avessero oramai a far cessare le antiche liti, che tutte le potenze dovessero unicamente rivolgere gli sforzi loro a fare sparire dalla terra il Bonaparte e i francesi, bande di omicidi, di oppressori e di miscredenti; che entrambo i Bey erano dalle più gravi ragioni consigliati a non rimanere estranei a tale opera meritoria, poiché se riuscisse ai francesi d’insignorirsi delle Due Sicilie, non tarderebbero a gittarsi su Algeri e Tunisi, come s’era vista quella «orda di ladri» gittarsi già sull’Egitto (175).

Sembra che il Bey di Tunisi facesse buon viso a tali esortazioni. Ma ci furono per contrario delle difficoltà con quello di Tripoli, corse anzi voce ch’egli si fosse buttato nelle braccia de' francesi. Il Nelson raccomandò premurosamente al console Simon Lucas: «Non tralasci di fargli capire nel modo più risoluto, senza però mancare dei dovuti riguardi, esser causa del gran Signore e della fede maomettana quella che ci sentiamo chiamati a proteggere in qualità di sinceri difensori della Porta contro gli ateisti, gli assassini e i predoni» (176). Sì fatto discorso e la comparsa nel porto di Tripoli della Vanguardia, che il 26 di marzo portò i due scritti, produssero il desiderato effetto, il Bey fece imprigionare tutti i francesi presenti sul suo territorio, compreso il console, sequestrare le fartene francesi che si trovavano nel porto, intercettare un pacco mandato dal console francese al Bonaparte. e simili. Ma non appena la Vanguardia era ripartita che il Bey rimise in libertà i prigionieri e le navi, una di queste lasciò andare verso Malta, e tornò in generale alla sua precedente condotta.

Finalmente il 17 di marzo giunse nel golfo di Palermo il commodoro Troubridge con la maggior parte delle sue navi, Culloden, Seahorse, Zealous e Swiftsure, e con le cannoniere Perseo e Bulldog. Non gli era riuscito di distruggere i trasporti de' francesi, poiché questi negli ultimi mesi aveano fortificato le opere esterne di Alessandria da renderla quasi inaccessibile, né i cannoni inglesi potevano arrivare co’ loro tiri nell'interno del porto; una quantità di brulotti mandati dal commodoro contro le navi francesi erano stati dalla tempesta distrutti. Il supremo comando nelle acque sirioegiziane era adesso nelle mani di Sidney Smith, che doveva ristringersi a invigilare l’armata francese e impedirne i movimenti. Sir Sidney non era allora troppo nelle buone grazie del Nelson, al quale, almeno secondo che questi s’immaginava, non ismetteva di procurar noje e travagli. Egli, come comandante di una squadra, stava sotto gli ordini del Nelson, ma aveva una missione politica, era una specie di ministro, e in tal qualità giudicava di potere con una certa indipendenza operare, la qual cosa con un uomo permaloso come il Nelson, dava luogo a continue divergenze e a contrasti in sommo grado dispiacevoli. Cosi lo Smith per rispetto ai francesi in Egitto pareva che la facesse da diplomatico e volesse ingerirsi di pratiche e trattati; la qual cosa faceva uscire dai gangheri il Nelson che scriveva: «Non vi attentate di lasciar andar via dall’Egitto né un uomo né una nave i Bonaparte ha meno di 16mila uomini in Cairo, egli deve cadere e cadrà se voi gli tagliate la strada del mare!» (177).

In questi giorni (178), essendo pervenuto a Palermo la nuova che Corfù era stata presa il 3 di marzo dalle armate riunite di Russia e Turchia, si sperò che le pratiche del Cav. Micheroux per ottenere soccorsi fossero per venire a favorevole conclusione (179). Così sperava e desiderava la regina; e lo stesso Nelson si spogliava della sua antica avversione contro gli ajuti stranieri. Il possesso oramai incontrastato delle isole già appartenute alla repubblica di Venezia lasciava libere le squadre alleate; una parte delle navi poteva andare a rinforzare la squadra dello Smith nelle acque di Siria e innanzi ad Alessandria, e un’altra parte operare insieme col capitano Ball contro Malta. Poiché il Nelson avrebbe voluto che l’acquisto di La Valletta fosse tutto merito de' suoi compatriotti e compagni d’arme; ma disgraziatamente per le esperienze fatte s’era dovuto persuadere, che ciò non riuscirebbe senza la cooperazione dei russi, specialmente dal lato di terra. Né poteva egli lasciar più a lungo tutte le sue navi innanzi Malta, dacché per l’appunto in quel tempo gli venne per parte del conte di St. Vincent l’invito di rinforzare la squadra del commodoro Duckwortb, che aspettava da un momento all’altro un attacco dei francesi o degli spagnuoli. Il Nelson ottemperò all’invito mandando il Belle-rofonte e il Minotauro nelle acque di Minorca, ma nello stesso tempo dal 18 al 21 di marzo dette istruzione a Sir Sidney Smith, che, appena si fossero a lui unite le navi turche e russe, egli dovesse lasciar partire per Palermo il Lione e il Teseo (180).

Quello che oramai più premeva all’ammiraglio inglese era il vedere scendere dalla squadra turco-russa soccorsi sui lidi napoletani. «Fossero già qui!» egli esclamava. «Tutta la classe inferiore della popolazione si accompagnerebbe a loro; e tutti quei traditori, che possono ancora sperare perdono, sarebbero lieti di staccarsi dalla fratellanza francese.» (181) Giunse allora opportunamente da Costantinopoli una lettera del Ludolf in data dei 16 di febbrajo, la quale annunziava l’arrivo di 12,000 russi sotto il generale Hermann e di 10,000 albanesi; si aveva dunque ragione di contare sul prossimo compimento di tal promessa (182). Se non che non si sentiva nulla di movimenti degli austriaci nell'Italia superiore, e neppure degli intendimenti e disegni del gabinetto di Vienna; della qual cosa era forse cagione la mancanza di immediate e regolari comunicazioni tra Vienna e Palermo, dacché non la corte siciliana solamente, ma anche la legazione imperiale (183) rimaneva parecchie settimane, e talora mesi interi, senza ricever nuove dal continente. Il Nelson garriva e tempestava, la regina si lamentava e accoravasi di tal trascuratezza, come se fosse stato in potere della corte di Vienna il mutar lo stato delle cose da quello che realmente era, per effetto dell’occupazione francese allargatasi su tutta Italia e del dominio dello armate nemiche steso su tutti i mari. I soli ragguagli che il Nelson per questo lato ricevesse gli pervenivano dal ministro inglese a Firenze; ma anche quelli eran soggetti a frequenti e lunghe interruzioni; e poiché il Wyndham fino a mezzo marzo non sapeva neppur lui se l’imperatore avesse cominciata o almeno dichiarata la guerra, non era in grado di sodisfare i dubbj del Nelson, a' cui occhi il Thugut a Vienna e il Manfredini in Toscana apparivano quasi sotto l’aspetto di traditori (184).

In fatti continuavano i francesi a conseguire sulla penisola felici successi, ai quali né l’imperatore né il granduca contrastarono. L’ammiraglio Niza si trovava con una parte della sua squadra nelle acque di Toscana, e cercava, per incarico del Nelson, di salvare quanto ancora salvar si potesse; ma la mancanza di appoggi dalla via di terra e la viltà delle truppe napoletane guastò ogni cosa. Portolongone sull’isola dell’Elba fu preso dai francesi. Il popolo mostrò, come quello di Napoli, la miglior volontà e, rafforzatosi coi galeotti, era disposto a resistere sino agli estremi. Però il comandante Dentice, sebbene il Niza promettesse di ajutarlo dal mare, si perse d’animo; il comandante dell'artiglieria falsificò la polvere; onde il popolo, avuto sentore della cosa, fece di lui sommaria giustizia (185). Del resto la perdita di Portolongone, non sovvenendo solleciti soccorsi, non era se non questione di tempo.

Non ostante tali tristi successi nell'Italia centrale, e la ignoranza in cui s’era tuttora degli avvenimenti di là dal Po e dalle Alpi, l’ammiraglio inglese deliberò di attaccar Napoli dal lato del mare. Anco la corte voleva che non si indugiasse più a lungo. In una lettera del 30 di marzo a Orazio Nelson Ferdinando IV gli dava pieni poteri di fare che un comandante di sua fiducia riprendesse in nome del re possesso delle isole presso il golfo di Napoli, vi distruggesse gli alberi della libertà e le bandiere tricolori, inalzasse la bandiera reale, e rimettesse in piedi l’antico governo. L’impresa fu affidata a Don Michele de Curtis, già governatore di Procida, uomo di specchiata onestà e suddito devoto, conoscitore delle condizioni e degli abitanti di Procida, degno per tutti i rispetti di pienissima fiducia; il quale aveva tutte le necessarie facoltà per operare anco sulle altre isole o sul continente, appiccarvi e mantenervi relazioni, e in tutti i modi rendersi utile col suo consiglio o altrimenti in tutto ciò che si sarebbe per effettuare. Soldati regolari siciliani dovevano accompagnar la spedizione, ovvero raggiungerla appena fossero occupate le isole (186).

Oltre di ciò fu preso un provvedimento di assai pericolosa qualità, probabilmente d’intesa con gl’inglesi, i quali anzi nel quartier generale del Cardinal Ruffo ne furono creduti consiglieri ed esecutori: schiuse le porte delle prigioni siciliane e fatti sgombrare i banchi dei rematori sulle navi di pena, a coloro che le prime e i secondi occupavano, e per conseguenza a ladri, incendiarj e assassini, fu risoluto di concedere la libertà, a patto che dalla spiaggia, dove sarebbero sbarcati, si spingessero nell’interno del paese e chiamassero la popolazione alle armi. Alle piene facoltà, che Ferdinando conferiva al Nelson, aggiunse la preghiera che sul principio la squadra non si mostrasse nella rada di Napoli, poiché ciò potrebbe avere per effetto che i fedeli in città, troppo affrettandosi all’opera, cadessero inutili quanto deplorabili vittime della fedeltà loro; e salvo casi di urgenza e d’inevitabile necessità, s’indugiasse piuttosto l’assalto fino a che dal lato di terra fossero giunti gli ajuti. Si aspettavano da una parte tali ajuti dal Cardinal generale; e poiché per l’appunto le dame di corte avean condotto a termine la loro bandiera «Ai bravi Calabresi,» doveva imbarcarsi Don Scipione della Marra, apportatore di essa, per cercare di farsi strada alla volta di Fabrizio Ruffo; se non che sopravvennero impedimenti, e la partenza del della Marra segui più tardi e per circostanze del tutto diverse. Dall’altra parte si faceva oramai con piena fiducia assegnamento sugli ajuti russi e albanesi; e finalmente, come la regina scriveva al cardinale, anco gli austriaci non potevano restare più a lungo tranquilli spettatori: «Lo Czar ha preso fuoco per la nostra causa, e manda di sicuro da 9 a 10 mila uomini, che per tutta la durata della guerra saranno a nostra intera disposizione;» egli avea dato ordine al Suvorov che russi e inglesi operassero in Olanda; «in Inghilterra tutta la nazione è per noi; mandano sei vascelli di linea, fregate e piccoli trasporti in nostro ajuto» (187). Il Micheroux, che di corto era tornato da Corfù a Palermo, bisognò che si accingesse a novello viaggio. Alcune navi della squadra riunita dovevano far vela alla volta di Zara per prendere i soccorsi russi che si aspettavano e condurli nell’Italia inferiore. In questo mentre il Micheroux con una piccola schiera di soldati doveva sbarcare sulle coste di Puglia o nel territorio d’Otranto per confermare colà i fedeli ne’ sentimenti loro, e richiamare gli sviati a' ioro doveri; un decreto reale, del 31 di marzo, diretto alle autorità militari e civili e a tutti gli abitanti della Puglia e di Lecce — «cari e fedeli sudditi,» — prometteva che fra breve comparirebbero le truppe alleate e tratterebbero secondo il merito i nemici del nome napoletano (188).

Per assicurare da tutti i lati l’impresa fu deliberato di rafforzare il presidio di Messina e mettere al posto di governatore una persona da farci su assegnamento, poiché le lettere che eran giunte avean volto in certezza il sospetto che il Danero fosse d’accordo col partito repubblicano (189). Ei fu dunque licenziato, e venne in suo luogo il La Torre, fìno allora governatore di Siracusa, uomo non più nella pienezza delle sue forze ma di provata onestà; non c’era d’altronde troppo da scegliere. Gli fu messo a lato il principe Ruffo Scaletta con pieni ed estesi poteri; dall’altro lato stava il comandante inglese con facoltà non meno ampie; cosi che al La Torre non rimaneva in fondo altro che il nome e la rappresentanza (190).

IV

CHAMPIONNET E MACDONALD

I lodatori della repubblica napoletana facevano un gran caso e mandavano altissimo vanto dell’essere appartenute alla classe dei patriotti le persone del miglior ceto, le più agiate e colte, ufficiali e impiegati, dotti e scrittori, negozianti nativi e stranieri, e quasi tutti gli studenti (191).

Più infervorati apparivano quei nobili che, scacciati di Napoli per motivi politici dopo il 90, erano poi ritornati inpatria co’ francesi. Costoro, e con essi numerosi fuggiaschi dalle province dovo il predominio dei realisti li minacciava, e parecchi preti apostati, e monache scappate dai conventi, erano sinceramente devoti alla repubblica, come quelli che tutti ugualmente avean più di qualunque altro ragione di temere il ritorno dell’antico ordine di cose. Dei rimanenti, soliti a correre dietro al cocchio del vincitore schiamazzando e giurando, la più parte aveano solo sulle labbra le frasi e formule in voga, e non tenevano dalla fazione prevalente se non per interesse o per paura. I quali sentimenti tanto più cominciavano ad avere efficacia, spesso contraria fra loro in modo da ingrossare la schiera dei tentennoni che in breve fu infinita, quanto più chiari si vedevano gl’indizj, che la corte non solamente non avea deposto il desiderio e la speranza di riconquistare il regno continentale, ma. come la comparsa del Ruffo sulle coste di Calabria ne facea prova, non mancava di mezzi appropriati a conseguire tal fine. Non pertanto parecchi delle migliori classi sociali non erano teneri delle novità e di coloro che le avevano portate nel paese; e il simile si poteva generalmente dire di quella gran massa di popolazione che, vinta dalla forza nelle funeste giornate del gennajo, ma non punto convertita, anelava il momento di scuotere il violento giogo straniero. E che cosa fosse capace di fare e di misfare, lo aveva in quei giorni di battaglia mostrato; e parevano disposti a mostrarlo daccapo i sanfedisti del Ruffo, chiamati dai patriotti con l’oltraggioso nome di briganti. Qual maraviglia che, considerando tali fatti, anche a quelli s’abbattesse a mano a mano il coraggio, i quali avean salutato e accolto lietamente i francesi, non come liberatori solamente, ma anche come apportatori di nuove idee e di ordini nuovi?

Dell’impresa del Ruffo s’erano avute di buon’ora e da buona fonte novelle in Napoli. Fin dal 3 di febbrajo il generale francese sapeva essere il cardinale partito da Palermo per muovere alla conquista delle Calabrie «con molto danaro ma senza soldati.» Come abbiam visto, le cose stavano in termini affatto contrarj; il cardinale si trovò in breve ad avere armati più del bisognevole, ma del danaro non ne ebbe mai d’avanzo. Vennero a confermar nella capitale quelle prime nuove il Caracciolo e il Perier, che avean parlato col Ruffo nel casino di Pezzo. Da allora in poi non passò giorno che non pervenissero in Napoli tristi notizie intorno ai progressi del cardinale, intorno al continuo aumento de' suoi seguaci; alle quali notizie si aggiungevano d’ogni maniera menzogne ed esagerazioni, dicendo ch’egli s’era fatto in quei paesi acclamare supremo pontefice, e che, col crocifisso in una mano, con la spada nell’altra, predicava in nome del Dio della pace la guerra civile, la ribellione, il saccheggio (192). Né il cardinale — cosi riferivano i ragguagli giunti alla metropoli — era più solo, tutta la Calabria ulteriore era in piena rivolta contro la repubblica; il movimento si propagava sino al golfo di Taranto; di lì estendendosi pel Cilento verso Salerno sempre più alla città capitale approssimavasi: E lo Championnet cominciò anche a vederne co’ proprj occhi gli effetti. In Cajazzo presso il Volturno l’infima marmaglia, certamente tratta dal desiderio di preda e di vendetta non meno che dalla politica, si sollevò, cacciò via gli ufficiali del governo, sostituì loro altri di sua scelta, e imperversò fino a tanto che la classe dei possidenti, ripreso coraggio, diè di piglio all’armi e, ridotto il popolo in soggezione, chiese alle autorità repubblicane di Napoli protezione ed ajuto (193).

Dopo che la rivoluzione era avvenuta nella metropoli, la tranquillità durò ancora alcune settimane nei paesi a sud est della penisola. Il 1° di febbrejo, quando il Gallo s’imbarcò a Brìndisi alla volta di Trieste, la Puglia intera durava tuttora intatta; solamente in alcune città la fazione repubblicana aveva il disopra (194). Un fatto di qualità singolare provocò quindici giorni più tardi in favore della causa regia una sommossa, che in breve fu imitata in altri luoghi. A mezzo del febbrajo sette Corsi, che, secondo alcuni, erano stati prima ai soldo dell’Inghilterra e all’apparire dei francesi in Napoli non s’eran sentiti sicuri, giunsero alla locanda di Montejasi, villaggio situato sulla strada fra Brindisi e Taranto. Chiesero alloggio e buon vitto, soggiungendo uno di essi per ischerzo, che il principe ereditario era fra loro. Il che essendo udito da qualcuno e propalato nel villaggio, la gente accorse desiderosa di vedere il principe, un certo Corbara, assai appariscente della persona, fu creduto tale, e con tanto maggior persuasione quanto più quegli risolutamente negava e i suoi compagni disdicevano le imprudenti parole. Rimessisi in viaggio, furono precorsi dalla fama; in Brindisi una moltitudine giubilante con dimostrazioni di riverenza gli accolse, per modo che non sapevano più come uscir dall’impiccio. Si ajutarono con una seconda bugia, dicendo che il principe doveva per motivi di altissima importanza recarsi a Palermo, ma che lasciava loro due generali. Così il Corbara, il Colonna e tre altri presero il largo, e a quanto pare si salvarono tutti; almeno il Corbara, il falso principe ereditario, comparve qualche tempo appresso in Palermo, dove gli procurò non poco credito il racconto, che egli non mancò di abbellire, di ciò ch’era a lui ed a' suoi compagni avvenuto. Il De Cesare e il Boccheciampe, che eran rimasti indietro, passarono presso il popolo l’uno per un duca o principe di Sassonia, l’altro per fratello del re di Spagna, entrambi plenipotenziarj di re Ferdinando, in nome del quale raccolsero numerosi armati che a stuoli da tutte le parti accorrevano (195).

Sembra che, incoraggiato da questo buon successo, il preside Conte Marulli alzasse in quel tempo la bandiera reale e chiamasse all’arme i leccesi; la fama accrebbe a molte migliaja il numero de' suoi seguaci (196). In Ostuni, provincia di Otranto, per effetto dell’ordine venuto dalla capitale che si dovessero riscuotere le tasse scadute, la popolazione si sollevò in massa, si gittò addosso ai partigiani del nuovo ordine di cose, e di uno, il ricco Giuseppe Airoldi, fece sommaria giustizia, sebbene fosse stato egli appunto, che avea cercato di distogliere le autorità repubblicane da sì fatto provvedimento (197). Sempre più guadagnava terreno la controrivoluzione. Dal Cilento si sentiva dire d’un certo Sciarpa e del suo credito che andava a mano a mano crescendo; egli aveva servito come sottufficiale nelle milizie del tribunale di Salerno, dopo la rivoluzione era stato licenziato, e ridotto quindi a mancar di pane. Negli Abruzzi il Fronio, dapprima chierico poscia armigero del duca del Vasto, vedeva da una settimana all’altra ingrossarsi le file desuoi seguaci; anco giovani nobili si mettevano sotto i suoi ordini; era suo ajutante un barone De Riseis. Oltre il Pronto, erano minori condottieri il Salomone in Aquila, il De Donatis in Teramo, Nicola Durante ed altri. In quelle province montuose dopo la chiamata reale del dicembre 1798 l’insorgere delle bande armate non era mai venuto meno. Così pure nel territorio di Sora, dove facean parlare di sé Michele Pezza, detto fra Diavolo, e i fratelli Mammone; uno de' quali, per nome Gaetano, mugnajo di mestiere e d’indole sanguinaria e disumana, acquistò in breve un nome terribile. Le contrade dove dimorava furon piene della fama di fatti atrocissimi. Si raccontò sul serio, e persone onorevoli affermarono aver visto co’ proprj occhi (198), ch’egli, tenendosi innanzi il capo ancor caldo della sua vittima, ne beveva avidamente il sangue, e quando questo gli mancava, beveva il proprio o quello di qualche suo amico a cui ordinava si aprisse la vena (199). Il moto anti-repubblicano si propagò di là dai confluì della Partenopea; in molti luoghi dello stato romano accaddero aperte ribellioni. Col presidio che il Roger Damas aveva improvvisato componendolo in gran parte di galeotti, Civitavecchia reggeva sempre, resistendo a parecchi assalti dei francesi.

Il supremo generale di questi non poteva più a lungo indugiare. Mentre una colonna volante, volgendo a nord verso Chieti, saccheggiava Ortona sull’Adriatico e incendiava Guardiagrele dopo averla inondata di sangue (200), lo Championnet mandò due colonne più forti verso occidente e mezzogiorno. L una, di 12 battaglioni e 8 squadroni, circa 6000 francesi con alquanta milizia territoriale, doveva sotto gli ordini del Duhesme sottomettere al potere della repubblica la Puglia, Terra di Bari e la Basilicata; l’altra, composta soltanto di milizie native sotto il comando del generale Giuseppe Schipani (201), doveva operare, passando per Salerno, contro le due Calabrie; e compiuto l’ufficio, le due spedizioni si doveano dal Tirreno e dall’Adriatico dar la mano. Si aveva con ciò manifestamente in mira di opporre una muraglia ai progressi del Cardinal Ruffo, e in seguito, se non riuscisse addirittura di annientarlo, respingerlo indietro e ricacciarlo in Sicilia. Però fra i patriotti della metropoli ce n’era di quelli che, curandosi poco degli allori guerreschi, credevano di conoscere un mezzo più semplice per troncare il capo alla fazione realista, cioè per rendere inoffensivo il papa calabrese; gente fu mandata da loro con l’incarico di insinuarsi presso il Ruffo e spiare il momento opportuno per togliergli la vita.

A di 19 di febbrejo il Duhesme mosse da Napoli in tre colonne; l’una per Benevento e Troja verso Lucerà, la seconda per Avellino e Ariano verso Bovino, la terza, come riserva, dietro la seconda. La prima giunse al termine senza combattere; né anche la seconda trovò resistenza; e il Duhesme potè a dì 23 di febbrajo fare, tra la gioja e il plauso dei repubblicani, la sua solenne entrata in Foggia, la più grande e popolosa città della Puglia. Dista un dodici miglia da essa Sansevero, dove i realisti pugliesi s’erano raccolti; secondo le voci che correvano, il lor numero ascendeva a 12,000, tra gli abitanti atti alle armi della città e della regione circostante, gli avanzi del disfatto esercito reale, e le milizie. Possedevano parecchi pezzi da campagna e non poca cavalleria; e regnava tra loro tanta risolutezza d’animo, che chi avesse parlato di fuga o di resa avrebbe dovuto temere per la sua vita. Quando seppero dell’avvicinarsi de' francesi, presero una vantaggiosa posizione fuori la città. L’assalto fu dato da due colonne, condotta l’una dal Duhesme in persona, l’altra dal general Foresi. I regj porsero accanita resistenza, ma la forza loro venne meno contro la disciplina e l’arte del nemico. Il Forest si trovò di fronte a una grossa schiera e la caricò, un 3000 uomini rimasero morti o fuori di combattimento, gli altri cercarono scampo nella fuga; i francesi entrarono nella città; e sebbene la trovassero oramai indifesa ed inerme, non mancarono di sfogar la loro spietata vendetta. Ciò avvenne il 25 di febbrajo (202). Il Duhesme si accinse a far progredire le sue forze a mezzogiorno di Foggia; il 4 di marzo assediò Cerignola, ma sopravvenne un fatto che gli fece cambiare indirizzo.

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Quanto più avea saputo lo Championnet ingrazionirsi gran parte dei napoletani — giunsero persino a frugare nelle vecchie matricole di Santa Anna e, trovatovi un Giovanni Championnet, si persuasero che fosse della stessa famiglia, mentre in realtà non aveva che vedere col generale — tanto più era fatto segno all’invidia e all’animosità di molti suoi compatriotti, massimamente del Faypoult, il quale, scacciato da lui, non lasciò nessun mezzo intentato per denigrarlo presso il Direttorio esecutivo. In fatti venne da Parigi ordine che il generale lasciasse il comando, anzi, avendo egli impedito l’azione del potere confidato dal governo al commissario civile, fosse tratto in arresto. Lo Championnet obbedì all'ordine ingiusto, e di prigione in prigione fu condotto a Grenoble per essere ivi giudicato da un consiglio di guerra. La rivoluzione dell'8 preriale gli ridonò la libertà: giustificatosi pienamente e’ rientrò in grazia del governo; ma il comando dell’esercito di Napoli non lo riebbe più.

In difficili condizioni gli successe il generale Macdonald (203). Dalle province settentrionali erano pervenute gravi notizie, che fecero sentire sin presso la capitatela loro trista efficacia. Nello stesso giorno che lo Championnet lasciò l'ufficio, fu annunziato in Casoria, a poche miglia da Napoli, l’arrivo delV Abate degli Abruzzi; la gente buttò via a un tratto le coccarde repubblicane, e mise in pezzi l’albero della libertà, aspettando il re che, com'era corsa la voce, dovea presto arrivare in persona. Per buona sorte dei francesi giunsero quasi contemporaneamente te nuove di vittoria ed i trofei del Duhesme da Foggia, che dettero loro argomento di riprendere animo ed autorità. Un proclama del governo provvisorio dette ai napoletani notizia dei disordini «suscitati negli Abruzzi e nella Puglia da' vili agenti del profugo tiranno;» ma li rassicurò aggiungendo: «gl’invitti francesi, uniti a' vostri generosi compagni, volarono colà; gl’insorgenti furono veduti, vinti e puniti;... il generate in capo Macdonald, sdegnando a ragione di collocar fra i suoi trofei le disonorate insegne degli insorgenti, che avrebbero profanati i suoi gloriosi allori, le ha inviate al governo provvisorio per darsi alle fiamme ed estinguersi con esse la memoria funesta degli esecrabili avvenimenti.» Il 18 di marzo alle quattro dopo mezzogiorno, sulla piazza innanzi al Palazzo Nazionale, l'Autodafé fu compiuto (204).

Ma il giubilo dei patriotti fu di breve durata. Quella che essi chiamavano ribellione, ma che in realtà non era altro se non un levarsi lealmente in favore del legittimo sovrano, non doveva lasciarli tranquilli; simile all’idra di Lerna, per un capo che le era reciso gliene crescean due. Ripristinato appena l’ordine in Casoria e imprigionatovi alcuni dei cittadini più autorevoli, ecco che in Pagano presso Nocera un muratore, Luigi Magiorino, eccita il popolo a rovesciar la repubblica; egli e un magnano, Gaetano Contaldo, alla testa di una turba armata di fucili e coltelli sfondano la porta del collegio di San Carlo, e poi si rivolgono contro i più noti patriotti e ne invadono e saccheggian le case. I repubblicani però non penaron molto a vincere la sedizione. I capi di essa furon sottoposti ai giudizio dei tribunali di guerra. Il Magiorino, il Contaldo e il tessitore Carmine Grazioso da Casoria lasciarono la vita sul patibolo; altri furon condannati ai ferri, chi per 10, chi per maggior tempo, chi a vita. Ciò accadde il 10 di marzo (205). Ma il nuovo generale in capo giudicò tanto pericolose siffatte manifestazioni dello spirito popolare, mentre nei paesi del Garigliano superiore e del Volturno i disordini delle bande crescevano, che ordinò al Duhesme di lasciare piccoli presidj in Foggia, Ariano, Avellino e Nola, e ricondurre il grosso del suo esercito nei pressi della capitale (206).

Intanto troppo bene il generale Macdonald riconosceva che con la sola forza non si approderebbe a nulla, anzi si farebbe peggio quando non riuscisse distruggere le radici del male. Al quale intento era egli possibile di giungere senza la cooperazione del clero, che presso quel popolo dal sangue caldo aveva tanto credito e potere? Non ostante la riverenza ipocritamente testimoniata dai generali francesi al santo nazionale, non ostante le assicurazioni da essi fatte al cardinale arcivescovo di non volerlo punto disturbare nell’esercizio del suo ufficio (207), fino allora lo Championnet e il Macdonald avevano a gara compatrioti più libertini contrastato alla chiesa ed. al clero, e più d’una volta offeso i sentimenti religiosi del popolo. Si era proclamata la incorporazione dei bèni ecclesiastici senza avere il coraggio di recarla ad effetto; talché ne venne solamente la conseguenza che i preti si scagliarono senza misura dal pulpito contro il nuovo ordine di cose (208). Ad altre classi e più numerose dette noja l’introduzione del calendario repubblicano, secondo il quale i francesi, e ad imitazione loro i patrioti datavano i pubblici atti; ne nacque infinita confusione, e il culto dei santi, articolo principale della religione napoletana, ne ebbe grandemente a soffrire. Al clero fu severissimamente tenuto gli occhi addosso. Una commissione, preseduta dal Della Torre vescovo di Lettere e Gragnano, ebbe incarico di badare attentamente alle prediche del clero secolare e regolare e all’insegnamento nelle scuole, di compilare un nuovo catechismo che trattasse la morale con linguaggio popolare, di metter da parte i pastori d’anime e prelati che al nuovo ordine di cose contrastassero, e via discorrendo (209).

A poco a poco però nelle classi superiori si capì che, per assicurarsi la cooperazione delle moltitudini più necessaria che mai, faceva mestieri prendere un’altra via. In un proclama In data del «17 ventoso, anno VII (9 di marzo 1799) della repubblica francese una e indivisibile.» e dirette contro il manifesto del real vicario generale in Calabria, il Macdonald così parla: «Popolo napoletano, eccoti svelata la verità. La Provvidenza ha contrassegnato questo memorabile avvenimento.... La religione, ella stessa, e i suoi fedeli ministri, coloro che seguono i precetti del Vangelo, coloro che complici non sono della tirannia e de' suoi delitti, han proclamato il tuo irrevocabile destino… La parola dei Re fu sempre una parola ingannatrice, e pensa che saresti più che insensato ove tu prestassi fede a quella d’un Re che non è più tale, che ti ha perseguitato, tradito, spogliato e abbandonato.» Due giorni appresso il Conforti, ministro dell’interno, invitò i cittadini arcivescovi, vescovi e prelati a distruggere quello spirito d’insurrezione che continuava ad agitare le loro diocesi, a insegnare al popolo la verità democratica fondata sul Vangelo, a prendere i più severi provvedimenti contro quegli ecclesiastici, cui era piaciuto abbandonare la divina missione di rendere felice il genere umano per divenire ministri della tirannia; «imperciocché la democrazia è fra tutte le forme di governo la più conforme alla mente del Vangelo, e fu commendata da Gesù Cristo.» Per far credere al popolo che il governo parlava sul serio di religione e di Vangelo, il comitato di polizia generale pubblicò un editto col quale, per festeggiare la settimana santa, ordinava che stessero chiusi i teatri, e che il giovedì e venerdì fosse impedito il giro di ogni sorta di vetture per la città (210).

Stimolato dal Conforti il cardinale arcivescovo di Napoli pubblicò il martedì santo, 19 di marzo, una lettera pastorale, con cui ammoniva i fedeli di «prestare sommessione, non già pel motivo umano del timore, ma per dovere di coscienza, e perciò sincera e di cuore, alla temporale potestà costituita» (211). E un ordine della Commissione ecclesiastica ingiunse di leggere e spiegare al popolo dai pulpiti e dalle cattedre, predicando e catechizzaudo, la pastorale del cittadino arcivescovo, di eccitare negli animi la gratitudine verso i beneficj del nuovo governo, e simili. In fatti per questa via riuscì di fare accostare alla repubblica non pochi principi della chiesa, (212) e anche più ecclesiastici di minor grado, i quali, rassicurata la propria coscienza con l’esempio de' loro superiori spirituali,dettero opera zelante in favore del nuovo governo, «conforme alla vera dottrina del Vangelo.» E cosi l’abate Vincenzo Troysi che compose una messa repubblicana l’abate Michelangelo Ciccone che voltò i Vangeli in dialetto, Giuseppe Belloni che col Crocifisso in mano sulla piazza del palazzo nazionale a più dell’albero della libertà predicò «la religione della libertà e dell’uguaglianza.»

Il ministro avrebbe principalmente voluto vedere il cardinal Ruffo messo fuori la comunione della chiesa; ma per lungo tempo non potette essere indotto a tal passo il collega cardinale Capece Zurlo.

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Sotto la intelligente e moderata amministrazione dello Championnet s’era tuttavia venuta accumulando tanta materia di scontento e di animosità, che sembrava non occorresse altro se non un impulso esterno o una speranza di buona riuscita per accendere da capo il furore dei lazzaroni. Il Macdonald con non minor cura del suo predecessore si studiò di amicare la moltitudine al nuovo ordine di cose; a tal fine, per recarne un solo esempio, permise ai venditori di tener aperte le loro botteghe sino a tarda ora di notte, come era antico e solito costume (213). Circa le prepotenze dei militari, egli ebbe dal Direttorio di Parigi, al quale il malcontento del popolo napoletano non poteva essere indifferente, incarico preciso di citare davanti un consiglio di guerra tutti gl imputati di furti, esazioni e dilapidazioni, qualunque fosse il loro grado, impiego o professione (214).

Cosi pure il Faypoult, che dopo la partenza dello Championnet era ritornato al suo antico posto, si mostrò più mite, prolungò più volte i termini pel pagamento del prestito forzoso, concesse che il terzo, invece che in danaro, potesse rimettersi in oro e argento, in giojelli e altri oggetti di valore, e altre simili agevolazioni. Se non che il provvedimento, per sé medesimo odioso, eccitò maggiormente l’indignazione del pubblico per essersi sparsa la voce di favori concessi ad alcuni, mentre altri erano severissimamente trattati, rinchiusi a Sant’Elmo, o puniti col sequestro de' loro beni per somma doppia del debito (215). Appariva generalmente che tutto dipendesse dall’arbitrio di coloro che comandavano, i quali del resto non facevano nessun mistero della parzialità loro. «Noi tassiamo le opinioni», rispose un impiegato francese ai lamenti di una signora, il cui marito ufficiale era andato col re in Sicilia.

Di pari passo con si fatti provvedimenti fìnanziarj procedé la leva per la guardia nazionale e per l’esercito. Si voleva trasformar Napoli in un vero e proprio stato militare (216). Era tenuto a servire ogni uomo da 16 a 50 anni, che non avesse macchia di delitto o di vita viziosa, e gravi pene erano minacciate a chi si sottraesse a tal debito. Non erano esclusi né i preti e frati, né i pubblici ufficiali; che anzi nessuno era atto a un pubblico ufficio qualunque se non avesse sodisfatto a quell’obbligo. Generale della guardia nazionale fu nominato Agamennone Spanò, comandante in secondo Gennaro Serra; ajutanti generali Gius. Schipani, Frane. Grimaldi, Frane. Avalos, Ant. Pineda, Gasp. Tschudy, Flaminio Scala (217). Se con si fatto ordinamento s’intendeva rendere più accetto al popoloil servizio militare, perché tutti vi doveano aver parte, il fine non fu raggiunto. Al contrario agli eccessi dei soldati francesi, di cui si durava tuttora a levar lamenti (218), si aggiunsero quelli delle milizie native, le quali tanto duramente a volte si comportavano verso gl’indifesi cittadini, che l’autorità militare si vide costretta a minacciar loro gli effetti delle severe leggi di guerra, poiché adoperavano le armi — cosi è detto in un proclama ufficiale — piuttosto per offendere che per difendere i concittadini.

Sotto il Macdonald al commissario civile francese Abrial fu dato incarico di condurre i lavori di ordinamento. Si fece questi, al contrario del Favpoult, lodare per moderazione e lealtà; se non che, mancandogli, come a tutti i francesi, la conoscenza del paese e delle condizioni di esso, dovette fidarsi di consiglieri nativi, la cui scelta non fu sempre felice. La prima mutazione ch’ei fece fu quella di dividere in due i poteri che sotto lo Championnet erano uniti: la commissione legislativa e la esecutiva. Nella prima sederono Mario Pagano, Domenico Cirillo, Galanti, Signorelli, Scotti, De Tommasi, Colangelo, Coletti, Gambale, Magliani, Marchetti, oltre a molti altri avventizi. La seconda fu composta da Giuseppe Abamonti, Ercole d’Agnese, Giuseppe Albanese, uno dei Ciaja e Melchiorre Delfico; ma il secondo di essi dimorava da trent’anni nei suoi possessi di Francia, e l’ultimo per via della ribellione degli Abruzzi non potè recarsi a Napoli. Alla commissione esecutiva sottostava il ministero, il quale, quasi come a tempo del governo monarchico, si divideva in quattro dipartimenti: interno, De Filippis; giustizia e polizia, Pigliaceli; esteri, guerra e marina, Mantbonè; finanze, Macedonio. In generale tal partizione del potere in due non portò buoni frutti; in tempi come quelli d’interne agitazioni e di esterni e sempre crescenti pericoli, l’unione di tutti i poteri in mano di un dittatore sarebbe stato assai più opportuna che la divisione di essi in diverse e numerose commissioni (219).

In complesso la repubblica tanto pomposamente annunziata e i suoi tanto vantati benefizj andavano sempre più declinando nella comune opinione. I patriotti s’erano sollecitamente appropriato il nuovo frasario francese; fin dal primo giorno in luogo dell'antico calendario avean messo il nuovo co’ suoi nevoso, piovoso, ventoso, col suo anno primo della libertà ovvero anno VII secondo il conto di Francia; e certamente non andavano a rilento nel promettere la pace e felicità universale, nel portare a cielo tutte le qualità e virtù repubblicane, nel condannare e tor via ogni abuso. Ma che cosa faceva questo al popolo, il quale si fermava ai fatti e desiderava vantaggi reali là dove non gli si dava altro che belle parole? (220) La gente ordinaria aspettava dalla tanto strombazzata libertà alleggerimento di pesi e di contribuzioni, abolizione del vassallaggio e dei carichi che ne dipendevano, sebbene né cosi numerosi fossero né così gravi come altrove (221). E massimamente ai contadini facea gola la partizione delle grandi terre della corona, dei baroni, del clero, come quella delle immense cacce reali di Persano che avean cominciato a fare gli abitanti di Campagna e Controne, di Albanella e Altavilla. Anche nei pressi di Napoli, appena aboliti i diritti signorili su boschi, la gente di campagna avea principiato ad ammazzare la selvaggina, ad abbattere gli alberi, a leticare ed azzuffarsi per la partizione del suolo, non altrimenti che se si fosse trattato di beni non appartenenti a nessuno. Alla fine intervenne il governo provvisorio con un decreto che ascrisse le cacce del re ai beni nazionali; ma al contadino, se non doveva averne parte, importava assai che la terra rimanesse proprietà reale o fosse dichiarata possesso della repubblica. Miglior successo ottenne il nuovo governo togliendo la gabella del pesce; con sì fatto provvedimento si cattivò gli animi di tutti i marinari e pescatori della città. Ma allorché volle applicare il provvedimento medesimo all’introduzione del grano e della farina, parve questa al popolo una derisione. Per un pezzo vi era stata sovrabbondanza di grano, pane e viveri d’ogni maniera, perché dalle campagne vicine, temendo sempre il saccheggio per parte de' francesi, i contadini correvano a portare i prodotti loro al mercato (222). Ma esaurita la provvista, cominciò la penuria e il rincaro, che porse nuovo alimento al mal umore e all’indignazione. Si abolisce la tassa sul grano, dicevano, quando non c’è più in Napoli grano da poter tassare! Le cose che non si trovavano prossime divenivano ogni giorno più rare e salivano, come il sale, la carne e le legna, a prezzi esorbitanti, perché pericolosa per più rispetti era l’importazione di viveri e merci per via di terra specialmente dalle province lontane, dove andava sempre crescendo l’agitazione, e quasi del tutto impossibile per via di mare, dove cosi le navi inglesi e portoghesi come le navi del re ogni comunicazione impedivano.

Né tra i repubblicani regnava più la concordia. I francesi diffidavano de' nativi, e si mostravano astiosi se qualcuno dei patriotti stava alto nel favore del popolo. Fin dal 6 di febbrajo si era deliberato che la repubblica partenopea dovesse mandare una deputazione alla repubblica francese, per porgere il riconoscente omaggio della figlia alla madre, e raccomandar la più giovane e debole alla protezione e all’appoggio della più vecchia e più forte. A tale ufficio furono alla prima eletti Girolamo Pignatelli e Marcantonio Doria, e aggiunti ad essi come consiglieri, per il caso che occorressero pratiche di affari, Leonardo Panzieri e Francescantonio Ciaja (223). Ma quando più tardi, sotto il Macdonald, si fu sul recare ad effetto quella deliberazione, furono invece deputati ad andare a Parigi il Moliterno e il Duca d’Angri. Forse nei circoli repubblicani si sospettava che non fosse più da aver piena fiducia nel principe; e non si prevedeva che pel debole Roccaromana, il quale, partendo il Moliterno, gli fu sostituito affidandogli anche un comando militare, il caso era precisamente lo stesso. È certamente un notevole riscontro che entrambi questi uomini, che dopo la fuga del re aveano avuto grandissima fiducia e autorità presso il popolo di Napoli ed erano poi stati i principali a invocare la venuta de' francesi, erano adesso fra i primi che cominciassero a dubitare del buon esito di una causa alla quale s erano con troppa sollecitudine accostati (224). Nel pubblico si credè fermamente che il Moliterno fosse mandato a Parigi sol perché il supremo generale francese desiderava levarsi di torno un uomo amato od autorevole, e oltre a ciò molto reputato nell’arte della guerra; e così pure si fecero maliziosi commenti su altre variazioni di personale che furono decise in seguito nelle alte sfere governative (225).

In generale, appena messa alla meglio in piedi la repubblica, cominciò la caccia agli ufficj, e l’osteggiarsi e denigrarsi scambievole, talché seguivano sempre nuovi screzj fra le file di quelli, i quali non potevano sperare di far saldo e durevole il nuovo ordine di cose che aveano introdotto se non mantenendo inalterata la concordia fra loro. Mentre ne’ primi giorni bastava che altri si chiamasse buon patriotta per poter pretendere senz’ altra prova qualunque ufficio, poche settimane appresso tutti coloro che coprivano alti posti e godevano ricche prebende eran bersaglio alle più violente accuse, alle più atroci calunnie, ai più ostinati attacchi; e parecchi uomini onesti furon privati di cariche, nelle quali avean l’attitudine e la miglior volontà di servire lealmente la patria. Dopo molte dispiacevoli esperienze il governo provvisorio istituì un comitato di cinque persone, il quale dovesse sottoporre a diligente esame tutti quelli che ambivano a un pubblico ufficio; né da tal comitato c’era da appellare; chi era da quello rigettato, rimaneva escluso per sempre. S’intende bene, secondo lo statuto; poiché se un aspirante sapeva armeggiare a modo, cattivarsi il favore della combriccola e far molto chiasso, tutte le objezioni del comitato dei cinque non gli faceano nessun danno e, fosse o no capace, otteneva l’impiego (226).

V

PROGRESSI DELLA CONTRORIVOLUZIONE NELLE PROVINCE

Un caso di pubblica accusa e il corso che questa ebbe, levarono singolarmente romore in Napoli; ed è tanto più notevole perché mostra in che maniera si distribuissero gl'impieghi, specialmente quelli da essere esercitati fuori della città.

Un tal Niccola Palomba, schiamazzatore e avventato di prima riga, aveva mosso accusa a uno de' venticinque, a quel che pare, di abuso di potere; e per dare più risalto al passo che dava, s’era scelto una combriccola di chenti e seguito da loro comparve innanzi al consesso che dovea giudicare. L’accusato Prosdocimo Rotondo pregò che fosse investigata la sua condotta; ma la maggioranza de' suoi colleghi, credendo esser più prudente l'evitare uno scandalo, lasciò cader la faccenda, e a fin di allontanare dall’orizzonte della città il disturbatore della pace, dette al Palomba l’importante ed autorevole incarico di commissario del governo in provincia, ordinandogli di recarsi senza indugio al suo posto (227). Da ciò si rileva quanto poco fossero allora inclinati a ricercare se un ufficio s’attagliava a colui che doveva esercitarlo, sebbene tal ricerca fosse, specialmente per gli ufficj nelle province, di momento grandissimo.

Già col dividere il paese in dipartimenti, il nuovo governo avea dato materia di scontento e anche di scherno. Il popolo delle campagne è più di quello delle grandi città attaccato agli antichi usi; quella spartizione francese e in se stessa e per il nome gli tornava nuova e strana. Oltre di che s’eran commessi errori atti a dar poco credito al governo; un monte, scambiato per città, era stato messo a capo d’un dipartimento o d’un cantone; i confini naturali erano spesse volte trascurati; alcuni comuni erano stati spezzati, sbalestrandone parte da un lato e parte dall’altro, e via discorrendo (228). Non è da maravigliare che, stando così le cose, le commissioni consultive che doveano essere elette per portare tal disegno dalla carta all’atto, non fossero in grado di levarne le mani. È vero che poco appresso si cercò per qualche rispetto di contentare i desiderj del popolo, deliberando che le province prendessero il nome di dipartimenti «conservando gli antichi limiti loro.» Ma da un altro canto furono allora aboliti i corpi elettivi, e si deliberò di mandar commissarj nelle province a fin di ordinarvi le amministrazioni provvisorie, d’invigilare la riscossione delle imposte, di recare ad effetto la soppressione dei conventi e l’incameramento de' loro beni. Era data a questi commissarj facoltà di fare tutte le nomine che fossero per creder necessarie, e di servirsi all’occorrenza della forza armata (229). Veramente si volle far credere al popolo che ciò si faceva per una volta sola e che in avvenire gli sarebbe ridata la facoltà di scegliersi i proprj ufficiali; ma il popolo non vi prestò fede e, come prima se l’era poco detta con l’istituzione, a lui straniera, dei collegi elettorali, così si mostrò adesso scontento dell’abolizione di questi collegi e del sostituirvisi i commissarj del governo arbitrariamente nominati e mandatigli dalla metropoli (230).

Ufficio principale di questi commissarj era quello di democratizzare le province, cioè rimaneggiarle secondo gl'intendimenti e propositi della repubblica, guadagnarsi le classi inferiori e al nuovo ordine di cose amicarle. A tal fine furono anche mandati speciali democratizzatori accreditati da carte di democratizzazione rilasciate loro dalla commissione centrale. Erano per lo più ragazzi senza reputazione né meriti, privi affatto d’esperienza, e tanto più presuntuosi quanto meno eran legati da istruzioni, talché ciascun di loro operò secondo il proprio giudizio, generalmente assai scarso; e quale si rese ridicolo per l'ignoranza e per la vacuità dell'enfatico dire, quale distruggendo antichi usi e costumi offese ed eccitò le popolazioni. E poiché oltre a ciò eran deputati ad attizzare l’animosità contro gl'istituti e gli ordinamenti tramandati dal regime assoluto, mentre essi medesimi troppo spesso si lasciavan trascorrere ad arbitrj e vessazioni d’ogni qualità, ne seguì che in breve avessero tutti contro di sé tanto i vecchi impiegati regj, di cui gran parte erano stati pel momento lasciati in ufficio, quanto il popolo stesso ch'ebbe presto ad accorgersi che, comunque avesse avuto da lamentarsi degli antichi ufficiali del governo, non avea guadagnato nulla barattandoli co’ nuovi. Il cardinale, che dalla punta meridionale di Calabria veniva innanzi, non poteva per i propositi suoi desiderare precursori che gli spianassero la via meglio di sì fatti democratizzatori mandati dalla repubblica partenopea (231).

Né soltanto con grossolani errori, ma anche con prepotenze ed eccessi gli avversarj del cardinale gli facevano buon giuoco. Quando i francesi, non contenti di una taglia di 20,000 ducati imposta alla città di Benevento, ne portaron via di notte tempo i ricchi tesori delle chiese; quando ai cittadini di Piedimonte, che avean loro aperto spontanei le porte, ingiunsero di pagare dentro quattr’ ore una contribuzione di 9,000 ducati, e poi sotto colore che l’accordo non era mantenuto, abbandonarono la città per cinque giorni al saccheggio e alla fine l’incendiarono; quando sugli abitanti di Capodichino presso la capitale, i quali sulla promessa dello Championnet di perdonare e dimenticare ogni cosa avean consegnato le armi, vollero col saccheggio e con l’incendio prender tarda vendetta della resistenza incontrata colà nei giorni della lotta (232); con questi e simili fatti non riuscivano ad altro che a far novamente divampare l’antico odio dei napoletani contro i francesi, a dare nuovo alimento al desiderio che il governo nativo e il pristino stato di cose tornassero.

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E così la controrivoluzione faceva ogni giorno progressi in tutte le parti del paese. Specialmente nelle province orientali il richiamo del Duhesme avea procurato nuovi aderenti alla fazione reale. Certamente Foggia e la città di Sansevero così duramente trattata rimasero tranquille; ma un gran numero di realisti che erano stati in quest’ultima città battuti e dispersi s’erano rifugiati, passando l’Ofanto, in Terra di Bari, e fermatisi in Andria e in Trani aveano a traverso il mare appiccato pratiche con le isole jonie. Dall'altro lato si trovarono ad aver che fare col De Cesare e col Boccheciampe, che, come abbiam visto, aveano incontrato nel territorio di Brindisi aderenti armati co' quali strinsero le città di Bari e di Conversano, dove i repubblicani prevalevano. Bari resisté valorosamente; ma Conversano fu alla fine espugnata dai regj e saccheggiata. Se a Napoli non prendevano solleciti e adeguati provvedimenti, il Ruffo stava per dar la mano ai realisti di Puglia, e tutto il mezzogiorno era per la repubblica partenopea irremissibilmente perduto.

Poiché anche dal Principato citeriore venivano cattive notizie. A quel che pare, poco appresso la partenza del Duhesme verso l’Adriatico, lo Schipani, generale della milizia, s’era mosso nella direzione del mezzogiorno. Aveva appena 1,200 uomini sotto i suoi ordini, ma gente scelta, e ne luoghi dove egli doveva condurli migliaja di repubblicani armati aspettavano il suo arrivo per accompagnarglisi; così almeno si diceva nella capitale. Né allo Schipani mancavano altosonanti parole per annunziarsi alle popolazioni come l’uomo che era per annientare le empie schiere dei voraci assassini (233). Là dove non gli si oppose resistenza egli ottenne ottimi successi; entrò vincitore in Rocca d’Aspide e in Sicigliano senza incontrar nessuno che gli contrastasse il trionfo. Del che infatuato, a quel che pare, e fatto anche più arrogante che per natura fosse, disdegnò d’insignorirsi con egual facilità di Castelluccio. Questo forte castello situato sopra un monte, ma da più lati cinto di montagne più alte, aveva un debole presidio sotto gli ordini dello Sciarpa, il quale, secondo che si disse, era pronto a sgombrare la fortezza, se la repubblica gli assicurava un posto che per grado e stipendio gli si addicesse; anche gli abitanti erano disposti a sottomettersi, se le schiere napoletane promettevano di risparmiare il territorio comunale. Lo Schipani rigettò tali proposte, chiese incondizionata sottomissione e, non volendo Sciarpa e i castelluccesi ciò consentire, si accinse all'assalto. Persone di Albanella e Rocca d’Aspide, le quali conoscevano il paese, lo consigliarono ad assicurarsi prima delle alture circostanti, e si profferirono di farlo essi stessi. Se non che il generale avvisò che non fosse necessario, e comandò l’assalto appunto da quel lato dal quale la fortezza era giudicata inespugnabile. Lo Sciarpa fece dal canto suo gli opportuni apparecchi di difesa, accolse gli assalitori tempestandoli di pietre già preparate sulle mura, e tanti ne uccise che nessuno dei rimasti incolumi volle più arrischiarsi all’attacco. Allora il capo si mostrò tanto abbattuto d’animo quanto innanzi era stato arrogante, e ordinò la ritirata che in breve si volse in vergognosa fuga. Né solamente fu tralasciato di rinnovar l’assalto; ma abbandonato il proposito di marciar su Cosenza e di tentar la riunione con la colonna occidentale, tornarono verso il settentrione (234).

Le due Calabrie non eran più minacciate dalla parte della metropoli, e da Sicilia venne ai realisti l’annunzio di prossimo ajuto, anzi del sollecito ritorno di Ferdinando IV nel suo avito regno continentale.

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Migliorsorte ebb ro i repubblicani sulla costa adriatica. Non solamente Bari teneva sempre contro le frotte armate del Decesari e del Boccheciampe, ma più in giù, dove prima tutti gli animi erano pel re, prendevano ora i patriotti il di sopra. In Lecce scoppiò una sommossa, il preside Marnili fu ucciso a furia di popolo, e i suoi aderenti si dispersero (235). E dalla capitale giunsero allora esperti soldati in ajuto dei patriotti.

Sul mezzo del marzo il Macdonald, alle gravi notizie che venivan da terra di Bari, avea fatto marciare da Napoli una nuova colonna sotto il general Broussier. Erano 7 battaglioni e 3 squadroni di francesi co’ cannoni occorrenti, e la legione napoletana di Ettore Ruvo. Questo giovane, il cui nome intero era Ettore Carafa conte di Ruvo, avea preso parte alla congiura del 1796; chiuso perciò in castel Sant’Elmo, ne era scappato poco appresso insieme con l’ufficiale che doveva invigilarlo: e fuggito in Francia, era di colà tornato al seguito dello Cbampionnet. La sua famiglia era nota nelle province inferiori, e vi possedeva assai beni; né v’ha dubbio che fu questa una delle cagioni per cui il Macdonald lo associò all’impresa del Broussier. Anùria in fatti, una delle sedi principali de' realisti di quella province, e città di 27,000 anime, non è lontana da Ruvo, donde il Carafa prendeva il titolo di conte, del quale in quei momenti di zelo repubblicano ei non curò naturalmente di fregiarsi. Tuttavia come tale lo conoscevano i suoi compaesani. Quando, mandato dal suo generale alla testa di un distaccamento di dragoni, comparve il 17 di marzo, la domenica delle palme, innanzi Andria, i cittadini di su le mura lo chiamarono per nome e lo invitarono ad entrare in città; ma subito dopo furono tirati dei colpi, e il Ruvo tornò indietro verso Barletta. Allora il generale francese deliberò di far sul serio. Nella notte del 22 si mise in marcia, col conte di Ruvo a capo della legione napoletana; e giunto presso Andria, dette gli ordini per l’assalto. Se non che i realisti, ai quali il Decesari spediva in ajuto 200 uomini sotto il comando del valoroso Michele Rotondo, stavano in guardia e accettarono risoluti il combattimento. Il primo attacco de' repubblicani fu respinto; ma essendo riuscito ai francesi di sfondare una porta, per quella entrarono. Però né anche lì cessò la resistenza, si tirava dalle case, si combatteva per le strade; due ore durò la mischia innanzi che i repubblicani fossero padroni della città, che fu allo sfrenato talento dei soldati abbandonata. «Il sangue, il fuoco e tutti gli orrori,» scriveva il colonnello Carafa al governo provvisorio, «che io tralascio di descrivervi formarono de' quadri terribili ai nemici della patria e trasgressori delle leggi. La città era tutta infiammata, ed i morti possono ascendere a 4000 (236)

Il giorno 31 mosse il Broussier da Barletta verso Trani in tre colonne, una delle quali era la legione del Ruvo con tre cannoni. Anche in questa città, situata presso il mare e munita di una cittadella e di potenti bastioni, incontrarono viva resistenza. Il terzo giorno, 3 di aprile, una mano di francesi, passando felicemente il mare in un luogo dove l’acqua giungeva al petto, assalirono il piccolo forte della marina, e di primo acchito se ne impossessarono. Mentre gli assediati, acui mancava affatto l’unità e la risolutezza del comando, tenevano a quella parte rivolta l’attenzione, da un’altra i granatieri del Broussier diedero un nuovo assalto, scalarono le mura, e di dentro aprirono la porta per la quale le colonne repubblicane si versarono. Sorpresi e sbalorditi i realisti si raccolsero a disperata difesa, per modo che il generale fece abbattere alcuni usci, perché i soldati salissero sui terrazzi che coprivano le case e di là dominassero i nemici che dalle finestre tiravano. Allora solamente questi cessarono il combattimento e corsero al lido per salvarsi su le barche. A pochi però riuscì tal tentativo; e di essi pochi la più parte o cadde in balìa d’una flottiglia di cannoniere che veleggiava lungo la spiaggia di Barletta, o respinta dalle onde tempestose al lido vi fu dai repubblicani spietatamente trucidata. La sorte di Trani fu forse anche più terribile di quella ch’era toccata ad Andria e, alcune settimane innanzi, a Sansevero. Strage, saccheggio e incendio cospirarono a ridurre una fiorente città in un luogo di desolazione e di miseria (237).

E mentre i soldati rubavano i cittadini spiccioli, i generali predavano in grosso le casse pubbliche, e levavano insopportabili contribuzioni anche nei luoghi che non erano stati presi d’assalto. Bari, capoluogo della provincia dello stesso nome, avea per quarantacinque giorni bravamente sopportato l’assedio delle torme del Decesari e del Boccheciampe; ecco ora comparire il general Forest, che incenerisce i villaggi di Carbonara e di Coglie prossimi alla città, mette in rotta il 5 di aprile presso Casamassima l’esercito regio, e insegue i fuggiaschi sino a Brindisi. Il Boccheciampe fu preso e condotto ad Ancona (238); il Decesari scampò e sulle prime se ne persero le tracce. La diceria del principe ereditario e del suo seguito principesco durò tuttavia fra le moltitudini, alimentata e diffusa dallo zelo del preti e frati, ai quali l’arcivescovo di Taranto, Capecelatro, dava invano l’apostolica ammonizione di procurar la pace e l’obbedienza alle autorità costituite, invano rammentava il divieto ecclesiastico di portare armi. Non riluceva forse agli occhi loro l’esempio del porporato, che con la spada nuda nella destra, a capo dell’armata cristiana, s’andava sempre più avvicinando? I francesi dal canto loro si valsero dei conseguiti vantaggi senza riguardo veruno. Quando il general Forest entrò come liberatore ini entrambe le città riguadagnate alla causa repubblicana, impose agli abitanti di Bari una taglia di 40,000 ducati, di 8,000 a quei di Conversano; e fece inoltre nella prima città levare il ricco tesoro dalla chiesa di S. Niccola, come se, invece di venire in ajuto di prodi della sua stessa parte, si trovasse di fronte a pericolosi oppositori e volesse far loro sentire il peso ferreo del suo braccio. I suoi ufficiali rubavano ai cittadini carrozze e cavalli, i suoi soldati oro, argento e quanto potevano portar via con sé; insomma la condotta loro fu per tutti i rispetti simile a quella di conquistatori in paese nemico (239).

Nella vicina Basilicata, antico dominio lucano, governavano due nativi, l’uno il Palomba da Avigliano, a noi già noto, in qualità di commissario, e l’altro, il Mastrangiolo da Montalbano, come generale; entrambi pieni di zelo teorico per la repubblica, in onor della quale facevano in ogni occasione gridare evviva; ma senza alcun accorgimento e forza di volontà propria, e soliti di non fare assegnamento altro che nei francesi, che avean creato quel governo e dovevano anche appoggiarlo e difenderlo. Quando, alle nuove dei progressi del cardinale, furono avvertite nella città di Matera propensioni alla causa del re, il Palomba chiamò in ajuto da Terra di Bari i generali francesi; ma questi, avendo abbastanza da fare nei luoghi che occupavano, né la tranquillità essendo in fatti turbata a Matera, non giudicarono opportuno di farsi avanti in una provincia, che possedeva da sé sufficienti mezzi di difesa. Se non che il Mastrangiolo non era uomo capace di adoperare convenientemente le forze a lui affidate, e di forzare gli avversarj del nuovo stato al rispetto e all’obbedienza (240).

A settentrione di Napoli una colonna francese riuscì ad espugnare la città di Aquila, principal centro della fazione regia; il che avvenne il 23 di marzo con grande spargimento di sangue, con la morte di circa 200 cittadini (241). Ma i moti della parte regia, non che fossero colà per tal modo impediti, ebbero invece nuovo alimento per via d’un fatto, che cominciando presso la capitale stese in breve la sua efficacia fino alle più remote contrade; voglio dire l’apparizione del commodoro Troubridge nel golfo di Napoli.

Poiché i repubblicani, i quali fino a quel tempo aveano avuto a combattere co’ regj solamente per terra, dovettero allora contrastare ad essi anche per mare, e prontamente occorse loro l’uomo atto a condurli nel nuovo cimento. Fu questi Francesco Caracciolo, che non solo il re e la regina aveano onorato di loro stima e fiducia, ma anche il Nelson e i suoi ufficiali ne avean fatto grandissimo conto, talmente che per un pezzo non vollero credere a così rozzo tradimento. Quell'uomo senza carattere entrò come semplice soldato nelle file dei repubblicani, fece la guardia, a vista di tutti, innanzi al palazzo reale; ma pochi giorni dopo si fece nominare capo della marina, nel quale ufficio spiegò in breve la massima operosità. Egli ebbe però cura di diffondere fra i realisti la voce, che era forzato, che mettevano il suo nome sotto atti che non aveva mai visti; insomma egli recitò due parti in commedia, anzi tre, poiché volle far credere ai marinari che era mandato dal re e che operava per incarico di lui (242).

VI

IL COMMODORO TROUBRIDGE NEL GOLFO DI NAPOLI

La squadra palermitana comparve il 2 e 3 di aprile a vista della capitale. Si componeva di due vascelli di linea, venuti col Troubridge da Alessandria, insieme al vascello Minotauro, alla cannoniera Perseo, ai vascelli portoghesi S. Sebastiano e Pallone e parecchi altri piccoli bastimenti fra cui anche de(') siciliani (243).

Il Nelson, conformandosi ai voleri del re, aveva dato al Troubridge l’incarico d’impossessarsi innanzi tutto di Procida a fin di avere un buon ancoraggio presso Napoli, bloccare il golfo, e tenere occupato il nemico sino all'arrivo dei soccorsi russi e turchi per impedire che si mandassero ajuti nelle province ovvero al contrario si ricevessero armi e viveri. Nello stesso tempo doveva il comandante inglese attaccare relazioni co’ rimasti fedeli sul continente e sulle isole vicine, e per contrario agli avversarj ostinati infliggere, se gli era possibile, pronto e severo gastigo. «Abbiate sempre in mente» lo ammoniva l’ammiraglio, «che la sollecita ricompensa e la immediata punizione sono i fondamenti d’un buon governo.» Gli era proibito di tirare, senza espresso comando del Nelson, sulla città, «salvo che le circostanze rendessero necessario un bombardamento passeggierò, come, per esempio, se i leali abitanti pigliassero le armi contro i francesi» (244).

L’impresa fu coronata in brevissimo tempo da lieto successo. A Precida non s’incontrò resistenza; anzi il popolo corse incontro agli anglo-siculi come a liberatori, gridò evviva senza fine al suo monarca, buttò giù gli alberi della libertà (245). Gli abitanti d’Ischia, avuto contezza degli avvenimenti sull’isola vicina, fecero il medesimo, misero in mille pezzi e trascinarono nel fango la bandiera tricolore francese. Il castellano, di nome Francesco, già ufficiale del re, poi zelante repubblicano, credette di poter ripigliare quella sua qualità e si presentò al comandante inglese nell'antico uniforme; ma il Troubridge ordinò che gli si strappassero le spalline e gli si mettessero i ferri doppj. Un prete, Albavena, che cercava di eccitare gl’isolani contro gli eretici inglesi, fu tosto messo in condizioni da non poter offendere; e finalmente si diè principio a una caccia contro tutti coloro che o erano giacobini o aveano spiegato zelo per la repubblica, in modo che le carceri dell’isola e il primo ponte del Culloden furono in breve incapaci a tanto numero di prigionieri. Il Treubridge domandò istantemente che fosse mandato un magistrato onorevole, il quale giudicasse senza indugio e desse qualche esempio salutare; «il popolo desidera la rigida amministrazione della giustizia, un otto o dieci di quei poco di buono debbono essere impiccati» (246). Nei giorni seguenti anche Ponza e Ventotene si dichiararono, abbatterono gli alberi della libertà, inalzarono la bandiera borbonica, talché, occupata finalmente Capri dagl’inglesi, tutte le isole del golfo di Napoli furono riguadagnate al re. Da per tutto il popolo si mostrava lietissimo del cambiamento; e dalla terra ferma venivano messi per vedere se in realtà, come aveano udito dire, il re si fosse recato sulle isole. Tornò governator di Procida il de Curtls; e dopo aver colà dato i provvedimenti opportuni, fu mandato con una conveniente scorta a Ponza per ordinare anche su quelle isole in qualche modo l’amministrazione.

Gli sbarchi che gl'inglesi da Procida fecero a Miseno che sta di faccia, e poi a Cuma ch'è un po’ più a settentrione, non ebbero durevole effetto, il che porse ai patriotti napoletani argomento di strombazzare segnalate vittorie. Anche con la città di Napoli ebbero che fare gl’inglesi, ma non in modo ostile. Il secondo o terzo giorno dopo l’arrivo della squadra alleata, una lancia del Culloden si accostò al castel dell'Uovo; aveva alzata la bandiera parlamentare, e portava a bordo un ufficiale inglese incaricato di prendere nel palazzo della legazione britannica gli effetti lasciativi da Sir Hamilton. Le autorità repubblicane lo accolsero con la più gran cortesia del mondo; i vini, che doveano trovarsi in cantina ma che aveano in quel mezzo preso la via di altre gole, furono senza contrasto compensati in danaro contante. Si dichiararono pronti anche a consegnargli, se lo desiderava, la mobilia del ministro austriaco; insomma fecero il possibile per levarsi presto di torno l’ufficiale inglese, la cui sola presenza in una città piena di segreti realisti era lor cagione d’inquietudine (247).

***

Intanto avan mandato da Palermo a Procida la fregata Minerva, capitano conte Thurn, con 7 cannoniere e 4 galeotte. Portava a bordo da 3 a 4 cento uomini per rafforzare il presidio delle isole; li comandava il generale Tschudy. A governatore d’IscMa fu nominato il generale Giuseppe Acton, fratello del ministro, sebbene non gli andasse troppo a genio quell'ufficio e, amando meglio prender parte all’impresa del Ruffo, avesse più volte pregato la regina di raccomandarlo al cardinale (248). Giunse pure il giudice, tanto desiderato dal Troubridge, con una quantità d’impiegati e servitori (249); e al Nelson non meno che al suo sottocomandante pareva ogni ora mille che si desse principio a impiccare e fucilare. Ma quanto il Troubridge era sodisfatto del governatore de' Curtis — «è un uomo operoso, diligente e, credo, onesto; forse l’unico della specie sull'isola» (250)— altrettanto fu scontento del giudice e del modo come esercitava il suo ufficio. Gli sembrava che procedesse troppo lento, troppo meticoloso, troppo timido; se si trattava di giudicare un prete, non che si arrischiasse a condannarlo, si credeva obbligato di rivolgersi prima al vescovo perché innanzi al giudizio lo sconsacrasse. Il Troubridge, a cui tali lungherie non garbavan punto, se ne lamentava con l’ammiraglio. «Impiccate senza far tante storie,» egli così comandava al magistrato, «e se non vi basta l’animo di farlo, lo farò io.» Oltre che avvenivano nell’amministrazione della giustizia cose da fare grandissima specieagl(9)inglesi; non di rado si facevano indagini, e sentenze si pronunziavano senza far comparire gli accusati (251). Quando al commodoro pareva che le cose passassero il segno, faceva come Ponzio Pilato e interrogava da sé gl'imputati; per poco che la faccenda toccasse l’elemento militare, il processo andava molto per le spicce. Un fornitore che per crescere il peso del pane ci avea messo della rena, ei lo fece prima frustare, poi, con una delle sue pagnotte al collo, mettere alla gogna; e finalmente condur fuori della città sulla spiaggia, ed ivi sottometter da capo allo stesso procedimento a fin che il terribile esempio potesse vedersi quanto più era possibile di lontano.

Che nel real palazzo di Palermo i felici successi del commodoro inglese fossero cagione di gran gioja, è cosa che s’intende da sé. Anche le notizie del Cardinal generale continuavano favorevoli (252), e le loro Maestà si dettero cura di non fargli ignorare le imprese che dal lato del mare si compivano (253). Solo il Nelson non faceva nessun conto dei progressi del Ruffo; il quale con le sue masnade indisciplinate non gli pareva commilitone degno di lui, e come porporato cattolico gli destava avversione. Per il Nelson non c’era che l’Austria, i cui ministri bisognava che alla fine si risolvessero una volta a pigliare un’attitudine decisa verso la Francia. E quando su i primi d’aprile giunse, senza dubbio per la via di Livorno, la notizia che nella Svizzera le ostilità erano cominciate, e alcuni giorni dopo si seppe che l’arciduca Carlo si era mosso dalla sua posizione di Lech; il Nelson ordinò che le navi ancorate nella rada di Palermo facessero salve di gioja, a fin che gli abitanti della città e dell’isola conoscessero la miglior piega che aveano ormai preso le cose (5 d’aprile). Anche co’ moscoviti egli si rabbonì, e lo stesso giorno scriveva a Sir Whitwort in Pietroburgo: «Se ora da 9 a 10 mila russi si uniscono a noi, fra una settimana Napoli è nostra, e S. M. imperiale avrò la gloria di àver rimesso sul trono un buon re e un(1) amabile regina» (254).

***

Tutt altro era naturalmente lo stato degli animi nella parte repubblicana del continente, dove i felici successi degl’inglesi andavano producendo un contraccolpo sempre più forte. Il quale nella metropoli si manifestò innanzi tutto col selvaggio irrompere del furor popolare. Più frequenti che mai occorrevano i furti, le uccisioni e ogni sorta di aggressioni notturne, non ostante i severissimi ordini del general Rusco comandante di piazza e delle autorità municipali, che minacciavano di punire senza riguardo chiunque si trovasse di notte per istrada senza lanterna o fiaccola. Fu rinnovata più severamente la proibizione di portare armi, anche alla guardia nazionale non era concesso fuori servizio altro che la sciabola. Alcune condanne a più o meno lunga prigionia, a relegazione perpetua, e anche a morte, che occorsero in quei giorni, erano intese a confermare e rafforzare quella proibizione (255). Alle popolazioni di campagna e delle piccole città, o non ancora sottomesse o di nuovo ribellate, fu ingiunto che deponessero le armi, rizzassero gli alberi della libertà, richiamassero gli ufficiali repubblicani, mandassero dichiarazioni di sottomissione: altrimenti il ferro e il fuoco li distruggerebbero, e le abitazioni loro sarebbero adeguate al suolo (256).

S’intende che l’apparizione d’un parlamentario inglese avea vivamente commosso, sebbene in modo diverso, gli animi dei realisti e dei repubblicani. Presso le autorità predominò la paura dell’efficacia che quella vista dovea produrre in una città fatta forzatamente repubblicana; e però con ogni studio s’industriarono di commentare il fatto a disfavore del partito regio. Sir Hamilton — cosi andavano vociferando — aveva, partendo per la Sicilia, portato seco tutto ciò che gli apparteneva; la commissione del parlamentario inglese non essere quindi stata se non un pretesto per aver modo di riconoscere le condizioni della città e i mezzi di difesa; il governo però aveva scoperto tali mire, e prese tutte le disposizioni perché la repubblica non avesse a patirne alcun danno. Un proclama della sezione di marina, sotto il quale era segnato il nome di quel? uomo senza carattere ch'era il Caracciolo, si giovava di questa congiuntura per mettere in canzonella gli sforzi dei fuggiti tiranni, affermando che «un’orda di scellerati, dispregevoli avanzi di galea, ed un pugno di disertori, miserabili reliquie del disperso esercito, erano tutte le forze che rimanevano al loro agonizzante potere» (257).

Ma anche la chiesa doveva prestar l’opera sua perché il credulo popolo si volgesse verso la travagliata e pericolante Partenopea. Il ministro Conforti, a' cui occhi Fabrizio Ruffo non era altro che un perfido scismatico, sollecitò il cittadino arcivescovo di Napoli perché gli lanciasse la scomunica. Al che essendosi negato lo Zurlo, gli si minacciò di abbattere gli altari, di cacciare tutti i preti, di trattare anche lui da ribelle; e tanto si fece che, o con l’astuzia, o con la persuasione, si riuscì ad indurre quel debole uomo a mettere il suo nome sotto uno scritto di qualità tutt'altro che apostolica, nel quale affermava esser pervenuta a' suoi orecchi l’orribile voce, che il Cardinal Ruffo avesse assunto nelle Calabrie il nome di Romano Pontefice, e che con l’abuso di tal sacra autorità si affrettasse a sedurre quei popoli, incitandoli a delitti di ogni maniera; e ammoniva i fedeli a deporre le armi e a raccogliersi intorno al nuovo governo, organizzato sugl’inviolabili e sacri diritti del genere umano, pienamente uniforme alle divine pagine dell'Evangelo, e diretto a formare la maggior civile felicità del popolo (258).

Ma tutto questo non fu sufficiente rimedio. Anche i fautori delle nuove idee non avean più lo stesso animo verso gli apportatori di esse e tutto ciò che proveniva da loro; avevano aperto gli occhi e vedevano che i francesi riguardavano Napoli come paese conquistato, e nient’altro stava loro a cuore salvo che arricchirsi predando e smungendo in tutti i modi. Senza di che presso le classi inferiori Podio contro i francesi si era forse sopito per qualche tempo ma spento non mai; talché, ad onta della polizia e della giustizia militare, assai più rapidamente che nei ceti superiori crebbe presso di quelle l’irritazione e il mal animo. Gli ospiti cominciarono a trovarsi a disagio sotto lo splendido cielo di Napoli. Rubato e arruffato aveano abbastanza; si trattava adesso di portare al sicuro la preda. E né anche per le famiglie loro giudicarono oramai gradita quella dimora; parecchi fra gli alti ufficiali e impiegati mandarono mogli e figliuoli di là dai confini verso settentrione. Alcuni battaglioni marciarono prendendo la direzione di Capua; si fece correr la voce che andassero contro l’imperatore (259).

Nel che c’era del vero, sebbene a quel tempo non si conoscesse ancora in Napoli in che stato fossero propriamente le cose nell’alta Italia e sul Reno. Il più prossimo pericolo soprastava ai francesi ed a repubblicani nativi dalle isole del golfo e dalle forze anglo-sicule ivi stabilito, le quali avevan sembianza di essere la vanguardia di altre maggiori che fossero per sopravvenire. In tali congiunture parve al Macdonald buon consiglio il raccogliere nella metropoli tutte le sue forze. La colonna del Broussier, ch’era stata mandata nella Puglia e in Terra di Bari, fu richiamata; soltanto Ettore Carafa con la sua legione napoletana, e alcuni piccoli presidj francesi in Pescara e Civitella del Tronto sotto il general Coutard, doveano rimanere fino a nuov'ordine in quelle contrade.

VII

ALTAMURA

Nell’Italia superiore, nella Svizzera, in Germania era già da parecchie settimane cominciata la guerra. Il 1° di marzo, senza precedente dichiarazione e mentre sedeva ancora il congresso di Rastadt, il supremo generale francese Jourdan avea valicato il Reno, e l’arciduca Carlo dal canto suo passando il Lech era andato incontro a' francesi. Nella Svizzera il Massena aveva condotto il dì 6 i suoi soldati presso Sargans oltre il Reno superiore, assaltato il Luciensteig contro il generale austriaco Auffenberg, ed era giunto il 7, respingendo il nemico, insino a Coira; dove l’Auffenberg fu preso, i suoi soldati dispersi, e così tutti i vantaggi ritornati dalla parte della repubblica francese. In Lombardia lo Schèrer e il Moreau avean proposito di smuovere la posizione del Kray sull’Adige. Ma da quel momento la fortuna della guerra s’era mutata. Il 21 l’arciduca Carlo avea ributtato i francesi presso Ostrach, nello stesso tempo che il Massena faceva inutili sforzi per togliere Feldkirch agli austriaci comandati dal Jelacic; il Jourdan compiutamente sconfitto ne giorni 24 e 25 presso Stockach e Liptingen era andato sempre più piegando verso il Reno e finalmente era passato dall'altra riva. Nell'Italia superiore i francesi aveano il 26 conseguito vittoria contro una parte degli austriaci, ma erano stati nello stesso tempo rigettati da un altra presso Legnago, dopo di che il Krav dal lato suo aveva risoluto di marciare avanti e di attaccare, e il 5 di aprile aveva presso Magnano battuto lo Schèrer, forzatolo a passare il Mincio, e respinto sin dietro l’Oglio. Quando alla fine i russi sotto gli ordini del Suvorov comparvero sul campo di battaglia dell'Italia superiore, gli alleati avevamo decisamente il di sopra di qua e di là dalle Alpi, né i Francesi potevano, anche nell’Italia meridionale, durarla più a lungo. In fatti nella seconda metà d’aprile giunse al Macdonald l’ordine di lasciare de' piccoli presldj in certi punti principali e di ricondurre tutto il resto dell’esercito verso il settentrione per correre in ajuto del Moreau, che in quel mentre aveva preso in luogo dello Schèrer il comando supremo.

Di tutti questi avvenimenti non si ebbero in Palermo per via indiretta se non tarde ed incerte notizie. Quando il Nelson aveva fatto fare alle sue navi le salve in segno di gioja, ei non sapeva altro, come più su accennammo, se non che l’arciduca Carlo s’era messo o stava per mettersi in movimento, ed egualmente circa la Svizzera poco sapeva oltre l’apertura delle ostilità. Altre nuove, ma sempre molto vaghe, le portò il Niza, tornando nella seconda metà d’aprile dalla sua vana spedizione contro Livorno: che l’imperatore avea dichiarato la guerra alla repubblica, che gli austriaci aveano durante la settimana santa ottenuto grandi vantaggi, e preso la fortezza di Peschiera (260). Il Troubridge nel golfo di Napoli ebbe senza dubbio le prime informazioni per mezzo del Nelson; e il Cardinal generale, che si trovava nell’interno del paese a occidente del golfo di Taranto, non ebbe contezza d’altro che di quanto portavano a sua conoscenza per lunghe vie indirette le lettere della regina, ovvero di ciò che il Troubridge, presentandoglisi l’occasione, giudicava conveniente di comunicargli.

La mattina del 5 di aprile Fabrizio Ruffo era partito da Cotrone e, passato il Nieto, aveva con un tempo favorevole posto gli alloggiamenti presso il capo Alice. Il dì seguente continuò la marcia verso nord ovest. Le colonne movevano lungo la marina, e il cardinale si giovò dell’occasione per cercar d’intendersi col vescovo di Cariati Felice Antonio di Alessandria, il cui nome e credito oltrepassava i confini della sua diocesi, talché doveva tornare a gran vantaggio per la causa di Fabrizio l’averlo dalla sua. E in fatti l’abboccamento riuscì al fine desiderato. Dopo di che il Ruffo, passando per Mirti, casino appartenente alla principessa di Campana, di lui sorella, andò a Rossano ed ivi richiamò a sé la colonna del Mazza. (811 aprile). Trattenutovisi alquanti giorni, che impiegò a munire la città, ad aumentare la cavalleria e a provvedere a tutto il bisognevole per i soldati, divise le sue schiere in due parti. La maggiore sotto gli ordini di suo fratello Francesco la spedì a Corigliano, perché ivi si fortificasse e, mandando senza posa intorno pattuglie a cavallo, riconoscesse la contrada e nello stesso tempo impedisse le diserzioni dal suo proprio campo.. Alla testa della minor colonna mosse il cardinale in persona verso Cosenza a fin di fare entrare questo importante capoluogo di provincia nel giro del suo ordinamento civile e militare e per tal modo assicurare la causa del re. Il vescovo di Cariati prese parte a questa marcia, della quale il Ruffo profittò per correre, accompagnato da un piccolo drappello di cavalleria sotto il comando dell’alfiere D. Gius, de' Luca, in diverse direzioni il paese che le sue colonne toccavano, parte per guadagnare le popolazioni con la eloquenza sua e con l’autorità cresciutagli dalla cooperazione del vescovo Alessandria e di altri leali feudatarj di quel luoghi, e parte per procacciarsi cavalli, carri ed altre cose occorrenti a' suoi soldati.

Ma queste scorrerie avevano anche un altro fine importante. È stato detto a suo luogo che su’ primi d’aprile una quantità di galeotti ed altra gente di male affare era stata condotta dall'isola sotto bandiera anglo-sicula e sbarcata a terra. Quegli uomini indisciplinati, e dalla stessa prigionia corrotti o inselvatichiti, invece di combattere il nemico contro il quale erano stati sguinzagliati, amaron meglio gittarsi alla campagna; e sfidando tutte le disposizioni delle autorità costituite, assaltarono villaggi, predarono case e alcune anche bruciarono, e da un luogo all’altro portarono la sterminatrice opera loro. Parecchi erano nativi di Calabria, ed avevano antiche contese da terminare, o vendetta da prendere di chi sapevano e credevano aver avuto colpa nella loro condanna. Di alti lamenti risonarono in breve quelle desolate contrade; e il metter fine a tanto disordine non fu solamente un punto d’onore per la bandiera alla quale il Ruffo aveva consacrato la sua spada; quegli incendj ed assassinj, quei furti e saccheggi potevano esercitare una pericolosa efficacia sui numerosi suoi soldati irregolari, che d’avanzo gli davano sopraccapi e molestie. Importava quindi da un lato ispirare novamente coraggio alle atterrite popolazioni e raccoglierle sotto la protezione delle armi regie; e dall’altro cercare di richiamare quei briganti e rimetterli sotto la regola del servizio militare.

E tutte e due le cose gli andarono a seconda. In breve spazio di tempo ne fu raccolto un migliajo, che il cardinale pose sotto gli ordini di Niccola Gualtieri, dando cosi una novella prova del suo accorgimento e della conoscenza che aveva degli uomini. Questo Gualtieri, chiamato volgarmente Panedigrano, e già forzato anche lui, era venuto di Sicilia con gli altri. Non sembra però ch'egli fosse condannato per un delitto comune; poiché non solamente corrispose fin da principio alla fiducia del cardinale, ma non ostante l’ignoranza che gli fece spesso commettere grossi sbagli, e dette, trovandosi in congiunture da dover operare da sè, prove di sano giudizio e in certo modo anche di buono e talvolta di generoso animo, che lo rendeva sinceramente ben veduto a chiunque rettamente pensasse (261). Del rimanente il Ruffo non intendeva tenerlo presso di sè; la pericolosa schiera doveva essere al più presto possibile allontanata da quei luoghi, ch'erano stati poco innanzi teatro di loro prepotenze ed eccessi, e Panedigrano doveva esser messo anche lui sotto un comando regolare. E poiché agli anglo-siculi egli andava debitore di quella bizzarra schiera, mandò Panedigrano ai vescovi di Policastro e di Capaccio perché lo adoperassero nel Cilento; e nello stesso tempo pregò il comandante della squadra anglo-sicula, che facesse sbarcare una parte de' suoi soldati, e all'ufficiale soprastante ad essi anco il comando sulle torme di Panedigrano confidasse.

Ricordiamoci che Cosenza, capoluogo della Calabria citeriore, era stata già da alcune settimane per opera del Mazza, ajutante del cardinale, sgombrata dai repubblicani. La città e la provincia ebbero allora un governo provvisorio, reggente in nome del re, col vescovo Alessandria presidente, col caporuota Frane, de' Rogatis alla Giustizia, e alle Finanze D. Saverio Lacquaniti il quale aveva fin allora prestato buoni servigi nell’esercito del cardinale. Sul mezzo dell’aprile il regio vicario si trovava presso la parte d’esercito che avea lasciata in Corigliano. Prima che ne ripartisse pubblicò un manifesto, che in nome del re prometteva perdono ed oblio a quanti volessero immantinente tornare all’obbedienza del loro legittimo sovrano, e per contrario minacciava tutta la severità delle leggi a quelli che fossero per durare nella loro perfidia contro il re e la patria (262).

Né senza ragione fece il cardinale novamente pubblicare questo ammonimento. Poiché anche nelle Calabrie, che erano quasi da per tutto occupate o percorse dalle sue schiere, dimoravano tuttora patriotti che non davano in nessun modo perduta la causa loro. Nella seconda metà di aprile ai segreti partigiani della regina riuscì d’intercettare lettere, fra le altre una di Stanislao Serra a suo fratello duca di Cassano in Napoli. Risultava da essa che il vescovo di Gaeta, sottrattosi nello scorso gennajo alla vendetta del popolo tumultuante, avea trovato in quelle contrade asilo e protezione, e con tanto maggior zelo si adoperava ad accendere e aizzare gli animi quanto più, consapevole della propria colpa, aveva da temere' una ristorazione della giustizia regale. Gli scrittori delle lettere pregavano che si mandasse una colonna francese, con l’ajuto della quale speravano di volgere le cose a loro vantaggio (263).

Ma la voce del cardinale era principalmente rivolta agli abitanti della Basilicata, di Terra di Bari e delle pianure di Puglia, dove egli avea deliberato di portare adesso le sue armi. Erano quelle le province che recentemente le colonne franco-partenopee aveano percorse, procurando nella più parte delle città il sopravvento alla fazione repubblicana. Anco dell’alto clero non pochi, almeno pel momento, tenevano da questa; mentre il basso clero ed i frati stavano quasi tutti col popolo devoto al re. Due di questi ultimi comparvero un giorno innanzi all’arcivescovo di Taranto, Capecelatro, e lo pregarono che all’avvicinarsi dell’armata cristiana condotta dal vicario generale volesse chiamare il popolo alle armi; ed avendo quel prelato respinte le bellicose proposte, osarono dirgli: Dunque anche voi siete de' loro? Noi opereremo senza di voi!» Allora l’arcivescovo, fattili prendere e dar loro cento colpi di bastone, li rimandò al campo del cardinale con l’avvertimento: che nello stesso modo e’ si comporterebbe verso tutti gli ecclesiastici che, contro ai precetti della chiesa, volessero cingere la spada (264).

Ma non ostante tutti i contrarj sforzi, i partigiani del cardinale crescevano. Il De Cesari, sentito che l’armata cristiana s’appressava, usci dal suo nascondiglio e comparve inaspettato a Taranto. La credenza che sotto falsa sembianza si celasse il principe ereditario, si diffuse daccapo. Come due mesi prima gli abitanti di Brindisi avean preso il Corbara pel duca di Puglia, cosi i Tarantini scambiarono per lo stesso personaggio il De Cesari; e se quell’uomo vanitoso non appoggiò addirittura tale errore, non fece però nulla per dissiparlo; talché sarebbe incorso nel sospetto di giacobinismo presso la credula moltitudine, e forse nel pericolo della vita, chi si fosse attentato a mettere in dubbio la cosa (265). Per quanto favorevole e capace di utili effetti potesse per un certo verso tornare quel pio errore alla causa del re, e sarebbe stata grave imprudenza sommuovere ed eccitare gli animi popolari smascherando d’un subito e senza rispetti l’immaginario eroe, pure non poteva alla lunga piacere al cardinale la ciarlataneria del De Cesari, non foss’altro perché vedeva così compromesso il credito e l’autorità sua di vicario generale del re. Da quell’uomo prudente ch’egli era sempre, deliberò di far venire al suo quartier generale quell’idolo della moltitudine, ed ivi, con tutti i riguardi possibili verso le debolezze di lui, rimettergli la testa a partito.

Intanto il Ruffo continuò la sua marcia verso il settentrione. Dopo aver fatto gittare a suoi Ingegneri Olivieri e Vinci un ponte sul Crati, passò questo fiume e pose il campo presso Cassano. Don Stanislao Serra, fratello del duca feudatario di Cassano, preparò amichevole accoglienza all'armata cristiana, e la provvide di quanto la contrada poteva offrire. Era quel medesimo Stanislao, che poco innanzi, come appariva dalle sue lettere intercettate, era stato in procinto di tradir la causa del re, e che adesso se ne dichiarava devoto ed operoso servitore, o per pura finzione, o per sincero pentimento, o per paura della pena. Imperocché la fama dell’avanzarsi del Ruffo, delle sue continue vittorie, della sorte toccata ad alcune città che avean voluto contrastargli, l’idea esagerata che la gente si faceva della forza dell’armata cristiana, tutto contribuiva a far sì che Fabrizio Ruffo oramai con la sola potenza del suo nome vincesse. Quando nella seconda metà di aprile entrò in Basilicata, ed ebbe passato il Sinno e l’Agri, il terrore gli volava dinanzi, i numerosi patriotti lasciavano precipitosamente i luoghi dove fin allora aveano spadroneggiato, abbandonando il campo ai concittadini realisti, che si affrettarono, quelli di Matera prima di tutti, a dichiarare al vicario generale del re la loro spontanea sottomissione.

Innanzi di proseguire il corso degli avvenimenti, ci sia concesso di passare in rivista l’armata cristiana, e di considerare più da vicino la persona e il modo di procedere del suo generale porporato.

Il grosso dell’esercito era sempre formato dagl’irregolari (266); fondamento e nucleo di esso i soldati di linea. Non pensava il Ruffo ad accrescere i primi — solo la necessità lo costrinse a prendere Panedigrano e i mille mascalzoni venuti di Sicilia — ma bensì a rinforzare continuamente i secondi chiamando i congedati, persuadendo a tornare gli sbandati dell’ultima guerra, attirando nella fede i veterani, i quali dovevano in parte supplire agli ufficiali di cui pativa sempre penuria.

Degl’irregolari si contavano 100 compagnie di 100 uomini ciascuna (267); salvo una parte provvista di fucili, gli altri erano armati di pistole, bajonette e pugnali, e portavano a cintola una specie di tasca, detta patroncina, che faceva ufficio di giberna. Di regolari eran già raccolti 10 battaglioni di 500 uomini ciascuno; ma s’intende che anco questi eran lontani dal presentare un aspetto uniforme; né l’armamento loro era uguale e compiuto; a molti fucili le bajonette mancavano. Il vestiario appariva svariato e generalmente assai frusto; la biancheria e le scarpe avean grandissimo bisogno d’esser rinnovate; un trasporto di divise, camice e calzature arrivò assai opportuno al campo presso Cassano. Ma per effetto della così lungamente trascurata nettezza già tristi malattie di pelle correvano, tanto che circa 800 uomini erano stati allontanati e per le necessarie cure condotti in uno spedale ordinato alla meglio dal cavaliere Serra.

Di cavalleria regolare il cardinale aveva circa 1200 uomini; ma alcuni aspettavano ancora il cavallo che dovevano cavalcare. La copertura del capo consisteva in un elmo o un berretto; l’armamento in carabina o fucili da caccia, sciabole o lunghe spade, lance o spuntoni. Meglio armati ed equipaggiati erano due squadroni di milizia territoriale a cavallo, che prestavano al cardinale segnalati servigi; ne facevan parte i capi degli arcieri e gli armigeri dei ricchi baroni, e si provavano atti così ad infligger gastighi come ad audaci imprese. Erano frequentemente adoperati a impedir le diserzioni e a ripigliare i fuggiaschi.

Quanto a pezzi d’artiglieria, disponevano di 11 cannoni e 2 obici; un luogotenente, Dom. Mazzei, era rivestito del grado di comandante. A compiere sì difettoso armamento erano rivolti gl’incessanti sforzi della regina. Scipione la Marra, il quale, offertagli dal Mack il grado di colonnello, desiderava, a detto di Carolina, meritarselo prima servendo sotto il Ruffo, doveva, siccome ricordavamo dianzi, andare a raggiungere con quattro ufficiali l’armata cristiana conducendo seco tutti i soldati calabresi dei presidj di Palermo e Messina, parecchie centinaja d’uomini, con venti nuovi cannoni da montagna. Ma quando si fu sul recare tal disegno ad effetto, il timore di diminuir le difese di quelle due città impedì da un lato una pronta risoluzione, dall’altro dei venti cannoni otto soli eran pronti o presso che pronti; talché il La Marra ebbe ritegno a mettersi in cammino con le mani vuote.

Ricco d’idee e di espedienti, perseverante ed instancabile ne’ suoi propositi, Fabrizio Ruffo seppe trarre il maggior partito possibile dallo scarso materiale di cui per l’audace impresa sua disponeva. D’ogni fermata di alquanti giorni, per poco che la stagione e i luoghi lo concedessero, ei si giovava per esercitare i soldati. Anche durante le marce, il tempo non era inutilmente perduto. Quando esse o lentamente procedevano, o per cagione dei molti carriaggi erano soggette ad alcune ore di alto, il cardinale cogliea l’occasione per passare a cavallo tra le file, fare qua e là i suoi appunti, esortare a mantener l’ordine, inculcar l’obbedienza verso i superiori. E là dove questi non sapevano a un tratto risolversi, mostrava loro da sé quel che avessero a fare. Egli era di vivace ingegno e delle più varie attitudini dotato, né a tempo e luogo gli faceva l’opportuna arguzia difetto; all’occorrenza non gli era difficile operare con le sue proprie mani, e col suo proprio esempio accendere i suoi calabresi e menarli dovunque gli piacesse, al fuoco e all’acqua. Della quale ultima cosa dette alla lettera una prova ne’ primi giorni del suo comando. Giunte dopo una difficile marcia notturna alla riva d’un fiume, ed esitando le schiere a passarlo perché gonfio dalle precedenti piogge appariva, il Ruffo scese giù da cavallo, prese una mazza, saltò con l’ajuto di quella sopra un carro gridando alle sue genti: «Così dovete fare per superare gl’impedimenti che occorrono per via!» In un lampo tutti furono all’opera, non solamente per passare essi medesimi, ma eziandio per ajutare, meglio dei cavalli e dei bovi, al trasporto dei carri e dei cannoni a traverso il fiume. Se di giorno avveniva di dover passare per un terreno frastagliato, il cardinale chiamava a sé i comandanti, gl’invitava a cavalcare più lentamente e proponeva loro delle questioni. «Se dietro quell’altura o quel boschetto che ci sta dinanzi stesse in agguato il nemico, che bisognerebbe fare per iscoprirlo, per riconoscerne la forza? che cosa per assalirlo con buon successo e renderlo inoffensivo?» Le compagnie de' cacciatori calabresi, che ordinariamente formavano la vanguardia, acquistarono tanta abilità in sì fatti esercizj e tanto diletto ci pigliavano, che dovunque un cespuglio o una sporgenza appariva, senza aspettare il comando andavano avanti e facevano l’ufficio loro. E così l’armata cristiana, benché composta quasi tutta di gente inesperta, indocile e in parte anche perversa, secondo che progrediva verso il fine a cui era diretta, diventava più disciplinata, più capace, più bellicosa.

Nello stesso tempo sapeva Fabrizio Ruffo guadagnarsi l’affezione dei soldati, dei quali alcuni dipendenti della sua famiglia e a lui già soggetti e devoti, ma i più gli erano del tutto sconosciuti ed estranei. Pratico fin dall’infanzia del dialetto calabrese, poteva parlar con essi nel loro stesso idioma, ne conosceva le frasi, i costumi, i gusti, e persino i piatti favoriti che con essi, pigliandone grandissimo piacere, mangiava. Non occorre dire come gli stesse principalmente a cuore che di cibi e bevande non patissero difetto; e anche per questo riguardo ei procurava con ogni studio che né accadessero disordini fra i soldati, né le popolazioni fossero troppo duramente gravate 12 e requisite (268). Innanzi tutto e’ voleva che non dimenticassero un momento solo il presente loro ufficio, e fin anche ne’ loro discorsi trattassero unicamente di argomenti che alla guerra e agli atti di valore si riferissero (269). Né bisognava che i precetti della chiesa fossero minimamente trascurati. Specialmente ricorrendo giorni solenni dovevano tutti col riposo osservarli. Marciando da Catanzaro a Cotrone giunsero di giovedì santo alla villa Schipani, e U a cielo aperto il cardinale volle che si comunicassero e alla lavanda de' piedi assistessero. E così pure il 3 di maggio, giorno dell'invenzione della croce, fu celebrato solennemente il servizio divino presso Bernalda. In presenza dell'esercito schierato e di gran folla accorsa dai paesi vicini egli, ornato delle insegne del suo grado ecclesiastico, prese posto sopra un’eccelsa tribuna, salve di cannoni tonavano, l’entusiasmo della moltitudine in alte grida prorompeva, e così gli ufficiali come i gregarj si sentivano disposti a muovere coraggiosi e alacri ad un’impresa, che sapevano specialmente raccomandata alla protezione dell’Altissimo (270). Nei giorni di libertà poi e massime durante la marcia, bisognava che disinvolti e gaj si dimostrassero, non foss’altro per inanimire gli abitanti de' paesi che attraversavano; i quali non conveniva che vedessero gente seria e accigliata, ma piuttosto dai visi ilari e dalle allegre voci traessero argomento, che tutti con piacere e con gioja servivano alla causa, onde aveano annunziato la riscossa. In tal maniera il procedere dell’armata cristiana, fra i canti che sonavano in mezzo alle file, fra i concerti di cornamuse, zampogne, chitarre e viole che gli accompagnavano, fra le danze che alcuni mossi da quelle gioconde arie intessevano., rendeva immagine di un lieto corteggio festivo, tanto che le popolazioni, solite a fuggire e rimpiattarsi nelle case all'avvicinarsi di schiere armate, correvano piuttosto, uomini e donne, vecchi e giovani, nelle strade e plaudendo ripetevano le grida: viva la Religione, viva il Re!

Oltre all'affezione che i soldati gli portavano, giovò singolarmente al cardinale la credenza nella sua invulnerabilità. Ogni pericolo di vita, dal quale egli felicemente scampava, e ciò accadde più, volte durante la guerra, confermava tale opinione. Degli assassini mandati da Napoli per ucciderlo, nessuno fu in caso di potergli torcere un capello. Un sacerdote prezzolato da' suoi nemici, il quale a Cotrone introdottosi noi palazzo Farina avea chiesto un segreto abboccamento col cardinale, vedendolo apparire e con disinvoltura venirgli incontro, si sbigottì a un tratto e, confondendosi nel discorso, in tali contradittorie risposte si avviluppò, che lo dovettero arrestare e sottoporlo al giudizio di un tribunale di guerra. Non erano trascorsi quindici giorni che presso Rossano furono presi due mandatarj della Partenopea, Pietro Malena, commissario democratizzatore di Cosenza, e Paolo Macarro, che, condotti a Corigliano e giudicati dalla commissione del Fiore, furono tre giorni dopo nel largo del castello fucilati; uno di essi pentito innanzi di morire confessò di esser venuto per uccidere il cardinale (271). Anche più mirabile fu il fatto che in quel torno di tempo accadde nel bosco Ritordo grande presso Tarsia. Alcuni giorni innanzi eran venuti nelle mani del Ruffo tre cavalli già appartenuti alla scuderia del generale Acton e smarriti durante i tumulti della guerra, ed egli avea fra quelli scelto per suo cavallo di battaglia un leardo. Ma quel dì, come il Wallenstein la mattina del combattimento di Lutzen, non avea montato il leardo; un cavallo di simil pelo era invece cavalcato da un prete dell’avanguardia, sul quale all’improvviso furono da un nascondiglio tirali alcuni colpi di fucile, che non il cavaliere ma il cavallo ammazzarono. Sopraggiunta in fretta la scorta impedì maggiori sventure, uccise due de' nemici, ne ferì gravemente quattro, e questi con otto altri che s’eran lasciati facilmente prendere condusse a Cassano, dove giudicati dal tribunal marziale preseduto da Giov. Batt. Micheli, due furono giustiziati, gli altri condannati a vita all'ergastolo di Maritimo (272).

Mentre così da una parte tutti I tentativi contro la vita del cardinale fallivano, dall’altra egli procurava, venendo ad aperta battaglia, di far mostra di tale imperterrita sicurezza da ingenerar nella gente la credenza che non avesse nulla a temere dalle armi nemiche. Allorché in mezzo a una pioggia di palle lo vedevano, non credean già che le palle colpendolo perdessero ogni virtù di offenderlo, ma avrebber giurato che evitassero di colpirlo. Giunto una volta, all’annunzio d’un attacco de' nemici, nel mezzo d’un fuoco vivissimo, in quella che, riconosciuto da essi, tutti i colpi erano verso di lui rivolti, ordinò alle sue genti di ritirarsi dicendo: Me le palle non mi colpiscono, ma mi dorrebbe se uno di voi ne soffrisse danno. E trattenutosi alquanto sul luogo, tornò poscia illeso fra' suoi. «In quel tempo,» racconta il suo biografo, «i suoi calabresi lo tennero per iacamafo, cioè invulnerabile per via d’incantesimi.»

***

La prossima meta del Ruffo era Altamura, sede attuale e baluardo del partito repubblicano in quei paesi. Di lì comandava il commissario Palomba ai patriotti delle contrade circostanti; ivi stava il generale Mastrangiolo con una cospicua schiera di gente a cavallo; ivi anche fra i cittadini il repubblicanismo contava numerosi aderenti, che i fuggiaschi della campagna crescevano ed afforzavano. I capi aveano preso intelligenza con gli ufficiali francesi condotti da ragioni di comando in terra di Bari; e ripartiti questi, rimaneva sempre agli Altamuresi l’accordo patriotti delle città littorali dell’Adriatico, nelle quali facean conto di trovar riposo in caso di un assalto nemico.

Prima di mettersi in marcia per Matera mandò il cardinale come parlamentario don Raffaele Vecchioni, che il 7 di maggio fu condotto con occhi bendati dentro le mura della città. Il dì seguente una parte della cavalleria dell(')armata cristiana venne avanti, ma, avvicinatasi ad Altamura, fu assalita dal presidio e soffrì qualche perdita. Gl’ingegneri Vinci ed Olivieri, i soli che il Ruffo avesse a sua disposizione, furono in quella scaramuccia presi dalla cavalleria repubblicana e menati in città. E il Vecchioni stesso non era anche tornato nò se ne aveva novella alcuna.

Il cardinale si trovava quel giorno già in Matera, nel palazzo del duca di Santa Candida; e anche il Decesari, alla testa di 80 cavalieri con due piccoli pezzi d’artiglieria e due carri di munizioni, fece colà il suo ingresso. Il cardinale lo accolse con gran solennità, ma in confidenza lo esortò a smettere la burletta, e per blandirne la vanità lo nominò generale della quinta e sesta divisione, le quali a quel tempo non esistevano neppur sulla carta. E la stessa sera lo deputò pure a condurre insieme col De Sectis una grossa colonna che doveva muovere contro Altamura. Ma occorse allora una novella prova che quella disciplina, che il cardinale con tanto zelo s’industriava d’introdurre presso i suoi volontarj, era forse sufficiente nelle circostanze ordinarie, ma dandosi una straordinaria occasione, la indole selvaggia della gente che formava la più gran parte del suo esercito prorompeva daccapo e non conosceva più alcun freno. Non avendo innanzi agli occhi se non la presa della città e rammentando gli esempj di Catanzaro e Cotrone promettitori di ricca preda, alla colonna del De Sectis e del Decesari si vennero via via accompagnando quanti si trovavano soldati irregolari in quei luoghi, e stuoli di contadini di quelle vicinanze da uguale attrattiva allettati. Fu assai che la maggior parte dei soldati regolari, così fanti come cavalli, rimanessero intorno al Cardinal generale e formassero così all’armata cristiana la retroguardia (273).

Il 9 di maggio sul far del giorno quella colonna, che poteva contare un 10,000 uomini, si trovò in vista d’Altamura e prese possesso delle alture circostanti. Un drappello di rivoltosi a cavallo, veduto avvicinare così grandi forze, si voltò subitamente indietro e parte si rifugiò in città, parte per la campagna si disperse. Il De Sectis e il Decesari fecero senza indugio venite avanti le batterie, che verso le 7 del mattino aprirono contro la città il fuoco. Non mancarono gli assediati di rispondere, e il tuono delle artiglierie echeggiava dintorno, mentre il cardinale con la retroguardia si metteva in movimento.

Altamura non portava allora a torto il suo nome; poeta sopra un luogo eminente, già per sua natura difficilmente accessibile, era oltre a ciò ricinta di forti mura. I cannoni di cui gli assedienti disponevano non eran tali da fare ad esse gran danno; e se i repubblicani avessero convenientemente adoperato le forze loro, i realisti avrebber dovuto durar gran fatica a impadronirsi della piazza, e quattro quinti dell'armata cristiana si sarebbero dispersi prima di conseguire lo intento. Se non che la cattiva coscienza rendeva, qui come in altri luoghi, codardi i patriota; il Palomba e il Mastrangiolo, visto che si faceva sul serio, condussero le schiere loro verso Gravina, dove mille altri patriotti ad esse si unirono. Allora il fuoco dei rimasti in città divenne più debole, cominciarono a mancare le munizioni, invece di palle misero nei fucili persino monete; finalmente verso sera cessarono affatto il fuoco. Si deliberò di tener dietro agli altri precedentemente andati via, uscendo per la Porta di Napoli non guardata dalle colonne del Ruffo; alcune aperture furon praticate nella muraglia presso quella Porta a fine di agevolare e render più sollecita la fuga. Ma prima vollero fare una sanguinosa esecuzione. Si trovavano in lor potere alcuni realisti nativi, specialmente ecclesiastici, e altri prigionieri o feriti, in tutto cinquanta; i quali legati a due a due furono condotti nel cortile del soppresso convento di San Francesco, ed ivi a turno messi in riga, fucilati e poi subito sepolti; taluni, colpiti male, furono ancor vivi gittati nella fossa. Dopo di che si prepararono alla partenza, che con ogni cautela la notte effettuarono (274).

Nel campo dei realisti non si aveva nessun sentore di ciò. A vea bensì fatto specie il vedere che, cessato il fuoco dei cannoni, da un punto interno della città si sentissero delle fucilate; e ugualmente non avean saputo spiegarsi perché poco dopo tornasse tutto in silenzio e questo tutta la notte non fosse altrimenti disturbato. B poiché la mattina del 10 continuava a non apparire nessun movimento, una pattuglia di cacciatori si arrischiò ad avvicinarsi alla Porta di Matera, e non vedendo traccia di nemici portò materie infiammabili per dar fuoco alla porta. Allora il cardinale fece appressare altri soldati, e quando il fuoco ebbe fatto l’ufficio suo, mandò tre compagnie di cacciatori in città. Questa era affatto deserta. 8 incontrarono solamente alcuni vecchi, alcuni malati che non s’eran potuti trasportare altrove, e finalmente le vittime della recente strage ancora agonizzanti, le quali appena tratte fuori di terra mandaron l’ultimo respiro (275); il Vinci e l'Olivieri eran già morti; tre, fra i quali il Vecchioni, furon salvati. Alla sete di preda, di cui la maggior parte delle schiere del Ruffo era compresa, si aggiunse allora, all’annunzio di quegli orribili fatti, la sete di vendetta; e quella sozza gente la spense nel saccheggio, negl incendj, nelle devastazioni, negli eccessi d’ogni maniera. Tre conventi di monache erano nella città; in due di essi accadde quello che lo Spiegelberg racconta nei Masnadieri dello Schiller; il terzo, così narra un contemporaneo eh era tra i familiari del Ruffo, si sottrasse per favore speciale del cielo a un simil destino (276). Alla fine il cardinale prese il sol partito che gli rimaneva, e raccolti quanti aveva uomini ragionevoli al suo seguito, ufficiali, preti e frati, e accompagnatili a drappelli di linea e di cacciatori, li mandò nelle varie parti della città, perché nel miglior modo costringessero quelle torme sfrenate a portare tutto il bottino innanzi alla Porta di Matera, dove ne sarebbe fatta conveniente distribuzione. Così accadde in fatti; non mancarono, come si può immaginare, occasioni di scontentezza e di lagnanze; ci volle tutta l’energia e presenza di spirito del cardinale per impedire che si venisse alle mani. Durante la distribuzione avvenne pure che un conte Filo, tratto fuori da un nascondiglio, fosse menato innanzi al cardinale; il prigioniero stava per domandar grazia della vita, quando una palla, partita, a quel che si disse, dal fucile di un parente dell’ucciso Olivieri, lo stese morto ai piedi del Ruffo.

Verso sera il cardinale entrò nella deserta e devastata città, e pose il suo quartier generale nel convento di S. Francesco; un frate laico, che per cagione della gotta non s’era potuto alzare di letto, fu il solo che vi si trovasse. Il Ruffo deliberò di trattenersi qualche tempo in Altamura; egli desiderava la cooperazione dei moscoviti per inoltrarsi verso la capitale grande e popolosa, la soggezione della quale non poteva operarsi con le forze sole della sua armata (277). La dimora nella città vinta, la impiegò al solito per esercitare i suoi soldati e riordinare il governo. Fra gli altri provvedimenti che prese a tal uopo vi fu quello di sciogliere la commissione militare straordinaria per delitti di alto tradimento, e sostituire ad essa un Tribunale supremo presso l'armata (278). Anche la cassa esausta lo costringeva a trattenersi. Scrisse in Calabria per chiedere rimesse di danaro, e di strumenti sacri e profani si servì per promuovere il pagamento delle imposte. Assai opportunamente accadde che un sottufficiale, Silvestro Biondi, trovò in un monastero di monache, dove i repubblicani avean tenuto la lor sede principale, una quantità di socchi contenenti circa 5,000 ducati; senza dubbio proprietà di privati cittadini che avean creduto di mettere in quell'asilo i lor danari al sicuro, come già nelle giornate di gennajo avean fatto nel convento Gaudioso di Napoli. li Biondi fu ricompensato con la nomina ad alfiere.

Intanto la città ricominciò a popolarsi. Vennero prima le donne, poi a poco a poco gli uomini, il 15 il vescovo de' Gemmis. E bisogna dire che le donne di Altamura fossero vere maliarde, poiché seppero talmente irretire quei vincitori per la più parte incolti e rozzi, che la città, come il cronista sulla sua sacra parola d’onore assicura, divenne per l’armata cristiana quello che un giorno fu Capua per l’esercito di Annibale; non solamente riebbero gli abitanti delle cose rubate tutto ciò che i contadini de' dintorni non aveano ancora portato alle case loro, ma oltre a ciò gran parte dello stipendio dei soldati fu speso a tutto loro profitto.

VIII

MARCIA DEL MACDONALD VERSO IL SETTENTRIONE

Nell’aprile 1799 SI ministero napoletano si componeva delle persone seguenti: agl’interni il de' Filippis che avea preso il luogo del Conforti, alla giustizia e polizia il Pigliaceli, alla guerra e agli esteri il Manthoné, alle finanze il Macedonio, e il Doria alla marina. Essi non fecero progredire la causa della repubblica meglio de' predecessori loro. Al contrario le moltitudini erano più che mai scontente delle nuove istituzioni, che erano state larghe di belle promesse, ma poco o nulla avesti fatto per i bisogni della gente minuta. E tale scontento si sarebbe senza dubbio alla prima occasione manifestato, se i reggitori non si fossero data cura che le cattive nuove di fuori via rimanessero per quanto era possibile ignote al pubblico. È vero che il Macdonald in un proclama del 31 di marzo aveva ordinato il sequestro di tutti i beni di qualunque specie appartenenti all'imperatore, al granduca di Toscana ed ai sudditi e commercianti loro, poiché la repubblica francese aveva all’Austria e alla Toscana dichiarato la guerra (279). E il governo provvisorio aveva nello stesso dì notificato con lo stile dei bullettini di quella che già allora era la grandi nazioni: aver l’esercito francese aperto le ostilità, vinto i Grigioni e gli austriaci che gli opprimevano; concludendo: «applaudite, patriotti napoletani, ed emulate l’esempio della grande nazione!» (280) Ma le cattive nuove che vennero di poi si ebbe cura di non farle diffondere nel pubblico e si cercò di nascondere il vero stato delle cose in un tessuto d’inesattezze e menzogne, di vanterie e di amplificazioni.

Grandissima operosità regnava fra i patriotti. Il comitato militare del governo provvisorio pubblicò un proclama col quale invitava tutti gli ufficiali dell'ex-esercito atti alle armi a mettersi a disposizione della repubblica e a farsi ascrivere presso il generale Wirtz per la fanteria e presso il general Federici per la cavalleria. Nello stesso tempo fu istituito un comitato con l’incarico di raccogliere oro ed argento, in verghe o in moneta, pe’ bisogni dell'esercito, e versarne il prodotto in una cassa nazionale. La nobiltà rimasta in Napoli appariva su tali proclami in prima linea. «Alcuni,» scriveva Carolina piena di amarezza a Vienna, «mi fan sanguinare il cuore, poiché io credevo di poter fare assegnamento su loro. Vi è il Policastro il quale deve esaminare le frodi e ruberie dell'ex-re. Vi è Carlo De Marco, oggi benemerito stipendiato della repubblica. Vi è una quantità di vescovi, e a capo di essi il nostro arcivescovo, che per debolezza e stoltezza ha stampato due infami pastorali. La Cassano e la Popoli, signore dell’alta nobiltà, che si fanno chiamare altezze, vanno ora co’ capelli corti di casa in casa, salgono agli ultimi piani a fin di raccogliere doni per i bravi soldati che debbono battere l’esercito del tiranno. V’è da perdere la ragione e da prendere in orrore la vita, alla vista di così nera ingratitudine» (281). Intanto la miseria del basso popolo e la eccitazione degli animi che ne seguiva eran sempre più cagione di pensieri e di cure. Il Cirillo, uno de' primarj medici di Napoli, che godeva molto credito nelle alte classi della società, e con l’esercizio dell'arte sua aveva accumulato grandi ricchezze, fondò una cassa di soccorso contribuendovi largamente del suo; in ogni strada furono scelti padri e madri de' poveri) che aveano ufficio di prender notizia delle famiglie bisognose, raccogliere soccorsi, e distribuirli.

***

Il Macdonald aveva, come è stato detto innanzi, richiamato di Puglia verso il mezzo di aprile i generali Broussier e Forest. Ma oramai, verso la fine del mese, non fu contro gli anglo-siculi soltanto e il progredir loro adoperato tal provvedimento. Bisognò anche sgombrar la città, lasciando un presidio di dugento uomini circa in Sant'Elmo. Poi serbando in Capua e in Gaeta guarnigioni francesi, tutto il resto dell’esercito doveva raccogliersi in un gran campo presso Caserta, e di là il Macdonald, conformandosi ai ripetuti avvisi dello Schèrer e del Moreau, mettersi in marcia verso l’Italia superiore. Prima però egli volle respingere il nemico, che più da vicino lo stringeva, a fin di avere le spalle coperte nella imminente partenza, che era pel rimanente del mondo tuttora un segreto (282).

Dopo l'infelice successo dello Schipani e la sua ingloriosa ritirata verso la capitale — in Palma a oriente del Vesuvio egli aveva lasciato bruciare i ritratti del re e della regina, e tenuto intanto un discorso al popolo! — era di nuovo perduto tutto ciò che pareva poche settimane innanzi guadagnato alla repubblica, e le cose stavano da questo lato in peggior condizione che mai. Il commodoro Troubridge possedeva senza contrasto le isole, e di lì mandava inviti e proclami reali sul continente, metteva sossopra ora di qua ora di là da Napoli la costa, prendeva e portava via navi partenopee, e più volte gli riuscì d’intercettare dispacci del Caracciolo, nuovo ammiraglio della marina napoletana, e di mandarli poi al Nelson che si trovava a Palermo. Sul continente si davan da fare per la causa del re il vescovo di Policastro, e quello di Capaccio, che il Ruffo, pregatone dal Ludovici, gli aveva messo al fianco come compagno nei pieni poteri; i proclami del vicario generale diffusi da essi fra la popolazione accendevano negli animi il fuoco. Si sparse ivi a mezzo aprile la voce che il Cardinal generale era in cammino; ma in realtà era il Gualtieri che con le sue squadre tanto temute ma adesso sottoposte a più alta autorità s’avvicinava. Allora la tempesta popolare scoppiò. Come dianzi in Calabria, così ora nel Cilento furono abbattuti gli alberi della libertà, messi in lor vece i crocifissi, distrutti tutti gli altri segni e ricordi della rivoluzione. Sgomenti fuggirono gli aderenti della Partenopea e della nuova Francia e ripararono o nelle città dove i patriotti ancora dominavano, o nella metropoli per essi più sicura.

Il momento parve opportuno per riguadagnare al re i paesi situati a mezzogiorno di Napoli; da molti luoghi, da Caserta, Torre del Greco e Fratta venivano assicurazioni di esser pronti a sollevarsi al primo segnale. I due vescovi si volsero, secondo le esortazioni del cardinale, ai comandanti della squadra sìculo-britannica. Il Troubridge dal canto suo desiderava la cooperazione del Ruffo, gli scrisse in questo senso, lo fece per mezzo del Ludovici e del Torrusio pregare che volesse sollecitar la marcia e riunir le sue forze a quelle di lui. Ma il Ruffo non potò farlo sostenendo con molta ragione che doveva prima pensare a coprirsi le spalle e sgombrare le terre di Puglia ancora in parte tenute dai patriota; oltre di che non voleva svelare troppo presto al comandante inglese la vera qualità del suo così detto esercito, cioè la forza numerica, l’attitudine militare e i difetti di esso; e perciò dette risposte evasive, vantò il nemico che gli stava di fronte e gli dava molto da fare, significò il suo rincrescimento per non potere privarsi neppur d’un soldato, e simili altre cose, talché gl’inglesi giudicarono addirittura ch’egli si fosse perso d’animo e che non ci fosse più da far capitale di lui (283). E così tentarono quello che credeano di poter compire senza la sua cooperazione. Quello che dalla metropoli giungeva a loro orecchi, e quello ch'essi medesimi potevan vedere era di qualità da incoraggiarli. Sembrava che le autorità repubblicane fossero d’avviso che gl’inglesi potessero esser guadagnati con cortesie, ovvero non se la sentissero di rompere seriamente con loro; il Caracciolo non osava attaccare le navi del Troubridge, i comandanti delle batterie dovean guardarsi di tirare su quelle. Tanto da questo lato furon lasciati liberi da qualunque molestia gl’inglesi, che le persone appartenenti al partito del re, usando qualche cautela, potevano imbarcarsi a Napoli e recarsi a far visita a Proci da o alla squadra alleata e similmente di lì ritornare a casa. Ed esse affermavano tali essere le disposizioni degli animi nella capitale e nei paesi circostanti che bastasse un cenno, un proclama, l’apparizione di una mano di soldati per far sollevare la moltitudine contro la minoranza repubblicana. «Non credete voi in tali circostanze» scriveva il Nelson al suo commodoro, «che sarebbe bene se il re apparisse nel golfo di Napoli? Certamente se la rivolta fallisse, le condizioni peggiorerebbero. Se la leale popolazione di Napoli si solleva, bisogna che il re si trovi in mezzo ad essa; e a ciò non ci è verso ¿’indurlo» (284).

Tale era lo stato delle cose e la qualità degli umori, quando il 24 di aprile Fra Diavolo comparve a bordo del Culloden (285). Egli s’era già fatto un nome temuto, e la fama delle sue gesta ne avanzava di gran lunga la vera efficacia. Si diceva essere in suo potere tutta la contrada a settentrione della capitale sino a Gaeta e Venafro; non vedervisi altro che coccarde reali; che quanti francesi s’arrischiassero a passar di lì per uscir dai confini cadevano nelle sue mani, com’era accaduto a parecchi corrieri, e anche alla moglie del generale Macdonald. Su queste supposizioni fondò il Troubridge il disegno delle sue future imprese. Mentre Fra Diavolo doveva attaccare di nottetempo Gaeta, o assaltare all'improvviso Sant’Elmo, e via discorrendo, il capitano Hood collocò i pochi soldati siciliani, di cui pel momento disponeva, e drappelli di marinari inglesi in diversi punti della campagna, dove la popolazione che da tutte le parti si sollevava gli condusse delle squadre di armati, che per verità valevano più pel numero che per la disciplina e la capacità militare. Così fu preso il forte che dominava il suolo di Castellamare, e vi si vide in breve sventolare la bandiera del re; i patriotti furon serrati in un quartiere della città che risolsero di difendere a oltranza. Ma la città di Sorrento dovettero sgombrare; e molto peggio incolse loro a Salerno, dove i realisti, spiegata la bandiera di Ferdinando, dettero addosso agli avversarj, e gli ufficiali della Partenopea scacciarono o uccisero. Tal fu la sorte di Carlo Granozio, subalterno del commissario repubblicano Ferdinando Raggi e originario della vicina Gitani, il quale, come patriotta, fu messo in pezzi, e un certo Vitella ne portò, a guisa di trofeo, la testa a bordo del Culloden. Ciò accadde il 26 di aprile (286). Dai punti conquistati i sìculo-britanni, alleati alle bande di volontarj, s’internarono nel paese, passarono il Sarno, e misero in commozione e scompiglio tutta la contrada intorno al Vesuvio.

In questo mentre essendo il generale Broussier con la colonna di Puglia giunto in Avellino e messosi in relazione con l’esercito principale, il Macdonald decise di opporsi al progredir del nemico. L’attacco fu fissato pel 28 di aprile. Il generale in capo mosse da Napoli verso Torre Annunziata, mentre da Avellino una colonna sotto il generale Vatrennes avanzava in direzione occidentale, e una piccola squadra comandata dal Caracciolo usciva dalla Darsena e correva il golfo di Napoli. I realisti partendo senza combattere da Lauro, che nondimeno i francesi saccheggiarono ed arsero, tornarono indietro e si fermarono al Sarno, dove però dopo breve resistenza furono messi in fuga, perdendo parecchi bandiere, fra cui una inglese, e parecchi cannoni, lasciando molti prigionieri e avendo una gran quantità di uomini fuori di combattimento. Il Macdonald ricacciò i sìculo-britanni da Castellamare sulle loro navi, riprese Sorrento d’assalto, dove tornando i patriotti, appoggiati dalle cannoniere del Caracciolo, presero sanguinosa vendetta degli avversarj, ed occupò Lettere e Gragnano. Il Vatrennes mosse per la Cava verso Salerno, ridusse in cenere Cetara che poco prima aveva alzato la bandiera reale, e quanti realisti gli capitaron alle mani tanti ne fece passare a fil di spada. Al Caracciolo i venti contrarj impedirono di prestare all’impresa del Macdonald più efficace cooperazione; alcune delle sue cannoniere furono anzi spinte sotto i cannoni delle fregate regie, ma fortunatamente ne uscirono senza danni (287).

***

Il Macdonald tornò vincitore nella metropoli, ma col proposito di non trattenersi a lungo. In un proclama agli abitanti di Napoli egli annunziò la sua prossima partenza dichiarando che n’era cagione il voler toglier loro il carico degli alloggi, che già da gran tempo ne avea fatto disegno, e che da' luoghi dov’egli era per condursi non manchèrebbe, come non avea mancato finora, di guardare alla interna ed esterna sicurezza della repubblica. «Abbiam portato al popolo napoletano la libertà» così egli concludeva, «essa riposa sulla nostra garanzia. Guai a realisti e agli anarchici,, guai a tutti i malevoli che volessero tentare di togliergliela! L esercito francese è vicino, e comparirà come un lampo ch'è seguito dal fulmine» (288). Ma si trattava di bene altro che d’un semplice cambiamento di quartier generale. Già i francesi si apparecchiavano a mandare di là dai confini i loro malati, le donne e i fanciulli; tutto ciò che non potean portare o spedire a Livorno vendevano a vilissimo prezzo; cannoni e carri militari in gran numero movevano in lunghe file per le strade dirette al settentrione.

Con vera gioja, che non osavano apertamente significare, videro i patriotti napoletani questi indizj. Tutto facea dunque credere che i francesi definitivamente partissero! E dei francesi ne erano più che ristucchi. Ora credevano di poter respirare liberamente, di poter operare a modo loro. La prima cosa che fecero fu una gran festa militare per celebrar la vittoria del 28 di aprile, come se i proprj soldati loro, e non quelli della cui partenza si rallegravano, avessero battuto i siculi-inglesi. Combattenti di ogni arme empivano la piazza nazionale intorno all'albero della libertà e la bella strada di Toledo; i membri del governo, col Manthoné a capo dei generali; i rappresentanti del municipio ed altre persone e corporazioni assistevano allo spettacolo. Del quale erano ornamento le bandiere e i cannoni conquistati — dai francesi — nelle ultime battaglie, e quadri della famiglia reale presi da diversi edifici pubblici. Anche due file di prigionieri, soldati e volontari, mostravano i lor visi su cui era dipinto la disperazione, poiché credevano di essere condotti a morte, tanto più che non lungi da loro, presso l’albero della libertà era rizzato un palco simile a un rogo. Se non che la destinazione di esso era tutt’altra. Dopo un discorso del Monthoné ai soldati, e un altro di un membro del governo all'accalcata moltitudine, dovevano esser bruciate le immagini reali; ma un numero di arrabbiati repubblicani le strapparono dalle mani del carnefice, le portarono per le strade, le misero in pezzi e questi abbandonarono in balìa del vento. Il ministro delle finanze si avanzò, e fece portare un grosso pacco di biglietti di banca del valore di 1,600,000 ducati, che furono dati alle fiamme. Poi il ministro della giustizia chiamò in nome del Direttorio i prigionieri, ordinò ché i volontarj appartenenti alla cittadinanza, come quelli che eran da considerare semplicemente forviati fossero sciolti, e invitò i soldati a entrare volontariamente al servizio della repubblica. Finita la festa ufficiale, fu lasciato campo ai divertimenti del popolo, che fino a notte tarda durò a schiamazzate, a levar grida di giubilo, a ballare intorno all'albero della libertà, a godere d’ogni specie di giuochi (289).

A dì 7 di maggio il Macdonald levò il campo da Caserta e marciò in due colonne verso i confini romani; una la condusse egli medesimo verso Terracina, l’altra, composta delle divisioni Lemoine e Olivier, doveva condurla il'general Vatrennes per gli Abruzzi con incarico di prender seco il general Contard, che lascerebbe nelle mani de' legionarj del Ruvo le fortezze di Pescara e di Civitella (290). Un 900 uomini rimasero in Sant'Elmo, altrettanti a Gaeta, circa 3000 a Capua, parte francesi e parte cisalpini e pollaccht Una grossa colonna volante doveva mantenere aperte le comunicazioni fra questi tre punti; ma non erano che 400 uomini scarsi, i quali marciavano alternativamente da Capua a Napoli e da Napoli a Capua.

Le colonne che si ritiravano aveano un difficile ufficio; poiché dovunque passavano, il popolo, aizzato contro il suo nemico mortale da Fra Diavolo e da' due Mammone, si sollevava in massa, assaliva alla spicciolata i drappelli, distruggeva ponti e vie, occupava sugli angusti passi le alture. La colonna principale condotta dal Macdonald si trovò fra i monti d’Itri e di Fondi in cattivi termini e andò ad ogni passo perdendo uomini e bagagli; a quella del Vatrennes andarono anche peggio le cose. Dopo aver preso d’assalto San Germano, nella qual congiuntura una parte della città fu arsa e incendiato il prossimo convento di Monte Cassino (11 di maggio), vi fu una nuova fermata a Isola, dove la popolazione armata aveva eretto trincee per impedire al nemico il passaggio del Liri. Arrivano rifiniti dalla stanchezza e tutti bagnati dalla pioggia i francesi, e una sanguinosa battaglia si appicca. Dopo cinque ore riesce a una parte di essi, scalando le mura, di penetrare nella città, che divien la scena di fatti orrendamente crudeli. I francesi, dopo essersi nelle cantine ubbriacati, saccheggiano e menano strage tutta la notte, le case, dove non c è più nulla da portar via, danno alle fiamme. La mattina seguente non apparivano se non fumanti rovine là dove il giorno innanzi era una fiorente città. Da quel punto in poi la marcia del Vatrennes non andò soggetta ad altre molestie, la riunione con la colonna Coutard si operò felicemente; e l’esercito Macdonald avanzò a traverso il territorio di Roma e di Toscana verso il campo di battaglia dell'Italia superiore. Ma da per tutto dietro le spalle loro il popolo si sollevava, abbatteva gli alberi della libertà, imprecava a coloro che lo aveano fin allora governato, per la vittoria delle armi imperiali facea voti al cielo. In Arezzo e nel territorio senese, in Valdarno e Valdichiana, risonavano da per ogni dove le grida: Viva Maria! Viva Ferdinando! Viva l’Imperatore.

IX

I PATRIOTTI IN CASA PROPRIA

Ai patriotti napoletani era press’a poco indifferente che cosa toccasse nell'andar via ai francesi già loro amici; non ne sapevan nulla o non se ne curavano, studiandosi in ogni caso che nulla ne trapelasse al pubblico. Poco ugualmente pareva si desser pensiero che, mentre non era ancora dissipata l’ebbrezza della vittoria festeggiata dai cittadini sulla Piazza nazionale e per la via di Toledo, l’armata anglo-sicula facesse nuovi tentativi di sbarco e occupasse novamente Salerno; che i repubblicani di Castellamare, cinti torno torno dalle popolazioni risollevate, e ridotti al territorio della città, si vedessero come chiusi dentro le sue mura; che lo Sciarpa co' realisti di Castelluccia, da una parte si congiungesse al Panedigrano che veniva dal Cilento, e dall’altra s'intendesse co’ realisti di Lauro e di Sarno che poco prima cacciati via erano daccapo ritornati (291). Poiché tutte le notizie di tal sorta e le voci ammoniti ve di persone dello stesso partito più freddò ed assennate rimanevano sopraffatte dal giubilo, dall’eccessivo entusiasmo degli amatori di novità, che oramai giudicavano, liberi dalla opprimente presenza dello straniero, potere senza impaccio e con piena indipendenza proseguir l’edificio della giovine repubblica. Si lasciò che la esaltata Eleonora Fonseca annunziasse nel Monitore niente altro che vittorie dei repubblicani e disfatte dei sanfedisti. Le più sciocche novelle, per poco che blandissero le loro fantasie, eran pigliate in contanti; il duca di Coprano, brigadiere nell’esercito del cardinale, essersi ribellato al suo capo e averlo fatto prigioniero; non rimaner quindi altro che le indisciplinate bande di un De Cesare, di un Pronto, di un Michele Pezzo; c’era sul serio da temer di costoro? Il governo provvisorio badava a pubblicare ampollosi paroloni: «Bravi cittadini, siamo liberi! È ora di sorger tutti come un sol uomo per conservare e difendere la libertà: facciamo tremare gli avanzi della tirannia, per questo altro poco di tempo che rimane alla loro totale distruzione. Tutto spiri coraggio ed armamento.» Segui poi un’esortazione a tutti l cittadini che tenevano dall'altra parte: il governo provvisorio, d’accordo col generale comandante e col commissario Abrial, prometteva loro perdono ed oblio: «rivolgete alla difesa della patria e della repubblica le armi che finora avete adoprate contra.» (292) Intanto furono messi in opera espedienti davvero fanciulleschi per far progredire la causa della repubblica. Tutti coloro che si chiamavano Ferdinando doveano cambiare il nome, acciocché nulla ricordasse il cacciato tiranno. In mezzo alle strade si declamavano passi delle tragedie d’Alfieri; e di chiunque si parlasse, d’Agamennone, di Virginia o di Timoleone, di tutto si diceva: «è precisamente il caso nostro.» Per guadagnare i lazzaroni si tenevano a cielo aperto letture intorno alla dignità dell’uomo, agli orrori del dispotismo, alla purezza ed eccellenza della repubblica. Mario Pagano pubblicò un invito agli architetti del paese perché facessero il disegno di un Panteon a uso di Parigi, nel quale fossero sepolti i martiri politici e primi fra tutti il De Deo, il Vitaliani, il Galiani. Fu decretato che si erigesse un monumento a Torquato Tasso in Sorrento sua patria, a Virgilio un più degno di quello che vi era, e simili altre cose.

Già da un pezzo si attendeva a compilare un disegno di costituzione per la repubblica partenopea. Istituita una commissione composta di tre, Mario Pagano, Gius. Logoteta e Gius. Cestari, il lavoro di essa in 421 paragrafi fu presentato da Mario Pagano alla commissione legislativa (293). Il disegno cominciava con una dichiarazione dei diritti dell’uomo e del popolo, dei doveri dell’uomo e del cittadino, passava alle adunanze primarie e a quelle per le elezioni, trattava del potere legislativo — un Senato di 50 membri e un Consiglio di 120 — del potere esecutivo commesso a un comitato di cinque persone, degl’impiegati amministrativi e municipali, dell’amministrazione della giustizia, della forza armata che andava distinta in una sedentaria e una attiva. Il titolo X si riferiva alla educazione e istruzion pubblica.

§. 297: Ogni padre di famiglia è responsabile della educazione de' suoi figliuoli.

§ 298: In giorno festivo i giovanetti maggiori di sette anni intervengono ne’ luoghi dalla legge stabiliti a sentire la spiegazione del catechismo repubblicano.

I paragrafi 307-318 discorrevano dell'ufficio de' Censori, che dovean formare in ogni cantone un tribunale speciale composto di cinque membri, a fin di giudicare, sia d'ufficio sia per denunzia del giudice di pace, i costumi dei concittadini loro, e di decidere circa la perdita dei diritti civili attivi o passivi. Un altro ordinamento era la corporazione degli Efori — Tit. XIII Custodia della Costituzione — alla quale ciascun dipartimento doveva ogni anno mandare un suo uomo di fiducia. Dovevano adunarsi il 20 floreale (9 di maggio) per quindici giorni a fin di ricercare se la costituzione era stata in alcuna sua parte offesa; se i poteri costituzionali erano rimasti ne’ confini loro assegnati; se alcun ufficiale della repubblica s’era fatto colpevole di prepotenza o abuso d’ufficio, nel qual caso essi doveano senz’altro dichiarar nullo l'atto relativo.

Come apparisce da questo breve schizzo, la costituzione, attribuita dalla pubblica voce a Mario Pagano, era in molte parti bene ideata e ottimamente intesa, ma non adattata agli uomini e alle condizioni reali. Dal 1789 in poi si ripeteva sempre la stessa storia: repubbliche secondo il modello classico senza repubblicani neppure di ordinaria qualità (294). Quella costituzione non fu mai compiutamente messa in atto; le parti che furono sperimentate, come l’ufficio dei censori, a capo del quale fu il canonico Luparelli d’Adriano, il tribunale pei diritti di stato, preseduto dall’avvocato Vincenzo Lupo, fin dal principio fecero in pratica poco buona prova. Come a Parigi nella prima metà dell’ultimo decennio, non erano gli ufficiali pubblici che aveano realmente in mano ed esercitavano il potere, ma le società segrete e i circoli, a cui i deboli strumenti del governo sottostavano. Fra i circoli avevano il primo luogo la sala popolare e la patriottica. Modellati su quelli dei giacobini, e anco nelle opere e nelle pretensioni sforzandosi d’imitarli, tenevano parecchie volte adunanze segrete, e poi pubbliche con presidente e tribuna, nelle quali si trattavano con piena libertà le grandi questioni del giorno, i principj della costituzione, la distribuzione degli impieghi, la vita pubblica, e anche privata, de' cittadini, né alle cose più alte e più sante si risparmiavano assalti (295). Le deliberazioni eran mandate in forma di messaggi al governo provvisorio, a un ministero, a un impiegato, al tribunale dei censori; e guai se non erano immediatamente accolte ed eseguite. Antonio Salfo, ammiratore del Robespierre, Luigi Serio, giù ben veduto in corte, il general Matera, uomo prode e spregiudicato, di rilasciata morale e di larga coscienza, il quale nel 1795 s era trasferito in Francia ed era tornato dopo la cacciata della famiglia reale, insomma tutte le teste calde della città, potevano in quei circoli esser sicuri che le più arrischiate proposte incontrerebbero favore, e non avean bisogno di riguardarsi da qualunque mezzo per recarle ad effetto. Subito dopo la partenza de(') francesi si desiderò che tutti i pubblici ufficiali nominati da loro fossero deposti, e messi napoletani di provata fede in loro luogo. Il Pignatelli di Monteleone e il Bruno da Foggia, i quali, come aristocratici, avean parlato contro l’abolizione del feudalismo, furono messi fuori dal corpo legislativo, e il Doria, ministro della marina, dové cedere il suo portafoglio, perché squadre armate di coltelli minacciavano strage, se il desiderio dei patriotti non fosse sodisfatto.

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Con la partenza de' francesi la repubblica partenopea si trovava affatto abbandonata, come in pari circostanze accadeva alla romana, alla ligure, alla cisalpina. Poiché nel fondare sì fatti stati troppo gelosi erano i francesi della lor propria potenza, troppo sospettavano il rafforzarsi dell’elemento indigeno, da promovere sin da principio la formazione e l’ordinamento di eserciti nazionali (296). Di certo non s’era mancato in diverse congiunture di raccoglier forze indigene, ma non s’era fatto né sul serio né in larga misura. In materia di forze militari native da poter essere come tali adoperate, non erano finora scese in campo se non la legione del conte Ruvo e la colonna dello Schipani; quella aveva conseguito, unita al corpo del Broussier, non poche vittorie; questa avea dovuto cedere alle bande dello Sciarpa assai meno disciplinate e agguerrite.

Finalmente il Manthonè, in qualità di ministro della guerra e della marina, e di generalissimo nel tempo stesso, avea preso in mano l’ufficio di accrescere le forze nazionali. Volle formare quattro nuove legioni da chiamarsi con antichi e famosi nomi, la Sannitica, quella del Volturno, la Lucana e quella dei Salentini (della già Magnagrecia) (297); e commettere a una superior commissione di guerra l’ordinamento e la condotta di esse. Il cittadino Matera fu messo a capo della commis, filone; Rocco Lentini, Francesco Rossi, Pietro de' Roche, Angelo d’Ambrosio componevano il consiglio. Le forze della capitale furon divise in due legioni, sotto gli ordini del calabrese Spanò l’una e l’altra sotto quelli del Wirtz, svizzero di nascite ma da molti anni al servizio napoletano, già colonnello nell’esercito del Re; un reggimento di cavalleria doveva esser messo insieme dal duca di Roccaromana. Formavano un corpo distinto quei calabresi, che o non avean voluto arrotarsi sotto le bandiere del cardinale, o avendo contro di lui combattuto eran venuti a rifugiarsi nella metropoli (298). Avean fama di singolarmente risoluti e prodi; vestiti e armati ciascuno a modo suo; portavano una insegna nera, scrittovi su: vincere vendicarsi morire; ammontavano, o almeno si giudicò che arrivassero a 9000 uomini. Il corpo dello Schipani doveva essere rafforzato. A questi corpi destinati a scendere in campo, e nei quali ogni uomo atto alle armi da diciassette a quarant’anni era tenuto di servire, s’aggiunse una milizia deputata alta difesa delta città e delle fortezze, delta quale tutti i cittadini da quaranta a sessant'anni doveano far parte. Nessuno che non fosse inabile — i siffatti eran chiamati contribuenti — poteva sottrarsi all'obbligo del servizio, sotto pena di carcere e persino di morte. In compenso i fedeli figli della patria doveano essere guiderdonati. Il Manthonè fece una proposta di legge in favore delle madri dei caduti in guerra, e quando quella fu approvata, con entusiasmo egli esclamò: «Cittadini legislatori, io spero che mia madre sarà nel caso di chiedervi l'adempimento della vostra magnanima promessa!» (299).

Tuttavia non ostante gli ammonimenti degli uni e le promesse degli altri, ogni giorno cresceva il numero di coloro che dalla parte repubblicana si allontanavano. De’ due che alcuni mesi innanzi erano stati i primi a chiamare i francesi liberatori in città, l’uno, principe di Moliterno, partito per Parigi come legato e uomo di fiducia della Partenopea presso il Direttorio, non era di là tornato, e pareva che pentito e dolente stesse preparando il suo ritorno alla causa regia; l'altro, principe di Roccaromana, trattenutosi prima alquanto a Napoli mostrando di tener broncio, poi andò a stare nelle sue possessioni, e quivi appiccò pratiche co’ capi dell’armata cristiana e ne divenne in breve zelante alleato (300). Nella capitale si facevano congiure per rovesciare il governo imposto dallo straniero. Un tale, chiamato il cristallaro, lavorava fra' lazzaroni per guadagnarli. Un’altra setta segreta aveva per capo un certo Taccone.

Da quel tempo in poi divennero sempre più frequenti le carcerazioni. Il più leggiero indizio, massime trattandosi di persone cospicue ed autorevoli, bastava per eccitare i sospetti della fazione dominante, la quale non tardava ad assicurarsi dell'imputato, prevedendo subito di potersene servire come di statico per rispetto ai regj. Per quest'ultimo motivo si tenevano specialmente d’occhio i parenti del Cardinal generale, che potevano in quel caso essere d’inestimabil valore. E cosi il duca e la duchessa di Baranello, e il figlio e la nuora loro Motta Bagnare (questa incinta di sette mesi) furono arrestati e messi in custodia nel convento di Monte Olivete, sede della municipalità.

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Come a suo tempo dicemmo, gli anglo-siculi aveano, allontanatosi il Macdonald, tentato senza indugio nuovi sbarchi, e di alcuni punti, già tolti loro dai repubblicani nelle giornate del 28 e 29 di aprile, s’erano daccapo insignoriti. Ma ciò non bastava alla regina; la quale sarebbe dovuta essere. meno vivace, meno pronta a riscaldarsi la fantasia, di quello che realmente era, per non fare dell’avvenimento del 7 di maggio scala a più alti e vasti disegni. Sparito l’incubo che avea pesato su’suoi fedeli, ma deboli e timidi napoletani, non coglierebbero essi la prima opportunità per ritornare al loro legittimo sovrano? Del grosso della popolazione ell'era sicura; ma anche dei capi, per quanto sviati dal diritto cammino, per quanto abbandonatisi al turbine repubblicano, non dovrebbe l’uno o l'altro lasciarsi indurre a opportuna conversione? A tal fine manifestamente intendeva una lettera diretta dalla regina a uno de' Pignatelli — parecchi di questa famiglia aveano abbracciato la causa della rivoluzione — la qual lettera, spedita per mezzo della Hamilton al Troubridge, fu da questo per mezzo d'un messo sicuro segretamente recapitata. Se non che, o mancasse al Pignatelli la volontà o il coraggio o l’occasione di stringere la potente e benefica mano che gli era stesa, fatto sta che il tentativo fallì compiutamente, e il porgitore della lettera reale fu preso e messo in catene. Il commodoro inglese fu sdegnato dell'oltraggio fatto al suo messo; ma per il momento aveva le mani legate, e dové contentarsi di giurare che prenderebbe sodisfazione e vendetta più tardi (301).

Purtroppo, non che le speranze si verificassero che nel campo de' realisti si erano sulla partenza de' francesi fondate, parve anzi che i ribelli, o per meglio dire, i capi che li guidavano, cominciassero allora a trovarsi nel proprio elemento e fossero più che mai risoluti a procedere arditamente innanzi. Della qual cosa erano specialmente indizio gli sforzi che si facevano per mettere insieme le forze navali. Il Caracciolo, scelto a tale ufficio, spiegò tanta operosità da non lasciar più dubbio essersi egli del tutto voltato ai repubblicani. Nella riconquistata Castellamare e’ fece rimettere a nuovo i cantieri, dove in pochissimo tempo s’aveano a costruire centocannoniere; stava lì di persona ed esortava i patriotti a perseverare coraggiosi e zelanti (302). Anche l’isola fortificata Revigliano e la fortezza lit— torale Vigliena, che dominava la strada da Napoli a Portici, sembra che fossero in quel tempo affidate ad altra custodia.

Il Troubridge, gravemente impensierito da tali apparecchi, attese anche dal canto suo a fortificarsi sull’isola e ne’ dintorni di essa. Egli pel momento non intendeva procedere alle offese; gli bastava provvedere il meglio che per lui sì potesse a difendersi dagli attacchi che giudicava il Caracciolo non manchèrebbe di dargli. A Precida fu messo in ordine di difesa il palazzo, e cavato un fosso nella strada che conduceva all'ingresso principale di esso. I gradini della scalinata furon tolti per modo che il presidio, composto di 50 marinari e 12 cannonieri della marina inglese, si servivano d’una scala a mano per salire e scendere, e quella levavan via sul far della notte. Poi vi si portarono sei pezzi con ricca provvista di munizioni; «se il nemico si arrischiasse ad assalirci,» così scriveva a dì 7 di maggio il Troubridge al suo ammiraglio, «gli romperemo senza dubbio qualche costola.»

Tali provvedimenti del commodoro inglese, che potrebbero per avventura parere esagerati, non erano provocati solamente dagli apparecchi marittimi de' repubblicani; poiché per questo rispetto egli doveva sentirsi in grado di tener testa, in ogni occorrenza, all'avversario con le sue forze, minori di numero, ma di gran lunga più efficaci e per qualità di navi e per capacità degli equipaggi. Altre erano le ragioni che gli procuravano sollecitudine e sdegno a un tempo. Poco gli pareva di poter fare assegnamento sugli ajuti da parte della Sicilia, non tanto per ragione della corte e del governo, e specialmente della regina e del generale Acton, entrambi certamente pieni di buona volontà e di zelo, ma per ragione degli strumenti civili e militari che le ottime intenzioni della corte e del governo dovevano recare in atto. La cittadella di Messina aveva un forte presidio inglese, e per questo riguardo si poteva esser sicuri. Ma quanto all’isola egli e il Thurn erano nella più parte delle cose ridotti a dipendere dall'arbitrio degli ufficiali regj, in modo da essere gravementente imbarazzati quando quelli, o per incuria o per poco buon volere, mal corrispondevano. Il che accadeva particolarmente circa l’approvisionamento di viveri e soprattutto di grani; de' quali le isole del golfo, segregate dal continente, pativano penuria, tanto che il Nelson più d una volta fu per questo motivo aspramente irritato contro l’Acton. «Merita d’essere impiccato,» scriveva egli col suo stile focoso, «chi è colpevole di tale inconveniente; se non si può fare assegnamento sugli ufficiali del re, c’è il caso che tutte le isole vadano a un tratto perdute di nuovo.» — «La mancanza del grano» così il Troubridge si doleva su i primi del maggio, «è tale nell’isola d’Ischia che anche un francese ne sarebbe mosso a pietà» (303). Il 10 di marzo si rivoltarono gli svizzeri per cagione del pane talmente rincarato da non poterci più entrare nel loro meschino stipendio; e il Troubridge fece condannare a morte gl'istigatori della ribellione. Ma quando, collocatili in mezzo a un quadrato di soldati e marinari, e bendati loro gli occhi, tutto era pronto per l’esecuzione della condanna, il comandante, avuto riguardo ch'erano per ogni altro rispetto buona ¿ente e che la ribellione s’era ristretta a semplici discorsi, concesse loro il perdono (304). Anche le forze militari, che il re area messe sotto il comando inglese, facevano più danno che vantaggio, specialmente per causa della codardia dei capitani, trista eredità dell'ultima vergognosa guerra sul territorio romano. Un maresciallo Yauch, mandato sul principio di maggio dal Troubridge contro Longone all’Elba e ad Orbetello in Toscana, tornò addietro senza aver tentato l’assalto, senza aver condotto i soldati a terra, senza aver fatto proprio il gran nulla. Il Troubridge ne fu fuori di sè. «Signore,» e gli gridò in viso, «il vostro re non sarà ben servito s’egli non manda la metà de' suoi ufficiali alle forche.» Il Nelson ottenne dall’Acton che fosse raccolto un consiglio di guerra, del quale facessero parte anche ufficiali della marina inglese; in Palermo se ne parlò, e sulla Vanguardia e sul Colloden era ferma speranza di tutti, che il maresciallo Yauch e un altro generale siciliano non la scamperebbero (305).

Il rammarico e la durezza del comandante inglese erano abbastanza giustificati. Poiché, malgrado i progressi austro-russi di qua e di là dalle Alpi, i francesi guadagnavan sempre terreno nell’Italia centrale, dove appunto avrebber dovuto operare i generali siciliani; occupavano Livorno ed altre città sul littorale, scacciavano il granduca, non ostante la sua indulgente debolezza verso di loro, e sbaragliavano il suo governo. Ferdinando III riparò a Vienna con la sua famiglia, mentre i ministri Manfredini, Seratti, Fossombroni, Corsini, come pure la maggior parte dei ministri stranieri residenti in Firenze, s’imbarcarono, e la corte e la città di Palermo empirono di lamenti sul loro tristo destino. Del resto gli ospiti toscani eran poco graditi al re. Non volle vedere il Manfredini, poiché, persuaso manifestamente dal Nelson, faceva in gran parte carico al primo ministro toscano dell’avere le potenze settentrionali tanto esitato a romper guerra alla Francia, dal che, secondo l’opinione di Ferdinando, era derivato tanto danno alla sua famiglia e al suo regno. Dei principi italiani non c’era oramai, oltre a lui, se non il re di Sardegna che non avesse del tutto perduto il trono. Ma come Ferdinando in Sicilia, così Carlo Bmanuele era confinato nella isola inospitale, di cui il suo regno portava il nome, e di dove egli non poteva porgere agl’inglesi e alla corte di Palermo altro ajuto che forse somministrando loro cavalli, biade e altri prodotti naturali.

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Nel golfo di Napoli gli anglo-siculi si trovavano verso il mezzo del mese di maggio quasi nelle stesse condizioni in cui erano nei primi giorni dopo il loro arrivo; possedevano le isole, ma tutto ciò che erano venuti in quel mentre conquistando ed occupando lungo le coste, l’avevano in gran parte novamente perduto. I comandanti inglesi ne attribuivano la colpa ai russi, che non avevano ancora adempiuto la promessa di adeguati soccorsi. Ma la vera cagione, che essi erano tanto orgogliosi da non voler confessare a se medesimi e alla regina, consisteva nell’essere il cardinale con la sua armata cristiana troppo ancora dentro terra da potere efficacemente appoggiare le forze navali.

Abbiamo più su esposto i motivi che avean guidato il Ruffo nello scrivere quelle lettere, dalle quali il Nelson e il Troubridge avean creduto di dover rilevare ch'egli, intimorito del nemico che si vedeva di fronte, fosse scoraggiato ed esitasse. In verità tutt’altro era l’animo del cardinale; ma dai casi di Monteleone in poi egli s’era fatto una legge di dare ragguaglio solamente de' suoi prosperi successi, e di non confidar nulla alla corte di ciò che si riferiva al suo attuale stato ed a' suoi prossimi disegni. Quando ciò non era del tutto possibile, egli soleva, anche alla regina, dipingere con più o meno foschi colori le resistenze che incontrava, non per vanità certamente a fin di fare apparire maggiore il merito di superarle, ma sibbene per accorgimento e prudenza, acciò che non fosse innanzi tempo nota la debolezza degl'{strumenti ond'egli disponeva, i quali, dando la via, non ostante i suoi sforzi e la disciplina, alla indocilità della loro natura, spesso nei più. gravi momenti gli venivan meno all’effetto. Dall’altra parte egli aveva dello stato delle cose un concetto più chiaro e preciso di quei due valorosi marinari, i quali, partendo dal loro punto di vista marittimo, giudicavano di aver fatto tutto, quando avessero l’una dopo l’altra assoggettate le città del littorale per procedere poi alla conquista della metropoli. Il Ruffo era di diversa opinione. Voleva innanzi tutto nettare di tutti gli elementi contrarj le province meridionali e orientali, per rimuovere ed allontanare da un lato ogni pericolo dietro le sue spalle, e per ridurre dall'altro la città capitale alle sole forze sue proprie, come quella che, anche così ridotta, abbastanza ardua rendeva l’opera della ristorazione. Con tal diversità di opinioni e con gli screzj che ne seguivano non poteva a meno di accadere, che coloro i quali non vedevano di buon occhio il cardinale, ne invidiassero i lieti successi e la fama, trovassero o fingessero di trovare ne’ suoi rapporti ogni specie di contradizioni, e se ne giovassero per iscemargli il credito presso la corte e nei circoli militari così inglesi come indigeni. L’Acton non gli era mai stato singolarmente amico, nò il Ruffo a lui; onde tutte le volte che dalla Sicilia gli si attraversava in qualche modo la spinosa via, il che di certo difficilmente si faceva con intenzione e a bello studio, egli inclinava sempre a scorgere In ciò segreti maneggi e ostilità dell’Acton. Decisamente avversario, e in tutti i casi poco disposto a stimarlo, era l’eroe di Abukir; al quale bastava per non poter soffrire il cardinale la sola ragione che avrebbe voluto riservare a sò ed a' suoi l’impresa di Napoli, nello stesso modo che si rodeva al pensiero che il suo bravo Ball dovesse far parte ai russi del merito di conquistar Malta. Le supposte incongruenze nei rapporti del cardinale, il tono che questi intanto prendeva nelle sue lettere, alteravano fortemente l’animo del permalosissimo inglese. «Il cardinale,» egli scriveva un giorno in tal senso al Troubridge, «è un pretaccio borioso. L’imprudenza con cui parla della cooperazione inglese merita gran biasimo. Intanto fa apparire ora grande ora piccolo il suo esercito, secondo che gli fa comodo» (306).

Il Nelson avrebbe ora amato meglio di prender egli in mano la condotta delle cose nel golfo di Napoli, e con tale intendimento faceva d’ogni maniera apparecchi. Non trascurò di mettersi in termini amichevoli con Carlo Emanuele di Sardegna, e s’industriava continuamente di procurare amici a sé ed agli alleati suoi, o almeno di mantenere pace e tregua, a fine di rivolgere tutte le forze contro un solo nemico. Quand’egli nella seconda metà di aprile seppe dell’incostanza del Bey di Tripoli, che poche settimane prima, appena partita la Vanguardia, s’era lasciato aggirare dai discorsi de' francesi, mandò a Tripoli l’Affondo portoghese col commodoro Campbell a bordo, il quale, unendosi al console inglese Lucas, dovesse intimare al Bey di dichiararsi nello spazio di due ore — a contare dal momento che il Lucas metteva il piede a terra — e nello spazio di quattro giorni mantenere la promessa: di consegnare a bordo del1 Affondo il console, viceconsole a tutti i francesi presenti in Tripoli, e bruciare tutte le navi francesi che si trovassero in quel porto. Alla quale categorica intimazione ottemperò puntualmente il Bev; anzi riuscì al Campbell ancora d’indurlo a un trattato di pace assai favorevole al Portogallo. Dal che prese animo il Nelson per cercare di ottener la stessa cosa dal Bey di Tunisi, e di estenderla anche alle relazioni dei così detti stati barbareschi col re Ferdinando (307).

In tal maniera avendo egli ed i suoi amici le spalle coperte, poteva pensare alla guerra contro i giacobini di Napoli. Ma innanzi che questo disegno potesse essere recato ad effetto, giunsero messaggi che richiamarono da un tutt’altro lato l’attenzione ed operosità sua, e che togliendo all’impresa di Napoli, da parecchie settimane avviata, gran parte dei mezzi di esecuzione, minacciavano il pericolo che si dovesse momentaneamente abbandonare tutto quello che s’era fin allora con sanguinosi combattimenti acquistato.

LIBRO TERZO

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La riconquista di Napoli

II

La Gallispana

Mentre il real consorte andava in giro per l'isola cacciando e pescando, e il primogenito, ritirato nella sua villa, faceva l'agricoltore e il buon padre di famiglia, Carolina non perdeva d’occhio la grande impresa, al cui felice o infelice esito la sorte della sua famiglia si collegava. Manteneva continue relazioni con Napoli più o meno frequenti o caute secondo che la fortuna della guerra era più o meno favorevole nel golfo alla squadra anglo-sicula; i suoi segreti aderenti dentro e fuori la metropoli le facevano di tanto in tanto pervenire ragguagli, le mandavano proclami, notificazioni del governo provvisorio, prodotti della letteratura popolare ch'ella paragonava a «urli di matti» (308). Incessante e perfetta era la sua intelligenza con gli ufficiali inglesi e siciliani che sulle isole e nel golfo di Napoli comandavano; sotto la protezione loro i suol messi andavano per Procida al continente e ne venivano (309). Procurava che regolari comunicazioni con Livorno fossero mantenuto; tutti i quindici giorni, e all’occorrenza tutte le settimane, partiva una delle sue navi a quella volta.

Le sue relazioni col Cardinal generale, secondo che egli cambiava dimora ed era più o meno difficile la corrispondenza di lettere e di messi (310), andavan soggette a frequenti interruzioni; ma ella non lasciava però passare nessuna occasione di fargli giungere notizie, di significargli i suoi sentimenti, di comunicargli i suoi pensieri e disegni, notando espressamente, quanto a questi ultimi, che la decisione definitiva era lasciata al miglior consiglio di lui (311). Di certo ella si sentiva contrariata e infastidita pel vergognoso contegno che, dal popolo in fuori rimasto incorrotto, tutte le altre classi lassù serbavano, sleali, dimentiche de' doveri loro ed ingrate. Quante defezioni fra gli ufficiali! Quante apostasie fra gli ecclesiastici, capitanati dallo stolto cardinale arcivescovo! Quanti impiegati ribelli, gli avvocati, gli studenti e i giovanotti quasi tutti! E peggio poi la nobiltà! «Io non ho più coraggio di domandare di questo o di quello, poiché debbo sempre temere una sgradita notizia... Più di trent'anni son vissuta fra loro, procurando sempre di ingrazionirmeli con attenzioni ed onorificenze; ed ora non ce n’è uno che tenga da me, che per me parli, che mi faccia dir qualche cosa, o che mi scriva! Ah se io ne conoscessi venti, dieci soli a me devoti, mi consolerei della infedeltà e ingiustizia di milioni; ma nessuno... ciò mi fa una terribile impressione» (312). Allora non vuol più saperne di Napoli, né più rimettervi i piedi, per quanto le sanguini il cuore e sia a quella città affezionata: «il paese mi piace, il clima, la situazione, e poi l’abitudine di circa trentun anno.» Se fosse necessario che Napoli un giorno rivedesse la sua regina, ella non vi andrebbe che per poco, quasi come in visita, non si farebbe vedere iu nessun luogo né riceverebbe nessuno: «poiché tutto mi richiamerebbe alla memoria gli spaventi ed errori passati. Io farò il mio dovere, sempre lo farò, ma il mio cuore è chiuso per sempre» (313).

Le due questioni, che la regina si proponeva per rispetto alla sua metropoli continentale e che spesso menzionava col Ruffo, erano la militare e la politica.

Subito dopo i primi felici successi del cardinale la riconquista di Napoli avea sorriso alla regina; se non che, più maturamente riflettendo, ella non poteva sperare che l'opera fosse per essere condotta a fine con le sole forze, per tanti rispetti difettose, onde egli disponeva; occorrevano soldati regolari, russi o austriaci. Egli poteva vincere qui una battaglia e lì un’altra; ma in complesso, mentre con soldati irregolari si può riuscire a guerra di partiti, a stragi e a distruzioni (314), raggiungere un fine non si può se non con forze militari che incutano rispetto. Pericoloso lo esporre gl'irregolari al fuoco di veri soldati; se quelli nel momento definitivo si perdon d’animo e voltan le spalle, può tutta la impresa andare a rifascio; soltanto dopo aver compiuto la conquista e ripristinato l’autorità delle leggi, è possibile impiegare gl’irregolari pel servizio interno, per guardare gli edifici pubblici, gli ospedali e le prigioni. «V. E. non deve arrischiarsi con uno stuolo di contadini contro gente che possiede armi ed artiglierie; aspetti piuttosto che scenda in campo una potenza regolare, e allora cooperi con essa alla bupua causa; frattanto conviene, a mio avviso, scegliere un buon posto, in aria salubre e prossimo ai viveri, ed ivi aspettare gli eventi.» Per la stessa ragione ella non approvava lo sbarco occasionale dei marinari; dei quali doveva essere piuttosto ufficio il bloccare attentamente le coste e invigilarle, per potere senza strepito incoraggiare i bene intenzionati, preparare un asilo ai fuggitivi, accortamente interrogarli, ed o trattenerli o mandarli in Sicilia (315). Non occorre dire che parlando della comparsa di «una vera truppa» la regina pensava ai 12,000 russi e 10,000 albanesi, promessile i primi dallo Czar, i secondi dai sultano; insomma ad una forza capace di tener testa ai giacobini in tutta l’Italia centrale e inferiore.

Quanto alla questione politica, nelle prime settimane della campagna del Ruffo la regina inclinava compiutamente alle opinioni di lui. n quale voleva adoperare. in larghissima misura il perdono e l’oblìo; e in fatti, finché la cosa rimase in suo potere, sempre e da pertutto l’adoperò. Ella lo aveva sui primi tempi in tali concetti confermato, o almeno aveva aderito dicendo, che tutto quello ch’ei giudicasse di dover fare sarebbe riconosciuto e approvato. Ma con l’andar del tempola sua maniera di pensare andò sempre più mutandosi. «Il re può perdonare i suoi sudditi colpevoli ed ingrati, usar grazia invece di giustizia, lo deve fare e lo farà come cristiano e come padre; ma deve farlo liberamente e caso per caso, e non già costretto da un armistizio o da un trattato, che è sempre segno d’impotenza o di timore. Il re deve rientrare nel suo regno come conquistatore e incondizionato padrone, avendo anche bisogno di tutta la sua potenza e forza per ripristinarvi l’ordine. Se non può far questo, sarà meglio abbandonarlo all’anarchia e alle lotte intestine, sino a che la necessità e la disperazione li obbligheranno a venir da sé a pregarlo che riprenda in mano le redini del governo. In una parola un reggimento monarchico, autoritario, paterno in generale, benevolenza e giustizia verso tutti, ma più fiducia in nessuno; poiché essi hanno, con pochissime eccezioni, mostrato solamente mancanza di fede e nera ingratitudine.» In primo luogo occorrerà ripulire il terreno, e ciò non può farsi se non usando da una parte inesorabile severità, da un altra distribuendo ricompense ed onori. «Piuttosto non tornare più in Napoli, che tornarvi con quella peste di ribelli e traditori che non ci lascerebbero più bene avere. Quelli che poterono a tal segno dimenticare i proprj doveri da rinnegare il re e consegnare la patria in mano del nemico straniero, quelli dovranno per sempre lasciare il suolo napoletano, siano uomini o donne, siano centinaja o migliaja; la partenza loro non farà nessun danno a noi, né beneficio nessuno al paese che li accoglierà; e se centinaja di famiglie nobili andran via, si darà la nobiltà a tante altre che nei giorni di prova han tenuto sodo.» Con l’esilio andrà di pari passo la confisca, il re sequestrerà i beni degli esiliati, non per conservarli per sé ma per ricompensare e arricchire i pochi rimasti fedeli (316).

Ma nello stesso tempo convien pensare a ordinare un buon governo, e per questo rispetto c’è da imparar molto dallo stesso nemico. La distinzione di elassi sarà mantenuta, ma tutti gl'inconvenienti ed abusi, che i francesi e gli aderenti loro hanno rimossi, dovranno essere tolti. Anche per rispetto ai fedecommessi, ai feudi e alle prerogative che ne derivano, poiché il governo rivoluzionario ne ha con tanta solennità proclamata l’abolizione, non si potrà, senza offendere gravemente la parte meno privilegiata del popolo, tornare in generale allo stato primitivo; bisognerà forse contentarsi di fare qualche eccezione in favore di quelli che si sono sacrificati per la causa regia (317). Provvedere al pubblico benessere, a un ben regolato servizio di sicurezza, alla chiara, semplice e sollecita amministrazione della giustizia, all’abbondanza e al buon prezzo dei viveri, a tutto, ciò bisogna pensare a fin che la moltitudine s’affezioni al nuovo ordine di cose. Converrà per questo far entrare nuovi elementi nell’amministrazione ecclesiastica e civile. Tutti quelli che nel tempo passato si mostraron deboli, debbono essere esclusi e sostituiti da migliori, quando non convenga rimetter piuttosto l’ufficio nelle sole mani del re (318). Nell'alto clero bisognerà far largamente piazza pulita; innanzi tutto mandare, come scimunito a Monte Vergine o in un lontano convento della diocesi il cardinale arcivescovo: «la qualità di scimuniti) può sola attenuare la colpa della sua sleale condotta, ma essendo sciocco e cattivo non può restare più a lungo a capo, della sua diocesi. Vi sono anche altri vescovi in simil caso: il della Torre di Lettere e Gragnano, il Natali di Vico Estense, quello di Gaeta, quello di Taranto, e il Rosini non ostante il Te Deum che ha cantato. Qual fede può avere il popolo in vescovi e preti che ha visti fra le file dei ribelli, e che tristo effetto non farebbe il vederli continuare nell'ufficio loro?» (319)

È sommamente da deplorare, che non si sieno conservate le risposte dell'uomo, a cui Carolina dirigeva comunicazioni tanto intime ed importanti, lungo tempo prima che si effettuasse la supposizione, dalla quale prendeva le mosse de' suoi disegni per l’avvenire. Ma era per lei una massima il distruggere tutte le lettere che riceveva, dopo che, lettele, aveva risposto o altrimenti provveduto. Senza dubbio il Ruffo non si sarà peritato di significare le sue idee, le quali, specialmente circa alla questione di applicar la giustizia ai colpevoli o la clemenza ai traviati, erano di gran lunga da quelle della sua reale corrispondente disformi. Ciò si rileva da molti luoghi delle lettere di lei, dove ella esalta lo spirito, la saggezza del cardinale, la bontà de' suoi principi, il peso de' suoi giudizj. Tuttavia alla prima occasione ella torna alla sua propria maniera di pensare, sottoponendola sempre al senno più maturo, alla maggior oculatezza di Sua Eminenza, ma non riuscendo mai a uniformarsi a quel maturo senno e a quella oculatezza maggiore.

Ma occorre ora che lasciamo per un po’di tempo il quartier generale del bellicoso prelato e il palazzo reale di Palermo per trasferirci sull’alto mare, dove in questo mentre son accaduti fatti di grandissima importanza.

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Nello stesso tempo che giungevano da Genova nuove di alte vittorie delle armi imperiali nell’Italia superiore e nella Svizzera, ed erano dalla corte celebrate con solenni rendimenti di grazie, dal Nelson con triplice salva di gioja, venne dal levante la notizia che una squadra francese tra il 15 e il 18 d’aprile — non si sapeva precisare il giorno — avea potuto, deludendo la vigilanza di Sir Sidney Smith, uscire da Alessandria; e poco appresso si ebbe da ponente la notizia ancora più rilevante, che Tarmata di Brest avea fatto la sua entrata nel mediterraneo.

In fatti sotto pretesto di spingere l’armamento del naviglio francese, che l’ammiraglio inglese Bridport teneva bloccato, il ministro della marina Bruix si era nella seconda metà d'aprile recato a Brest; e là profittando d’una fitta nebbia che il 25-26 copriva il mare e, unita a un forte vento di levante, era a lui tanto favorevole, quanto contraria al nemico obbligato a ritirarsi dalla costa e pigliare il largo, usci dal porto con diciannove navi di prim’ordine; e alcuni giorni dopo presso la Coruna e Ferrol prese cinque vascelli spagnuoli col proposito di unirsi poi alla grande armata, che forte di 25 vele stava all’ancora presso Cadice sotto gli ordini dell’ammiraglio Masaredo. Venti contrarj impedirono l’attuazione di quest'ultimo disegno; ma intanto gli riuscì di passare il 5 di maggio, sfuggendo all'ammiraglio Jervis, lo stretto di Gibilterra.

Presso gl'inglesi, dall'ammiragliato di Londra alla più remota stazione del mediterraneo, tal nuova produsse a prima giunta una vera costernazione. Non si sapeva che cosa più ammirare, l’audacia o la riuscita della doppia impresa di fuggire inosservato da Brest e di passare senza molestie sotto i cannoni della fortezza (320). Del rimanente non era tempo di perdersi in tali estetiche commozioni, poiché la cosa dava troppa materia d’inquietudine. Il conte Saint Vincent, che non poteva se non far supposizioni sugli ultimi propositi delF avversario, vide a un tratto minacciati tutti i vantaggi che le forze navali inglesi aveano ottenuti o stavano per ottenere nel mediterraneo: l’ammiraglio Duckworth alle isole Baleari, il Nelson e il Troubridge nel regno delle due Sicilie, il capitano Ball a Malta, Sidney Smith alle bocche del Nilo. Importava innanzi tutto tener divise le due armate nemiche, la francese e la spagnuola. Ordinò a tutti quelli che comandavano sotto i suoi ordini di raccozzare in fretta le loro navi sparpagliate, mentre egli stesso, con 20 vascelli di linea, lasciava la punta meridionale della Spagna e facea vela per Barcellona.

Il Nelson ebbe l’improvvisa novella il di 12 di maggio per mezzo Espoir, nave leggera speditagli dal Saint Vincent La comunicazione in data dei primi di maggio diceva che era stata vista l’armata di Brest in linea di Oporto, e che senza dubbio era suo scopo entrare nel mediterraneo e congiungersi con la spagnuola comandata da Masaredo. Il primo pensiero del Nelson fu di cercare dove potessero esser dirette le mire del nemico oramai tanto superiore per numero e grandezza di navi: a Tolone per imbarcare soldati e viveri, poi soccorrer Malta, e finalmente andare in Egitto a prendere il Bonaparte e condurlo a Parigi? ovvero piuttosto a Costantinopoli per allontanare l’armata turcorussa dalle isole veneziane? Ma non poteva essere anco metà del nemico Palermo, dove pel momento due vascelli, della marina britannica l'uno, portoghese l’altro, costituivano l’unica difesa?... Da poi che la real famiglia era fuggita da Napoli il Nelson avea considerato suo ufficio principale conservar la Sicilia e riconquistare il continente; nel qual proposito si lasciò volentieri in questa grave congiuntura confermare dalle angosce e lacrime della regina, dalie parole ed esortazioni di Sir William, dalle preghiere e lusinghe di lady Hamilton (321), senza perder tuttavia d’occhio gl’interessi della causa generale.

Si deliberò innanzi tutto di riunire presso Palermo la maggior parte delle sue forze navali. Fin dalla notte 1213 di maggio fu mandato al commodoro Troubridge l’ordine di lasciare un vascello e una fregata nel golfo di Napoli, e con tutte le altre navi di bandiera inglese e portoghese far senza indugio vela verso Palermo. Al capitano Ball il cutter Penelope portò l’ordine di far partire il Goliat e l’Audace, e di cercar d’indurre l’ammiraglio russo a mandare una parte della sua squadra a Port Mahon per rinforzare il Duckworth. Parimenti il commodoro Campbell, che poteva difficilmente avere adempiuto la sua missione a Tripoli, doveva, se era possibile raggiungerlo, essere informato e richiesto di portare l’Affonco alle isole Baleari. Poiché ivi il vincitore del Nilo, seguendo una prima ispirazione, determinò di aspettare l’armata franco-spagnuola. Se non che il giorno seguente variò il suo disegno, e indicò al Troubridge e al Ball la direzione dell'isola Maritimo, al punto più occidentale della Sicilia; nello stesso tempo il primo ebbe l’ordine di lasciare nel golfo di Napoli una sola fregata, e di condurre con la massima sollecitudine al Nelson tutte le altre navi senza veruna eccezione. «Io muojo d’impazienza,» diceva il Nelson, «se non vi riunite a me presto.» E il Ball da Malta non dovea solamente condurre tutte quante le sue navi, ma persuadere eziandio il comandante turco e il russo a fare il simile. «Spero in tal modo,» scriveva il Nelson al Saint Vincent, «riunire una forza navale composta di diverse nazioni, la quale possa far fronte a quelle del nemico; e allora non bisognerà indugiare un momento a dar battaglia.» Ma neppure in questo proposito egli durò; essendo in forse se dovesse aspettare presso Maritimo i desiderati rinforzi o dirigersi invece a Minorca. «Non so più niente de' francesi» così egli si lamentava scrivendo il 17 a Procida, «non è arrivata una barca né da Minorca né dal conte!» (322) In fatti il Nelson non poteva allora saperlo, ma l’armata di Brest si trovava già presso l’Italia; il 12 l’avevano vista da Minorca andare, a quel che pareva, verso Tolone.

Alla corte di Palermo erano appunto in quel tempo pervenuti messaggi, atti in certo modo a sedare le inquietudini cagionate dalla superiorità dell’armata nemica. Il Cardinal generale diceva di aver saputo che soldati russi e turchi fossero sbarcati sulla costa di Puglia; la qual cosa fece credere in Palermo che si trattasse della vanguardia di forze più considerevoli, che il gabinetto russo e la sublime Porta aveano secondo i trattati promesso di mandare (323). Qualche giorno dopo giunse da Livorno una fregata inglese con ottime nuove dai campi di battaglia dell’alta Italia: gl’imperiali aveano sconfitto l’esercito della repubblica, aveano passato il Mincio, il Chiese, l’Oglio, l’Adda, riconquistato Milano, occupato Bologna. Non occorre dire come Carolina a tali nuove cantasse vittoria e inneggiasse all'imperator Francesco. Dall'altra parte però, dopo più matura riflessione, si sarebbe dovuto intendere che se i francesi avessero avuto in mira la Sicilia, qualche loro nave si sarebbe fatta da un pezzo vedere presso l’isola (324). Ma cosi pacate riflessioni non facevano in corte. La regina, a cui bastava una dicerìa qualunque per accendersi e dar l’aire alla sua vivace immaginazione, si vide minacciata dall’apparizione dell’armata francospago noia nell’ultimo asilo a lei ed alla sua famiglia rimasto; le sembrò dunque che tal pericolo dovesse a tutti i costi essere allontanato, quand’anche si avesse a sospendere fin a nuov’ordine l’impresa contro Napoli (325). Fu risoluto di tenere, per quanto era possibile, segreto il «tristo annunzio, e di evitare in ogni modo anticipate inquietudini alla popolazione della capitale. Ma in tutte le parti lontane dell'isola, specialmente lungo le coste, fu mandato un manifesto reale, che facea conoscere ai bravi e religiosi siciliani» il pericolo che dal Iato del mare li minacciava, e nello stesso tempo i provvedimenti che, per allontanarlo, d’accordo con gli inglesi, i russi e i turchi si prendevano. Il re invitava i suoi fedeli sudditi, nel caso che il nemico tentasse uno sbarco, a sollevarsi in massa ed unirsi al regio esercito e alle milizie, che non tarderebbero ad accorrere sul luogo minacciato. Coraggio dunque, o valorosi siciliani! Io son qui per mettermi alla vostra testa. Combatterete sotto i miei occhi, ed io ricompenserò chi si distinguerà per la sua bravura» (326).

Il cardinale ebbe avviso di ciò e fu nello stesso tempo esortato (15 di maggio) che, dove Napoli non fosse in quel mentre già nelle sue mani caduta, ei si astenesse dall'assaltarla, e piuttosto si ritirasse per aspettare il corso degli avvenimenti. Il messo però che, senza dubbio per timore di non avere a imbattersi in nuovi francesi, doveva raggiungere il littorale di Puglia girando il capo di Sparavento e di Leuca (327), non poteva impiegare meno di tre o quattro settimane per arrivare alla fine del suo viaggio. Il non aver tenuto conto di tale inevitabile indugio, il non aver dato luogo alla riflessione che lo stato delle cose poteva, anzi doveva necessariamente esser cambiato innanzi che il real vicario ricevesse quell’ordine suggerito dall’ansietà e dall’angoscia, dimostra quanto la corte di Palermo si lasciasse in quei giorni dominare dalle impressioni del momento.

Il 17 la Vanguardia era pronta alla partenza e non aspettava se non la squadra napoletana per far vela verso l’occidente; ma il Troubridge arrivò solamente il 18; il 19 i venti spiravano contrarj. Il 20 alla fine partirono, e il 21 si trovavano all’altezza di Maritimo (328). Altre navi da guerra del Troubridge e del Niza giunsero, mentre i comandanti delle diverse stazioni ebbero avviso di lasciar correre piccole navi verso il mezzogiorno, l’occidente e il settentrione a fin di prendere informazioni intorno le armate nemiche. Il Nelson aveva adesso undici tra vascelli e fregate (329); ma le navi del Ball non s’eran per anche viste, né se ne aveva notizia, tanto che si temeva non fossero inciampate in superiori forze nemiche e cadute in lor potere (330). Né minori erano le inquietudini alla corte in Palermo. È vero che il Ruffo avea mandato l’annunzio che dopo tre giorni di combattimento Altamura era stata presa; ma troppo leggiero conforto era questo, mentre un più vicino, un più stringente pericolo soprastava, quello dello sbarco de' francesi in Sicilia. Io vi prego,» scriveva la regina a lady Hamilton, «fatemi sapere se il Keith è arrivato e con che forze, se l’armata francese e la spagnuola ban lasciato il porto e dove si trovano. Spero che al mio caro e valoroso lord Nelson non accadrà nulla di dispiacevole. Se la vostra salute lo permette, mia cara Emma, mandatemi due righi per dirmi se il Keith è giunto con le sue forze, e se l’armata ha lasciato Tolone» (331).

Intanto dal capitano Nisbet, che con la Talia teneva d’occhio il tratto da Capo Corso a Capo del Mele, era giunta notizia che l'armata di Brest era arrivata nel porto di Tolone, né fin a quel momento era di là ripartita. Talché le inquietudini, che il Nelson avea fatte nascere, erano per allora dileguate. Ma pure pareva che si facessero gravi apparecchi, dei quali né nelle acque di Maritimo, né alla corte di Palermo si poteva saper nulla. L’ammiraglio spagnuolo Masaredo, appena saputo che il Saint Vincent s’era allontanato nella direzione di nordest, avea salpato da Cadice e passando per Gibilterra era entrato nel mediterraneo (15 di maggio). Non avea potuto ottenere il suo intento principale, che era quello di unirsi all’armata di Brest, poiché l’inclemenza del tempo lo costrinse da prima a gittar l’ancora presso il Capo di Gata e poi a riparare nel porto di Cartagena. Ma un nuovo pericolo ne venne al Saint Vincent, poiché mentre una parte delle forze inglesi guardavano la Sicilia, gli spagnuoli potevano assalir le altre presso le Baleari e con la lor prevalenza schiacciarle. E presso le alte autorità navali di Londra lo stato delle cose appariva grave, dacché l’uno dopo l’altro, il contrammiraglio Whitsed con 5 vascelli e 8 fregate, e il viceammiraglio Garduer con 16 vascelli, ebbero ordine di far vela per andare a rinforzare l’armata del mediterraneo.

***

Dopo la partenza del Troubridge comandava nel golfo di Napoli il capitano Foote con la fregata Seahorse, il brigantino San Leon e Mutine, e con le cannoniere Perseo e Bulldog.

I rivoltosi se ne accorsero subito, e mentre la partenza della maggior parte delle forze inglesi faceva supporre che sola ragione di essa doveano essere straordinarj fatti accaduti sul mare, senza dubbio o nello stesso tempo o poco appresso dovettero giunger loro notizie atte a far nascere le più belle speranze per l’avvenire. Poiché l'apparizione dell’armata francese di Brest nel mediterraneo e la riunione di essa con la spagnuola, che poteva da un momento all’altro avvenire e darle cosi una gran superiorità sulle forze di cui la bandiera inglese, la portoghese e la siciliana in quelle acque disponevano, metteva l’avversario dalla condizione di assalire in quella di difendersi, ed avea per effetto un mutamento, del quale la causa dei patriotti non poteva se non grandemente avvantaggiarsi. In breve la riunione delle due armate dall’esser supposta imminente si spacciò come cosa compiuta, e la Gallicana fu come la parola e il grido di guerra dei duci repubblicani. Essa era la lor potente alleata per mare; poiché quale altra destinazione poteva supporsele se non quella di assicurare la Partenopea contro gli assalti de' suoi nemici? E però doveano i patriotti industriarsi essi medesimi con ogni sforzo di tener testa ai nemici che da tutte le parti li stringevano, sino a che le forze navali alleate giungessero per soccorrerli.

Il Foote e il Thurn ebbero a sentire senza indugio gli effetti di tali disposizioni. Partito appena il commodoro con la maggior parte della squadra, non tardò a riprendere le ostilità di Caracciolo, che, quanto infedele a suoi giuramenti altrettanto infelice nei suoi calcoli, vedeva già prossima la vittoria delle armi repubblicane. Egli attaccò presso Precida le navi siciliane, le quali, in balla del capriccio dei venti, non ostante la superiorità della loro fregata Minerva, si trovarono, di contro alle cannoniere repubblicane, in numero di venticinque, in cattivi termini ed ebbero gravi perdite di morti e feriti. Pure alla fine rimase il vantaggio al Thurn e al Cianchi che comandava sotto di lui; essi mandarono a fondo tre navi del Caracciolo, tre altre fortemente gliene danneggiarono, di maniera che, lasciato il combattimento, egli si ritirò nella Darsena di Napoli. Ma nei prossimi giorni seguenti corse voce sulla flottiglia alleata che un nuovo attacco e con maggiori forze condotto soprastava (332). E anche da altri lati i repubblicani, facendo assegnamento sulla Gallispana, mostravano altiero ed arrogante contegno. Mentre per l’addietro i patriotti erano stati tanto prudenti da non fare atti di ostilità verso gl'inglesi, e si eran guardati di irritare oltre a quell'avversario, col quale non potevano né volevano riconciliarsi, anche l'altro più forte e potente, oramai al contrario essi davano a divedere di voler cogliere l’occasione per mostrare in tal modo l'audacia loro. Essendo, o nell'ultima battaglia o in una delle precedenti, caduti alcuni marinari nelle mani de(') francesi, il Foote scrisse al comandante di Sant Elmo dandosi premura della sorte dei suoi compatriotti; il Méjean non si degnò di rispondere per iscritto, e mandò per il messo così rozza risposta che il Foote si. deliberò di evitare oramai dal canto suo, e di non permettere alP avversario, alcuno di quei rapporti che fra nazioni civili anco in tempo di guerra si usano (333).

Conosciuto il pericolo ohe la squadra del Caracciolo minacciava alP isola di Precida, fu risoluto a Palermo di far partire da Messina una fregata inglese, e di mandare alla squadra del Thurn il rinforzo di una fregata siciliana, la Sirena, a quel che pare, e quattro galeotte, sulle quali doveano imbarcarsi 800 fanti e 300 cavalli. «Cosi spero,» scriveva Carolina alla sua amica lady Hamilton, «che si potranno difendere contro quel birbante di Caracciolo» (334). Al solito però sembra che si sia alquanto indugiato a effettuare tal disegno, e la lontananza del Nelson avrà forse contribuito all’indugio. L’assottigliamento delle forze anglo-sicule nel golfo di Napoli ebbe oltre a ciò per effetto un altro danno, che poteva nel momento definitivo diminuirne o impedirne affatto l’efficacia. Finché v’era il commodoro Troubridge, la sua preeminenza di grado non poteva mettersi in dubbio; lui partito, il conte Thurn, non ostante la personale amicizia verso il collega inglese Foote, credeva di non essere soggetto al comando di lui, e di dovere soltanto ricevere ordini dal suo re e da coloro che l’autorità del re rappresentavano.

Anco dal lato dei repubblicani ricominciarono però le scissure. Alla ferma credenza nell’apparizione della Gallispana, argomento di viva speranza a Napoli e di gran terrore a Palermo (335), successero daccapo penosissimi dubbj: non si abbandonavano forse a un’illusione? pievano arrischiarsi a tener sodo e a giocare di tutti? non era forse miglior consiglio il piegare a tempo e ripristinare l’antico ordine di cose ottenendo promessa di universal perdono ed obblio? In un’assemblea che si tenne nell’edificio dell’Accademia de' nobili in Napoli fu con gran zelo dibattuto l’argomento dadue lati. Domenico Cirillo parlò con accese parole contro ogni atto di debolezza; e sebbene parecchi vi fossero che avrebbero preferito un magro accomodamento a una grassa lite, pure, come in tali occorrenze sempre e da per tutto accade, i più accaniti istigatori ebbero il sopravvento (336).

Il Nelson col grosso delle sue forze incrociava sempre a quel tempo fra Maritimo e Trapani, dove però non si vedevano mai né francesi né spagnuoli, mentre nel golfo di Napoli si correva pericolo di perdere le isole, il che avrebbe avuto per effetto il perdere tutti i vantaggi ottenuti fin allora sulla capitale. E il Nelson infatti si risolvé a tornare indietro (337), e con gran sodisfazione della real famiglia il 30 di maggio rientrava nel porto di Palermo, mentre il capitano Ball girava nello stesso tempo intorno la Sicilia, ugualmente però senza scoprire il nemico. Il Nelson rinforzò allora il blocco di Malta, pigliando in compenso navi dal St. Vincent e dalla squadra del Duckwortb, e da quest’ultimo fra gli altri il Fulminante, vascello di linea di 80 cannoni, sul quale piantò la bandiera ammiraglia (338). L’animo suo era in una commozione come di febbre; appena giunto a Palermo, potè a mala pena resistere all’impulso di far vela novamente per andare incontro al nemico. «Siamo qui nella più ansiosa aspettazione,» scriveva egli al conte St. Vincent; «a tal segno che non pensiamo, non parliamo se non a voi e di voi, da un momento all’altro preparati a sentire che cosa vi sia accaduto.» Nello stesso tempo lo turbavano i successi sul continente, sopratutto l’attitudine degli austriaci, contro il cui ministro Tbugut era sorta nel fondo dell'animo suo, e si andava sempre più alimentando, la sfiducia. Per questo rispetto la vivacità de' suoi sentimenti, la precipitazione de' suoi giudizj eran quasi tali da disgradarne la sua real protettrice Carolina. Essendo a quel tempo corsa voce del matrimonio di un arciduca austriaco con una granduchessa russa, egli venne subito fuori col sospetto, che in Vienna cerchèrebbero di trovare un regno per la giovine coppia, e la famiglia reale napoletana sarebbe sacrificata (339).

Se in così gravi congiunture a lui ed a' suoi compagni, che facevano a gara nell’odiare tutto ciò ch’era repubblicano, qualche cosa poteva recar sodisfazione, tali erano le nuove di Procida, dove sotto gli auspicj del Foote la giustizia esercitava il suo ufficio sanguinoso. Quando sul principio di giugno il capitano, con la notizia che tredici giacobini aveano espiato i loro falli sul patibolo, mandò a Palermo tre abati perché prima che s’eseguisse su loro la condanna fossero dall’arcivescovo spogliati della dignità sacerdotale, l’ammiraglio scrisse in risposta: «La vostra notizia dei tredici giacobini appiccati ci ha fatto gran piacere, ed io spero che i tre preti torneranno sull’Aurora per penzolare da tre alberi, la cui forza corrisponda al peso de' loro peccati» (340). Già cominciava a farsi notare il nome dello Speciale, che presto dovea riunire nella sua propria persona tutto ciò che correva per le bocche di tutti intorno alle sanguinose condanne di Procida, a terrore di alcuni, a crudel gioja e vendetta di altri. Nato a Burgio presso Girgenti, era stato lungo tempo al tribunale di Palermo acquistandovi fama di grande imparzialità. Anche nel suo nuovo ufficio non gli si potè rimproverare di esser parziale: quanti gli eran condotti dinanzi, tanti con uguale inesorabile severità trattava; come quegli che pareva preso dalla passione, dalla libidine di trovare ogni accusato colpevole, e di condannarlo (341).

II

SBARCO DEI RUSSI IN PUGLIA

Con l’apparizione del Suvorov sul campo di battaglia dell’Europa centrale cominciava ad essere messo ad effetto l’obbligo che lo Czar Paolo da lungo tempo aveva assunto verso il re delle Due Sicilie, e che era quello di mandare un considerevole corpo d’esercito contro i francesi nell’Italia meridionale. Se non che il corpo scelto a tale scopo e comandato prima dal generale Hermann e poi dal luogotenente generale Rehbinder era pel momento necessario sul campo di battaglia dell'Italia superiore (342), per modo che il soccorso russo doveva per il momento ristringersi a quelle poche forze che potevano esser distratte dall'isole Joule. E questo non cessava di chiedere istantemente il cav. Micheroux, che in quel mentre era stato in Palermo e di li avea fatto ritorno verso l’armata dei collegati.

Il 27 di marzo erano giunte a Corfù la fregata Scastlivni e la nave da guerra portoghese Concesion, con le due vecchie principesse francesi a bordo (343). Ma le nuove recate da esse non eran tali da dar conforto e coraggio; poiché appunto in quel tempo i francesi e i patriotti ottenevano continuamente lieti successi su tutta la regione da S. Severo a Bari e anche più a mezzogiorno. Tanto più stringenti però giungevano ancora i gridi di distretta e di ajuto dalla Puglia, dalle province di Bari, Lecce ed Otranto; e appena l’oppressione repubblicana scemava di forza in quei luoghi, apparivano in Corfù deputazioni di diverse città, le quali rappresentavano come facile la vittoria della causa reale. Talché a poco a poco andò l’ammiraglio Usakov maturando il disegno di attaccare il regno dalle coste adriatiche, mentre gli anglo-siculi, come si sapeva esser deciso, dal mar tirreno immediatamente contro la metropoli operavano. Per contrario, cosa singolare, dell'impresa del cardinale non si teneva in Corfù verun conto; sembra anzi che non avessero nessun sentore dei continui progressi dell'armata cristiana, altrimenti il cav. Micheroux non si sarebbe di certo potuto comportare come realmente fece. Arrivato verso la fine d’aprile sulla fregata siciliana Fortuna in terra d’Otranto, ei pubblicò senz’altro il manifesto reale del 31 di marzo, lo diffuse da tutti i lati, e in virtù di esso si comportò come rappresentante di Ferdinando IV. Tolti nelle città e nelle borgate gl’impiegati repubblicani d’ufficio, nominò in lor vece impiegati regj, rivestendoli di tutti gli attributi della nuova carica. Così fece anche in Lecce, dove il Ruffo, in luogo del conte Marnili ucciso fai patriotti, avea nominato preside interinale Don Francesco Loperto. Il Micheroux, che di ciò non sapeva certamente nulla e per contrario aveva avuto intorno al Loperto informazioni suggerite da malevolenza ed invidia, credette di non aver nulla di meglio da fare che mandargli la destituzione da una carica nella quale era appena entrato. Avvenne per tal ragione una rottura, poiché Fabrizio Ruffo volle a buon diritto opporsi a un atto, che danneggiava non solamente il suo proprio credito ma anche la causa che entrambi servivano. Era impossibile — così egli fece osservare al cavaliere — che due persone esercitassero l'una accanto all'altra i pieni poteri reali (344). Ben presto però si vide che il Micheroux non aveva avuto l’intenzione di recar disturbo all’opera del Cardinal generale, dacché, fattegli molte scuse, cambiò subito di condotta, e da indi in poi ristrinse la sua operosità fra i confini dell'ufficio di agente politico nel campo russo-turco.

E da questo lato in fatti l’azione era già cominciata. Nel tempo stesso che la Fortuna salpava da Corfù, il capitano Sorokin con quattro fregate russe e due corvette turche levava le ancore; il luogotenente Maksejef era stato mandato innanzi con una goletta e quattro cannoniere a Otranto. Qui tutto era compiutamente tranquillo, talché il Maksejef fece vela verso Brindisi, dove si riunì alla squadra del Sorokin che per venti contrarj s’era dovuta fermare alcuni giorni (34 di maggio). Il comandante repubblicano della piazza era a tavola quando si vide comparire la bandiera russo-turca; fece in fretta e furia raccogliere e impacchettare gli oggetti di valore, e accompagnato da molti patriotti se la svignò. Il Sorokin, ricevuto con giubilo dagli abitanti, occupò la città ed il forte, e mandò colonne volanti ai punti principali del territorio, nel quale andarono nei giorni seguenti le sottomissioni l’una all’altra succedendosi. Una deputazione di Monopoli annunziò, che alla nuova dell'arrivo della squadra russo-turca tutti i repubblicani erano fuggiti dalla città.

Il 10 di maggio, lasciando il Maksejef con alcune navi in Brindisi, il Sorokin fece vela col grosso della sua squadra, e andò costeggiando il littorale, accolto dappertutto dagli abitanti con dimostrazioni di gioja ed onore. La piccola città di Mola é soltanto da eccettuare, che inalberò la bandiera tricolore partenopea (12 di maggio). Ma un breve bombardamento bastò per ridurre a miglior consiglio gli abitanti; i colori regj furono sostituiti ai repubblicani, gli alberi della libertà abbattuti, una deputazione si presentò al Sorokin, il quale chiese compiuta sottomissione al legittimo sovrano e agli ufficiali nominati da lui (345). Il 13 sul far del giorno la squadra approdò a Bari. Fino a pochi giorni innanzi aveano ivi spadroneggiato i soldati del generale Duhesme e i legionarj del conte Ruvo; adesso una deputazione della città corre a presentare gli omaggi al comandante russo. Egli fece sbarcare 150 uomini con quattro pezzi di campagna, e occupare il castello, che aveva già inalzato la bandiera del re. Allora comparve egli stesso in città, col cavaliere Micheroux a fianco, e un solenne servizio di ringraziamento fu celebrato nella cattedrale. Il capitano Marin con la fregata S. Niccola rimase nel porto per proteggere la ripristinata autorità regia; il Sorokin parti, la sera del 17 comparve a Barletta, e, lasciato anche colà una fregata, un giorno o due dopo gittò le ancore nella rada di Manfredonia. L'occupazione di tutti questi luoghi sul littorale era accaduta senza nessun contrasto; ma, cosa assai più importante, in Manfredonia vennero a presentarsi al comandante russo deputati delle principali città della Puglia. In quei luoghi dopo la partenza dei francesi e fino a pochi momenti prima i patriotti aveano avuto il disopra; talché il raccogliersi cosi sollecito della fazione regia e, quasi a dispetto dei recenti dominatori, accorrere a visitare il campo russo, fu segno della gran mutazione che s’apparecchiava.

La nuova dell'apparizione e dei prosperi successi d’una squadra russa sulle coste dell’Adriatico era intanto pervenuta ad Altamura, di dove il Ruffo non tardò a mettersi in rapporto ed intendersi. col comandante russo. Nello stesso tempo lo pregò che volesse mandargli dei soldati; egli non avea tanto bisogno di accrescere il numero delle sue forze, quanto di rinforzarsi con soldati regolari, dei quali pativa sempre grandissimo difetto (346). E poiché il Micheroux, consigliere politico del commodoro russo, era dello stesso avviso, si risolse il Sorokin di mandare nell’interno della Puglia una piccola colonna; la componevano 390 soldati e marinari russi con quattro cannoni, e 30 uomini dell’equipaggio della Fortuna; 60 abitanti di Manfredonia a cavallo si unirono ad essa. Sotto il comando del capitano Ballile, di nascita irlandese, e accompagnato dal plenipotenziario militare Micheroux, la colonna si mise in movimento il 20, e il giorno appresso giunse a Foggia. Era tempo di fiera; il che contribuì grandemente a far conoscere in breve ora da per ogni dove l’avanzarsi dei russi (347). La presenza di forze regolari impedì anche grandi sventure, poiché le classi inferiori della popolazione, costrette a reprimere fin allora i lor sentimenti contro i francesi, sentendo che i russi si avvicinavano si sarebbero sollevate e avrebbero menato strage dei patriottì, se i più notevoli realisti con l’ajuto dei soldati del Baillie non avessero preso solleciti provvedimenti per contenere gli eccessi.

La notizia di tali fatti sbalordì la fazione dei ribelli, che fino allora, sebbene in minoranza, protetta dal terrore del nome francese, s’era conservata al timone del governo. Un corpo repubblicano, apparso nelle vicinanze di Foggia e giudicato della forza di 2000 uomini, si dileguò rapidamente senza osare di combattere; era senza dubbio il conte Ruvo, o una parte della sua legione, con la quale egli si volse a settentrione verso Sansevero. Si trovava ora quasi solo, non rimanendogli come ultimo punto d’appoggio se non Pescara. I russi lo lasciarono da parte, e restarono intanto a Foggia. Ma poco appresso, avendo il Sorokin mandato un rinforzo di 95 uomini con due cannoni e un trasporto di fucili per armare gli irregolari, il Baillie marciò verso Montecavallo, a due miglia e mezzo da Foggia, e là fortificatosi decise di attendere che le forze del cardinale si avvicinassero (348).

***

Mentre Fabrizio Ruffo dimorò in Altamura, l'autorità sua andò sempre più estendendosi. Egli s’era, prendendo seco il Decesari, procurato una forza d’attrazione, dalla quale venivano continuamente nuove schiere al suo campo condotte. Da Terra di Bari, dalle provincie di Brindisi, Lecce ed Otranto, dalle pianure di Puglia giungevano senza posa al quartier generale manifestazioni di lealtà, proteste di sottomissione, commissioni deputate a presentare gli omaggi delle varie città. Dovunque la fama delle sue gesta, il credito del suo nome e del suo grado di vicario generale pervenivano, doveano le insegne repubblicane e gli ufficiali della repubblica cedere il posto alle insegne del re e ad ufficiali provvisoriamente incaricati di governare in suo nome. Salvo alcune piazze forti dell’interno, come Picierno e Potenza a nord ovest della Basilicata dove ancora drappelli di patriotti tenevano disperatamente in mano il potere (349), le province meridionali erano oramai riguadagnate alla causa del legittimo sovrano.

Il dominio del Ruffo o direttamente o per mezzo degli aderenti e sottoposti, come per esempio i rappresentanti del regio governo nel Cilento, si estendeva oramai sulla massima parte del regno continentale. Le contrade non ancora sottomesse pareva non aspettassero se non il momento opportuno. Di certo egli era informato, che il territorio che intercedeva fra lui e la metropoli era quasi del tutto libero dai nemici. I patriotti aveano abbandonato la difesa della prossima città di Gravina; il general Mastrangiolo e il commissario repubblicano Palomba si trovavano già in Napoli. Il piccolo presidio francese napoletano di Campobasso era stato novamente ritirato; dopo di che il contado di Molise in tutta la sua estensione fino a Terra di Lavoro era aperto all'influsso del partito regio, che non mancava di guadagnarvi terreno. Benevento ed Isernia, Monteforte presso Avellino, Cerreto del Cusano ed altri luoghi furono persi per la Partenopea. Né altrimenti accadde all’importante città di Nola. Bastò che una schiera di regj si mostrasse, e le popolazioni fin sotto le mura di Napoli si sollevarono.

E che aspetto presentava allora la stessa capitale? Il governo repubblicano, cominciando ad aver paura, cercò di reggersi col terrore. I patriotti aveano già con grande inquietudine sentito dei continui progressi del Ruffo; l’arrivo dei fuggiaschi di Altamura e Gravina non contribuì poco a crescere tale inquietudine, tanto più che, per iscusare la loro condotta, le forze del cardinale fuor di misura esageravano. Si aggiunse poi la infausta nuova dello sbarco de' russi e del loro avvicinarsi dalla spiaggia di Puglia all’esercito del Ruffo. A fine di attenuare gli effetti di cosi tremende notizie, Eleonora Fonseca dové scrivere nel Monitore napoletano, che il Ruffo avea vestito con divise russe i forzati mandatigli di Sicilia per far credere al mondo ch'egli avesse alleati. Ma i patriotti mandarono segretamente messi fidati, fra i quali un certo Coscia, per indagare quanto in tali racconti vi fosse di vero. Nello stesso tempo si sparsero voci di vittorie francesi sul Reno e di immense quantità di austriaci morti, feriti e prigionieri. Lo stesso Foote sembra che a si fatte voci credesse; non cosi il Nelson, che alla prima giunta le segnalò come pure invenzioni (350).

Ma non in terra ferma solamente un colpo dopo l’altro percoteva i repubblicani, era loro sfavorevole anche il mare, dove i francesi furono più volte dalla inclemenza del tempo travagliati. Due davi partite dall’Egitto e in rotta per la Francia furono dalla tempesta separate. L’una carica di feriti e malati fu con gravi danni sbattuta sulla costa orientale della Sicilia, dove entrò nel porto di Agosta; ma, accortisene appena gli abitanti, alcuni uomini risoluti si gettarono nelle barche, assaltarono la nave nemica, e salitivi su, quegl’inermi che vi trovarono spietatamente uccisero (351). L’altra, che aveva a bordo tre generali e parecchi scienziati, fra cui il famoso minerálogo e geologo Dolomieu, fu nel mare jonio scoperta da' russi che le diedero la caccia. Riuscì ai francesi di guadagnare il porto di Taranto, nella qual città i sentimenti erano certamente pel re, sebbene ancora i repubblicani governassero. Il Dolomieu si rivolse per iscritto al cardinale, esponendogli che egli e i suoi compagni non eran venuti con le armi alla mano, ma dalla tempesta spinti sulla spiaggia, domandavano si desse loro passaporto e sicuro accompagnamento sino al più vicino corpo francese. Fabrizio Ruffo non credè di potere entrare in discussioni sopra tali dimande del diritto delle genti; e specialmente dopo aver saputo, che non propriamente la tempesta, ma la paura dei russi che inseguivano, aveva spinto la nave a Taranto, mandò gli scienziati e gli ufficiali superiori prigioni a Messina, lasciando al re la cura di decidere le loro sorti.

A tutte queste cose si aggiunse l’apparizione dei russi sul campo di battaglia napoletano, la quale fu d importanza definitiva per i progressi del cardinale. Le forze erano di certo poche, non si trattava se non di un manipolo di soldati; ma grande era il concetto che rappresentavano, come vanguardia di quei soccorsi di gran lunga maggiori che la corte di Palermo, tanto dalla parte dei russi quanto da quella dei turchi, aspettava. Sembra che anche il Ruffo sulle prime guardasse sotto tale aspetto la cosa; in ogni modo era egli prudente abbastanza da farla agli altri sotto tale aspetto apparire. Non era cosi adempiuta la condizione, che l’accorta regina avea dichiarata indispensabile perché egli procedesse al coronamento della sua impresa, alla conquista della metropoli? Dall'altra parte, non essendogli altrimenti pervenute dal mezzo di maggio in poi le comunicazioni della regina, egli ignorava affatto i recenti successi del mediterraneo, e fece i suoi apparecchi supponendo che ancora il Troubridge nel golfo di Napoli navigasse. Con questa idea partecipò al commodoro la sua risoluzione di muovere contro la capitale, e lo pregò che volesse dalla parte del mare ajutarlo; i vescovi Ludovici di Policastro e Torrusio di Capaccio ebbero avviso di lasciar partire i loro stuoli dal Cilento verso Salerno. Ma per non svelare troppo presto il suo disegno, e dall’altro lato per tenere, durante la effettuazione di esso, coperto il suo fianco destro e le spalle, ordinò al Decesari di passar l’Ofanto, di avanzare fino a Cerignola nella Puglia meridionale e poi volgere verso Ariano. Nello stesso tempo scrisse a Palermo rinnovando la stringente preghiera che il re si determinasse ad apparire di persona nel golfo di Napoli, perché con la presenza di S. Maestà si potesse forse ottenere la sottomissione della capitale senza spargimento di sangue (352).

Il 24 di maggio l’armata cristiana partì da Altamura; e si racconta che il fratello del vicario generale, l’ispettore dell’armata Francesco Ruffo, dovette andare di casa in casa per raccogliere ufficiali e soldati, tanto s’erano essi, per così dire, annidati in una città, che quindici giorni prima aveano con crudel furore conquistata. In Altamura il Cardinal generale lasciò un presidio di 150 uomini sotto il comando del tenente colonnello Vincenzo Campagna, che doveva anche condurre gli affari politici (353). La marcia dell’armata cristiana fu. da principio rivolta verso Gravina; di lontano accorsero gli abitanti incontro all'esercito del Ruffo gridando: Viva il Re! Viva la Religione! Da Gravina passando per Spinazzola e Venosa si andò a Melfi, nella qual città il Ruffo entrò la sera del 29, e il giorno appresso fece solennemente celebrare l’onomastico del re.

Nello stesso tempo il Decesari era giunto a Cerignola, di dove aveva ordine di piegare a ponente. Ma avendo saputo che Foggia e Manfredonia erano occupate dai russi, e così il cuore della Puglia si trovava in mani sicure, risolvé di marciare a settentrione verso Monte Gargano, e così facendo non obbedì certamente alle ingiunzioni del suo capo, ma in altra maniera rese assai più importante servigio alla causa reale (354). Poiché all’annunzio del suo avvicinarsi il conte Ruvo lasciò con tanta fretta la città di Sansevero, che non potè portar via gran parte del bottino di Bari e di Andria; e, come gli era stato dal Macdonald per un caso estremo prescritto, si ridusse sotto la protezione dei cannoni di Pescara. Così tutto il territorio della Capitanata sino ai confini dell'Abruzzo Ulteriore fu sgombrato dai nemici, e allora solamente il Decesari si accinse a marciare verso Ariano.

Mentre il vicario generale dimorava ancora a Melfi, gli furono offerti rinforzi di milizie regolari. Comparvero in fatti due ufficiali turchi, e gli annunziarono che un corpo di soldati del Sultano era pronto a venirsi ad unire al suo esercito. Né quegli ufficiali si mostrarono punto ritrosi a divenir compagni d’armi dei nemici ereditarj della mezza luna; anzi per amor loro non esitarono a trasgredir subito i precetti del Corano; dacché invitati dal cardinale a pranzo, e peritandosi quegli di offrir loro del vino, sorridendo osservarono: Difendere cristiani, bevere vino. Per il Ruffo al contrario la cosa era tutt’altro che indifferente. Egli avea dato al suo esercito uno spiccato carattere cristiano, la croce facea mostra di sé sulla bandiera, la santa fede era la parola e il grido di guerra; che figura farebbero i credenti dell’Islam in mezzo a un’armata cristiana? Per queste ragioni fu deciso che gli ajuti turchi sarebbero condotti per mare nel golfo di Napoli, ed ivi attenderebbero il momento opportuno per cooperare alla conquista della città (355).

***

Il 31 di maggio l’esercito mosse da Melfi e, passato l’Ofanto, entrò nel territorio della Puglia, che però non dovea traversare se non nella parte meridionale. La scarsezza delle sorgenti in quei luoghi consigliava d’usare grandissima prudenza, e questa servì di scuola e d’esercizio alle schiere del Ruffo. Non trovandovi acqua corrente, ma solo di quando in quando pozzi, i quali non avrebbero giovato a dissetar nessuno se tutti, uomini ed animali, senza ordine vi si fossero affollati, il cardinale prese l’espediente di ordinare che persone a ciò deputate portassero le provviste occorrenti di acqua e di vino sopra carri che seguivano ciascun corpo, e che là dove fosse necessario fermarsi per ristorar le forze dei soldati, nessuno si movesse prima che al suono del tamburo fosse il bisognevole a tutti distribuito. È vero che in tal maniera il già numeroso traino di carriaggi crebbe dell’altro, e il lungo strascico dell’armata cristiana prese una estensione da potere in certe congiunture diventar pericolosa (356); ma il nemico era o del tutto sgombrato da quelle contrade o ridotto a una cosi esigua parte delle popolazioni da non avere a temere, non che un assalto, una qualunque sfavorevole dimostrazione.

Invece i patriotti dovean chiamarsi contenti se il popolo avido di rappresaglia rispettava la vita e proprietà loro. Se n’era avuto un esempio in Foggia all’arrivo de' russi e in Ascoli all’avvicinarsi de' sanfedisti. In quest’ultima città la moltitudine avrebbe preso vendetta di alcuni nobili segnalati come giacobini, se il cardinale, chiamato dai pericolanti in ajuto, non avesse speditamente mandato un drappello di soldati con cannoni, e la vista dei cannonieri con le micce accese non avesse tosto ripristinato l’ordine e la tranquillità.

In Ascoli ebbe il Ruffo la visita del Micheroux e del Baillie, coi quali egli s’intese circa l’incorporare nel suo esercito i rinforzi russi. Fu deliberato che il colonnello Carbone con alcune compagnie di cacciatori calabresi e una parte della cavalleria marcerebbe incontro ai russi, e accompagnandosi a loro li condurrebbe nella valle di Bovino, a traverso la quale il Ruffo pensava di menare il suo esercito alla volta di Napoli. E così fu fatto. La mattina del 2 di giugno il Carbone e il Baillie passarono il ponte di Bovino; verso mezzogiorno giunse allo stesso punto la testa dell’armata cristiana; il 3 e il marciarono oltre verso Ariano, che non offri resistenza (357). Il cardinale si trattenne il 4 in Bovino, di dove scrisse alla regina, e il 5 fece il suo ingresso in Ariano. La vicina città di Benevento si arrese ai condottieri Falbo e Studuti, i quali poi per ordine del cardinale occuparono le gole caudine.

Fabrizio Ruffo si trovava ora in cammino diretto verso la capitale per due vie, per quella di Avellino verso il Vesuvio, e per quella di Benevento a traverso le gole caudine. Da tutti i lati gli si offrivano compagni. Il duca di Roccaromana, oramai convertito alla causa dinastica, si profferse semplice soldato dell’armata cristiana; il Cardinal generale lo nominò comandante supremo di tutte le squadre armate in Terra di Lavoro, e lo incaricò d’investir Capua e impedir le comunicazioni fra quella piazza forte e la metropoli; in tal modo Fra Diavolo, che fin allora era stato solo a percorrere quelle contrade, si trovò ad avere sopra di sé un abile ed esperto capo. Mandato dal Pronio comparve al quartier generale del Ruffo il barone De Riseis, e vi ricevè la commissione di ordinare al suo generale di tener d’occhio il conte Ruvo in Pescara con una parte dell’armata degli Abruzzi, e con l’altra marciare verso Capua. In Ariano poi comparve Scipione della Marra venuto di Palermo per portare la bandiera ricamata dalla regina e dalle principesse; la quale Fabrizio Ruffo fece benedire dall’arcivescovo Spinucci di Benevento, e poi consegnare al 1° reggimento reale di Calabria (358).

Col della Marra erano anco giunte due compagnie di granatieri reali ed alcuni cannoni; e il Ruffo si risolvé di non indugiare più a lungo, e di procedere all’ultima e più diffidi parte della sua impresa, a riconquistare la capitale del regno.

Del buon esito ei non dubitava più. In quel tempo fu preso prigione il Coscia, una delle spie mandate dalle autorità repubblicane per aver ragguagli intorno alle condizioni dell’esercito nemico. Il Ruffo se lo fece condurre dinanzi, e gli disse di andare a raccontare a Napoli quello che avea visto; i russi — così egli astutamente soggiunse — erano la vanguardia di un esercito ausiliario che si trovava in via; e gli fece mettere in mano alcune monete russe perché in Napoli le mostrasse. Finalmente prese un pezzo di carta, vi scrisse alcune parole, e le dette al Coscia perché alla sua sorella, principessa di Campana, lo consegnasse. Vi era scritto: «la malaga è sempre malaga,» il che nel linguaggio noto ai familiari voleva dire, che tutto andava bene e presto si rivedrebbero.

III

APPARECCHI DIFENSIVI DEI PATRIOTTI IN NAPOLI

I patriotti della capitale, cominciando a vedere oramai chiara la gravità delle condizioni, furono da un sentimento d’incertezza, di dubbio, di confusione in tal maniera compresi, che tentennando e or da una parte or dall’altra volgendosi, presero provvedimenti e arrischiarono tentativi da mostrare troppo manifestamente l’inconsulto zelo che li moveva. È vero che dai generali francesi rlcevevan sempre le più favorevoli notizie: dovunque gli eserciti repubblicani si mostravano— così era lor fatto credere — sempre arrideva loro la fortuna, e sempre o fuggivano o restavano sconfitti i mercenarj del tiranno (359). E la potente gallispana non facea forse sventolare la sua superba bandiera a terrore dei nemici e a pronta difesa degli alleati? Ma dall’altro canto a che giovavano vittorie riportate su lontani campi di battaglia, delle quali non giungevano fino a loro gli effetti? A che giovava la gallispana, che non mostrava ancora l’orgogliosa bandiera e col nome solo non poteva incuter timore al vicino nemico? A che giovava loro, che gli stuoli del Ruffo si componessero d’un’accozzaglia di mascalzoni, di forzati evasi o di condannati rimessi in libertà, e che i soldati russi ausiliarj, secondo che il ministro della guerra Manthoné volle fino all'ultimo momento dare ad intendere (360), non fossero altro che bordaglia siciliana, per cura di Ferdinando, con divise russe travestita? Una cosa non si poteva negare né dimenticare, ed era che il nemico stava lì, che tutti i giorni guadagnava terreno e faceva progressi, che teneva loro i piedi sul collo, che da tutte le parti li stringeva.

Di certo il lor nemico principale con la sua armata cristiana era pel momento ancora in fondo al Principato ulteriore; ma la via diretta della capitale era in suo potere. A settentrione della città, le popolazioni armate, che con le loro schiere scomposte circondavano da alcune settimane Capua, avean trovato nella persona del duca di Roccaromana un duce ardito ed esperto. In Caserta il tenente colonnello Luigi Gambs aveva inalzato la bandiera reale; Aversa sollevatasi aveva interrotto le comunicazioni con Napoli. Presso Venafro nell’estremo canto della Campania era accampato Mammone, e da un giorno all’altro poteva giunger notizia che quella città, che ancora ostinatamente resisteva, fosse caduta. Il terribile Mammone! Si raccontava di lui con raccapriccio, che, dichiaratosi contro la repubblica, aveva in due mesi fatto fucilare 450 persone; e altrettante e forse più erano cadute vittime de' suoi subalterni. Mammone vigilava la contrada del Garigliano superiore, e le sue schiere assalivano colà e trucidavano tutti i francesi o altri viaggiatori provenienti da Napoli; mentre Michele Pezza, guardando le strade di là da Itri sino a Terracina, impediva le comunicazioni con Roma e si dilettava principalmente d’intercettar lettere e consegnarle agl'inglesi, i quali solevano di lui dire scherzando: «questo gran diavolo è per noi un vero angelo.» Il Ruffo dal canto suo non era d’intesa col Pezza e co’ fratelli Mammone per rispetto all'arrestare i viaggiatori; egli avrebbe anzi preferito che le strade conducenti al confine fossero lasciate libere. Secondo lui, quanti più francesi e patriotti andavan via, tanto meglio. Scrisse al Troubridge, che supponeva sempre nel golfo, pregandolo di persuadere in questo senso Fra Diavolo e Mammone. Il movimento antirivoluzionario s’estendeva già nel territorio romano. Un certo Cellini dal suo quartier generale in Camerino fra Foligno e Macerata pubblicò un proclama ai popoli dello stato Pontificio, ai quali metteva sotto gli occhi l’esempio dei prodi Sanniti e delle popolazioni limitrofe agli Abruzzi, e gli esortava ad unirsi a lui che si dichiarava comandante in nome del re (361).

Ai patriotti assennati parve tanto più pericolosa la condizione delle cose, in quanto che la città di Napoli per la sua immensa estensione avea da tutte le parti punti esposti all'attacco, e sarebbe occorso per difenderla un presidio degno di maggiore fiducia, e specialmente un numero d’armati maggiore di quello del quale si figuravano di poter disporre. Per queste ragioni prima l’Arcorito, che aveva avuto una parte eminente nelle giornate del gennajo, e poi il generale Girardon comandante francese di Capua, fecero la proposta di ritirare dalla città tutti i soldati e le provviste, di distruggere tutti gli arnesi da guerra e i viveri che non era possibile trasportare, e porre un campo fortificato presso il Garigliano, dove si potesse aspettare l'arrivo dei rinforzi, e intanto mantenere le comunicazioni co’ presidj di Capua e di Gaeta (362). Ma la proposta fu rigettata, forse per effetto dei ragguagli che il Coscia aveva portati da Ariano. Si volle, a quanto sembra, fare un colpo contro il Ruffo innanzi che il grosso delle forze russe tenesse dietro alla colonna del Baillie, che il cardinale faceva credere loro vanguardia. Il general Federici fu prescelto a cogliere questi allori, mentre lo Schipani era mandato a Salerno per contrastare alle squadre sanfediste dei vescovi Ludovici e Torrusio e a quelle di Panedigrano, e respingerle ai monti dond'erano discese.

Con gran chiasso e pompa i due capitani uscirono da Napoli, lo Schipani per la via di Portici e il Federici per quella di Nola e Avellino. Ma quest(9) ultimo, toccando appena Marigliano a occidente di Nola, si vide da schiere messe in agguato ricinto, assalito e sopraffatto; i vecchi soldati del suo corpo ritornarono sotto la bandiera reale, che non liberamente ma costretti dalla forza delle circostanze avevano abbandonata; la guardia nazionale, lasciando i fucili per via, voltò le spalle e corse a Napoli, dove fra l’oscurità della notte anche il generale con pochi seguaci rientrò (363). Lo Schipani dal canto suo, saputo della trista sorte toccata al suo compagno d armi, perso la voglia d’arrischiarsi più oltre, e fatta fermare la sua gente dietro Torre del Greco, cercò di fortificarsi alla meglio. Aveva sotto i suoi ordini 1500 uomini (364), e poteva oltre a ciò fare assegnamento sull'ajuto del Caracciolo dal lato del mare.

Nuovo spavento invadeva a tali novelle i patriotti della capitale, mentre la plebe commossa stringeva i pugni e mostrava i denti. Si fecero degli arresti, si parlò di condanne ed esecuzioni; parve che i repubblicani volessero scacciare il terrore, che occupava l’animo loro, con quello che incutevano ai realisti. Intanto si trovavano in termini sempre peggiori co’ francesi loro amici; i quali si lagnavano d essere stati tratti in inganno, d’essere stati spinti innanzi con promesse che non serano avverate, fidando nell’autorità e nel credito che i patriotti vantavano di avere ma che in fatti non aveano. Correa voce per la città che il presidio di Sant’Elmo avesse avuto ordine di difendersi con ogni mezzo contro una sollevazione di popolo; ma che, dove apparisse una forza regolare nemica, dovesse capitolare, a patto di uscire con gli onori militari e di potere i capi più compromessi liberamente riparare in Francia. In tale stato di cose i patriotti andarono via via raccogliendo le loro forze armate nei castelli Nuovo, dell'Uovo e del Carmine, e le fortificazioni in diversi punti della città e lungo la spiaggia di Chiaja abbandonarono, temendo che il popolo se ne impadronisse e per i suoi propositi se ne giovasse (365).

A sud est della capitale tutta la contraila fino a Torre del Greco, dove si trovava lo Schipani, era in possesso dei patriotti, come pure più in là il forte di Castellamare e Pisola fortificata di Revigliano presso le foci del Sarno. Fra questi due punti però e il campo dello Schipani c’era la Torre dell’Annunziata, che occupavano i regj tagliando così la linea di difesa del repubblicani. Il Caracciolo comparve innanzi a quella città più volte e la cannoneggiò senza potersene impadronire (366). Di là dal Sarno non c’era più patriota. I vescovi Ludovici e Torrusio comandavano in Cilento col segno della Santa Croce, mentre Panedigrano avanzava verso Salerno coi suoi 1000 uomini terribili, che del resto si sforzava di tenere con la disciplina e il buon ordine a freno; il commodoro Troubridge, prima di essere richiamato dal golfo di Napoli, avea fatto sbarcare il capitano d’artiglieria Harlev con un distaccamento di soldati e due cannoni; al comando di lui doveva il generale del popolo assoggettarsi. Poco tempo prima il colonnello Tschudy avea menato 500 granatieri dalla Sicilia, e s’era fermato a Sorrento. A lui si congiunse il colonnello Zender con 300 uomini, che avea fatti uscire da Napoli e ricoverati a Procida; appartenevano forse alla colonna dello Schipani, dalla quale non di rado ormai si partivano i soldati per passare ai regj (367).

Sembra che lo Tschudy e lo Zender intendessero insignorirsi innanzi tutto del forte di Castellamare.

***

Il 7 di giugno partì Fabrizio Ruffo da Ariano. Prese l’antica via consolare, passò le gole di Montefusco, occupò l’importante posizione di Monteforte, e si avvicinò ad Avellino, dove tutto era ordinato ad accogliere solennemente l’armata cristiana. Da tutti i dintorni accorreva la gente, deputazioni andavano incontro al Cardinal generale e ne salutavano l’arrivo come d’un liberatore; non meno di tre volte negli ultimi mesi aveano le schiere repubblicane scorrazzato la città e il territorio saccheggiando e devastando. Mentre in tal maniera la gioja universale prorompeva, sonò a un tratto un grido: Viva la repubblica, abbasso i tiranni! Era la voce d’un solo, del capo d’una vicina municipalità, il quale, battutosi coraggiosamente if giorno innanzi contro una mano di realisti e rimasto nella infruttuosa pugna ferito, aveva avuto la strana idea di provocare un subbuglio in Avellino e metter così tra le file dei regj il disordine. Ma la cosa ebbe un tristissimo esito. Furiosa la plebe gli si gettò addosso, e lo avrebbe messo in pezzi, se non fossero riusciti a levarglielo di tra le mani e condurlo innanzi ai magistrati. Il suo difensore volle spacciarlo per matto; ma i giudici, non ammettendo sì fatta scusa, proferirono la condanna di morte che fu senza pietà né indugio eseguita. Apparve questa una prima e pronta vendetta dei tanti e gravi danni, che quella contrada sotto la dominazione del partito repubblicano avea sofferti (368).

Da Avellino Fabrizio Ruffo mandò il suo ajutante Mazza verso Napoli per riconoscere lo stato delle cose. Imbattendosi in qualcuno dei generali repubblicani, egli doveva esortarlo a chiamare alla ragione i repubblicani della capitale, far loro comprendere l’inutilità d’una più lunga resistenza, e persuaderli a deporre le armi, a fine di por termine alla lotta senza spargimento di sangue. Il Mazza non incontrò quel che cercava. Trovò di là da Nola l’avanzo della disfatta legione del Federici, vide presso Marigliano i cannoni abbandonati in mezzo di strada, e giunse senza impedimento a Casalnuovo, a poche miglia da Napoli, donde per altro, non volendo più oltre avventurarsi per timore che gli toccasse la sorte dei parlamentarj del Ruffo a Cotrone e Altamura, tornò indietro al quartier generale del suo capo.

Il quale fu dai ragguagli del cavaliere confermato nel proposito che fin dal suo arrivo in Avellino rivolgeva nell’animo. E tanto più gli pareva di doverlo senza indugio porre ineffetto, poiché non facendolo uvea da temere che i ribelli ricevessero ajuto dal lato di mare, e così lo stato delle cose fosse a un tratto mutato. A tal fine il 9 di giugno fece intendere al Foote ch’egli pensava di giungere il 13 o il 14 a Torre del Greco, e con certi segni convenuti avrebbe fatto conoscere il suo arrivo al capitano, perché le navi alleate potessero allora cominciare d’accordo le operazioni ec. ec. Il capitano inglese era compiutamente d’accordo col Ruffo. Altrimenti avrebbe da lungo tempo dato un più forte colpo alla squadra repubblicana; se non che da sé solo era troppo debole, e il conte Thurn, a cui egli chiese tre galee di rinforzo, non aderì subito alla dimanda, sia perché in fatti non credeva di poter privarsi delle sue navi presso Precida, sia perché volle per la prima volta far notare al comandante inglese che non dipendeva da' suoi comandi, ma si riteneva autorizzato e obbligato ad operare soltanto secondo il proprio giudizio o secondo gli ordini che da Palermo gli pervenivano (369).

Il Cardinal generale aveva oramai, quanto al numero, un ragguardevole esercito, che secondo un ragguaglio, forse assai esagerato, ascendeva a 50,000 uomini (370). Oltre di che dopo l’arrivo dei russi, dopo la 'spontanea aggregazione di molti soldati provenienti dal disciolto esercito regio e dal corpo recentemente disfatto del Federici, dopo la venuta infine del Marra con due compagnie di granatieri, le parti regolari dell’armata siciliana non eran più di cosi poco momento come al principio della guerra. Quando la sera dell’11 giunse a Nola, arrivò anche il capitano turco Achmed con i suoi 84 uomini, che su due navi da guerra turche erano stati condotti da Corfù. Non ostante questo nuovo accrescimento di forze, il Ruffo non volle marciare immediatamente su Napoli, ma invece decise di raggiungere dapprima il littorale per render libera la strada fra Salerno e la metropoli; così guadagnava anche l’altro vantaggio di poter prendere le schiere alleate che avanzavano dal Cilento, e unito ad esse arrischiarsi all'ultima e più difficile operazione della sua impresa. Allora però gli pervenne dalla Sicilia un ordine, che con sua maraviglia e rincrescimento gli legò a un tratto le mani.

Mentre i repubblicani francesi e i patriotti nativi aspettavano la comparsa della Gallispana nelle acque di Napoli, nel campo opposto, e specialmente nella marina inglese, gli animi erano incessantemente travagliati dal dubbio pensando da che parte l’armata franco-ispana fosse per dirigere gli assalti. Le forze di cui il conte St. Vincent disponeva nel mediterraneo (371), erano di numero inferiore a quelle del nemico, ma per esperienza, intimo vigore e fiducia nella vittòria d’assai le superavano. Però il nemico aveva il vantaggio di potersi gittare con tutte le sue forze a piacere sopra l’uno o l’altro punto di quelli difesi o attaccati dagl'inglesi e alleati loro, mentre questi non potevano condursi tutti insieme a un punto determinato se non seguendo semplici indizj e vaghi presupposti, né così facendo potevano al tutto lasciare scoperti gli altri oggetti della loro azione marittima. Le due più importanti stazioni, nelle presenti congiunture, erano per gli alleati le Baleari, a motivo della loro posizione fra la costa a nord est della Spagna e il porto di Tolone, e la Sicilia sì perché vicina a Napoli, e sì per ragione di Malta e della via che, passando per quell’isola, conduce in Egitto. La corte di Palermo poneva naturalmente la riconquista di. Napoli innanzi a qualunque altra cosa; ma anche per rispetto all’interesse generale bisognava convenire che con la capitale partenopea si toglierebbe all’armata nemica uno de' più validi punti d’appoggio. Perciò il Nelson ebbe nella prima metà del giugno continui rinforzi. Da lord Keithj che incrociava allora nelle acque di Nizza, furono mandati il Belle-rofonte e il Potente, con una lettera scritta da Monaco, nella quale egli comunicava al Nelson che il vento spirava fresco dall’oriente e però assai favorevole ai francesi se avessero in mira la Sicilia, e molto sfavorevole a lui, Keith, se volesse inseguirli. La lettera era del 6 di giugno; in uno dei prossimi giorni le due navi avrebbero dovuto far vela, ma passò più d’una settimana innanzi che arrivassero al loro destino.

In questo medesimo tempo la corte siciliana si sforzava più che mai d’indurre l’ammiraglio inglese ad un’azione immediata su Napoli; si sapeva che il valoroso lord inclinava fortemente a tale disegno, e lady Hamilton, messa dalla regina nella confidenza, prese l’incarico di condurlo all’effettuazione di esso. In connessione con queste pratiche fu mandato al Ruffo l’ordine di non far nulla contro la capitale fino a che il principe ereditario non comparisse con una squadra anglo-portoghese nel golfo; e quest’ordine giunse al cardinale appunto allora che, come dianzi dicevamo, egli voleva con la cooperazione del Foote e del Thurn spianarsi la via verso Napoli (372). All’ammiraglio scrisse Ferdinando, senza dubbio dopo accordi presi con lui in proposito, una lettera in data del 10 di giugno, intesa ad abilitare e in certo modo giustificare un’impresa, che quegli era per fare all’insaputa de' suoi superiori immediati. Le presenti condizioni di cose in Napoli — così diceva il re in quello scritto— domandano una sollecita risoluzione; a lui le circostanze non permettevano di lasciare l’isola e la sua famiglia; ei riponeva dunque la sua piena fiducia nel potente aju. to dell’armata degl’inglesi suol alleati messa sotto gli ordini del Nelson; egli dal canto suo intendeva rinforzare la divisione di linea che si trovava già sulle isole; alla testa di tutte queste forze egli collocava il suo primogenito, e in tal senso i generali ne riceverebbero gli ordini; pregava però il Nelson di essergli consigliere e guida, essendo alle armi inglesi assegnata la parte precipua da cui dipendeva l’esito finale, e commettendo egli al giudizio del Nelson la cura di prendere tutti i provvedimenti necessarj per ridurre a freno gli oppressori del popolo e per estirpare il nido dei malfattori (373).

La sera del 12 lady Hamilton ebbe un nuovo colloquio con la regina, la quale le fece premura perchó inducesse il Nelson a mettere senza indugio l’armata alla vela verso Napoli;ella e il re si unirebbero a lady Hamilton e al marito di lei per accompagnar l’ammiraglio, se questi la giudicasse cosa desiderabile (374). La qual cosa però non parve necessaria; e si decise che il solo principe ereditario, i cui bagagli erano già stati nel corso del giorno portati a bordo, prendesse parte all’impresa. Circa 2000 fanti, 600 cavalli, con cannoni e d’ogni maniera materiali da guerra, furono parte imbarcati, parte spediti per terra alla volta di Messina (375). Al Foote fu mandato ordine di tenere per ogni occorrenza pronte le sue navi: «Keep your vessels readv to join me at a moments notice.» La mattina del 13 alle tre il Fulminante levò l’ancora, cinque ore più tardi si trovava fuori della baja; alle 10 comparve il duca di Puglia col suo seguito, accompagnato dall’Acton, dal Gravina, dall’Ascoli e altri che dovevano starglicome consiglieri a lato. Anco il re e la regina erano con esso lui, ma la sera stessa tornarono a terra. L’armata salpò verso il settentrione. Il vento era favorevolissimo da sperare che si potesse giungere a Napoli in meno di 48 ore (376).

Ma a mezza via tra Palermo e Napoli sopravvenne un inaspettato messaggio: il Belle-rofonte e il Potente portavano la già menzionata lettera dell'ammiraglio Keith, al quale appunto in quei giorni il conte Saint Vincent tornando in patria ammalato avea commesso il comando dell’armata nel mediterraneo. Il Nelson tenne consiglio di guerra, e fu risoluto di tornare immediatamente in Sicilia per deporre ivi le persone e le cose che si riferivano solamente alla spedizione di Napoli, e tenersi pronti a un incontro con Tarmata nemica. E così con gran maraviglia della corte e della popolazione di Palermo, la mattina del 14 il principe col seguito fu novamente sbarcato e condotto a terra; e la squadra del Nelson, cresciuta di due vascelli, 48 ore più tardi facea vela daccapo. L’ordine era di condursi all’altezza di Maritimo, dove s’era dato ritrovo a quante navi inglesi e alleate da guerra erano nelle vicinanze; da Malta furono richiamati l'Alessandro e il Goliat, e il Foote nel golfo di Napoli ricevè il comando di raggiungere senza ritardo la grande armata. Tal comando fu deciso il 18 in alto mare, ma la spedizione di esso dovè patire qualche indugio, poiché passarono i giorni e il Foote rimase dov’era senza aver sentore di ciò che il suo capo da lui richiedeva.

Le forze navali, che il Nelson comandava nelle acque a occidente di Sicilia, erano composte di 16 vascelli di linea, fra i quali 3 portoghesi, 1 brulotto, 1 brigantino, e 1 goletta (377).

***

Che cose sapevano i patriotti della capitale dei disegni che il 10 di giugno si facevano in Palermo contro di loro e di tutti gli apparecchi per effettuarli? Poco o nulla; dacché quand'anco avessero avuto ancora a quel tempo spie sull'isola e velieri a loro disposizione, il che non appar credibile per la somma vigilanza che vi teneva la polizia, tuttavia le notizie sarebbero sempre, secondo ogni verisimiglianza, venute troppo tardi. Del resto doveva abbastanza occupare i repubblicani quello che a poche miglia dalle porte della città soprastava. Non poteva più a lungo dubitarsi che un assalto contro Nola e Portici era imminente; onde s’industriarono frettolosamente di riparare da quel lato a tutto ciò che in tanto tempo avean trascurato di provvedere. Sulla riva sinistra del Sebeto, fiumiciattolo di breve corso, che passando sotto il ponte della Maddalena sbocca in mare a oriente della città, si eressero trincee, si collocarono 33 cannoni e 2 mortaj, lo stesso ponte della Maddalena e il corto fiumicello furono gagliardamente muniti, il forte Vigliena fuori di città provvisto di batterie da mura e da costa; formavano la guarnigione 150 uomini della legione calabrese, che erano scelti tra i più destri cacciatori (378). Le cannoniere del Caracciolo doveano tener libero il lato del mare, appoggiar le operazioni dei soldati di terra, molestare e occupare quanto era possibile il nemico tirando sulle sue colonne.

Nella città stessa l’aria si faceva ogni giorno più opprimente. I lazzaroni, con le schiere del loro re a poca distanza, era difficile tenerli. Non avevano dimenticato le giornate di gennajo, i terribili vuoti che quella battaglia avea fatti nelle loro file, l’arroganza dello straniero, la durezza della mano che s’era inesorabilmente aggravata su di essi; coloro che in quelle gloriose giornate gli avean condotti, voltatisi poi al potere dominante e diventatine docili strumenti, avean perduto ogni credito, ogni efficacia sul popolo, e doveano, in caso di rivoluzione, temer forse più che i patriotti per la loro vita. Anche fra i realisti della classe alta e mezzana cominciavano gli animi ad accendersi. Fra i patriotti si bisbigliava di nuove congiure, di segreti apparecchi per annientare tutti i nemici della monarchia, di croci rosse con le quali doveano esser segnate le porte dei più noti realisti a fine di salvarli dalla vendetta della soldatesca irrompente in città.

Il 10 di giugno la polizia repubblicana aveva in mano tutte le fila. Così almeno si diceva e così vollero i patriotti far credere al mondo; poiché di certo nonsi è mai saputo nulla. Erano a capo della congiura i due commercianti Gennaro e Gerardo Bacher, svizzeri di nascita, ma dimoranti a Napoli da molti anni, dove aveano acquistato ricchezze e gran numero di chenti ed amici. Nello stesso tempo abitava a Napoli Luigia Malinea, che dopo l’invasione francese vi si era trasferita dalla provincia con suo marito Andrea de' Monti Sanfelice, non perché fossero singolarmente teneri del nuovo ordine di cose, ma perché speravano di poter meglio riparare nella capitale ai dissesti del loro patrimonio. Ivi la conobbe uno dei Bacher e se ne invaghì; ella non ne disdegnò gli omaggi, ma in cuor suo era veramente inclinata verso un giovine di squisita bellezza chiamato Ferdinando Ferri (379). Quando poi — così si raccontava — i congiurati, che aveano relazioni con gli ufficiali della squadra inglese nel golfo, erano già in procinto di attuare il disegno loro, il Bacher procurò alla sua amante una specie di passaporto o salvacondotto, che doveva contro ogni violenza del partito vincitore assicurarla; ma la Luigia non indugiò a darne comunicazione al preferito del suo cuore, che dal canto suo ne informò il governo al cui servizio egli stava. Talché i fratelli Bacher e i complici loro furono presi e cacciati nelle segrete del castello Nuovo; mentre la Sanfelice riceveva ricompense ed onori, era lodata dalla Pimentai nel Monitore napoletano, e chiamata per decreto madre della patria (380).

IV

IL GIORNO DI S. ANTONIO DA PADOVA

Il disinganno della regina in veder mutare destinazione all’armata del Nelson fu tanto più penoso, quanto ella era stata più contenta di riuscire a spingere suo figlio all’impresa, quanto più avea con fiducia sperato ch'egli compiendola si cingesse la fronte d’alloro (381). E oramai la lieta occasione era per entrambi irremissibilmente perduta. Troppo oculata ell'era e troppo conosceva il carattere indipendente e risoluto di Fabrizio Ruffo da non essere persuasa che, dove le circostanze gli paressero favorevoli, ei senza verun rispetto per gli ordini sovrani procederebbe da sé al conseguimento del suo fine (382).

E cosi avvenne. Da tutti i lati giungevano notizie che consigliavano al Ruffo di non più indugiare altrimenti la sua impresa; e la sera dell’11 ne fu fatto il disegno, e preparati gli ordini per i diversi comandanti. A quell’ora Panedigrano dovea trovarsi con i suoi 1000 uomini a sud est del Vesuvio, lo Sciarpa con le schiere del Cilento a Sarno; entrambi furono avvisati di tenersi pronti ad assalire la colonna dello Schipani. Anche lo Tschudv, che il cardinale credeva occupato presso Castellamare, dovea muovere di là contro Torre dell’Annunziata e Torre del Greco. De’suoi proprj soldati il Ruffo compose una colonna scelta— 4 battaglioni di linea, 10 compagnie di cacciatori calabresi, 100 cavalleggieri sotto il tenente Gius, de' Luca e 4 pezzi di campagna — e sotto gli ordini del Della Schiava e del de' Filippis la mandò verso Resina, raccomandando loro che si mettessero d’accordo con Panedigrano e Sciarpa. In realtà non si trovavano allora — e non poteva egli saperlo — né lo Tschudy a Castellamare, né lo Sciarpa a Sarno. Per contrario il Cavallo marino del Foote, la Minerva e la Sirena del conte Thurn, con parecchie galee, cannoniere e bombarde, erano in vista ad appoggiare le operazioni. Il cardinale fissò l’azione pel 13 di giugno, giorno sacro a S. Antonio da Padova; all'alba tutti i corpi doveano cominciare l’assalto; primo intendimento — e ne fu avvertito anche il capitano Foote — era quello di sloggiare lo Schipani di fra le due Torri per aprire così la via ai rinforzi che seguivano (383)

Il 12 di giugno trascorse in combattimenti di dubbio esito alle falde del Vesuvio fra Panedigrano e una parte delle forze dello Schipani; il solo profitto della giornata pel Gualtieri fu l’acquisto di alcuni cannonieri, che dalle file de' repubblicani passarono a quelle de' regj. Il Thurn e il Foote non presero nessuna parte in quelle fazioni; erano occupati nel fare gli apparecchi per l’assalto del domani. Il comandante di Torre dell'Annunziata fu provveduto di palle, cartucce e polvere, poscia la piccola armata prese posto innanzi al forte del Granatello, su le cui mura splendevano i colori repubblicani e francesi. Il presidio, di circa 200 uomini, avea copia sovrabbondante di munizioni né badava a risparmiarle; manteneva senza posa un vivo fuoco contro le diverse schiere irregolari e male armate de' regj, che cercavano di fermarsi in Portici e specialmente nel palazzo reale. Quel giorno il Caracciolo tenne le sue navi dal combattimento lontane, sia che non si sentisse capace di misurarsi con la squadra anglo-sicula, sia che, al pari del suo avversario, volesse serbare per l’estremo bisogno tutte le sue forze.

La mattina del 13 di giugno mosse di buon’ora Fabrizio Ruffo col suo esercito principale da Nola verso Portici, e tal mossa fu subito nella capitale avvertita. Un colpo di cannone era il segnale convenuto per i patriotti. In un attimo l'interno di Napoli fu deserto; soltanto dalle squadre armate che si conducevano agl’indicati ritrovi, da pattuglie che esplorando a destra e a sinistra percorrevano le strade, era di quando in quando interrotto il pauroso silenzio che regnava in quella già cosi gaja è romorosa città. Era da aspettare che l’assalto dei regj venisse dal lato del Vesuvio, e a quel lato volsero i patriotti la miglior parte delle forze loro. Il generale Wirtz si mise a capo della schiera che dovea difendere il ponte della Maddalena, mentre il Basset con una piccola mano di soldati ebbe ordine di andare al Borgo di S. Antonio per attendervi il momento opportuno e assalire il fianco destro del Ruffo.

La partenza dei combattenti repubblicani fu segnalata da un atto di raffinata crudeltà ed arbitrario, onde furon vittime i fratelli Bacher, Natale d’Angelo e Ferdinando Larossa. Secondo alcuni, una frotta di gente, cui era impossibile tenere a freno irruppe nelle prigioni del castello Nuovo, ne trasse fuori quegl'infelici e sulla piazza del forte li fucilò; secondo altri, ciò accadde per ordine superiore a fine di spaventare e abbatter l’animo dei regj, e dall'altra parte empir di coraggio e di smania guerresca i repubblicani, come accade ai leoni all’odore del sangue.

Wirtz lasciò una riserva dal lato della città sulla riva destra del Sebeto, e col grosso delle sue forze avanzò sul ponte della Maddalena. Le sue spalle eran difese dalle batterie del castello del Carmine, mentre innanzi a lui il forte Vigliena, situato dirimpetto a Portici, offriva un ottimo punto d’appoggio, e le prossime acque erano dalle cannoniere del Caracciolo coperte. Se il Basset arrivava in tempo, e lo Schipani moveva da Torre del Greco su Portici, i regj si trovavano stretti da tutti i lati.

***

La linea del Ruffo era più estesa che mai; la testa toccava già Santo Jorio, mentre gli ultimi carri del treno sterminato non erano ancor partiti da Nola. Sin dalle prime ore del mattino gran moto agitava Portici e I dintorni. Il Foote e il Thurn notarono dalle loro navi quell’insolito viavai lungo tutta la costa Ano a Castellamare, e ne argomentarono che Tarmata cristiana fosse in marcia; ma di quanti vennero dalla terra ferma a chieder loro soccorso nessuno potò informarli del luogo dove il cardinale in persona si trovasse. Fra Portici, dove il Filippis prese stanza, e il forte del Granatello che ancora in possesso del patriotti dava appoggio allo Schipani, durava un vivo fuoco d artiglieria, al quale anche le navi cominciarono a mischiare il loro, mentre dalle vicine pendici torme di contadini armati scendevano producendo per istrada d’ogni maniera disordini; innanzi a una villa ch’essi presero d’assalto si vide conficcata in cima a un palo la testa d’un patriotta. In quel tempo una palla tirata dalla nave del Foote colpì la bandiera repubblicana sulle mura del Granatello, il cui presidio, uscitone in fretta, si ritrasse in Napoli. I regj vi entrarono, quanti vi trovaron viventi passarono a fil di spada, e fecero sventolare la bandiera reale. Il Filippis si recò a bordo del Cavallo marino, e tenne consiglio col Foote intorno all’assalto del forte Vigliena; secondo l’opinione del colonnello, essendo quel giorno destinato ad investire lo Schipani, dovea l’attacco del forte esser differito al giorno seguente. Frattanto il Filippis e il Della Schiava, inseguendo i patriotti che battevano in ritirata, condussero le loro schiere fino a San Giovanni Teduccio, dove fermatisi aprirono il fuoco contro il ponte della Maddalena. I repubblicani della città risposero, e il Caracciolo prese anch’esso parte alla battaglia, mentre la squadra anglo-sicula, trattenuta da venti contrarj, non poteva avvicinarsi tanto da molestare le navi nemiche.

Quando il cardinale col grosso dell’esercito arrivò a Santo Jorio, vivissimo era il fuoco fra S. Giovanni e il ponte della Maddalena. Francesco Ruffo e il Micheroux salirono sulla terrazza di un alto edificio per osservare col cannocchiale la stato delle cose. Il Ruffo ordinò di fare alto e distribuire i viveri: acqua e vino, pane e cacio, ed ai russi anco le tanto gradite cipolle. Ma poi prima ch’egli desse ordine di partire, — il suo disegno si ristringeva per quel giorno, come s’è detto, alle Torri del Greco e dell’Annunziata — un corpo di cacciatori calabresi, eccitati dal tonar de' cannoni, mosse a occidente verso il campo di battaglia, altri corpi ne seguirono l’esempio, e infine tutta l’armata cristiana fu in marcia verso San Giovanni, talché anche il Cardinal generale, volere o non volere, bisognò che volgesse da quel lato per prender parte alla fazione. Però ebbe ¡’accorgimento di ordinare al Della Schiava e al De Filippis di tornare addietro a fin di tenere d’occhio lo Schipani fra le due Torri; i carriaggi mandò sotto il comando di suo fratello Francesco alla volta di Portici. In tutti i villaggi traversati dall’armata cristiana sonavano le campane a festa; in S. Giovanni il parroco solennemente in processione col Santissimo Sacramento venne incontro al cardinale, che sceso da cavallo e inginocchiatosi ricevette, egli e i suoi soldati, la benedizione.

In Napoli salve d’artiglieria da Sant’Elmo e dal castello Nuovo annunziavano l’appressar del nemico. Il che doveva senza dùbbio servire anche di segnale allo Schipani, perché entrasse in battaglia; egli però non intese o non volle intender l’invito, e se ne stette tutta la giornata tranquillo. Il Ruffo fece marciare le sue schiere in ordine di battaglia, la cavalleria da' due lati, nel mezzo i 300 russi e gli 84= turchi in linea distesa perché fossero più facilmente visibili e più numerosi apparissero, sapendo egli quanto rispetto incutessero quelle forze straniere ai repubblicani. In città si raddoppiarono gli sforzi per contrastare all’attacco. Quando la testa dell’armata regia si mosse da S. Giovanni, si trovò bersagliata di palle d’ogni sorta dal forte Vigliena, dalle cannoniere del Caracciolo, da tutti i punti di qua e di là dal ponte della Maddalena, talmente che gli ufficiali russi fecero fare alto e si radunarono in consiglio di guerra. E daccapo tre compagnie di cacciatori calabresi sotto il luogotenente colonnello Rapini, senza averne ricevuto l’ordine avanzarono difilato contro il forte Vigliena, scacciarono a fucilate i difensori dalle mura, salendo l’uno sopra le spalle dell’altro scalarono i bastioni (384), e tanto spavento misero nei repubblicani che molti di questi saltando giù dalle mura più basse sull’arena della spiaggia si salvarono sulle navi più vicine. Già la bandiera tricolore era scomparsa, e in suo luogo sventolava l’insegna reale col segno della croce. Allora dovè apparir manifesto a quell’uomo senza carattere ch’era il Caracciolo, quanto la forza delle circostanze alla causa contrastasse ch’egli aveva all’ultimo momento abbracciata, e quanto il prossimo esercito cristiano potesse più dell'armata gallispana ch’era di là da venire; onde opportunamente pensando a mutar proposito, ordinò alla squadra di tornare addietro e nell’interno del porto la ricondusse. Le cannonate dal forte e dal mare eran restate; e dileguatosi il fumo, i repubblicani della città videro sgomenti che quello era in poter del nemico, questo dalle amiche navi sgombrato.

Il cardinale stava ancora a S. Giovanni a Teduccio, quando un ufficiale gli recò la lieta novella che il forte Vigliena era in mano de' suoi prodi calabresi. Senza indugio e’ si mise col suo stato maggiore alla testa di una schiera di russi per raggiungere il corpo che era andato innanzi verso il ponte della Maddalena. Come furono presso al forte conquistato, sentirono uno scoppio terribile; si seppe più tardi ch'era scoppiata una mina, e ne erano rimasti vittime tredici calabresi e il prode comandante Rapini (385).

Gli armati sul ponte della Maddalena all'avvicinarsi del pericolo non furon più potuti trattenere. Come un contagio e’attaccò loro la paura e la viltà; quanti si trovavano sulla sinistra riva del Sebeto s’accalcarono sul ponte per fuggire verso Napoli, e tanto scompiglio ne nacque fra le riserve sulla riva destra che anch’esse volsero le spalle. Il generale Wirtz accorse per ricondurre i suoi sul ponte. Già i russi e il colonnello Carbone eran di là sull’entrata di esso; un capitano del calabresi prende il fucile d’un soldato e lo scarica contro il Wirtz; questi mortalmente ferito cade, ed è portato al castello Nuovo. Allora ogni freno di ordine e disciplina scompare. I regj assaltano il ponte; i russi trasportano in cima di esso i loro cannoni, e tempestano di colpi le torme di repubblicani fuggenti, che verso l’entrata della città si affollano e pigiano. Tanto l’ansietà e lo sbigottimento s’impadronirono degli animi, che anche il presidio di Monte Olivete, così lontano dal campo di battaglia, lasciò il suo posto aprendo libera via allo scampo dei parenti del cardinale e di altri prigionieri tenuti in ostaggio, ai quali era stata già minacciata la fucilazione.

Il campo dei repubblicani da' due lati del Sebeto con tutti i cannoni, carriaggi, armi e munizioni era in potere dei regj. E anche morti e feriti erano in mano loro, giacenti in ispecie fitti presso la città, dove nella stretta della fuga erano la più parte caduti. Due giorni appresso ancora si portavano di là cadaveri al camposanto; fra gli altri, alcuni pongono quello dell’avvocato e scrittore Luigi Serio, già tanto festeggiato in corte; mentre altri sostengono che Luigi Serio scomparve, nò i suoi avanzi mortali più si ritrovarono.

La sera dopo la vittoria il cardinale collocò soltanto i turchi e parte dei cacciatori calabresi sulla destra riva del Sebeto; il ponte della Maddalena era occupato dai russi; il grosso dell’esercito regio rimase di qua dal ponte. Egli in persona stava fra i suoi in una timonella somministratagli dal duca di San Valentino, e di là impartiva i suoi ordini. A dormire quella notte non era da pensarvi neppure, poiché ogni momento poteva sopravvenire qualche cosa di nuovo.

***

I patriotti napoletani facean sempre assegnamento sull’armata gallispana che dovea portare un considerabile rinforzo di milizie da sbarco. È vero ch'essi non nascondevano alla popolazione il pericolo della patria; ma nello stesso tempo s’industriavano con ogni potere di alimentar la fiducia nella buona riuscita. Faceano girare per la città cavalieri con l’incarico di annunziare vittoria e gioja, di assicurare che i nemici erano stati respinti, di esortar tutti a prender le armi per compire la disfatta degli audaci invasori, contadini travestiti da russi e da turchi. Se non che il cerchio nel quale comandavano, andava restringendosi secondo che quello dei realisti s’allargava, i quali aveano già molteplici relazioni con i precursori dell’armata cristiana. Alcuni calabresi a cavallo, chi dalla spiaggia e chi da porta Capuana, s’erano arrischiati a entrare in città, e il loro grido «Viva il re» avea subito trovato favorevole riscontro e da una strada all’altra si propagava. Le finestre s’illuminavano, i terrazzi s’empivano di gente, tanti, che avean passato lunghi ed angosciosi giorni tappati in casa, si precipitavano per le strade, e versando lacrime di gioja levavano le mani al cielo, o, per significare con maggiore effusione i sentimenti dell’animo loro, si prostravano a baciare quella terra che i piedi degli stranieri stavano per liberare.

Le sconfitte schiere dei repubblicani eran fuggite in diverse direzioni, parecchie centinaja di essi verso il centro della città, dove parte nell’edificio degl’Incurabili presso il largo delle Pigne, parte nei locali anche più vasti della Conservazione de' Grani all'uscita di via Toledo si asserragliavano; altri nei castelli Nuovo e dell'Uovo e nel quartiere di Pizzofalcone presso quest’ultimo. Qualche centinajo di patriotti volevano ricoverarsi in castel Sant’Elmo; ma il Méjean proibì che si aprissero le porte, talché dovettero fermarsi a S. Martino sotto i cannoni della fortezza. Lo stesso governo provvisorio, che non si sentiva oramai più sicuro, trasferì la sua sede nel castello Nuovo, che per un andito sotterraneo col palazzo reale comunicava. Le sue condizioni divenivano ogni momento più gravi, poiché da per tutto lo scoraggiamento cresceva, e specialmente fra coloro che aveano appartenuto all’antico esercito accadevano deserzioni, il cui esempio poteva essere contagioso (386). Nei quartieri sgombrati dalle milizie repubblicane dominava la moltitudine, e cominciava a esercitare terribilmente le sue vendette su’francesi e sugli amici loro, trucidandoli per le strade, penetrando nelle loro case, saccheggiandole e bruciandole. Nel cuor della notte un calabrese accompagnato da due camerati, comparve dinanzi al palazzo del cardinale arcivescovo, volle che gli si consegnasse la bandiera donata a quello dal generale Championnet, e la portò come trofeo al quartier generale del Ruffo (387).

Nello stesso tempo, senza ordine del generale in capo e senza dargli avviso, avanzarono i calabresi di là dal ponte della Maddalena insieme co’ turchi e, occupate alcune case presso il castello del Carmine, questo al sonare della mezzanotte assaltarono e, sfondata la porta, in un momento se ne impadronirono; passarono i difensori a fìl di spada (388), salvo il comandante che essendo straniero e, com’egli diceva, amico della causa del re e personalmente noto al Ruffo, desiderò di esser condotto al quartier generale. Sul ponte della Maddalena e dall’altra parte di esso, per effetto del fuoco, di cui non si sapevano spiegar le cagioni, tutti erano in allarme e pronti al combattimento i soldati, in quella che si vide passare il comandante e si seppe a un tempo della occupazione dell’importante castello. Fabrizio Ruffo mise senza indugio in libertà il prigioniero (389).

Nel campo dei regj si attendeva a quegli ordinamenti che la conquista inaspettata di un nuovo e cosi rilevante punto d’appoggio rendeva necessarj, quando fu vista nel golfo una barca che uscita dalla Darsena procedeva alla volta di Portici. Senza por tempo in mezzo le si dette la caccia e con buon successo. La barca portava un ordine del ministro della guerra allo Schipani, che dalla Torre del Greco venisse innanzi, e presso il palazzo di Portici facesse segnali, perché, appena vedutili, anche dalla città si movesse all’attacco. Nel quartier generale non si cessava di prendere opportuni provvedimenti. L’ispettore dell’esercito, che comandava in Portici e Resina, ebbe da suo fratello l’incarico di raddoppiar la vigilanza dal lato delle due Torri, e prepararsi a un assalto da quella parte. Dal campo del ponte della Maddalena mosse il de' Sectis con un buon nerbo di soldati del Ruffo, con 125 russi comandati dal tenente Alexander e con due cannoni (390) verso Resina, dove anche Io Schiava e il Filippis doveano mettersi sotto i suoi ordini.

Sull’alba del 14, che era un venerdì, lo Schipani avea cominciato ad avanzare da Torre del Greco. Una parte della cavalleria regia sotto Don Luca gli venne incontro; ma colpito da una fucilata questi dovett’essere ricondotto a Portici, e i suoi soldati si volsero in disordinata fuga verso Resina, dove recarono confusione e scompiglio. Lo Schipani, ch’era in via d’entrar vincitore in Portici, si fermò a un tratto presso il casino della Favorita, incerto come dovesse interpretare i segnali che gli si andavano successivamente facendo da Sant’Elmo. Così guadagnò tempo il de' Sectis per raccogliere i suoi. Una colonna di cacciatori calabresi fu ordinata dietro Resina sulle pendici del Vesuvio, dove, nelle ville e nelle case coloniche fortificandosi, doveva aspettare l’assalto che i russi eran per muovere dalle strade contro la Favorita. In breve il fuoco fu vivo dalle due parti, e dalle due parti vi furon perdite. Allora il De Sectis scese contro il fianco destro dello Schipani; ma avendo il tenente Alexander spinto innanzi i suoi soldati alla bajonetta, l’esito della giornata fu deciso. I vecchi soldati tra le file dello Schipani, ai quali era stato fatto credere che non avessero da combattere altro che marmaglia e scomposta moltitudine, si videro incontro milizie regolari, e sentendole gridare: Viva il re l'abbassarono le armi. L’esempio loro fu seguito dalla guardia nazionale napoletana. Soltanto i calabresi, fedeli al capo, affrontarono alle falde del Vesuvio i cacciatori compatriotti loro. Ma quando dalla Torre dell’Annunziata Panedigrano con forze superiori si fece innanzi, trovandosi fra due fuochi una parte di essi cadde, un’altra si dette alla fuga. B fece il simile, da pochi seguaci accompagnato, lo Schipani, il quale, giunto alla spiaggia e corsi mille pericoli, fu poi riconosciuto, sebbene travestito, alcuni giorni più tardi in Sorrento, e preso e consegnato al tribunal criminale di Procida (391).

V

CAPITOLAZIONE

Fabrizio Ruffo aveva il 14 di giugno ricevuto per l’appunto la nuova della definitiva vittoria presso Torre del Greco, quando il corriere mandato da Palermo nella seconda metà di maggio, il quale, come abbiam detto di sopra, avea dovuto fare un gran giro per il capo di Spartimento e Leuca e oltre a ciò parecchie fermate durante il viaggio, giunse al ponte della Maddalena e gli consegnò la lettera reale, che gli ingiungeva d’indugiare l’assalto contro la città fino a che l’ammiraglio con la sua armata non fosse alle viste di Napoli. Lasciando stare che quest'ordine del 15 di maggio era stato di gran lunga precorso da quello del 9 o 10 di giugno, non poteva più esser questione di uniformarvisi dopo gli avvenimenti definitivi del giorno precedente e della mattina stessa, e anche a cagione degli orrori a cui la furia dei lazzaroni esponeva le migliori classi della cittadinanza (392). Per contrario il cardinale dovea desiderare il pronto arrivo del re e dei soccorsi inglesi, come quegli ch'era costretto a tenere possibilmente lontana da qualunque attinenza con la plebe di Napoli la maggior parte del suo esercito, cioè gl'irregolari, che pur troppo inclinavano ad aver comuni coi lazzaroni i gusti del saccheggio e della violenza, e d’altronde sopra una parte assai piccola dell’armata cristiana poteva fare assegnamento per mantenere l’ordine e la sicurezza in una città così estesa e popolata come Napoli. Era quindi non meno dall'umanità che da ragioni militari e politiche consigliato di assoggettare quanto più presto era possibile la capitale al potere legittimo. In questo tenore scrisse il cardinale al suo sovrano, e lo stesso giorno pel medesimo corriere mandò la lettera a Palermo (393).

Il giorno 15 di giugno fu destinato alla conquista della città ed all’investimento dei castelli ancora occupati dai repubblicani. A mezzogiorno di Napoli due punti soli erano tuttora in mano dei patrioti; e il capitano Foote, al quale il Thurn somministrò per questo fine tre galee siciliane, si offerì di sottometterli, e di andar poi a Sorrento per imbarcarvi i siciliani comandati dallo Tschudy e condurli a Chiaja, è nello stesso tempo portare cannoni per assediare più efficacemente i castelli.

Sin dalla mattina i diversi corpi dell’esercito cristiano mossero verso il centro della città. Panedigrano doveva occupare la Madonna dei sette dolori, Santa Lucia del Monte e S. Nicola Tolentino, punti che i cannoni di Sant’Elmo non potevano offendere. Il de' Filippis doveva avanzarsi per Monte Calvario e la Concordia sino a Santa Caterina da Siena per riunirsi a Panedigrano, occupare l’imboccatura del Ritiro di Mondragone e stendersi fino al ponte di Chiaja. Il capitano Baillle, appoggiato dal Carbone, ebbe ordine d impadronirsi della via di Toledo, e procedere verso il castello Nuovo, che intanto il de' Sectis dovea tener d’occhio. In breve il fuoco fu vivo da per tutto; dalle mura dei castelli tonavano le artiglierie; dalle vigne di S. Martino i patriotti tempestavano di colpi d’ogni. maniera quelle contigue parti della città, dove supponevano le schiere di Panedigrano. Per la seconda volta in un anno, anzi in uno spazio di neppure cinque mesi, alla bella e gaja città toccò sopportare tutti gli spaventi e gli orrori, tutte le calamità e le rovine di una guerra selvaggia! In molti punti la lotta fu accanita. Dallo spedale degl'Incurabili, dove un certo numero di studenti s’era chiuso, le colonne de' regj furono così aspramente combattute, che dovettero procedere all'assalto; e penetrate dentro, quante persone occorsero al loro primo furore tante ne immolarono. Quelli che non poterono fuggire furono presi prigionieri, specialmente gl’infermi, la cui debolezza di mente fu creduta dai vincitori finzione. Uno dei poveri pazzi, che non sapendo quel che si facesse schiaffeggiò un ufficiale, fu da questo con una sciabolata steso al suolo (394). Alcuni balconi nella via di Toledo erano occupati da gente armata, talvolta anche provvista di piccoli cannoni, talché le colonne del Baillie e del Carbone erano offese da tutte le parti, persino del piombo fuso fu versato su di loro; fra il de' Filippis intanto e i patriotti di Pizzofalcone e del palazzo nazionale con vicendevole e sempre crescente furore si combatteva.

Mentre così ferveva nella capitale la mischia, giunse nei pressi di quella un drappello di prigionieri della colonna Schipani. Era fra essi il giovine Guglielmo Pepe, che avea servito nel battaglione degli ufficiali, e nell’incontro co’ mille di Panedigrano era stato ferito e poi preso. A lui ed a' suoi compagni tristi momenti soprastavano. Non altrimenti che se fossero state bestie salvati che, erano argomento della curiosità universale; alle donne che dai contorni accorrevano, fra i dileggi e le beffe da quei mercenarj li mostrarono a dito. Quanto i prigionieri avevano in dosso era lor tolto; non riuscendo a levare abbastanza presto gli stivali da' piedi del Pepe, uno di quei selvaggi propose che per prenderli più facilmente le gambe si tagliassero. Legati a due a due, scamiciati e scalzi, dovettero quegl’infelici marciare verso Napoli. Via facendo s’imbatterono in altri simili drappelli che faceano compassione a vedere, uomini e donne in miserevole stato; il Pepe ne osservò molti affatto nudi, fra i clamori e gli scherni di quelle sozze torme in cui potere si trovavano. Intanto i patriotti non credevano fossero condotti a Napoli, che si figuravano ancora in possesso de' loro aderenti; giudicavano passeggiero il trionfo dei «servi del tiranno.» Era loro materia di sodisfazione e di orgoglio il chiamarsi vicendevolmente «cittadini;» pieni e gonfj delle vittorie francesi nell'Italia superiore, delle quali il Monitore napoletano fino agli ultimi giorni avea dato ragguaglio, erano persuasi che la Gallispana, il cui arrivo non poteva tardare, avrebbe in poco d’ora messo termine all’audacia degli avversarj. Intanto, arrivati al ponte della Maddalena, erano provvisoriamente collocati in un locale terreno dirimpetto ai granili. Ivi trovarono una folla di gente di diversa qualità; plebe e cospicui cittadini, ecclesiastici e frati, dotti ed artisti, ufficiali d’ogni grado. Alcuni erano nudi — così racconta il Pepe — altri ancora nei travestimenti che avean presi a fin di sfuggire alla furia del popolo; fra questi ultimi riconobbe un giovane di Catanzaro, Gaetano Rodinò (395), vestito da prete, ma lacero e in lacrimevole stato. Vide anche il dotto frate olivetano P. Cavallo, professore all'università, il reverendo Jerocades, il marchese Borio, il professore di giurisprudenza abate Marino Guarano, il frate scalzo e predicatore repubblicano P. Belloni ed altri. Di tanto in tanto si sentivano di fuori scoppj di fucilate; quei rinchiusi credevano che toccassero a colleghi presi di mezzo a loro, e che simil destino a tutti soprastasse, talché il padre Cavallo, da essi pregatone, impartì loro la suprema benedizione. In fatti di ora in ora venti o trenta eran presi e condotti via, ma non per essere fucilati, sibbene trasferiti nei prossimi Granili; però nel breve tragitto a più d’uno toccava lasciarci la vita, poiché il popolo furente lo strappava dalle file, e con mazze e altr’ arme lo finiva. Quelli che ne uscivano salvi rimanevano ammucchiati sino a nuov'ordine in quei locali ampj, nudi ed inospiti, che fra gli avanzi, di grani e d’ogni maniera immondizie formicolavano d’insetti. La stanza, nella quale fu messo il Pepe, era piena di circa trecento persone, che come lui sulla nuda terra dormivano. E nello stesso tempo soffrivano la fame e la sete, non perché di proposito si volesse a tali tormenti assoggettarli, ma perché al gran numero di prigioni, che da tutte le parti venivano, non si poteva adeguatamente provvedere (396).

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In questo mentre il capitano Foote aveva disimpegnato fincarico suo per quel giorno assai più facilmente che non s’era aspettato. Il suo solo apparire innanzi ai forti di Castellamare e di Revigliano era bastato per indurre i deboli presidj repubblicani a sottomettersi. Il Foote «per quel sentimento di umanità da cui ogni vero soldato deve farsi guidare» concesse ai francesi libera uscita con gli onori militari; ai napoletani eh eran fra loro, fu dato a scegliere o di rimanere in patria o di andar fuorivia; nel secondo caso potevano mettersi sotto la protezione della bandiera inglese per lasciarsi menare in Francia; nel primo caso era assicurata la protezione della legge alla persona ed ai beni loro mobili ed immobili contro ogni offesa ed eccesso (397). Furono nello stesso giorno presi gli opportuni provvedimenti per imbarcare sulle navi, che stavano all'ancora nella rada di Castellammare, i francesi e i napoletani che volevano andar via e gli averi che desideravano portar seco, per condurli, appena le circostanze lo permettessero, a Tolone o a Marsiglia. Il giorno appresso, 16 di giugno, prese il Foote in nome di Ferdinando IV formale possesso del forte.

Nel medesimo tempo Fabrizio Ruffo fece portare dalla strada del Piliero, che corre lungo la marina, e dalla piazza di Porto cannoni contro il castello Nuovo. Dal Molo facean fuoco i russi. Nella strada Medina presso S. Giuseppe si faceano apparecchi per collocare un’altra batteria. Contro il castello dell’Uovo era messa all'estremità della Villa reale nna batteria, ch'eran deputati a servire i cacciatori calabresi sotto Papasodaro e il reggimento Tschudy recentemente arrivato. Mentre si facevano questi ordinamenti guerreschi, il comandante in capo tentava la via degli accordi. Il cavaliere Micheroux si recò per commissione del Ruffo dal comandante del castello Nuovo, Oronzio Massa, a proporgli onorevoli condizioni simili a quelle che il capitano Foote avea fatte ai due altri forti del golfo: ai francesi l’uscita libera con gli onori militari e il trasporto delle persone, dei parenti e dei beni loro in Francia a spesa del re Ferdinando; ai nativi libera scelta fra il rimanere o ilriunirsi ai francesi portando seco gli averi loro, l'una e l’altra cosa però a loro spese. Oronzio Massa, leccese di nascita, e ufficiale di artiglieria, già stato al servizio del re, non credette di dovere accogliere le proposte del cavaliere Micheroux; egli, del pari che tutti gli altri della sua parte, facevano più che mai assegnamento sull’arrivo della Gallispana. Se non che appunto per questo gli parve opportuno una sospensione di ostilità, e perciò chiese due giorni di riflessione. Ma nel campo de' regj le cose andavano per l’appunto all'opposto; al cardinale importava moltissimo di menare prontamente a termine le pratiche; egli concesse al Massa soltanto due ore, scorse le quali aprirebbe il fuoco. Anche col presidio del castello dell'Uovo il Ruffo appiccò trattato; se non che gli fu prontamente risposto, che né francesi né patriotti intendevano sottomettersi a un uomo vestito d’abiti ecclesiastici.

Questa objezione però non poteva reggere per rispetto al capitano Foote che in quel momento entrava nel golfo. Egli aveva lasciato a Castellamare la Sirena, sotto la cui protezione dovevano anche venir via le cannoniere e bombarde che si trovavano in quella rada, e col Cavallo marino e col Perseo facea vela alla volta di Posillipo, quando seppe degli apparecchi che si facevano nella spiaggia per attaccare i castelli. Mandò un ufficiale al ponte della Maddalena, il quale tornò dicendo da parte del cardinale, che il Foote dovesse spiegare dirimpetto al castello dell’Uovo la bandiera inglese, perché cosi forse il presidio inclinerebbe a intavolare le trattative. Intanto il termine di due ore accordato al Massa era trascorso; ed ecco sulle mura del castello Nuovo apparire una bandiera bianca, e un parlamentario presentarsi al quartier generale de' regj, e proporre in nome del suo generale, che le ostilità fossero dall’una e dall’altra parte sospese, fino a che il co' mandante del castello potesse mettersi d’accordo col comandante francese di Sant’Elmo, da' cui ordini egli e il suo presidio dipendevano; e perciò domandava un salvacondotto per andare da un forte all'altro. A tali condizioni il Ruffo fu anche meno disposto a consentire, e fece aprire il fuoco contro al castello Nuovo, mentre il Foote si disponeva ad attaccare quello dell'Uovo.

Tuttavia sì fatti tentativi di terminare pacificamente la lotta non rimasero interamente inefficaci. Se anche nei giorni precedenti non eran mancati ufficiali che domandavano di essere accolti nel quartier generale del Ruffo, simili deserzioni dalla causa repubblicana diventarono poi sempre più frequenti, tanto che il cardinale si vide costretto a fissare a tal proposito delle norme. Erano per la più parte ufficiali dell'antico esercito regio, i quali chiedevano di servire sotto le bandiere del re come volontarj. Né c’era da ridir nulla in contrario, se la condotta da loro tenuta nel frattempo non meritava biasimo; ma se essi erano stati al servizio e allo stipendio della repubblica, il Ruffo non solamente li respingeva, ma dava ordini severi che dovessero una volta per sempre spogliar la divisa a cui erano stati infedeli (398).

I lavori nella villa di Chiaja durarono tutto il 16. Verso sera lo Tschudy condusse il suo reggimento nella grotta di Posillipo, lasciando soltanto Papasodaro co’ cacciatori presso la batteria non ancora finita. La qual cosa fu notata in Sant’Elmo, e dette occasione a ordire un colpo di mano. Mentre i patriotti aveano ordine di fare un vivo fuoco da S. Martino per tenere attento Panedigrano e di mandare un drappello con alto suono di tamburi nel quartiere dell’Infrascata, una forte colonna di francesi mosse chetamente pel Petraro, per S. Maria Apparente e pel vico del Vasto verso la piazza dello stesso nome. Ivi una parte rimase di guardia; il grosso della colonna marciò verso il largo della Vittoria, mentre nello stesso tempo, a un segnale dato da Sant’Elmo, il presidio del castello dell’Uovo faceva una sortita, e dalla lingua di terra che unisce il forte al continente piegava nella via del Chiatamone. A un tratto i soldati di Papasodaro si videro assaliti dalle due parti, e presi da timor panico cercarono lo scampo nella fuga; circa trenta caddero sotto i colpi degli assalitori, i quali poi inchiodarono i cannoni, saccheggiarono i luoghi vicini, devastarono compiutamente il caffè di Carlo Busto. Il proprietario con la moglie si salvò rifugiandosi nella cantina.

Il lieto successo dei repubblicani non ebbe però lunga durata. Poiché in quel mentre il De Filippis, che stava presso S. Maria degli Angeli, s’era chetamente, passando per l’Egiziaca, appressato al quartiere di Pizzofalcone, dove gli riuscì di sorprendere un posto con due cannoni. La qual cosa mise tanto spavento nel presidio, che tutti si precipitarono verso il Chiatamone e di lì sulla lingua di terra che mena al castello dell'Uovo. Il Filippis senza por tempo in mezzo occupò Pizzofalcone, e tagliò in tal maniera ogni comunicazione del castello con la terra ferma e con la Darsena.

Il 17 sul far del giorno cominciò di nuovo il fuoco da tutti i punti occupati dai regj e dai repubblicani, e dalla parte dei primi assai più vivo e gagliardo di quello del giorno innanzi. Contro il castello Nuovo operava già da S. Giuseppe la terza batteria; in breve le mura del castello mostravano danni rilevanti; i colpi d’una batteria russa presso il Molo misero il fuoco a un edifìcio attiguo alla porta, ed essendo vicino il magazzino delle polveri, regnò nell’interno del castello la massima confusione finché non riuscì di spengere il fuoco. Ma quando poi il cardinale si apparecchiò all’assalto e per dare maggiormente nell’occhio fece portare una gran quantità di scale, cadde del tutto l’animo dei difensori, fu alzata la bandiera bianca, e il Micheroux ebbe dal Ruffo l’incarico di entrare (n trattato col Méjean. Il vescovo di Avellino, l'arcivescovo De Dillon di Salerno, il maresciallo Micheroux ed altri si trovavano sempre come ostaggi nelle mani dei patriota; e però il rappresentante del Ruffo inclinava a fare le più larghe concessioni a fine di salvare da più trista sorte suo cugino. Ma il Méjean accampò una così impudente pretesa di danaro, che il cardinale troncò le pratiche, e intimò la resa del castello nel termine di 24 ore.

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Il cardinale Fabrizio Ruffo si trovava in difficili e pericolose condizioni. Nei diversi partiti che avea dovuto fin allora prendere secondo le diverse vicende dell’ardita sua impresa, chiaramente gli erano sempre apparsi e il fine a cui doveva mirare e i mezzi e le vie che a quel fine potevano condurre. Ma adesso stavano altrimenti le cose. Il fine di certo non poteva essere altro che quello di domare compiutamente la ribellione e sottomettere la capitale all’autorità del legittimo sovrano; ma in che maniera? sotto qual forma? in quanto tempo?

Nel mandato generale conferitogli dal re gli era ingiunto di non dare passi importanti senza prima chiedere l’approvazione reale, salvo che le circostanze non lo impedissero. Non cadeva forse il caso presente in tale eccezione? Fra la domanda e la risposta da Palermo non potean correre meno di cinque o sei giorni; ma poteva anco accadere che ne corresse il doppio; e in questo mentre più di una buona occasione poteva andar perduta. La sera del 17 di giugno il capitano Foote, che con la sua nave incrociava presso Posillipo (399), ebbe per mezzo del conte Thurn e del governatore di Procida la notizia che l’armata del suo ammiraglio aveva pel momento cambiato di destinazione, e mentre stava già in via per Napoli, s’era a un tratto fermata ed avea volto a occidente. Che altro poteva argomentarsene, se non che al Nelson fossero giunte novelle dell’armata nemica, le quali gli consigliassero di provvedere alla sicurezza della Sicilia, ovvero di andare incontro al nemico? Non potevano forse i ribelli essere meglio informati intorno a ciò? Non era forse pervenuta loro notizia del prossimo arrivo dell’armata gallispana? La ostinata resistenza dei castelli faceva credere qualche cosa di simile!... Pel capitano Foote la questione della gallispana era di molto maggior momento che pel cardinale. Il Ruffo poteva, all'apparire d’una minacciosa forza navale nel golfo, ritirarsi nei suoi monti, fra' suoi fedeli calabresi, dove l’avversario non lo poteva raggiungere; il Foote e il Thurn per contrario, con le loro poche navi e di grado inferiore, correvano rischio di essere, per la superiorità delle forze nemiche, o tagliati fuori o distrutti o catturati, e tanto maggiore diveniva il rischio se la grande armata, a cui appartenevano, si fosse trovata in cattive condizioni e le fossero toccati dei danni (400).

Se in simile congiuntura era prescritto il non lasciar passare il momento che poteva condurre a una definitiva conclusione, fino a che punto conveniva di mostrarsi pieghevole verso il soccombente nemico? Il capitano Foote aveva offerto assai favorevoli condizioni ai difensori di Revigliano e di Castellamare, e il simile avea fatto Antonio Micheroux con quelli del castello Nuovo e castel dell’Uovo. Colà era accaduta la resa alla prima intimazione; e qui si era voluto e sperato di ottenere la medesima cosa. Se non che pareva oramai che nei castelli il dispetto prevalesse sul pentimento; non eran più. traviati, ma ribelli che nel loro errore perfidiavano. Bisognava egli usare tuttavia indulgenza verso di loro, se alla fine si umiliassero? Senza dubbio il re e la regina avevano significato al cardinale la speranza, che potesse riuscire di ricondurre all’obbedienza la città senza spargimento di sangue, senza danni e rovine, senza vicendevole infuriare delle fazioni. Ma gli era stato anche detto e le mille volte ripetuto di non usar clemenza a coloro che fossero per durare nella resistenza; che coloro, i quali non meritassero per gravi colpe una pena severa, dovessero uscir dal regno per sempre; agli altri dovessero essere sequestrati i beni.

C’era un altro particolar motivo che consigliava il Ruffo a condurre a qualunque costo le cose a termine, n popolo napoletano — così dice il Cuoco — è per la sua indole buono; ma caldo come il clima nel quale vive, e facile alle commozioni, rassomiglia nell'irrompere delle sue passioni al Vesuvio. E tale egli apparve nei giorni che seguirono alla vittoria sul ponte della Maddalena, quando i lazzaroni credettero alla fine di potere sfogar la vendetta che sin dalle terribili giornate di gennajo ribolliva loro nell’animo. Per porre un termine alle arbitrarie e infinite carcerazioni il cardinale avea proibito ai direttori delle prigioni di accoglier gente senza suo ordine. Ma questo provvedimento ebbe effetto diverso da quello che il Ruffo desiderava; poiché il popolo, che non voleva esser privato della sua preda, dava, innanzi alla porta delle carceri, addosso ai nemici e gli ammazzava, dopo averli talvolta assoggettati ai più atroci tormenti. Nei luoghi dove non erano soldati accaddero fatti terribili. La plebe era instancabile nel braccare i supposti giacobini, e trovatili, esercitava su loro le più orribili vendette. Avevano i lazzaroni innanzi tutto preso di mira i magazzini municipali delle granaglie, dove i patriotti scacciati dal ponte della Maddalena s’erano in grandissimo numero rifugiati; e volevano appiccarvi il fuoco, il che avrebbe avuto conseguenze spaventevoli. In alcuni punti avean rizzato roghi nei quali non poche vittime del loro furore tuttor viventi gettarono; si racconta che vi siano stati mostri che si vantarono di aver gustato carne umana arrostita. A una cantonata, dove un friggitore teneva la sua caldaja piena d’olio bollente, un uomo voleva comprar qualche cosa da mangiare; riconosciuto per un giacobino o creduto tale, forse perché portava i capelli alla foggia de' repubblicani, fu preso dalla folla e messo con la testa nell'olio bollente e tenutovi dentro finché morì; e, come vuol far credere un contemporaneo, seguitarono a mangiare di ciò che si trovava nella orribil caldaja (401). Si era sparsa la voce avere i repubblicani giurato che ucciderebbero tutti i lazzaroni; e i fanciulli solamente, al contrario di ciò che avvenne a Betlemme, conserverebbero in vita a fin di tirarli su senza religione; dunque la moltitudine, penetrando nelle case, se s’imbatteva in qualche cosa che paresse confermare tale sciocca dicerìa, una fune, una corda e simili, senza pietà tutti uccideva e straziava. Si disse poi che i giacobini portavano segnato a fuoco sulla spalla l’albero della libertà; e allora si cominciò a spogliare in mezzo di strada le persone meglio vestite, così uomini come donne, per ricercare se avessero quella impronta traditrice. E tanto gusto prese il popolo a tale opera, che strappando dal letto le donne dell’alta classe, le facea correre, appena coperte d’un lenzuolo, per le strade della città, e nude affatto, come la dea della ragione a Parigi, le metteva alla berlina (402). Era cosa da stringere il cuore a vedere un drappello di prigionieri, di ogni sesso ed età, strappati loro gli abiti, alcuni con la camicia brutta di sangue, procedere nella lor trista via continuamente minacciati di essere uccisi, impiccati, messi in pezzi, e assaltati con pietre, e coperti di mota, e fatti segno a tali maltrattamenti, che più d’uno gravemente ferito o morto cadeva in mezzo di strada. I miseri patriotti ricorrevano a espedienti d’ogni maniera per isfuggire a' lor persecutori. Sul capo pelato, segno del giacobinismo (403), mettevano capelli artificiali, e si travestivano da abati e da eremiti, con la chierica e la corona. Ma questo mezzo divenne in breve inefficace; anzi ne seguì che alla fine i veri preti e frati, per non essere creduti giacobini travestiti, non si arrischiavano a uscire; e il popolo strappava i falsi capelli, e appiccatili In segno di trionfo a un fanale o in cima a un bastone, sugl’infelici che li portavano sfogava la sua ira feroce (404). Alcuni perseguitati indossarono vesti femminili; altri si rimpiattarono nelle cloache, donde spinti dalla fame ad uscire eran presi da coloro che stavano in agguato e che li toglievano per sempre dalla necessità di cercar nutrimento.

Fabrizio Ruffo fece quanto stava in suo potere per porre un termine a tanti orrori (405). A fin di evitare che accadesse peggio lasciò chiudere nei granili reali coloro ch’erano stati dalla plebe cacciati verso il ponte della Maddalena, promettendo loro, se non erano stati presi con le armi alla mano, che alla prima favorevole occasione li rimetterebbe in libertà. Ma per ciò che nell’interno della città succedeva, egli aveva le mani legate. Le sue milizie regolari erano occupate in combattere da per tutto, e mandare le sue irregolari nei luoghi dove la plebe aveva il sopravvento era, secondo la sua convinzione pur troppo fondata, un rimedio peggiore del male. La sola cosa che potò fare fu di pubblicare un proclama, nel quale «sotto le più gravi pene da estendersi anche alla pena di morte» proibiva qualunque violenza contro coloro non eran presi con le armi alla mano o in atto di resistere e di recare ingiuria, quando pure avessero fatto cose simili per l'addietro. Parimente ingiungeva che, se un parlamentario apparisse, tutti gli armati dovessero fargli largo e astenersi dall'offenderlo: «con tale contegno» egli diceva «mostrerete il vostro amore al sovrano e promoverete il bene della patria meglio che facendo co’ vostri eccessi di questo bel paese un deserto» (406). Simili esortazioni diede il vicario generale alla Giunta di Stato, che egli pose sotto la presidenza del marchese Gregorio Bisogni, caporuota di Santa Chiara; vi teneva ufficio di fiscale il consigliere Matteo La Fragola; ne erano giudici Bernardo Navarro, Ant. della Rossa, Angelo di Fiore; segretario con voto Carlo Pedicini, giudice alla Vicaria. Da tutti gli atti del Ruffo appariva manifesto il proposito di evitare lo spargimento del sangue. E'non volle che agli assassini, che avevano avuto incarico d’ucciderlo, fosse fatto processo, e profittò della prima occasione per rilasciarli liberi (407). Non fece però il simile verso tutti i ribelli. I più dei colpevoli meritavano punizione, massimamente quando non si mostravano pentiti e desiderosi di correggersi, come quel repubblicano che fino all’ultimo momento rifiutò i conforti della religione, e stando sotto le forche non parve darsi premura d’altro che di sapere «se si vedeva apparire la Gallispana» (408).

Già il quartier generale del Ruffo presso il ponte della Maddalena era il punto, al quale accorrevano tutti quelli che desideravano il ripristinamento dell'ordine. Mentre ancora ferveva la mischia nelle strade, si trovavano colà presso di lui molti notevoli personaggi dell’antico governo, fra i quali i luogotenenti generali duca della Salandra e principe della Ripa, a cui il Ruffb commise il riordinamento dell’esercito reale, e il marchese Saverio Simonetti, col quale conferì intorno la formazione d’un ministero provvisorio. Il Simonetti vi doveva reggere la grazia e giustizia e i culti, Giuseppe Zurlo le finanze, Nicola Vivenzio la casa reale, Francesco Ruffo la guerra e la marina; a prestar servizio presso la sua propria persona il cardinale elesse Felice Amati e Gius. Clari.

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Il capitano Foote, appena ricevuto dal Thurn e dal de' Curtís l’avviso che il Nelson avea lasciato le acque di Maritimo, mandò il capitano Oswald del Perseo a Fabrizio Ruffo per fargli sapere, che gli sembrava cosa necessaria ed urgente l’impossessarsi dei castelli «quando anche si dovessero a tal fine concedere condizioni vantaggiose.» E poiché tal era pure pe’già detti motivi l’opinione del cardinale, fu concordato che il Foote dovesse la mattina seguente fare un nuovo tentativo per indurre i comandanti dei castelli Nuovo e dell’Uovo a spontaneamente sgombrarli, promettendo ad essi e al presidio tutte quelle concessioni che fossero compatibili con le circostanze.

Con questo intendimento la mattina del 18 di giugno si recò il capitano Oswald da prima al castello dell'Uovo, al cui comandante portò una lettera del Foote. L’effetto non fu quale si sperava. L’ufficiale nemico, eh e era un francese, non volle rispondere per iscritto, e si contentò di dire in tono declamatorio all'Oswald: «Noi vogliamo la repubblica una ed indivisibile e per essa morremo! Questa ò la nostra risposta; e voi, cittadino, badate a ritirarvi il più presto che potete» (409). Riferita dall’Oswald sì fatta risposta al Foote, questi non giudicò opportuno l’esporsi anche nel castello Nuovo a simile successo, e deliberò di procedere d’accordo col cardinale a risoluto provvedimento. Secondo i consigli del Ruffo si doveva non solamente fare ogni sforzo per prendere i due castelli occupati per la massima parte dai patriotti, ma muovere nello stesso tempo anche all’assalto di Sant’Elmo. A questo fine il Ruffo chiese agl'inglesi di aggiungere a' due ch'egli possedeva due altri mortaj e alcuni cannoni di grosso calibro con le relative munizioni; il Foote promise di procurarglieli da Castellamare, e in fatti anche prima di sera mantenne la promessa. Prima di tutto doveva essere attaccato il castello dell’Uovo, poiché ivi, come l’esperienza aveva fin allora dimostrato, era la sede della maggior resistenza a qualunque componimento. Il Ruffo dispose 200 soldati stranieri e 500 dei suoi irregolari lungo Chiaja; questi ultimi, poco inclinati a tale specie di combattimento, furono distribuiti per. le case, acciò che non fossero scopertamente esposti al fuoco nemico. La città doveva per ordine del generale essere sul far della notte in tutti i quartieri illuminata. Il capitano Oswald si collocò col Perseo innanzi al castello, e cominciò il bombardamento che continuò tutta la notte. Una sortita, che fecero i francesi da Sant'Elmo, fu dalle milizie del Ruffo respinta con gravi perdite de' nemici (410).

Il castello Nuovo aveva in quel tempo cessata ogni resistenza. Nella notte del 18 al 19 di giugno, comparvero a quel che sembra due parlamentarj presso il Micheroux, e gli chiesero licenza e scorta sicura per condursi a Sant'Elmo. Il cavaliere in tal congiuntura rappresentò due parti, una come rappresentante del re, un’altra come plenipotenziario dei russi, ai quali sin da Corfù s’era accompagnato e prestava i suoi servigi tutte le volte che c’era qualche cosa da fare in via diplomatica. E così potette in un certo modo condurre con indipendenza quel trattato, e non solo accettò senza indugiol’offerta del castello Nuovo, ma ordinò pure a tutti i corpi da Chiaja al Carmine di cessare immediatamente le ostilità, e di tutto ciò dette poi avviso al quartier generale. Il Ruffo ricevette la comunicazione il mattino del 19, e a prima giunta ne fu alquanto maravigliato e dispiacente, come quegli che temeva non avessero i patriotti a valersi dell’intervallo per mettere in assetto le nuove opere di difesa e prepararsi a una efficace resistenza (411).

Anche meno contento di tali novità fu i) Foote, tanto più che gli si chiese di sospendere le ostilità. Egli domandò, come alleato, di esser messo a cognizione di tutto ciò che accadeva, e avendolo il cardinale pregato che si rivolgesse al Micheroux, gli mandò dicendo: ch'egli non conosceva il cavalier Micheroux, ma conosceva soltanto il plenipotenziario di S. M. Siciliana, e questo era il cardinale; e che avrebbe continuato a bombardare il castello dell'Uovo, che non aveva alzato la bandiera bianca. La condotta dal Ruffo fu anche determinata da un’altra circostanza. La sospensione avvenuta nelle operazioni guerresche e la più facile comunicazione col di fuori per effetto di quella, furono adoperate da parecchi, che ne’ due castelli eran rinchiusi, sì francesi come italiani, per guadagnare il largo. Saputo questo, il cardinale fece collocare i suoi ufficiali intorno ai castelli, affinché accogliessero i fuggenti e promettessero loro perdono ed oblio. Del qual provvedimento ebbe a lodarsi; poiché quanta più gente usciva dai castelli, tanto meno i rimanenti erano capaci di resistere. E questa circostanza egli fece notare al Foote, il quale, avendo sempre innanzi agli occhi l’arrivo dell’armata gallispana, giudicava che convenisse, attaccando senza indugio, «non lasciare al nemico il tempo di respirare.» In fatti ricominciò il Foote a tirare sul castello dell’Uovo; il che senza dubbio contribuì molto a portare più presto a maturità il frutto delle precedenti trattative.

Né passò molto tempo prima che il Micheroux, così presso il cardinale come presso il Foote, apparisse pienamente giustificato. Non solamente fu manifesto che la offerta del castello Nuovo non era stato un inganno, ma anche nel castello dell’Uovo accadeva un movimento di simil qualità. La novella dell'aspro rifiuto incontratovi dal messaggiero di pace del capitano inglese, sparsasi fra il presidio, vi eccitò tale alterazione di animi, che al comandante francese dovette esserne sostituito un altro indigeno, per nome l’Aurora, il quale non indugiò a far alzare la bandiera bianca. Né anche allora però il Foote volle smettere il fuoco, non tanto per vincere la resistenza dei ribelli quanto per sollecitare la conclusione delle pratiche (412). Il cardinale, il quale di fronte al forte seguiva la politica di mettere innanzi i russi come se tutto dipendesse da loro (413), desiderava non meno di lui la sollecita conclusione del trattato; ed era come lui per gli stessi motivi persuaso che si dovessero fare ai ribelli assai maggiori concessioni che non intendesse la corte di Palermo. Si trovavano entrambi in condizioni sommamente penose, e n’era cagione l’essere affatto al bujo di ciò che avveniva fuorivia.

Anche fra i patriotti non si sapeva in che termini si fosse; sull’arrivo della Gallispana già sorgevano gravi dubbj. Tuttavia non volevano alcuni sentir parlare di accordi col cardinale. Quando nel direttorio venne in discussione l’affare del castello Nuovo, sembra che il Manthoné proponesse di raccogliere i presidj dei tre castelli, di uscir fuori nottetempo, di liberare ed armare tutti i patriotti che si trovavano prigionieri nei granili municipali e reali, e con essi muovere verso Capua e Gaeta, e afforzati da quei presidj e dagli altri di Roma, Civitavecchia e altre città fermarsi sul territorio romano e aspettarvi occasioni più favorevoli (414). Sembra però pure che il Manthoné rimanesse solo a sostenere tal proposta; i più parvero desiderosi di uscire, salvando la pelle, dal gineprajo in cui a' erano cacciati. La prima cosa, dopo che si fu d’accordo sulla pace, chiesero una tregua di quattro giorni per assodare e formulare i patti della capitolazione. Il Foote era contrario, finché il Ruffo gli fece mutar proposito rappresentandogli che si guadagnava con quell’indugio il tempo per mettere in assetto le batterie e in ordine di difesa le cannoniere, per il caso che all’armata inglese toccasse qualche disgrazia, o che una porzione dell’armata nemica apparisse. Alla parte avversa però il cardinale tenne un altro linguaggio; subordinò la concessione della tregua al patto che fossero prima sgombrati e fatti occupare alle sue milizie alcuni punti di gran rilievo per dominare le fortezze e i dintorni loro; il Fondo, la Posta, S. Ferdinando, Santo Spirito, S. Luigi di Palazzo; e nel caso che la resa non seguisse, non si potessero riprendere le ostilità senza darne avviso ventiquattr’ore prima.

L’ufficiale mandato dal Foote al ponte della Maddalena, Fabrizio Ruffo lo rimandò al Micheroux pregandolo che sollecitasse di fissare il proposto ritrovo. Il Méjean non si mostrò troppo difficile in punti che riguardavano i due castelli non occupati da' suoi francesi; talché l’accordo potette esser compiuto nel corso del 19. I termini ne erano nella parte principale i seguenti: i castelli Nuovo e dell’Uovo saranno consegnati ai regj con tutto il materiale di guerra, le munizioni ed i viveri; i presidj di entrambi usciranno con tutti gli onori militari, a bandiere spiegate, a suono di tamburi e con micce accese a' due cannoni che sarà lor concesso di portar via, e solamente sulla spiaggia deporranno le armi; il presidio e tutti coloro che si trovano nei castelli e che vogliano accompagnarsi ad esso, avranno facoltà di recarsi in Francia; i presidj stessi occuperanno i due forti, fino a che le navi saran pronte a far vela per Tolone; le persone e gli averi di quanti si trovano nelle due fortezze saranno custoditi e difesi; l’arcivescovo di Salerno, il maresciallo Micheroux, il vescovo di Avellino saran dati in custodia al comandante di Sant’Elmo, ed ivi resteranno come statichi fino a che l’imbarco per andare a Tolone non sarà seguito; tutti gli altri ostaggi e prigionieri che si trovano nei castelli, saranno senza indugio messi in libertà (415).

La capitolazione fu prontamente firmata dal cardinale 0 dal comandante dei russi, e la sera stessa alle 10 mandata al Foote. Il capitano incrociava con la sua nave e col Perseo nelle acque di Posilipo, la bombarda Bulldog era nel golfo; la corvetta Mutine si trovava al lato occidentale d’Ischia; il Thurn con la piccola armata siciliana presso Procida. Al Foote parve il trattato molto favorevole ai repubblicani; tuttavia per non intralciare con difficoltà la faccenda, vi appose il suo nome; d’altronde, secondo il capitano inglese, il cardinale, onorato della fiducia e dei pieni poteri del re, doveva sapere meglio di ogni altro quel che faceva e perché lo facesse.

Il Ruffo, mandando le due proposte di capitolazione al comandante inglese, lo avea nello stesso tempo fatto pregare che volesse prendere provvedimenti per il viaggio dei prigionieri a Tolone: «il re mio signore ne pagherà le spese; nè, essendo piena la rada di navi, potranno mancar modi per tal trasporto.» Anche a questo desiderio del Ruffo condiscese prestissimo il Foote: «egli apparecchierebbe una delle sue navi da guerra in maniera che potesse, appena ve ne fosse il bisogno, far vela nel termine di due ore;» quanto a navi da trasporto, non c’era quasi nessun legno a tre alberi, di quelli che si chiamavano polacche; il Foote dovette rivolgersi al conte Thurn, e nello stesso tempo il Ruffo scrisse a Sorrento perché senza indugio lo sovvenissero.

Il 21 mandò il cardinale al capitano Foote il documento messo in debita forma e firmato da Oronzio Massa e l’Aurora, comandanti de' due forti, e per parte degli alleati da lui e dal Micheroux; il Foote a mezzanotte 2122 vi appose il suo nome, dopo di che anche il Baillie in nome dei russi e Achmed in quello dei turchi lo sottoscrissero (416). Il 22 a Sant’Elmo il Méjean, dopo aver tenuto un consiglio di guerra, vi mise la sua approvazione; e non mancava oramai più altro che recare il trattato ad effetto. Il Foote era pronto; la corvetta Bulldog, capitano Drummond, con le vele spiegate aspettava un cenno per prendere il suo ufficio di scorta. Se non che le polacche non erano ancora in quantità sufficiente; onde rimbarco dei capitolanti fu soggetto a ritardo. In quel mentre il conte Thurn fece salpare uno de' suoi trasporti da guerra alla volta di Palermo con una lettera del cardinale al ministro Acton, nella quale brevemente lo ragguagliava di ciò che dal 17 era avvenuto. Probabilmente il capitano ebbe nello stesso tempo una lettera che il comandante inglese scriveva al suo ammiraglio.

Una copia del documento di capitolazione, munito dell'approvazione del Méjean, fu mandata dal cardinale al comandante inglese; essa doveva, con l’allegata lettera del Ruffo, e con quella del Foote all’ammiraglio Nelson, essere spedita a Palermo. «Io ho sottoscritto il trattato,» dichiarava il Foote al suo ammiraglio, «a fin che, se la fortuna della guerra ci abbandonasse o se apparisse l'armata nemica, non si potesse dire essere stato il mio rifiuto cagione della sventura» (417). Il Foote era sul punto di fare la spedizione, quando la mattina del 24 per tempo gli giunse l’ordine, mandatogli il 18 dall'alto mare, di andare con tutte le sue navi a raggiunger l’armata. L’ordine era già di sei giorni innanzi; in quel mentre potevano esser accaduti assai novità presso l’armata dell’ammiraglio; in ogni modo per rispetto alla capitale napoletana le cose erano arrivate a un punto tale, che il Foote non poteva risolversi a lasciare in tronco tutti i vantaggi acquistati o che sperava di acquistare. Deliberò quindi di rimanere col Perseo, e mettere a disposizione dell’ammiraglio la corvetta Mutine.

***

Ma che era intanto avvenuto dell’uomo il quale, preso poco tempo innanzi il più alto grado nella marina partenopea, avea dato tanto da fare al comandante dell'armata anglo-sicula? Il Caracciolo già da un pezzo non avei più voglia di fare il prode repubblicano. Dopo la caduta di Vigliena, quand’egli avea fatto rifugiare le sue cannoniere nell'interno del porto, non si era per qualche tempo lasciato né vedere né sentire; poi era comparso nel castello Nuovo che è attiguo alla Darsena, in maniera da far credere che volesse prender parte ai vantaggi della capitolazione. Se non che prima che questa acquistasse forza di legge, ei lasciò chetamente il suo asilo, e cercò nell’interno del paese un nascondiglio (418).

VI

DALLE ACQUE DI MARITIMO A QUELLE DI NAPOLI

Mentre il Nelson, dopo avere di nuovo sbarcato il principe ereditario e il suo seguito, si accingeva a far vela verso occidente, la regina, che non aveva potuto vedere il suo famoso ed ammirato eroe né parlargli, per mezzo di lady Hamilton gli mandò dicendo: che facea voti ardentissimi perché il cielo in tutte le imprese lo accompagnasse; che ella disegnava compilare un giornale di tutti gli avvenimenti, di tutti i ragguagli che le fossero per giungere; che per mezzo degli Hamilton glielo spedirebbe; e che desiderava ch’egli nella sua saggezza lo esaminasse e per la stessa via le facesse pervenir la risposta (419).

Ciò che più la impensieriva era la sorte di Napoli, dimenticando a quel che pare che il Ruffo era stato ripetutamente avvisato di non far nulla prima che il principe ereditario o gl'inglesi arrivassero. Daccapo ella s’immaginava che la conquista della capitale non fosse nel tutto insieme una cosa difficile. «Io desidero vivissimamente che alla città sia risparmiato lo spargimento di sangue e il saccheggio,» ella aveva il 14 scritto al cardinale. «Né posso figurarmi del resto che i napoletani debbano offrir resistenza, poiché le classi traditrici della popolazione non hanno coraggio, e le inferiori, che ne han mostrato alquanto, sono per noi. Quello che mi dà pensiero è solamente Sant’Elmo. Bisognerà che si metta il comandante fra due; vada via, prendendo seco una cinquantina, tutt’al più un centinajo di giacobini, ma lasciando tutto il materiale di guerra in buono stato. Se non vuol consentire, allora non si darà quartiere nò a lui né a’ suoi; i russi e i turchi avanti, poi una mano dei nostri, e via a prendere un fossato dopo l’altro, ricompensando chi va innanzi il primo e si conduce con lode, io sono convinta che in mezz’ora tutto è finito.» Aggiungeva poi che con Sant’Elmo e col suo comandante francese si poteva entrare in trattative, ma non già co’ sudditi traditori e ribelli. «Il re nella sua clemenza li perdonerà, diminuirà le loro pene; ma non vorrà mai trattar con loro, che del resto son ridotti agli estremi e, volendo ma non potendo far più del male, rassomigliano al topo nella trappola» (420). Né bisognava contentarsi di rimetter l’ordine in Napoli, ma estender l’opera alla occupazione e alla liberazione del territorio romano. Era questa per la regina anche una questione d’onore. Ella pensava che se riuscisse con gli ardenti calabresi di pigliar l’aire, e correre a Roma ed occuparla, ed assicurare a Napoli come confini i monti, allora l’onta della campagna dello scorso autunno sarebbe cancellata, allora sarebbe data prova che al tradimento solo e non già al difetto di coraggio e di valore era da attribuir la colpa del grande infortunio. «Intanto le nostre idee debbono esser libere da qualunque proposito di conquista o di danni verso i legittimi principi di quel paese; ma egualmente dobbiam desiderare che altri stati e soprattutto i nostri potenti vicini non si stanzino nel territorio romano. In una parola, desidererei che avessimo anche l’onore di liberare lo stato romano e di aumentare la sua e la nostra gloria» (421).

Il 17 di giugno, tornando da uno dei numerosi ritiri di signore, che soleva con le principesse di tanto in tanto visitare, ebbe Carolina il primo ragguaglio degli avvenimenti del giorno di S. Antonio; il 18 e il 19 seguirono altre informazioni. Ella fu piena di gioja e di vivissima gratitudine verso il cardinale e le valorose milizie di lui. Tuttavia l’indugio la irrita. La città non ò ancora presa tutta, i forti sono ancora in mano dei ribelli: «Io non penso,» ella dice, «io non sogno, io non ho innanzi agli occhi se non la compiuta occupazione di Napoli e dei castelli col minore danno possibile.» Ciò che cresce l’alterazione dell’animo suo è il non aver nessuna nuova dell’armata nemica. «Nelson è via per cercarla.» E pure sarebbe più necessaria che mai la sua comparsa nelle acque di Napoli. «Non ostante il perdono promesso,» ella scriveva alla sua amica, «i bricconi si sono disperatamente battuti fino all’ultimo; alcuni son fuggiti, su altri sfoga il popolo la sua vendetta. Quello che ci bisogna è un altro 1° agosto, un nuovo Abukir del nostro bravo generale» (422). Nello stesso tempo ella ò sempre ferma, circa il modo di condursi co’ suoi sudditi, alla massima già significata il 14: che co’ francesi si potesse trattare ma non co’ ribelli; che tuttavia una certa quantità di giacobini potesse accompagnarsi ai francesi e con essi partire. «Ad uno solamente non dovrebbe riuscire di scappare e di riparare in Francia; e questi è l’indegno Caracciolo, poiché conoscendo questo ingratissimo fra gli uomini tutti i porti, tutti i più riposti seni di Napoli e di Sicilia, potrebbe darci grandi molestie, e sarebbe per la sicurezza del re grandemente da temere» (423).

La corrispondenza co’ parenti di Vienna era soggetta a continue e lunghe interruzioni. Settimane e anche mesi passavano senza che un corriere, una lettera, il minimo messaggio arrivasse; poi giungevano a un tratto una mezza dozzina di corrieri con un monte di lettere. «Io guardo sempre» scriveva sul mezzo del maggio alla sua imperial figliuola, «verso la parte di Messina, se si vedesse una nave che mi portasse nuove della tua salute, del tuo stato.» I lamenti di Carolina su queste irregolarità, su questi intervalli senza fine si rinnovano senza posa, e non di rado con un’amarezza come se ne avessero colpa coloro le cui notizie ella così ardentemente desiderava: «Da tutte le parti abbiam nuove di quando in quando; a Costantinopoli potrebbe andare e tornare céleremente un messo; soltanto di voi non sappiamo nulla; è una cosa crudele!» Negli ultimi tempi per altro eran venute di Vienna lettere e doppiamente gradite. La notizia della nascita di un nipotino, e delle buone condizioni della figliuola, la cui salute l’aveva per molti anni tenuta sospesa fra il timore e la speranza, e dall’altro lato la notizia d’un seguito di vittorie che gli eserciti dell'imperial genero avean riportate, eran tali da confortare alquanto i suoi spiriti depressi. Però dalle Alpi a Napoli c’era che ire, e l’imperator Francesco, pur troppo ella e gli amici suoi s’erano oramai persuasi, non potea pel momento portare direttamente soccorso; bisognava ringraziare Iddio, che per i felici successi delle armi alleate sul campo di battaglia del settentrione, il nemico straniero era anche su quello del mezzogiorno così notevolmente indebolito, che non occorreva di combattere se non presidj relativamente di pochissima importanza. Tuttavia contro di questi non bastavano a lottare le schiere poco esperte dei calabresi, come a Palermo fermamente credevano e come il cardinale non esitava di confessare. Il Ruffo poteva con quelli prendere le piazze difese da volontarj e da guardie nazionali; ma a soldati regolari bisognava soldati regolari contrapporre, e Sant’Elmo, Capua, Gaeta non potevano essere se non con assedio regolare sforzati. Solo i russi e gl'inglesi potevano supplire a tal difetto. Ma di quelli, invece del corpo sotto gli ordini del generale Hermann che si aspettava, eran comparse solamente un pajo di compagnie sul campo di battaglia, il che non faceva più tornare il conto, e occorreva tener diligentemente nascosta la cosa alle popolazioni che ne sarebbero furibonde e ne leverebbero alto romore; e quanto agl’inglesi, il Nelson, già sul punto di partire alla volta di Napoli, aveva in sull’ultimo momento ricevuta un’altra destinazione!

Dagli altri stati amici, e propriamente da quelli della penisola italiana, non c’era da aspettare che portassero ma piuttosto che chiedessero soccorsi. La colonia toscana scacciata da Firenze viveva tuttora tranquilla e ritirata in Palermo, di dove, compatita dalla regina, ma veduta di mal occhio dal re, si industriava invano di ottener l’entrata in Austria. Carlo Emanuele di Sardegna, relegato sulla sua isola, poteva tutt'al più giovare mettendo a disposizione del cugino di Sicilia qualche centinajo di cavalli. Lo rappresentava in Palermo il suo grande scudiere Marchese di Balbo, che gli era affezionatissimo e ne godeva tutta la fiducia, ed aveva incarico di perorarne la causa presso le corti di Vienna, di Berlino e di Pietroburgo.

***

Il Nelson, dalle acque di Maritimo, considerava altresì come suo ufficio il proteggere la Sicilia, e tenere in iscacco Napoli che si trovava tuttora in mano del nemico; poiché dei grandi e definitivi successi del Ruffo ei non sapeva ancor nulla. «Io aspetto con ansia,» scriveva all’ammiraglio Keith, «tali rinforzi che mi mettano in grado di cercare l’armata nemica, e, trovatala, non indugiare un momento ad appiccar battaglia; parendomi, con l’attraversar la strada ai francesi, difendere nel miglior modo possibile i possessi di S. M. Siciliana» (424). Egli aspettava continuamente il Foote, e tanto più ardentemente lo desiderava in quanto che non aveva una sola fregata a sua disposizione. Il 18 nelle ore pomeridiane i vascelli di linea Golia e Alessandro salparono da Malta per raggiunger l’armata; e Lord Orazio si sarebbe forse così deciso a eseguire il suo proposito contro l’armata di Tolone e Brest, se non gli fosse il giorno 20 pervenuta una lettera del Keith che lo invitava a lasciar Maritimo e far vela verso Napoli, dappoiché questo era il punto al quale il nemico co’ suoi più prossimi disegni mirava. Niente poteva più di tale incarico giungergli a seconda de' suoi desiderj. Lo stesso giorno partì col Fulminante, e il 21 comparve nella rada di Palermo, dove nessuno s’immaginava di vederlo così presto.

Fattosi portare a terra, vide il re e la regina, e a quel che sembra assisté pure a un consiglio frettolosamente convocato. Le LL. MM. lo pregarono di far vela senza indugio alla volta di Napoli «per condurre ivi gli affari della M. Sua a un felice successo» (425). Dopo aver passato tre ore nella metropoli siciliana, l’ammiraglio s’imbarcò di nuovo. Lo accompagnarono questa volta gli Hamilton; il che fu manifestamente consigliato anche dalla considerazione, che nelle acque di Napoli fossero probabilmente per occorrere pratiche verbali e scritte, per le quali dovesse all’ammiraglio riuscire non poco opportuna la presenza di quei suoi compatriotti, a cui la lingua e i costumi italiani erano da tanto tempo familiari. Nel corso della giornata del 20 giunsero in Palermo nuove del Ruffo del 17 e del De Curtis da Procida del 18 di giugno. Intorno a ciò l'Acton scriveva a Sir William, che il cardinale doveva trovarsi in non buone condizioni, e che in tal congiuntura S. M. si avvaleva delle amichevoli profferte di Lord Nelson e lo pregava di recarsi a Napoli per appoggiare con l’armata la conquista della città. Nei circoli più competenti a Palermo si aveva la convinzione, che non ci fosse pel momento da temer nulla dalle navi nemiche; ma si sapeva però del pari che i combattenti del Ponte della Maddalena erano impensieriti della imminente catastrofe, e non senza ragione si dubitava che, per uscire dalle pericolose condizioni in cui s’eran messi, potessero indursi a fare ai francesi ed ai patriotti concessioni, che alla corte e al governo reale non sembrasser compatibili con la dignità della corona (426). Solo il vincitore di Abukir poteva a ciò riparare!

Il 21 di giugno la miglior parte dell’armata giungendo dalle acque di Marítimo fu in vista di Palermo, e la parola d’ordine fu tosto: «Al golfo di Napoli!»

***

Quale incarico assunse il Nelson partendo per Napoli? E quali facoltà gli furono concesse per eseguirlo? L’incarico era: riconquistar Napoli al legittimo sovrano; le facoltà non erano limitate da nessuna condizione; nel dare tutti quei passi che potevan condurre al conseguimento di quel fine, egli poteva riguardarsi rivestito di un’autorità incondizionata. Tutte le espressioni, verbali e scritte, della corte erano per tal rispetto tanto generiche, dimostravano tanto sconfinata fiducia nell’eroe inglese, che appariva indubbiamente manifesto essere state in lui riposte tutte le speranze, commesso nelle sue mani ogni potere.

Quanto a lui, e’ non era di certo uomo da aver della sua missione un concetto meno adeguato, da non valersi della piena autorità sua quanto le gravi circostanze potessero richiedere. A’ suoi sottoposti imperiosamente comandava, né dagli altri, portassero anche il bastone di maresciallo o il cappello cardinalizio, era punto disposto a lasciarsi attraversare la strada. Al che s’aggiungeva anche un’altra cosa. Oltre al disprezzo malamente celato verso le persone estranee al mare e le imprese loro, egli sentiva una singolare animosità contro «il prete borioso,» il Ruffo, che osava parlare delle forze navali inglesi e di chi le comandava come se non servissero se non ad ajutar lui. Pareva che il Nelson credesse che i buoni successi fin allora ottenuti contro i ribelli avrebbero potuto ottenerli da sé soli i suoi impareggiabili ufficiali e marinari, o che almeno a tutt'altri fossero da attribuirsi piuttosto che a quel buono a nulla di cardinale, «that worthless fellow» (427). D’accordo co’ sentimenti del suo capo il Foote annuuziava il successo del 13 scrivendo, che il forte Vigliena e il ponte della Maddalena erano stati presi dal cardinale «o più propriamente dai russi.» Il Nelson e il capitano del Cavallo marino chiusero a bello studio gli occhi per non vedere, che all’arrivo dei russi il Ruffo aveva già conseguito per la massima parte il suo scopo, e che dall'altra parte senza di lui gl’inglesi non avrebbero ottenuto successi durevoli. Nessuno è che neghi grandissima stima al coraggio, al valore dei marinari inglesi anche nelle imprese terrestri; ma quando nel maggio presero con audace assalto Castellamare, Salerno e Torre del Greco, dovettero pure, appunto perché il Ruffo con le sue squadre non era ancora arrivato, sgombrare l’una dopo l’altra quelle forti piazze maritime con la stessa sollecitudine con cui le avevano occupate.

I sentimenti del Nelson verso i nemici a cui andava incontro erano, come tutti gli altri nel caldo e irritabile animo suo, pieni di passioni e di ardore. All’orgoglio nazionale britannico, all’odio succhiato col latte materno contro i francesi, si accoppiava in lui un culto profondamente radicato verso la legittimità, verso la monarchia, verso la maestà regale, e per conseguenza un’amara avversione contro le sommosse e le ribellioni (428). Dopo lo scoppio della rivoluzione francese tali sentimenti avean preso ancora più forza; gli facevano grandissimo orrore e ribrezzo quegli eccessi, quelle orge repubblicane, quel popolo, già famoso per la cortesia e la grazia delle sue maniere, divenuto così rozzo e selvaggio. I francesi oramai gli apparivan simili a bande di ladri e di assassini, di spergiuri e di sleali, di uomini senza onore né religione: «a set of infidel robbers and murderers.» Egli e la più parte de' suoi ufficiali anelavano che si offrisse loro il destro di prendere, seguendo gl’impulsi del cuore, vendetta di quegli scellerati francesi e il loro caporione Bonaparte, «that horde of thieves with that arch-thief Bonaparte,» «that man of blood, that despoiler of the weak.» Di non minore avversione e di maggior disprezzo erano argomento i ribelli napoletani, a cui soltanto con ¡scherno e con ira si dava l’usurpato titolo di patriotti. Con siffatta genia bisognava andare per le spicce; rammentiamo l’esortazione del Nelson al Troubridge: «fatemi sapere che un pajo di teste son cadute, e sarà questo un refrigerio al mio cuore;» e dall’altra parte il rincrescimento del comodoro per non poter mandare la testa di un ribelle giustiziato, temendo che nel viaggio a cagione del caldo andasse a male e desse cattivo odore. Già l'11 di maggio aveva lo stesso Troubridge scritto al suo superiore in modo certa mente concorde al sentimento di lui: «Io spero che S. M. nel momento che avrà riconquistato la sua città darà un grande esempio a questi tristi nobili.»

Tale era lo stato delle cose e la disposizione degli animi, quando la sera del 23 di giugno una nave napoletana da guerra in rotta verso Palermo incontrò per mare l’armata del Nelson, e questi fu informato di ciò che in quel mentre era accaduto dentro e fuori di Napoli, cioè in primo luogo le capitolazioni dei forti Nuovo e dell'Uovo, e poi per sommi capi le concessioni fatte dagli alleati ai vinti. Il brigantino Mutine, che lo raggiunse la mattina del 24 sull’entrata del golfo di Napoli, gli portò la conferma di tali fatti (429). Si erano verificati i timori della corte palermitana; e il giudizio che ne faceva il Nelson si compendiava in una parola: «infamous!»

VII

OCCUPAZIONE DEI CASTELLI NUOVO E DELL’UOVO

Dalla spiaggia di Napoli fino dall’alba del 24 di giugno fu scorta una grossa squadra all'altezza di Capri. I patriotti nei castelli non sapevano figurarsi che fosse altro se non che la Gallispana desiderata così ardentemente e da più settimane aspettata; e già cominciavano a pentirsi di aver condisceso a trattare con gli strumenti del tiranno (430). Anche gli alleati dal canto loro erano inquieti, ma per un altro verso. Mentre il Foote ordinava di levar le ancore per esser pronti a tutti i casi, comparve il capitano Harward del San Leon con l’annunzio che l’armata del Nelson si avvicinava. Le illusioni dei ribelli furon pure di corta durata; poche ore dopo essi sapevano essere britanniche e portoghesi le bandiere delle navi che si approssimavano. E tre ore dopo mezzogiorno l’ammiraglio inglese con la sua superba armata — 18 vascelli, 2 brulotti — giunse in vista della metropoli napoletana.

Di su il ponte del Fulminante il Nelson avea scorto alla prima occhiata le bandiere bianche che sventolavano cosi sulle mura dei due castelli come sulle navi degli alleati e sulla fregata del Foote; su S. Elmo facea bella mostra di sé la tricolore francese; i colori soltanto di S. M. siciliana non apparivano in nessun posto. L’ammiraglio fece subito segnalare al comandante del Cavallo marino: che facesse tirar giù la bandiera di pace, poiché l’armistizio non era riconosciuto. Il trattato corso fra le due parti aveva perso agli occhi suoi ogni forza ed efficacia per lo stesso effetto del suo arrivo; poiché l'accordo, secondo lui, conteneva la tacita riserva, che fino all’esecuzione di esso le cose dovessero durare reciprocamente nel medesimo stato. «O forse i francesi, — così egli diceva — se in luogo mio fossero qui ora arrivati, sarebbero voluti rimanere spettatori indifferenti di cose, deliberate a lor danno prima del loro arrivo, ma fortunatamente non ancora recate in atto?» (431)

Fatta fermare l’armata a circa mezzo miglio di mare dalla punta del Molo, ordinò che fossero ancorate le navi in stretto ordine di battaglia e che tutte le cannoniere e bombarde disponibili venissero da Procida per assicurargli i due fianchi. Alle quattro di sera il Foote era sulla nave ammiraglia, e addossava, a quel che sembra, tutta la colpa dei fatti accaduti al cardinale, che, rivestito della fiducia e dei pieni poteri del re, era meglio di tutti in obbligo di sapere fino a che punto dovesse mostrarsi verso i ribelli condiscendente. Con le quali parole il Foote certamente cercava di piacere al suo capo. E il Nelson fin dal principio si industriò di trar fuori il suo immediato sottoposto da quella disgustosa faccenda; non voleva aver che fare se non col Ruffo (432). Dimenticava per altro o a bello studio trasandava di osservare, che il suo interlocutore in un altro luogo operando da sé aveva messo quelle stesse condizioni, che nel trattato coi castelli Nuovo e dell'Uovo il Ruffo lo avrebbe ora persuaso ad accettare; poiché, come già sappiamo, fin dal 15 i forti di Castellamare e dell’isola di Ravigliano erano invitati ad arrendersi agli stessi patti che, quattro giorni più tardi, condussero alla resa i due castelli napoletani sotto gli auspicj del Ruffo.

Era intenzione del Nelson intimare ai castelli di Napoli, compreso S. Elmo, la resa nel termine di due ore; in tal modo soltanto poteva esser concesso ai francesi di tornar liberamente in patria; quanto ai ribelli e traditori nessun potere al mondo avea diritto d’interporsi fra essi e il loro legittimo sovrano; non avevano a far altro che inchinarsi senza indugio innanzi alla grazia e clemenza di lui; e perciò non poteva esser permesso ai francesi di fare in una capitolazione nò anche menzione dei nativi (433). Infatti il Nelson scrisse due dichiarazioni di questo tenore, una pel comandante di S. Elmo, e un’altra per i giacobini napoletani, che si trovavano negli altri due castelli. Non sembra però che gli scritti arrivassero direttamente al recapito (434); poiché per procedere secondo questi principj, l’ammiraglio inglese avea bisogno della cooperazione, e però innanzi tutto del consenso, del real vicario generale, per quanto gli dovesse tornare molesto il mettersi a pari di quel «prete borioso.»

Per desiderio del Nelson scrisse Sir William Hamilton alcune righe a Fabrizio Ruffo per dirgli: che l’ammiraglio aveva avuto dal capitano Foote una copia della capitolazione del 19; ch’egli la disapprovava del tutto; che era fermamente risoluto di non rimanere, con le cospicue forze a cui aveva l’onore di comandare, semplice spettatore inoperoso; che aveva ordinato ai capitani Troubridge del Culloden e Ball dell’Alessandro di riunire le forze loro a quelle del cardinale; e sperava che questi fosse per essere d'accordo con lui (435). Una lancia portò al quartier generale presso il porto della Maddalena questa lettera, che fu cagione di non poca perplessità, il cardinale, pronto come sempre a prendere una risoluzione, si fece dalla stessa lancia condurre sulla nave ammiraglia. L’accoglienza che vi ebbe fu tale da non lasciar nulla da desiderare: una salva di 13 colpi lo salutò, il Nelson venne giù a riceverlo, e il simile fecero gli Hamilton, che servirono poi nell’abboccamento da interpetri. Il Ruffo impiegò tutta la sua eloquenza esponendo le cagioni che l’aveano indotto a concludere il trattato, e chiedendone con fermezza la leale osservanza; dopo l’ultima lettera del re da un momento all’altro si aspettava l’arrivo della Gallispana, e prima che arrivasse bisognava a tutti i costi impossessarsi dei punti principali di Napoli; del resto tutto era stato fatto d’accordo col capitano Foote e con la sua cooperazione, come lo provava il nome di lui sotto il testo del trattato. Non senza una certa irritazione l’Hamilton esclamò: «i monarchi non sogliono venire a patti con i sudditi ribelli;» e tenne sodo al principio che «l’accordo, sebbene formalmente concluso, non era stato ancora recato ad effetto, e però avea bisogno, per divenir valido, dell’approvazione di S. Maestà.» Se non che il cardinale assai vinceva d’eloquenza il suo avversario, onde l’Hamilton alla fine cadde spossato sopra una seggiola, e sua moglie dové proseguire la conversazione per lui. Ma non ostante la sua facondia e l’incanto della sua voce, né anch’ella riuscì ad avere efficacia sul risoluto calabrese. Il Nelson non fece tutto il tempo che andar su e giù silenzioso; ma in fine, fermatosi a un tratto, disse che vedea bene come con tal contesa di parole non si approdava a nulla, e che si sarebbe industriato d’intendersi col cardinale per via di lettera. Così ebbe termine dopo due ore il colloquio, senza che Fabrizio Ruffo con tutta la sua arte oratoria riuscisse ad avanzare di un sol passo. Ma neppure gli avversarj ebbero a y lodarsi del successo. Con quel chiacchierone d’italiano — cosi ebbe a riferire il Nelson al suo superiore — egli si trovava a mal partito: «an Admiral is no match with a Cardinal;» e al Duckworth scrisse: «Al cardinale più che l’onore del suo re sta a cuore il conservare una casa in Napoli; e si ostina a chiamare patriotti i ribelli — what a prostitution of the word!» (436)

Appena tornato a terra il Ruffo non indugiò ad informare di ciò ch’era accaduto i sottoscrittori e mallevadori della capitolazione, eccettuato il capitano Foote. Il russo e il turco si mostrarono ugualmente sdegnati, parendo loro che sarebbe una biasimevole offesa alla pubblica lealtà il mancare a un trattato concluso in buona fede e con tutte le forme legali. Si rivolsero per iscritto all’ammiraglio inglese dichiarando che «erano risoluti ad eseguire puntualmente il trattato,» e chiunque s’attentasse ad impedirlo dovrebbe risponderne innanzi a Dio e al mondo. Il Micheroux, al quale per via del suo parente trattenuto in S. Elmo importava grandemente che la cosa precedesse in regola, si offerì di portare egli stesso la lettera a bordo del Fulminante, e di fare anche verbalmente al Nelson le più vive rappresentazioni (437). Il cardinale fece anche di più. Fece sapere al general Massa nel castello Nuovo quello ch’era accaduto, e gli diè libertà di uscir con i suoi a fin di cercare per terra, non potendo per mare a cagione degl’inglesi, una via di scampo; come avean fatto pochi giorni prima i patriotti di S. Martino. Ma il Massa respinse la proposta; rispose ch’egli teneva fermo all’accordo, e aspettava che gli altri facessero il simigliante; del resto non era da credere che egli ed i suoi fossero a tal segno scoraggiati ed avviliti da non sapere all’occorrenza riprender l’armi e ricominciare le ostilità (438). Ma il vero motivo del rifiuto era questo, che i patriotti assai più temevano il favore dei lor compatriotti rimasti fedeli che non la inimicizia degl’inglesi.

Il Nelson s’ingegnò ancora di trarre il cardinale dalla sua. Pareva che l’indole orgogliosa ed eccitabile del britanno volesse provar la sua forza contro il carattere del calabrese non meno violento ed altiero. Scrisse i suoi intendimenti, e mandato lo scritto al Ruffo, glieli fece spiegare. Ma il Ruffo non diè retta (439); anzi si lasciò correre fino alla minaccia, che se il Nelson non voleva mantenere l’accordo, egli ricederebbe tutti i punti che il nemico avea per effetto di esso accordo sgombrati, ritirerebbe tutte le sue forze ai luoghi che occupavano prima di trattare, e lascerebbe agl'inglesi la cura di conquistare ciò che lor paresse necessario. Il Nelson rimase duro, e il Ruffo del pari. In breve comparvero, mandati dall'ammiraglio, il Troubridge e il Ball al ponte della Maddalena, per chiedere al vicario generale se, nel caso che il Nelson giudicasse di dovere attaccare i castelli, aveva intenzione di appoggiarlo. «Né con un uomo, né con un cannone» rispose il Ruffo. Allora fu recapitato un altro biglietto: «Il contrammiraglio Nelson è d’avviso che l’accordo non possa essere eseguito senza l’approvazione del re, del conte di Saint-Vincent e di Lord Keith» (440).

***

Lo stato d’incertezza e di irresoluzione, a cui tale screzio dava luogo, era tanto più argomento di tristezza e di pericolo al tempo stesso, in quanto la città si trovava sempre dominata dai partiti, il popolo non cessava d’imperversare, e tutti coloro che gli davan sospetto di essere giacobini o ne faceva giustizia sommaria, o li consegnava, non più come prima al cardinale, ma direttamente al tribunale di Procida. Persino il cardinale era ormai sospettato di esser di balla co’ giacobini; il suo proclama conciliante del 15 fu strappato dai muri e messo in pezzi, gittate per terra e calpestato. Il Ruffo deputò una parte de' suoi cacciatori calabresi a rimetter l’ordine; e in fatti, messisi all’opera, uccisi alcuni dei ribelli, imprigionatine molti altri, vi riuscirono per qualche po’ di tempo. Se non che il male non istava solo nel popolo. Parecchi realisti delle classi più elette, che nei mesi passati s’eran tenuti tranquilli o anche per propria sicurezza avean preso sembianza di patriotti credevano di potere alla fine far mostra di zelo per un altro verso, comunicavano segretamente con le autorità di Procida, somministravan loro indizj a carico altrui, ovvero mandavano attorno arcieri, che le persone indicate prendessero e per la via più corta a quella temuta isola trasportassero.

luoghi di custodia così sull’isola come sul continente erano orribili, poiché la più parte delle stanze eran piene zeppe, e i prigionieri eran pigiati in un modo da dover quasi soffocare; verso sera si riputavan fortunati coloro che potevano giungere a una finestra per ristorarsi respirando qualche boccata di fresca aria marina. Oltre di che si lasciava lor patire tutti gli strazj della fame e della sete, per guisa che molti temevano che soprastasse loro la fine del conte Ugolino e dei suoi due figliuoli. Molti rimanevan chiusi tutto il giorno prima che in quel piglio e quella immensa confusione pervenisse loro un tozzo di pane e qualche goccia d’acqua; Guglielmo Pepe scrisse molti anni dopo, che gli pareva di sentire ancora quell’ardente avidità con cui mandava giù l'acqua in modo da perdere quasi il fiato. Con l’andar del tempo amici e parenti ebbero cura di portare ai prigionieri miglior vitto, vestimenti e biancheria da letto; e molte donne traversando quelle orde feroci che assediavan le carceri, dettero prova di coraggiosa abnegazione. Ma non tutti quegl'infelici ebbero la sorte di essere provveduti da parenti, perché questi erano o in prigione anch'essi o costretti a nascondersi per non essere imprigionati; talché alla sofferenza, a cui essi medesimi eran soggetti, si aggiungeva quella di cui era loro cagione l’incerto destino di persone care. Ad alcuni dal troppo spavento cominciò a dar volta il cervello. Né della propria vita erano anche sicuri, poiché i guardiani alla minima contradizione o rozza risposta facevano uso delle armi. Accadde ancora che le sentinelle di fuori con crudele baldanza tirassero fucilate dentro le carceri, e le palle rimbalzando dalle pareti parecchi ferissero, alcuni anche uccidessero.

Tale fu lo stato delle cose sino alla mattina del 26, quando il Nelson, perduta ogni speranza di smuovere il cardinale, si deliberò con grandissimo rincrescimento ad effettuare nella parte principale la capitolazione, facendo senza dubbio in cuor suo la riserva che, almeno in casi gravi ed urgenti, di proprio arbitrio prenderebbe i provvedimenti necessarj, aspettando che il re venisse di persona a decidere come giudice supremo. E lo fece nel senso del già menzionato scritto «ai giacobini napoletani dei forti Nuovo e dell'Uovo,» la cui comunicazione dovette appunto allora esser fatta per la prima volta a coloro cui si riferiva (441).

Verso il mezzogiorno del 26 i capitani Troubridge e Ball si trovarono al quartier generale del Ruffo, al quale consegnarono un biglietto dell’Hamilton cosi concepito: «Myl. Nelson me prie d’assurer Votre Éminence qu’il s’est résolu de' ne rien faire qui puisse rompre l’armistice que V. E. a accordé aux châteaux de' Naples.» Nel tempo stesso entrambi dichiararono di aver avuto facoltà dal contrammiraglio di assicurare che egli non si opporrebbe all'imbarco dei ribelli e dei presidj dei forti Nuovo e dell’Uovo; e richiestone dal Ruffo il Troubridge mise tale assicurazione in iscritto, ma non volle apporvi la sua firma (442). Alcune ore più tardi i due capitani, dopo aver lasciato sbarcare alcune centinaja dei loro soldati di marina, si recarono, accompagnati dal Micheroux, al castello Nuovo e, occupato il castello, l'interno del porto e il palazzo reale, permisero che i repubblicani s’imbarcassero. Di una uscita con gli onori militari, con bandiere e con armi da essere solamente consegnate sulla spiaggia, non c’era più da discorrerne; erano prigionieri, s’erano arresi a discrezione, e come tali dovevano esser trattati (443). Lo stesso accadde al castello dell'Uovo, dove i particolari del fatto furono regolati fra il brigadiere regio Minichini e il colonnello repubblicano l’Auro: l’imbarco del presidio doveva effettuarsi con tre barche; dopo la uscita della prima doveva essere consegnato il ponte levatojo e la saracinesca, dopo la partenza della seconda le casematte, e finalmente dopo la terza la intiera piazza. Dalle barche furono condotti al Molo e di lì a bordo d’una nave che stava pronta ad accoglierli, e che doveva, com’essi credevano e speravano, condurli in Francia.

Innanzi tutto l’ammiraglio cercò di adoperare per tutti i versi il vantaggio ottenuto sul continente. La stessa sera sventolavano sui castelli le bandiere del legittimo sovrano, e il Minichini ebbe l’incarico di esaminare le opere di fortificazione e di metterle in perfetto stato di difesa. Al comandante di S. Elmo il Nelson intimò di ceder la fortezza nel termine di due ore «ai noti patti convenuti col Cardinal Ruffo e l'ufficiale dell’armata russa,» altrimenti avrebbe ei solo a sopportare tutte le conseguenze. Il capitano Hoste andò per incarico del Nelson coi trasporti Mutine e San Leon nelle acque di Gaeta, per mettersi d’accordo con Fra Diavolo a fine di impossessarsene; ma in nessun caso non doveva lasciarsi persuadere a concedere ai ribelli altro che la sottomissione incondizionata al loro re (444).

Per dare più peso alla minaccia rivolta a S. Elmo e per operare nello stesso tempo contro Capua, dove erano parimente francesi, il Nelson ordinò a' suoi capitani di sbarcare 1300 fra marinari, soldati di marina ed artiglieri (445). Chiese ugualmente al Marchese de' Niza di sbarcare da ciascuna delle navi portoghesi 100 uomini; i quali poi uniti ai russi sotto il Baillie e ad una parte dei regj sotto il duca di Salandra, compresi gli svizzeri condotti dallo Tschudv, dovean procedere all’assedio del castello; il Troubridge avrebbe il comando, sotto di lui starebbe il Ball. La prima cosa che il Troubridge fece, dopo avere la mattina del 27 sbarcato una parte de' suoi uomini, fu quella che il Nelson gli aveva commessa, cioè abbattere gli alberi della libertà che ancora erano in piedi, portarli innanzi al palazzo reale, ed ivi bruciarli. Il Gigante di palazzo, statua colossale di Giove Terminale presso la reggia. I patriotti lo avevano decorato di un tricolore e di un berretto frigio: la plebe si scagliò contro la statua, strappò le insegne repubblicane, le attaccò alla coda d’un asino, e questo con urli, fischi, canti e d’ogni maniera clamori andò cacciando per le strade della città. Il resto del giorno fu impiegato a sbarcare i marinari e a preparare l’assedio di S. Elmo. Oltre i provvedimenti già menzionati doveva Ahmed marciare co’ suoi turchi contro Caserta, il generale Burkhard con una parte dell'esercito del Ruffo contro Capua, la qual piazza già le torme di cittadini del duca di Roccaromana da tutte le parti circondavano.

Nel corso del medesimo giorno, 27 di giugno, il Nelson ordinò al capitano Foote di far vela senza indugio verso Palermo, di presentarsi ivi al ministro Acton, e procurare in tutti i modi che le Loro Maestà sulla sua fregata s’imbarcassero per lasciarsi condurre a Napoli. Anche il luogotenente Sargeant, comandante del cutter Conte St. Vincent, ebbe ordine di partire sollecitamente per Palermo con dispacci per l’Acton (446). Alcuni giorni dopo, una terza nave fece vela nella stessa direzione, e fu la scialuppa portoghese Ballon; il capitano Willoh che la comandava, aveva lo speciale incarico di recarsi al palazzo reale, consegnare alla regina alcune carte, e «aspettando nel palazzo gli ordini di lei» ricevere altre carte; si trattava senza dubbio di lettere scritte da lady Hamilton, alla quale non pareva mai di scrivere lettere lunghe e frequenti abbastanza alla sua real protettrice.

***

La mattina del 27 di giugno Fabrizio Ruffo, nella sua doppia qualità di cardinale della romana chiesa e di vicario generale del regno, comparve con solenne corteo nella chiesa del Carmine, dove fu celebrato un servizio di rendimento di grazie. Egli e l’Hamilton si scambiarono congratulazioni pel felice successo della comune impresa. Tuttavia le cose non dovevano procedere cosi facilmente, come le assicurazioni date dal Nelson il giorno innanzi e le testimonianze di gioja porte quel giorno stesso dal ministro inglese avrebbero potuto far credere.

Le navi da trasporto con i già rinchiusi nei forti Nuovo e dell’Uovo, invece di spiegar le vele alla volta di Francia, furono invece messe in più vicine e poco amichevoli relazioni con l’armata del Nelson. Le quattordici polacche dovettero, saldamente ormeggiate insieme, gittar l’ancora innanzi alla linea di battaglia degl’inglesi e portoghesi per modo che ogni trasporto si trovava sotto i cannoni di una nave da guerra e sotto il comando speciale di un ufficiale inglese (447).

Nello stesso tempo furono esattamente descritte le persone e registrati i nomi di coloro, che come membri della commissione legislativa o esecutiva, come alti ufficiali ovvero operosi pubblicisti, si erano fatti singolarmente notare pel loro zelo verso la repubblica. Il 28 comparvero uomini armati su ciascuna nave, chiamarono le indicate persone e le arrestarono. Erano in quel numero il ministro della guerra partenopeo Manthoné, i generali Massa e Bassetti due presidenti delle commissioni Ercole d’Agnese e Domenico Cirillo, Emanuele Borga, Piatti ed altri. Furono prima condotti a bordo del Fulminante, e dopo essere stati colà penosamente passati in rassegna, fra le altre navi da guerra distribuiti. Né si fermarono a questa prima giacchiata. Nei giorni seguenti, via via che altre persone davan nell’occhio o erano da altre parti segnalate, alla stessa procedura le assoggettavano, per modo che tutti coloro che si trovavano sulle polacche, oltre all’incomoda dimora e alle privazioni che dovean sopportare, erano senza posa agitati fra la speranza di essere lasciati partire per la Francia e il timore di essere anch’essi presi e serbati a incerta e, secondo ogni probabilità, tristissima sorte. Anche sul continente il numero dei prigionieri andò sempre crescendo (448), talché, non bastando più le carceri disponibili, alcune navi disalberate fecero l'ufficio di prigioni.

Si dura fatica a concepire come il Nelson, con la sua dirittura di carattere (449), potesse in tali circostanze credere e cercar di persuadere al cardinale che la capitolazione del 19 non era menomamente violata. Nello stesso giorno che per suo comando i più compromessi erano arrestati, egli faceva dal ministro inglese scrivere al Ruffo, «ch’ei non voleva a nessun patto rompere l’armistizio concluso dal cardinale;» anzi scriveva anche egli stesso: «Io spero che V. Em. sarà contenta di vedere ch’io appoggio le suo idee;» e gli mandò novamente i capitani Troubridge e Ball, «perché con S. Em. concertassero tutto ciò che alla presa di S. Elmo si riferiva» (450). Ora l’attacco di S. Elmo era senza dubbio secondo le idee del cardinale; ma nell’altro punto questi era e durò sempre di avviso affatto contrario a quello dell’ammiraglio inglese. Se non che inutilmente gl’imbarcati si rivolsero supplichevoli a lui, al Micheroux, al Baillie (451); inutilmente il Ruffo fece premura all’ammiraglio che non volesse, mancando alla fede, macchiare il suo nome, la sua fama guadagnata in gloriosi combattimenti, e mettere in pericolo la vita degli ostaggi rinchiusi a S. Elmo; il Nelson perfidiò a dire che non poteva arrogarsi il diritto di sottrarre al giudizio del legittimo sovrano sudditi che così gravemente aveano verso di lui mancato. Ma andò anche più oltre. Pubblicò dalla sua nave ammiraglia un editto, secondo il quale tutti gli ufficiali e gl’impiegati al servizio della «vergognosa repubblica napoletana» dovevano nel termine di 24 o, se si trovavano fuori della città, nel termine di 48 ore presentarsi al comando di uno de' due castelli e abbandonarsi alla clemenza del loro monarca, altrimenti egli li riguarderebbe e tratterebbe come colti in attual ribellione e come nemici di S. M. siciliana (452).

Fra i nomi di coloro, che erano o trattenuti sulle polacche o altrimenti assicurati, mancava sempre quello di un uomo, alla cui cattura negli ultimi giorni diligentemente si dava opera ed era stato anche assegnato un premio. Francesco Caracciolo dopo essersi, come abbiamo già detto, fermato qualche tempo nel castello Nuovo, accorgendosi del declinar delle cose, se n’era novamente allontanato; poiché maestro egli si credeva nell'arte poco invidiabile di navigare secondo ogni vento. Così s’era condotto con la corte di Palermo nel mese di gennajo; così il 13 di giugno nella difesa del forte di Vigliena; così il 16 e 17 con la sua armatella ancorata nella darsena; cosi finalmente si condusse anche nel castello Nuovo, fra le cui salde mura avea cercato asilo (453). La mattina del 23 si trovava presso Portici, ed al duca di Castropignano (454), che ivi dimorava, fece recapitare uno scritto presso a poco del seguente tenore: che temendo non avessero i briganti ad attentare alla sua vita, ei chiedeva che il duca lo proteggesse e al Cardinal Ruffo lo raccomandasse; soggiungendo che sperava, i pochi giorni di servizio forzatamente prestato sotto il comando francese non dovessero far dimenticare i leali servigi da lui prestati per lo spazio di quarant'anni. Ma non avendo risposta né dal duca né dal cardinale, si travestì da marinaro, entrò in Napoli di soppiatto, e pregò la principessa di Motta Bagnara che domandasse consiglio al Cardinal Ruffo suo zio per sapere se doveva rimanere o fuggire. E poiché la principessa, non ostante il suo stato d’inoltrata gravidanza, si fu recata dal Ruffo ed ebbe riportata al Caracciolo la risposta: che fugga! egli si procurò povere vesti, si rifugiò su i monti ed ivi parecchi giorni andò in giro; ma finalmente costretto dalla fame a lasciare il nascondiglio e tradito da un servo infedele, cadde nelle mani di Scipione della Marra, il quale lo fece legare, e a fine di non metter sossopra il quartier generale e soprattutto di non fare saper nulla al Ruffo, di nottetempo lo fece imbarcare al Granatello e condurre alla grande armata.

Era la nona ora del mattino del 29 di giugno quando il capitano Hardy, che si trovava sul ponte del Fulminante, vide avvicinarsi una barca, e un uomo in essa, apparentemente fra i sessanta e settant'anni, di cui la nobile persona e le espressive fattezze con le vesti contadinesche mal s accordavano, e anche meno col disordine e abbandono che pareva dar indizio di lunghi strapazzi ed oltraggi. Come la barca fu presso la nave ammiraglia, coloro che accompagnavano quell'uomo ad alta voce gridarono: questo è il traditore Caracciolo che noi portiamo! A bordo del Fulminante s’accalcava e pigiava la gente intorno al prigioniero imprecando e maledicendo; talché il capitano dové intervenire per liberarlo, e slegatolo e fattolo condurre in una stanza, vi mise innanzi due uomini di guardia. Ordinò che gli fossero dati dei rinfreschi, che del resto il prigioniero non toccò, e lo commise alla custodia del primo luogotenente M. S. Parkinson.

Appena il Nelson seppe tal novella, scrisse un biglietto al conte Thurn pregandolo che con cinque degli ufficiali più anziani venisse a bordo del Fulminante a fin di giudicare il prigioniero, che stava sotto l’accusa di ribellione contro il suo legittimo sovrano e di aver fatto fuoco contro la bandiera reale a bordo della Minerva; e di condannarlo, quando le accuse risultassero fondate. Alle 10 della mattina cominciò il giudizio, al quale molti ufficiali inglesi da semplici spettatori assistettero. I fatti che al Caracciolo s’imputavano erano notorj; la sola cosa che potè addurre in sua discolpa fu che lo avevano costretto «con minaccia della vita a prender servizio sotto la repubblica e a condurre, contro ogni sua volontà ed inclinazione, le armi contro i colori di S. Maestà.» Richiesto perché, come tanti altri, non avesse cercato di riparare alla vicina Procida, dove né minacce né violenze non avrebbero potuto raggiungerlo, dette poco sodisfacenti risposte e fra le altre questa, che non si era fidato, che aveva temuto di esservi male accolto. Il Caracciolo si contenne e parlò pacato e raccolto, si può dire, pieno di dignità. Ma i suoi discorsi si ristrinsero a frasi comuni, a vuote affermazioni non sorrette da prova, il che produsse sugli astanti un poco favorevole effetto (455).

Verso il tocco era finito il giudizio. La sentenza di morte, dal più dei voti approvata, fu sottoposta al Nelson come superior comandante. Il Caracciolo si volse al luogotenente Parkinson pregandolo che gli ottenesse un nuovo processo con altri giudici, poiché il conte Thurn era suo personale nemico. L’ammiraglio respinse la domanda perché egli «era stato secondo tutte le forme legali giudicato da ufficiali del suo stesso paese; né c’era ragione per cambiar nulla.» Il Nelson confermò la sentenza e dette incarico al conte Thuru di «far appiccare alle 5 della sera il reo all’antenna dell’albero di trinchetto della fregata di S. M. siciliana Minerva, lasciarvelo fino al tramonto del sole, e poi far levare il cadavere e gittarlo in mare» (456). Di nuovo il Caracciolo si rivolse al suo custode dicendo: «io sono vecchio e non lascio famiglia che mi pianga; è da credere che non mi stia troppo a cuore il prolungar la vita; ma l’onta di essere impiccato è terribile; s’io debbo morire mi si conceda la morte del soldato con una palla.» Ma il Parkinson ebbe questa seconda volta anco peggiore accoglienza dall’ammiraglio che gli disse imperioso: «Andate al vostro posto, e fate il vostro dovere!» Pregato dal Caracciolo, e’ volle tentare di commuovere il cuore della potentissima lady Hamilton; ma non fu possibile di trovarla, e le cose ebbero il loro corso.

Il condannato fu condotto dal Fulminante sulla Minerva, e alle 5 puntualmente, secondo gli ordini del Nelson, la condanna fu eseguita. Dopo il tramonto del sole, levato il cadavere e portato sur una barca più in alto mare, fu con gravi pesi ai piedi buttato nei flutti.

VIII

PARTENZA DI FERDINANDO IV DA PALERMO

È stato raccontato a suo luogo come il Nelson, andando alla volta di Napoji incontrasse la sera del 23 di giugno un bastimento da guerra che andava verso Palermo, e gli venisse in ajuto sovvenendolo di acqua. Così sulla nave ammiraglia si ebbero le prime nuove dei fatti del 1921; e sembra che di quella congiuntura profittassero gli Hamilton per trasmettere alla corte di Palermo per mezzo del capitano di quel bastimento notizie, che pur troppo sapevano con quanto desiderio fossero ivi aspettate. La nave giunse nella rada della metropoli siciliana il 25, e portò una lettera piuttosto breve e generica di Fabrizio Ruffo al ministro Acton, un’altra di sir Hamilton al re, ed una terza di lady Hamilton alla regina.

Quanto più le cose di Napoli s erano andate avvicinando a una decisione e certamente favorevole alla causa reale, tanto più la regina si era venuta allontanando da quel disegno di amnistia, che al tempo dei primi buoni successi in Calabria aveva significato. La resistenza che i patriotti nei castelli Nuovo e dell’Uovo, non ostante le ripetute esortazioni ed offerte dei regj, ostinatamente continuavano, l’aveva sommamente esasperata. «Dopo tutti i proclami» — aveva ella scritto negli ultimi giorni a Vienna — «dopo tutte le promesse d’indulgenza e perdono, la baldanza di quei malvagi passa ogni segno, ed è cagione di danni incalcolabili. Il Nelson farà loro sapere, che se non s’arrendono senza indugio e senza condizioni, saranno sottomessi con le armi e trattati come meritano. Poiché l’ostinazione loro è giunta al più alto grado; alle esibizioni della clemenza, alla promessa di lasciarli andar fuorivia, non han voluto prestare orecchio, il che prova sempre più che con sì fatta gente ogni speranza di resipiscenza e miglioramento è vana.»

In tali disposizioni d’animo la trovò la lettera nella quale il Ruffo le faceva conoscere la conclusione dell’armistizio e le pratiche d’accordo ch'erano in corso con i due castelli. La regina andò fuori di sé, e non sapendo signoreggiar la sua passione scrisse al cardinale una lettera, non più come per lo innanzi da riconoscente amica e protettrice, ma da signora e regina, e non troppo clemente e benevola. Le comunicazioni del Ruffo non esser tali da sodisfarla; si sarebbe dovuto profittare dell’entusiasmo del popolo, e prendere, d’assalto gli ostinati castelli; fortuna che le cose erano per prendere un’altra piega: «V. Eminenza ha ora i comandi del suo sovrano, e saprà eseguirli; io desidero che tutto riesca bene per la gloria e per la sicurezza del re, e con questa speranza sono ecc. ecc.» (457).

Più diffusamente, ma anche con maggior violenza ed asprezza, in una lettera dello stesso giorno alla Hamilton, in risposta a quella da costei scritta a bordo del Fulminante, si espresse la regina circa al modo di trattare i ribelli dei due forti secondo l’opinione del re e sua. «Si offre loro perdono ed oblio, e invece di accettare essi si armano daccapo. Il capitano inglese manda al comandante di castel dell'Uovo un messaggio scritto, e quegli risponde a voce nel modo più arrogante e dà la caccia alla nave. Di notte i ribelli fanno una sortita e, mentre dura l’armistizio, s’impossessano delle nostre batterie. È impossibile che io entri con cuor sincero in trattative con tal canaglia. Ora che la imponente armata del Nelson sta innanzi a Napoli, devono andare altrimenti le cose. I patriotti rivoltosi debbono abbassar le armi e arrendersi a discrezione al re. Che se la guarnigione si ostinasse a resistere, allora bisognerebbe allontanar dalla città le povere donne e i fanciulli, sforzare i castelli secondo le regole della guerra, trattare quelli che vi son dentro con le leggi militari, e cosi porre un termine a questa colpevole e pericolosa rivolta. Allora si darà un esempio su i principali ribelli, e gli altri si manderanno fuori del paese con pena di morte in caso di ritorno. Non occorre per ciò né tribunale né processo, i fatti stanno chiari e incontestabili innanzi agli occhi, tanto per gli uomini quanto per le donne, le quali non si son fatte poco notare nella rivoluzione. In una parola, mia cara lady, mylord Nelson deve trattar Napoli come tratterebbe una città ribelle d’Irlanda; un par di migliaja di bricconi di meno non faranno più deboli noi né più forte la Francia. Ma la Francia è per loro una clemenza; l’Affrica, la Crimea converrebbero a loro, meriterebbero di essere marcati a fuoco perché nessuno potesse più essere da essi ingannato» (458).

Venivano ormai sempre più messaggi dal Cardinal Ruffo, dall’isola di Procida, dalla nave ammiraglia del Nelson. Il 27 di giugno una fregata siciliana, capitano Naselli, gittò l’ancora nella rada di Palermo, probabilmente la Sirena, mandata da Fabrizio Ruffo e dal conte Thurn dopo aver concluso la capitolazione. Il 1(o)di luglio il capitano Foote giunse a Palermo e portò il testo del trattato; le sue comunicazioni verbali e lo scritto di lady Hamilton fecero conoscere i provvedimenti che il Nelson giungendo nel golfo di Napoli avea presi. La lettura del trattato amareggiò sommamente l’animo della regina, la quale, del pari che il Nelson, non sapea farsi ragione delle circostanze che aveano indotto il cardinale e i suoi colleghi a dare quel passo. Come era egli possibile — così la regina mulinava nella sua testa — trattare sì benignamente i ribelli? come entrare in trattative con loro? come lasciarsi da essi imporre condizioni quasi fossero al paro del loro legittimo signore e re? come si ardiva conceder loro gli onori militari? come del resto parlar d’onore con gente trovata in istato di aperta ribellione? come assicurar loro il godimento degli averi e dei possessi, la libera scelta della dimora, senza dare né ad essi né ai loro aderenti nessuna molestia? non era ciò forse un consigliare la gente che un’altra volta meglio condotta e preparata rifacesse quel che aveva fatto? non era lo stesso che incitare altri a seguirne l’esempio, provocare a simili tentativi quelli che in Sicilia pensavano allo stesso modo, dando lor fiducia che non avrebbero nulla da perdere, tutto da guadagnare? come mai s’era potuto, quasi si fosse dalla parte più debole e si avesse torto, promettere ostaggi ai rivoltosi nella maniera che chiaramente esprimeva l’articolo 8 per rispetto all'arcivescovo di Salerno, al Micheroux, al vescovo di Avellino? come finalmente, per colmar la misura dell’onta e dell’umiliazione, si era potuto subordinar la validità della capitolazione al consenso del comandante di S. Elmo, tralasciando di menzionare l’approvazione del proprio sovrano? «Questa capitolazione» così concludeva la regina le note in margine all’esemplare del trattato, «è una tal vergogna e una tale stoltezza, che mi ripugna di spenderci sopra più parole, ed è lecito supporre che gli autori di essa non sapevano quel che si facessero. Per ribelli dimentichi dei doveri e giuramenti loro è ammesso il principio di libertà e d’indulgenza, quasi per stimolarli a ritentare con miglior successo l’opera scellerata. È in una parola un trattato così indegno, che se un miracolo della Provvidenza con qualche inaspettato avvenimento non l'attraversa in modo che perda ogni forza ed efficacia, io mi riguardo come perduta o disonorata. Poiché questa vergognosa capitolazione, se dovesse aver valore, mi affliggerebbe molto più che la perdita del regno non mi afflisse, e gli effetti ne sarebbero anche molto più tristi, le conseguenze molto maggiori e più dannose» (459).

Come dallo sfogo finale apparisce, la regina non aveva allora sentore degli avvenimenti del 26 e del 27 di giugno, dei quali fu solamente informata dalle lettere di lady Hamilton (460), che il capitano Willoh della scialuppa portoghese Ballon le portò il 2 di luglio. Fu per lei un vero conforto che almeno il Nelson avesse in parte riparato all’errore commesso. «I giacobini ch’ei fa arrestare,» così scriveva all’amica inglese, «appartengono ai più tristi che abbiamo avuti. Ho veduto anche la trista e meritata fine dell’infelice forsennato Caracciolo. Sento tutto quello che deve aver provato il vostro ottimo cuore.» L’avida domanda del comandante di S. Elmo la riempì d’indignazione: «Io vi scongiuro che al Méjean non si dia neppure un soldo dopo sì ostinata resistenza; evitate questa debolezza ed umiliazione, come il bravo ammiraglio ha giù evitato il vergognoso armistizio e la capitolazione co’ nostri ribelli.» (461).

***

Il capitano Foote aveva avuto ordine dall'ammiraglio di mettere la sua nave alla disposizione delle L. M. siciliane per passare a Napoli. Il Nelson desiderava la loro presenza perché, quantunque onorato d’illimitata fiducia, non voleva su di sé il carico di decidere la sorte dei cittadini compresi nella capitolazione dei castelli Nuovo e dell’Uovo. È singolare che per rispetto ai forti di Castellamare e Revigliano, i cui presidj avean capitolato ai medesimi patti, il Foote desiderò dalla corte «come favore personale» l’approvazione del trattato da lui concluso, e non ostante che l’Acton sul principio si opponesse, finalmente l’ottenne (462).

Né l’ammiraglio inglese soltanto, anche Fabrizio Ruffo desiderava la presenza del re, sebbene per motivi certamente diversi. «Desolazioni, crudeltà, delitti sono inseparabili dalle guerre civili» — cosi egli insistentemente esponeva al suo sovrano — «ma non appena i popoli ritornano obbedienti, aspettano di trovare presso il principe grazia e clemenza; violazione di trattati e versamento di sangue macchiano le monarchie; il Nelson, violando la capitolazione, avea recato danno alla dignità della corona e alla buona opinione dei compagni di guerra ecc.» Onde il cardinale desiderava la presenza del re per rimediare al male fatto dal Nelson, ma anche per rimettere sotto l’impero delle leggi la plebe, che nel suo furore contro i giacobini non era per anco potuta frenare; tutto era dolore, tutto spavento nella città; le strade di Napoli profanate da cadaveri d’innocenti, ecc. ecc. (463). Quest'ultima ragione trovava riscontro nelle grida e nei lamenti, nelle preghiere e rimostranze che venivan da Napoli e descrivevano la terribile signoria della plebe, le crudeltà e violenze dei lazzaroni, che la sola autorità reale era capace di domare. Si aggiungevano le suppliche ipocritamente umili di molti, specialmente nobili, che ora tutti, a volere prestar fede alle proteste loro, erano puri di qualunque colpa o tutt'al più, come l’ammiraglio Caracciolo, solo per forza avean piegato alla repubblica. «Eccetto i generali e quelli che sono stati presi nei castelli con le armi alla mano,» scriveva Maria Carolina a Vienna, «e che per conseguenza non possono mentire, tutti pretendono d’essere innocenti e desiderano di vedere il re; io per parte mia li conosco — pour moi je les connais, c’est pour la vie, ils ne m’attraperont plus.»

Motivi affatto diversi da quelli del Nelson e del cardinale indussero l’Acton a consigliare il viaggio del re. Innanzi tutto il manifesto ed innegabile screzio fra il Nelson e il Ruffo, a cui occorreva porre un termine; se gl’inglesi avessero abbandonato il campo, tutto sarebbe stato rimesso in forse; ma non meno pericoloso egli era il lasciar braccio libero all’uno o all’altro. Era l’Acton legato al Nelson dalla comunanza di patria e di sentimenti; tuttavia l’ammiraglio non doveva, vinto oramai il punto principale, esser solo a far da padrone; bisognava che il re e il suo primo ministro fossero sul luogo per prendere i provvedimenti opportuni (464). Quanto ai ribelli, e circa al modo di trattarli, il ministro la pensava appunto come l’ammiraglio, e teneva da quel partito numeroso in corte, che di grazia e clemenza non voleva saperne. Non era la rivoluzione di Napoli un eco di quella di Parigi? Le idee, i propositi, gli sforzi erano stati gli stessi, soltanto la forza e l’occasione eran mancate perché in Napoli le cose andassero tant’oltre quanto sulla Senna. Bisognava un severo esempio per impedire il ritorno di simili avvenimenti. Per rispetto poi alle così dette capitolazioni, trattati di tal genere fra un monarca e i suoi sudditi erano una mostruosità; chi potrebbe consigliare al re di venire a patti coi ribelli? Una capitolazione è concepibile fra due parti belligeranti, e non già tra rivoltosi e il potere legittimo. E non erano forse i giacobini stati i primi a dar l'esempio del come convenga condursi in simili casi? Bastava rammentare il Tallien e i realisti di Quiberon (465).

Secondo il disegno del Nelson non il re solamente ma anche la regina doveva venire a Napoli, e tale era anche il desiderio di Carolina. Ma all'ultimo momento fu preso un altro partito, e Ferdinando solo s’imbarcò per Napoli. Se non che invece d’imbarcarsi sul Cavallo Marino, come gl'inglesi avean proposto, ei salì sulla fregata Sirena; si credette di non dovere far torto agli ufficiali nativi rimasti fedeli, giovandosi di nave straniera. Forse si pensò al Caracciolo, al quale nel viaggio alla volta di Palermo si era recata, certamente senza volerlo, una simile offesa, che non doveva aver poco contribuito allo sdegno e poi al tradimento di lui.

A un’altra cosa doveva riparare la regina prima di congedarsi dal marito. Poiché nel frattempo il Cardinal Ruffo avea ricevuto la sua aspra dichiarazione del 25, e nulla avrebbe potuto più vivamente offenderlo. Troppo leale e riguardoso egli era di certo da muover lamento dell’immeritato disfavore della regina e del torto ch’ella gli avea fatto. Si ristrinse a dichiarare che avea bisogno di riposo, e a significare il desiderio che gli si concedesse di ritirarsi, e la continuazione dell’opera da lui cominciata ad altre mani si affidasse.

La lettera del Ruffo, in data del 28 di giugno, era forse pervenuta a Palermo con la Sirena. La regina rispose senza indugio e sul medesimo tuono. Dacché se il cardinale era scaltro, non meno di lui era tale Carolina. Egli non avea detto di sentirsi offeso; né di averlo offeso la regina si mostrò consapevole. Tuttavia le parole di lei sonavano del tutto simili a espressioni di pentimento e di preghiera; ed ella le proferì col nobile impeto d una donna signoreggiata dalla coscienza di aver commesso un’ingiustizia. Che ritiro, che altre mani! Il cardinale dovea rimanere; chi poteva condurre a termine l’impresa così gloriosamente da lui avviata? Lo pregava, lo scongiurava di continuar l’opera. «L’ingegno, l’operosità, il cuore di V. Eminenza mi fanno sperar tutto. Domani il re parte; a voce potete meglio intendervi e mettere ogni cosa in ordine. Io pregherò tutti quelli che accompagnano il re a farsi presso di V. Eminenza interpetri della mia sincera e profonda gratitudine, della mia schietta ammirazione pe’ vostri grandi successi pressoché favolosi» (466).

E cosi furono dalle due parti ripristinate le antiche relazioni. È vero che il cardinale tornò più volte a significare il desiderio di potersi riposare dopo tante fatiche; ma forse ciò avvenne piuttosto per dileguare il sospetto che la prima volta avesse manifestato quel desiderio in un momento di stizza, ovvero per meglio provare se la regina nel pregarlo di restare al suo posto parlasse sul serio. E sul serio ella parlava davvero.

«Intendo, troppo bene quanto debba desiderare riposo e ritiro chi ha dovuto sopportare incomodi e travagli d’ogni maniera, e la ingratitudine che accompagna tutti i benefizj. Vostra Eminenza ha sperimentato ciò da alquanti mesi; s immagini quali debbono essere i miei sentimenti dopo trentun’anno! Posso quindi ammettere la sua noja, ma non la sua stanchezza. Chi opera fatti e scrive lettere piene di spirito e di finezza come lei, non può essere che le sue forze declinino» (467).

***

La squadra reale levò le ancore la sera del 3 di luglio. Si componeva della Sirena, che aveva il re a bordo, e del Cavallo Marino, della scialuppa portoghese Ballon e d’una piccola nave da guerra siciliana Strombolo; la seguivano 37 bastimenti mercantili. Accompagnavano re Ferdinando l’Acton, il Castelcicala, l'Ascoli. Nello stesso tempo partirono da Palermo 1000 fanti e 600 cavalli, che già da parecchi giorni si tenevan pronti; i generali Burkhardt e Giuseppe Acton li condussero, per terra a quel che sembra, a Messina, a fin d’imbarcarli colà pel continente. Presero con sé nel partire la lettera di Carolina al cardinale e un’altra a lady Hamilton; in quest’ultima ella raccomandava al Nelson gl’interessi e la fama della sua casa, e nello stesso tempo significava il suo rincrescimento per non potere andare in persona e di viva voce assicurarlo della sua gratitudine per tutto ciò che avea fatto per lei e pe’ suoi (468).

Le cagioni per cui la regina rimase a Palermo non sono sicuramente chiarite, né con maggior certezza può dirsi se per propria risoluzione o perché da altri persuasa abbandonasse quel disegno che sulle prime senza dubbio avea formato (469). Forse le fu fatto notare, o notò ella stessa, che mentre ancora le passioni fervevano, la sua presenza non poteva servire che ad accenderle maggiormente. Il che non era verisimile, poiché la parte repubblicana giaceva atterrata, i capi di essa eran ridotti all’impotenza, mentre dall’altra parte entusiasmo toccava il più alto grado. Tuttavia è un fatto che questa cagione fu principalmente messa innanzi da Carolina alla sua fida amica: «Ho creduto di nuocere all’amore e all’entusiasmo che il re ispirerà e che verso di me non è lo stesso. Poiché odiata come io sono, addosserebbero a me tutta la colpa, mi rappresenterebbero come lo spirito del male e della vendetta» (470). Pure assai a malincuore si deliberò di restare. «È stato per me un sacrificio di non accompagnarlo,» confessava alcune settimane più tardi alla sua imperial figliuola; «ma dovetti convenire che la necessità e il dovere lo comandavano.» Nella lettera alla Hamilton si mescolavano espressioni di amarezza: «Che farei d’altronde in Napoli? Nessuno mi desidera.» E un’altra volta: «Noi qui andiamo tutti i giorni in chiesa a ringraziare Iddio, a portare in processione il SS. Sacramento perché benedica il mare, a pregare pel re e per Napoli. Questo è tutto quello ch'io fo, e lo fo volentieri; poiché nel resto sono inutile» (471). Più d’ogni altra cosa le stringeva il cuore e le riusciva difficile a sopportare che la mettessero in certo modo in disparte, trascurassero di farle pervenir notizie, non le lasciassero conoscere il corso degli avvenimenti. «Quando il re sarà a Procida e si troverà ivi la sorgente d’ogni bene e d’ogni male, debbo rassegnarmi ad essere dimenticata, ad esser lasciata nella pena e nell’incertezza. Ma» ella soggiunge «la mia buona amica vorrà, sebbene io sia relegata a Palermo, non dimenticarmi.» Talvolta pensava che la sua presenza in Napoli era necessaria, che senza di lei non potrebbero accomodarsi le cose, per esempio gli screzj fra l’ammiraglio e il cardinale: «Io prevedo tempeste, e allora sentiranno dolorosamente la mia assenza.» Ma allora tornava a dichiarare di non voler più rimettere il piede in Napoli, o almeno non prima che l’onore del trono fosse ripristinato e in modo tale da non lasciar più temere una recidiva pel futuro: «O il regno riprende la sua antica sicurezza e tranquillità, e allora tornerò ma come straniera che assolutamente non s’ingerisca di nulla; o il moto dei partiti continua come per l’innanzi, e allora resterò in Sicilia o mi ritirerò in qualche altra parte del mondo» (472).

Ella supponeva suo marito già nel golfo di Napoli mentre questi, non favorito anzi contrariato dai venti, si trovava an cora in alto mare. Una barca partita da Napoli il 5 incontrò la squadra reale a quaranta miglia marine di là da Capri; talché la regina avea ragione di supporre nel giorno 7 che fosse già arrivata; ma arrivata realmente non era. Dall’altra parte ella desiderava che Ferdinando non si trattenesse lungamente innanzi a Napoli e che non esponesse la sua persona: poiché di cattiva gente ce n’è ancora un grandissimo numero. in Napoli, e sapranno trovare il modo di avvicinarsegli» (473). Questa inquietudine, il dispiacere dell’insolita separazione (e mai non siamo stati tanto lontani, e per di più separati dal mare!»), il desiderio di rivederlo presto in seno alla famiglia, non la lasciavano più; ell'era in ¡spirito intorno a lui, lo accompagnava lungo il viaggio, contava le ore che dalla meta lo dividevano; udiva le grida di giubilo, vedeva i segni di gioja con cui il popolo saluterebbe l’amato sovrano; ma tuttavia voleva piuttosto vederlo ritornare sano e salvo, voleva che fedele alla promessa fattale si mostrasse si a' suoi napoletani, ma rimanesse a bordo e non discendesse a terra (474).

Intanto ella non voleva restare inoperosa sulla sua isola. Secondo il suo costume e quella irrequieta attività che le era propria, ella si ingegnava di cooperare da lontano, per quanto stava in lei, a promuovere l’impresa, dalla cui riuscita l’avvenire suo e de' suoi dipendeva. Faceva pervenire all’ammirato eroe comunicazioni e ragguagli (475); gli mandava persone che credeva gli potessero per uno scopo o per un altro essere utili; un certo Angelo, fra gli altri, ardito cosentino, che conosceva gli aditi sotterranei di Sant’Elmo; il quale però ebbe la disgrazia di cadere in mano di corsari, che spogliatolo lo sbarcarono a Cagliari.

IX

IL RE E I SUOI MINISTRI A BORDO DEL FULMINANTE

In Napoli il Méjean teneva sempre S. Elmo, assediato da forze composte di marinari inglesi e portoghesi, di milizie calabresi e di soldati russi. Pei francesi non si trattava più di difender Napoli; l’unica cosa che potevan fare era di uscirne sani e salvi per riunirsi agli altri corpi occupati nell’Italia superiore. Le condizioni eran per loro così sfavorevoli che pel momento dovevano abbandonare ogni disegno sull’Italia del centro e del mezzogiorno; si vedeva oramai quanto giustamente il Moreau avesse consigliato di ritirare tutte le truppe da quelle regioni, che facilmente si riconquisterebbero poi se nell’alta Italia si vincesse. Ma in mezzo alla irritazione, alla sete di vendetta, che dopo i combattimenti del gennajo agitavano gli animi del popolo non della capitale soltanto ma anche della campagna, neppure l’uscir sani e salvi appariva agevole impresa. Aggiungi che il Méjean, come tutti i generali francesi di quei tempi, voleva dalla funesta congiuntura trarre almeno qualche vantaggio personale, cioè mettere a prezzo la resa del forte ch'egli difendeva, ma che a lungo non poteva più resistere. Senza questo caso singolare, i francesi, non ostante la prevalenza dei nemici, avrebbero potuto giovarsi di parecchie occasioni per difendere con buon successo la fortezza.

Nel campo degli alleati le cose non procedevan mica meglio. Comandavano in primo luogo il Troubridge, in secondo il Ball e, quando questi dové tornare a bloccar Malta, l’Hallowell; tutti, s’intende, sotto gl’immediati ordini del Nelson. Ma anche il Ruffo, i cui poteri di vicario generale erano sempre in vigore, conservava la sua influenza e sapeva anche farla valere, dal che per l'animosità del Nelson contro di lui e per l’antagonismo nazionale fra napoletani, inglesi e moscoviti nascevano dissapori e contrasti d’ogni maniera. Il Troubridge senza credersi, come uomo di mare, legato alle prescrizioni d'un assedio in regola, aveva collocato alcune batterie a poco meno di 600 piedi dal castello, e oltre a ciò praticava delle mine per farlo saltare in aria. Pensava che se ciò gli riuscisse, importerebbe poco di mandare all’altro mondo quanti eran li dentro, nobili e repubblicani. Il Ruffo però, che amava la sua bella Napoli, si spaventò di tanta barbarie, e fece al capitano le più vive rimostranze contro un atto che per fortuna non fu recato a compimento. Poiché il Méjean alzò il capo, si mostrò come tutti i suoi pari baldo e tracotante, e minacciò di far di Napoli un mucchio di rovine. Se non che il Ruffo gli scrisse che farebbe passare a ili di spada tutto il presidio, e chiamerebbe il comandante responsabile di tutti i danni volontariamente recati alla città. Il Troubridge dal canto suo gli fece dire che, se continuava a mandare lettere scrittovi in fronte «Liberté, Egalité, Guerre aux tyrans» ecc. non che tenerne di conto, e’ non le leggerebbe neppure. Il francese da allora in poi prese un tono più conveniente. Ritornò anzi alle sue proposte interessate di resa, offrendo di consegnare il castello se l’avversario volesse sborsargli 1,500,000 franchi. Il Troubridge non credè necessario questo sacrificio di danaro; e il cardinale rispose: «con le armi e non con l’oro si fa la guerra.»

Come nelle alte sfere degli alleati regnava la discordia, cosi non mancavano pure animosità e contrasti d’ogni maniera tra le Ale dell’esercito assediante. I soldati regolari inglesi e russi guardavano con disprezzo le frotte poco disciplinate del duca di Salandra; al marinaro inglese i moscoviti parean barbari e non li poteva patire; e persino le forze regolari indigene gli sembravano di stare alla pari col resto della «marmaglia» napoletana. Il Troubridge si sfogava co’ suoi compatrioti lamentandosi amaramente dell’esercito del cardinale; «birboni e vili» egli diceva «come non ho mai visto i simili.» Lavorando innanzi al castello, un giorno entrò loro la paura addosso e si misero così disordinatamente a fuggire, che il Troubridge dové minacciare l’immediata fucilazione a chi non fosse trovato al posto assegnatogli. E tanto poco concetto credeva che avessero di giustizia e di convenienza, che la polvere, messa a sua disposizione dal Nelson, la faceva portare sotto la protezione degl’inglesi, «perché altrimenti i farabutti napolitani ne avrebbero rubata la metà e barattata l’altra con merce peggiore» (476). Certamente v’era in tali accuse del vero; ma il Troubridge e i compagni suoi sarebbero dovuti essere abbastanza equi da non lasciare inosservato ciò che in favore di quella gente militava. Casi d’improvviso spavento accadono anche ai migliori eserciti; e la lista dei morti e feriti, che nel corpo del Salandra toccavano una cifra senza paragone più alta che in quello del Baillie e del capitano inglese, porgevano eloquente testimonianza che i calabresi in generale non iscansavano le palle nemiche. Dall’altra parte non avrebber dovuto ignorare gl’inglesi di quanta afflizione, di quante cure e fatiche quell’accozzaglia, detta armata cristiana, era stata cagione a colui che l’aveva raccolta, e quali provvedimenti egli aveva dovuto prendere per evitare almeno i disordini più grandi. E infine era quella stessa gente che sotto gli auspicj del cardinale e col segno della croce avea compiuto l’inudita impresa, traversato da un capo all’altro il regno, e da poche piazze in fuori ricondottolo all’obbedienza. Che del resto anche gli uomini del Nelson in punto di disciplina non fossero angioli, lo dimostravano, appunto nel tempo dell’assedio, e il caso del soldato di marina o marinaro John Jolly che solo la benevolenza dell’ammiraglio salvò dalla pena di morte inflittagli dal tribunale di guerra, e le esortazioni che in tal congiuntura l'ammiraglio medesimo rivolse al capitano Troubridge perché più severamente punisse ogni violazione di disciplina e specialmente il «crime of drunkennes» (477).

Rimprovero non infondato però era quello che i soldati dell’armata cristiana avessero in gran parte colpa nei disordini e negli orrori che nella città non erano ancora del tutto cessati. Le strade e piazze che si trovavano fuori dell’azione militare offrivano ogni giorno lo spettacolo di schiamazzi e tumulti, talché le persone appartenenti alle migliori classi della cittadinanza per paura di esser segnalate come giacobini, e sotto tal pretesto rubate e maltrattate, non si arrischiavano di passarvi. Nei pressi di Napoli gli abitanti eran costretti a temere da una parte la plebe della città, dall’altra i giacobini dei castelli non ancora arresi; così a Posillipo dove i patriotti tenevan sempre una batteria, finché ad un notare, che godeva di una certa autorità presso di loro, venne fatto d’indurre il posto, forte di 25 uomini, alla partenza (23 di luglio) (478). Il cardinal Ruffo avea preveduto sì fatto scompiglio, e per questa ragione aveva anche desiderato la presenza del re. La plebe di Napoli credeva di operare secondo le intenzioni del suo offeso e scacciato monarca, quando tutti quelli che aveano aspetto di giacobini e patriotti perseguitava e sterminava. Allorché poi l'8 di luglio corse voce del prossimo arrivo del re, la sommossa scoppiò novamente. I furti e gl'incendj, la persecuzione e gli arresti dei sospetti imperversarono come alcune settimane innanzi, né mancarono daccapo casi di giustizia sommariamente fatta dalla moltitudine (479). Il capitano Hood, a cui il Nelson aveva affidato con un corpo di soldati di marina il comando del castello Nuovo e che, a quanto pare, seppe all'adempimento di tale ufficio unire anche quello del comando militare su tutta la città, fece i più grandi sforzi per rimettervi l’ordine (480); ma com’era egli possibile il togliere a quei selvaggi la fede che la loro condotta era conforme allo spirito della buona causa, quando aveano innanzi agli occhi ciò che accadeva sulle navi del Nelson e sull'isola di Procida, dove continuamente cresceva il numero dei carcerati e si sentiva sempre parlare di nuove condanne del tribunal militare? (481)

***

Abbiamo già notato che il viaggio della squadra reale da Palermo a Napoli ebbe a soffrire per mancanza di venti favorevoli e però fu lentissimo. Quelli che circondavano Ferdinando ebbero in tal modo tutto l’agio di pensare a ciò che nella capitale li aspettava; e si dice che facessero in modo che il re durante il viaggio non udisse e non vedesse altro che cose atte ad accendere il suo sdegno contro i repubblicani (482). Lo scritto che Ferdinando IV diresse l'8 di luglio dalla squadra reale «ai suoi fedeli e amati popoli della capitale e del regno» (483) parve a coloro troppo mite. Cominciava col rammentare la divina Provvidenza, la quale avea coronato di buon successo gli sforzi suoi e degli alti alleati, mercé l’instancabile zelo del fedele e degno vicario generale Cardinal Ruffo e dei bravi capitani che avean con lui cooperato. Io son venuto» proseguiva a dire, «per far cessare l’anarchia, per difendere gli averi, per assicurarli contro gli assalti e gl’inganni degli empj ribelli, co’ quali non ho mai voluto che si trattasse, poiché le mie istruzioni sono sempre state che non rimanesse a loro altro scampo che la mia grazia e clemenza che sola essi potevano e dovevano invocare.» Ai sudditi serbatisi fedeli, che per difendere la santa religione e la corona avean preso le armi, egli significava la sua piena riconoscenza; e concludeva con la promessa che, come avea fatto pel passato, cosi per l’avvenire consacrerebbe la sua incessante e indefessa cura al loro bene, alla loro difesa, alla sicurezza loro. «Dio vi colmi delle sue celesti benedizioni a seconda dei voti del vostro amatissimo Padre e Re.»

Il giorno, di cui portava la data un tal manifesto, alle 9 della mattina la squadra reale entrò nello stretto di Procida. Il capitano Foote comparve a bordo della Sirena per prendere gli ordini di Ferdinando, che lo pregò di condurre il resto delle navi a Capri mentitegli con la sua fregata resterebbe a Procida. Il Foote stesso ebbe immediatamente dopo, insieme col capitano Nisbet della Talia, una missione per un’altra parte del Mediterraneo; era manifesto che al Nelson importava di allontanarlo da Napoli dove appunto allora la capitolazione, che portava la sottoscrizione del Foote, doveva essere rimessa in forse.

Re Ferdinando non aveva in animo di rimanere a Procida e a bordo della sua fregata Sirena; già in Palermo era stato deciso ch’egli disporrebbe della nave ammiraglia inglese e prenderebbe su questa la sua sede. La nuova del suo imminente arrivo si diffuse con la rapidità del lampo in tutte le parti della città, donde giovani e vecchi, uomini e donne di tutte le classi alla spiaggia di Chiaja e della Marinella affluirono. Molti si gettarono in barche; e queste in breve, infinite di numero, con le loro varie banderuole sventolanti, solcarono il mare per correre incontro al monarca sì lungamente desiderato. Quando il 10 di luglio verso le 10 della mattina la nave reale si mostrò nel golfo, scoppiò da per tutto un alto grido di benvenuto, tutte le navi da guerra fecero salve, e anche le batterie del Troubridge tonarono con forza raddoppiata contro le mura di S. Elmo, che lo stesso giorno di buon’ora aveva alzato la bandiera bianca, ma al comparire della nave reale nel golfo l’aveva abbassata daccapo e inalberata invece la tricolore francese. La folla sul lido e sulle barche parve come impazzata; da per ogni dove un chiamare, un gridare, un far cenni, un dimenar di cappelli, un’esaltazione insomma quale soltanto la più sfrenata gioja e il più. appassionato desiderio posson produrre, talché persino gli stranieri che si trovavan presenti ne furono colpiti e commossi. Si mescolavano però a tanto strepito anche grida selvagge; alcuni levavano in alto le armi, giuravano morte e sterminio ai repubblicani, ai patriotti, ai giacobini, invocavano con stridula voce: Giustizia! Giustizia!, alludendo ai tribunali militari.

L’aspettazione di coloro che credevano il re scendesse a terra, rimase delusa. Ciò non era nel suo disegno, ed egli aveva, com’è detto dianzi, promesso alla regina di non farlo. D’altronde le condizioni di Napoli e specialmente quelle del palazzo reale, situato sotto il cannone di S. Elmo, non erano tali da consigliare al re la dimora nella sua riacquistata metropoli (484). Alle 4 di sera Ferdinando montò a bordo del Fulminante, dove tutto era preparato per accoglierlo (485). Il suo arrivo si riscontrò con un fatto che parve bene augurato. Il re stava sul ponte del vascello e dirigeva il cannocchiale verso S. Elmo, quando una palla degli alleati colpì l’antenna della bandiera tricolore, talché quella andò in pezzi e questa cadde nella polvere. Subito dopo fu alzata la bandiera parlamentare, per la seconda volta in quel giorno, e gli assedienti cessarono il fuoco. Intanto Fabrizio Ruffo s’era recato sul vascello del re. Dopo i primi saluti cadde il discorso sulle capitolazioni dei castelli Nuovo e dell'Uovo, che il cardinale difendeva e volea veder puntualmente eseguite; il che contrastava manifestamente all'opera del Nelson, il quale s’era permesso di mettere in carcere coloro che avean capitolato. Ma l’Hamilton tenne fermo alla sua massima: non convenire al re il trattar con i ribelli; mentre il Nelson sosteneva il principio politico e militare, che bisognava profittar del momento per estirpare il male dalle radici; se i repubblicani andavano impuniti, servirebbe l’esempio ad accender lo zelo di molti altri male intenzionati, e simili altre cose; fino a che Ferdinando, che in cuor suo inclinava senz’altro da questa parte, si dichiarò per l’opinione dei due inglesi (486).

La sera dell’11 di luglio fu conclusa fra il colonnello Méjean dalla parte francese, e il duca di Salandra e i capitani Troubridge e Baillie dalla parte degli alleati una capitolazione, secondo la quale il presidio francese si dava prigioniero di guerra e, fino a tanto che non fosse accaduto uno scambio regolare, si obbligava a non prestar servizio contro gli alleati; gli ufficiali conservavano le armi, e insieme con i soldati, ma questi senz’armi, dovevano su navi della loro nazione esser condotti in Francia; per contrario dovevano esser consegnati tutti i sudditi di S. M. Siciliana che si trovavano nel castello e tutti i danari pubblici ovvero provenienti da saccheggi (487). Il giorno seguente si procedè all’esecuzione del trattato; la quale cominciò col fare uscire tutti gli abitanti del castello a fin di scernere e separare quelli che come napoletani non erano compresi nella capitolazione. Qualcuno di essi avea cercato di scapolarsela travestito in uniforme francese; ma fu riconosciuto e lo stesso Méjean prestò in tali ricerche servizio agli alleati (488). Il general Matera, che avea servito nell'esercito francese e però credeva di poter come francese considerarsi, dovette allo stesso modo essere consegnato come napoletano; così pure il generale Belpuzzi o, come scrive il Pepe, Belpulsy. Poiché questo tristo lavoro fu finito, il presidio francese si mise in marcia senz’armi e senza suon di tamburo, soltanto col sacco sulle spalle; e anche questo giunti sulla riva dovettero, prima d’imbarcarsi, lasciar frugare, se per caso vi si trovasse roba nascosta.

Alle 9 della mattina, alzata solennemente e con 21 colpo di cannone dalle navi del Nelson salutata, la bandiera reale sventolava sulle mura di S. Elmo; e nel Carmine maggiore si celebrava un servizio divino di lode e ringraziamento al Dio degli eserciti per un tal fatto che assicurava in tutta la città la vittoria alla causa del re. Mentre il cardinale, alteramente a cavallo e circondato da numeroso stato maggiore, faceva il suo ingresso in città e scendeva al palazzo della famiglia Bagnare al Mercatello dove pose il suo quartier generale, il capitano Troubridge si recava sul Fulminante per consegnare al re le chiavi di S. Elmo e le bandiere del presidio repubblicano (489). Ferdinando fece senza indugio partire alla volta di Palermo una nave perché rimettesse nelle mani della regina i trofei.

Lusingavano l’animo di Ferdinando gli omaggi che continuamente dalla città gli venivano; ogni giorno centinaja di barche, adorne dei colori reali, con suoni e grida intorno al Fulminante si stavano, aspettando che il re si facesse vedere. Anche deputazioni giungevano dalla città e da diverse parti del regno; erano ricevute nella parte posteriore della nave ammiraglia, dove il re teneva formalmente la sua corte, dava udienza come avrebbe potuto fare in palazzo, conferiva con l’Acton, col Nelson, col cardinale. Una questione che domandava d’essere urgentemente decisa era quella circa le persone che si trovavano sulle polacche tuttora trattenute dall'armata inglese. La lunga incertezza della sorte che le aspettava faceva il loro stato quasi intollerabile, e per travagli e incomodità inferiore soltanto a quello dei loro antichi compagni, che su «navi prigioni» attendevano giudizio e condanna. Poiché questi erano veri e proprj carcerati, i quali fatti segno agl’insulti e mali trattamenti dei loro guardiani calabresi, nutriti appena tanto da non morire di fame, taluni mezzo nudi e in zucca esposti sopra coperta agli ardenti raggi del sole o ammucchiati a centinaja negli spazj sottostanti, menavano una esistenza veramente tormentosa. Il re ordinò che fossero assoggettati a formale processo e consegnati alle autorità deputate a tale ufficio.

Queste cagioni forse, o i provvedimenti presi dal Nelson per la partenza dei prigionieri da guerra di S. Elmo alla volta di Tolone (490), spinsero i già rinchiusi negli altri due forti a fare d’accordo un passo per la loro finale liberazione. «Da ventiquattro giorni,» così essi si lamentavano, «stiamo qui senza poter partire, come un trattato concluso con una delle più colte nazioni d’Europa ci aveva promesso» (491). Si lasciavano mancare delle cose più necessarie, dormire sulla nuda terra, nutrire di pane ammuffito con acqua putrida e con vino mescolato ad acqua di mare; «già s’eran dati casi di malattie contagiose che la vita di tutti minacciavano.» Alle rimostranze loro il Nelson fece il sordo; rispose che la lor sorte dipendeva dal re, «il quale era il giudice più atto a giudicare il merito o demerito de' suoi sudditi.» Se l’ammiraglio mettesse la supplica nelle mani di Ferdinando, non è noto; certo è solamente che l’ora della liberazione non sonò per quegli infelici.

Ferdinando stava sempre in forse tra la severità e la clemenza. Come in Palermo, così a bordo del Fulminante c’erano su questa materia due partiti che si disputavano l’efficacia sull’animo del re. Ma la decisione definitiva non pareva dubbia. Per l’intero perdono parlava presso il re solamente il Ruffo co’ suoi aderenti; da lontano lord Keith ammoniva il suo famoso collega che non tirasse troppo la corda, che non prestasse troppo orecchio agl'incitamenti dei realisti che lo circondavano (492). Ma il Nelson non dava ascolto se non alla passione che lo signoreggiava, ed alla sua propria maniera di vedere che, quanto grande e nobile nelle cose della sua professione, tanto era debole e meschina in politica. Era del resto, come da più luoghi delle sue lettere apparisce, sofferente di salute in tutto quel tempo, il che dava stimolo alla sua eccitabilità naturale e lo faceva inclinare a quei ciechi sentimenti di rigore e di vendetta che intorno al re dominavano. In tale stato di cose le accuse, le ricerche, le persecuzioni, gli arresti delle persone, i sequestri dei beni dovean prendere di giorno in giorno maggiore estensione. «Già più di 4000 famiglie hanno parenti in prigione,» scriveva verso la fine di luglio il Troubridge, al quale, già zelante fautore di severo governo, parve poi che le cose fossero spinte tropp’oltre, talché scrisse: «se non si dà un’amnistia, non si può sapere dove si andrà a finire. La popolazione non ha altro pensiero dalla vendetta in fuori, e presterà mille giuramenti per procurarsela in qualche modo. Fanno a gara a pigliar di mira le persone con l’intendimento poi di rubarle. Dei beni sequestrati poca cosa arriva al tesoro del re, perché tutti rubano» (493).

I giudici sedevano sempre a Procida come per ¡’innanzi, ma per la crescente quantità di affari ne fu aumentato il numero. A mezzo il luglio giunse da Palermo Gius. Guidobaldi; oltre di lui erano siciliani per la più parte quelli che a tale ufficio si adoperavano. Ma il più temuto nome rimase sempre quello di Vincenzo Speciale, che sotto un aspetto di malvagità e crudeltà diabolica era dalla fama rappresentato. Non va dimenticato però che tutto si esagerava; e non sembrano affatto nel torto coloro a cui lo Speciale apparve come un bambino innocente a paragone di Giorgio Jeffreys in Inghilterra e Fouquier-Tinville in Francia (494).

X

CAPUA, GAETA, PESCARA

In Palermo il principe Tommaso Corsini si apparecchiava alla partenza. Prese dal ministro austriaco e dalla regina le più caldo commendatizie per trovare buona accoglienza a Vienna. Gli altri ministri toscani rimasero pel momento in Sicilia. «Sono» scriveva di loro la regina, «gente tranquilla e stimabile; ma si sentono profondamente offesi dal divieto di toccare gli stati imperiali, dal quale si considerano senza veruna loro colpa quasi disonorati, specialmente l'ottimo e povero Seratti.»

Il Corsini potè portare lieti messaggi. Perché il dì 11 di luglio, mentr’egli era in procinto di partire, giunse la novella del felice arrivo del re a Procida. Subito dopo pervennero alla regina altre buone nuove. La sera del 14 sul tardi arrivò nel porto di Palermo Francesco Ruffo, il quale consegnò lettere di suo fratello del 6 e dell’11; e il giorno appresso, ricorrendo la festa di Santa Rosalia, si celebrava appunto nel Duomo un solenne servizio di ringraziamento e la regina e tutta la real famiglia vi assistevano, quando giunse in porto il brigantino che, mandato dal re dopo l’occupazione di S. Elmo e favorito dal vento, avea fatto in meno di tre giorni la traversata da Napoli a Palermo. Le bandiere francesi la regina le fece appendere come segno di vittoria nella cattedrale; per contrario le due bandiere della «Vesuviana» furono per suo ordine trascinate per le strade e sulla piazza innanzi al castello per mano del carnefice arse, e le ceneri buttate nel mare. Seguirono suoni di campane e salve d’ogni maniera del castello, delle navi e del presidio, ed altri simili segni di pubblica allegrezza (495).

In una lettera dello stesso giorno alla Hamilton Maria Carolina attribuiva un ingegnoso significato alla caduta della bandiera repubblicana dai muri di S. Elmo: «Certamente ciò dev’essere accaduto per effetto d’un colpo di cannone tirato dagl'inglesi. E questo, io credo, significa che, avendo il re dato l’impulso che ha riacceso la guerra, del quale impulso ei fu disgraziatamente vittima e sarebbe anche rimasto tale senza l’ajuto della vostra gran nazione e del nostro liberatore Nelson, significa, dico, che questa guerra deve portar distruzione a quella vergognosa repubblica che tante sventure ha portato a noi tutti.» Non rifiniva di ringraziare il Nelson e i suoi bravi capitani che chiamava «allievi del nostro eroe e liberatore,» i quali per lei e pe’ suoi avean tanto lavorato e sofferto (496). Ma anche il cardinale fu da lei vivamente ringraziato per aver contribuito alla onorevole resa del forte, sebbene ella non nascondesse alla sua amica che aveva molte cose nel cuore contro di lui. Innanzi tutto Tesser egli poco diligente nello scriverle e nel mandarle ragguagli diretti e diffusi intorno a ciò che accadeva o che si apparecchiava, era cagione ch'egli le cadesse dall’animo. Oltre di che le nomine che Fabrizio Ruffo faceva, le persone ch'e’ sceglieva ai pubblici ufficj non sempre le piacevano; c’erano, secondo lei, fra quelle molti colpevoli o almeno sospetti, che non si potevano tollerare (497). Dall’altra parte il Ruffo avea più d’una volta rifiutato persone mandategli dai ministri e anche dallo stesso re; del che Carolina era scontenta, e si sentiva specialmente offesa quando il rifiuto toccava a uno de' suoi protetti. Scriveva a lady Hamilton sembrarle cosa ridicola che il cardinale domandasse di esser lasciato tranquillo dalle spie. Egli tiene quest’espressione da bricconi che l’hanno inventata per rendermi a lui odiosa e per farmi torto $ e in sostanza danno così soltanto a conoscere quanta paura abbiano che sieno scoperti i loro cattivi tiri. Un uomo che teme le spie dà a conoscere checommette azioni di natura equivoca» (498). Chi più aveva perduto nella sua stima era il Micheroux, al quale ella facea carico delle concessioni eh erano state fatte o si volevan fare al nemico. «Il suo affare è infame. Ha forse voluto dividere col Méjean i 150,000 ducati? spero che non li avranno sborsati loro. Ma più vergognoso e più dannoso per noi è l’armistizio, poiché si abbassa nell'opinione dei nostri alleati ed amici, e ci toglie ogni fiducia. Nei tempi più tristi, nei giorni dell'abbandono delle nostre truppe dopo la ritirata da Roma, non eravamo scesi a tanto; nel momento presente sarebbe il colmo della stoltezza» (499).

In quel tempo l’animo di Carolina era singolarmente amareggiato. I clamorosi omaggi che suo marito nel golfo di Napoli riceveva, poteano certamente rallegrarla; ma poi ricominciava a domandare a sé stessa: «Mi deve ciò illudere? Hanno fatto lo stesso per lo Championnet, e lo farebbero pel Macdonald se con 60,000 uomini ritornasse» (500). Dopo la presa di S. Elmo scrisse a lady Hamilton che sperava ch'ella volesse senza indugio fare una visita al castello per respirare migliore aria e godere della magnifica occhiata. Vedrete,» aggiungeva con amaro scherzo, «in tal congiuntura tutte le dame e i signori; spero che ne sarete sodisfatta» (501). La stessa disposizione d’animo appariva dalle sue lettere a Vienna, alla qual città sperava ormai di potere scrivere più spesso, e di averne regolarmente risposta; tutti gli otto giorni doveva partire un bastimento diretto al littorale austriaco. Se non che il principio di queste regolari partenze fu differito da una settimana all’altra, senza dubbio per paura dell’armata francese e spagnuola, delle cui manovre si faceva daccapo un gran discorrere.

Dopo la caduta di S. Elmo il Nelson attendeva a prendere disposizioni per assediar Capua e Gaeta con maggiori forze, quando venne un ordine di lord Keith, del 27 di giugno e del seguente tenore: «Il contrammiraglio farà partire quante più navi sarà possibile per le acque di Minorca, salvo il caso che bisogni badare a qualche squadra francese, sia nelle vicinanze della Sicilia sia nella linea verso Siria o Egitto.» La esecuzione di quest'ordine avrebbe attraversato tutti i disegni del Nelson contro Napoli. Avendo sbarcato tutti gli uomini di cui poteva fare a meno sulle navi a fin che cooperassero alla conquista del regno, non poteva lasciar partire né pure una nave; «e se si volesse decidere quale fosse da preferire, il possesso delle Baleari o l’assicurazione dei due regni di Napoli e Sicilia, la scelta non poteva essere dubbia.» Non si dissimulò la portata di tal disobbedienza: «ma come in precedenti congiunture ho spesso arrischiato la vita per la buona causa, cosi volentieri arrischio ora il mio posto; un tribunale di guerra può giudicarmi colpevole, il mondo approverà la mia condotta.» S’era talmente messo in capo di essere il liberatore e sostenitore del trono di qua e di là dal Faro, che a nessun patto voleva cessar l’opera prima di averla recata a compimento. In questo senso rispose al suo superiore: «Appena la sicurezza dei regni di S. M. siciliana sarà garantita, non indugerò a adempiere gl’incarichi commessimi; ma fino a che i francesi si trovano in possesso di una delle fortezze del paese, tutto sarebbe rimesso in pericolo se non vedessero più la mia armata» (502).

Ma con la ripresa delle fortezze non era tutto finito. Il regno continentale, sebbene in tutte le sue parti riconquistato, non era tuttavia sicuro da nuovi torbidi fino a che di là dal confine un usurpato potere dispotico continuava la sua opera disordinata. Fu dunque risoluto, secondo le idee di Carolina che già da un pezzo avea trattato di ciò col cardinale, che, appena ristabilita la legittima autorità in Napoli, si procedesse a fare il simile nei vicini stati papali. Si faceva assegnamentoper quest'impresa sul gran corpo russo, che l’imperator Paolo da lungo tempo aveva promesso e che si congetturava già giunto nel ferrarese e in procinto di marciare verso il mezzogiorno (503). A questo fine doveva una divisione dell’armata cristiana avanzare come vanguardia oltre al confine, e il cardinale ne affidò il comando al suo luogotenente colonnello Rodio (16, 17 di luglio). Il quale non indugiò ad annunziare il suo prossimo arrivo alle popolazioni dello stato romano ed a tutti gli ufficiali pubblici tanto del governo pontificio quanto del governo provvisorio repubblicano, intimando loro che all'autorità sua si sottomettessero. Proclamò l’ordine e la legalità affermando che non andava a punire ma a liberare; promise grazia ed obblio in nome del re ch'e’ rappresentava, salvo a coloro che armata mano alla marcia delle sue colonne contrastassero. Ordinò che dappertutto gli alberi della libertà si abbattessero, si deponessero le armi, e in testimonianza dei mutati sentimenti s’inalberasse il segno della croce, quale soleva portare l'armata cristiana, e a canto a quello i colori napoletani. Pensava finalmente ai loro bisogni, alla penuria dei mezzi di sussistenza; Napoli sovverrebbe, poiché «sebbene i nemici abbiano in sette mesi d’infelice dimora nel regno tentata ogni via per impoverirlo, è non pertanto cosi feconda di generi, che potrà con l’unione sua amichevole al vostro stato somministrarvi quel molto che a voi manca, e che avete finora desiderato inutilmente» (504).

In quel mentre una parte dell'armata francese aveva compito la sua riunione con la spagnuola; la Gallispana, 43 vascelli di linea in tutto, aveva, il 29 di giugno, lasciato il porto di Gartagena, passato l'89 di luglio (505), lo stretto di Gibilterra, e gittate l’ancora nel porto di Cadice. L’ armata poteva avere per iscopo l’imboccatura del Tago a fin di prendere Lisbona; dall'altra parte si faceva sempre più stringente il timore che si potesse mirare a un colpo sulle isole inglesi, per la cui difesa non c’era in quelle acque una sufficiente forza navale disponibile. Seguì un secondo, poi un terzo ordine del Keitb, in data del 9 e del 14 di luglio, i quali giunsero il 19 e il 22 nelle mani del Nelson e gli facevano le più vive premure di riunirsi alla grande armata con tutte le sue navi o almeno con la maggior parte di esse. Ma anche questa volta il Nelson sul punto principale rimase fermo al suo antico proposito: «prima di aver cacciato dal regno quei birboni dei francesi egli non poteva privarsi di una sola nave; la sicucurezza del regno napoletano dipendeva dalla dimora della sua armata; valer meglio il difender Napoli e rischiar Minorca che difender Minorca e rischiar Napoli» (506). Nello stesso tempo però vedendo che, non ostante la cura ch'egli voleva dare al suo principale ufficio, non poteva lasciare senza soccorso l’armata delle Baleari, mandò da prima il contrammiraglio Duckworth con tre vascelli di linea e una corvetta a Minorca (507), gli diè facoltà di prender seco quanti navi amiche incontrasse per via, e provvide che dalla parte della squadra di Siria e di quello di Malta altri vascelli di linea fossero messi a disposizione del Keith.

S’esponeva a un doppio rischio, poiché, oltre al disobbedire a ordini superiori, impiegava i suoi uomini, soldati e marinari, a fini a cui non erano destinati, ordinando dopo la presa di S. Elmo, quando quella di Capua doveva essere con maggiori forze procurata, che i suoi uomini si spingessero a parecchie miglia dentro nel paese, dove, se l’impresa falliva, potevano esser tagliati fuori e andar perduti per le navi rimaste quasi senza nessuno. Né mancò l’ammiragliato di biasimare per l’una e per l’altra cosa lord Nelson (508); se non che in quel precipitare degli avvenimenti e con la lentezza delle comunicazioni fra il Mediterraneo e Londra, le condizioni delle cose cambiavano presto, in modo che le esortazioni e i biasimi non eran più opportuni.

La fortuna sorrideva oramai al suo favorito, i cui successi superavano qualunque ardita aspettazione. Erano 4000 fra calabresi, svizzeri, russi e albanesi con 1000 suoi uomini, che sotto il comando del Troubridge e dell’Hallowell mossero verso Capua, dove giunsero il 19 e il 20. La città, com’è noto, assediavano da alcune settimane le schiere irregolari del duca di Roccaromana, alle quali poi s’era aggiunto un corpo di siciliani sotto il generale Burkhardt. Il Roccaromana, dopo aver definitivamente rotto con la rivoluzione, era, a quanto pare, rientrato nella piena grazia della coppia reale. Il Nelson solamente, più severo della corte, non voleva saperne nulla, ed esortò i suoi capitani a non fidarsi punto di lui, anzi a non permettergli neppure di comparir loro dinanzi (509). Come essi potessero eseguir si fatto ordine, dovendo operare in comune con i soldati e con i volontarj indigeni, non è noto; fatto sta che l’assedio progredì felicemente, e la riuscita finale non poteva esser dubbio.

Ferdinando IV sul Fulminante ebbe in quei giorni un continuo seguito di buone nuove. Il 27 le salve di tutte le navi del Nelson salutarono la presa di Livorno per opera degli austriaci e dei russi, che cominciavano a prevalere definitivamente nell’Alta Italia. Il fatto non poteva non esercitare efficacia sulle cose del mezzogiorno. Il 28 di luglio alle 4 di sera il capitano Troubridge salì a bordo della nave ammiraglia con la notizia della caduta di Capua, e poco appresso portò il capitano Oswald le bandiere prese ai nemico. La capitolazione, firmata per parte dei francesi dal generale di brigata Girardon comandante di Gaeta, e per parte degli alleati da Troubridge, Burkhardt e Baillie (510), era conclusa alle stesse condizioni di quella di S. Elmo, e si riferiva strettamente al presidio francese-polacco-cisalpino — 2817 uomini al momento della resa — escludendo i nativi italiani che erano abbandonati a discrezione del re; uno dei patriotti che travestito da capitano cisalpino voleva svignarsela, fu riconosciuto dal commissario francese, preso pel collo e consegnato al commissario degli alleati (511).

***

Fabrizio Ruffo avea messo piede sul continente il dì 8 di febbraio; era un venerdì, secondo la general credenza giorno nefasto, nel quale non bisognerebbe por mano a nulla. Ma per lui fu il venerdì sempre di buon augurio, poiché i suoi più felici successi furono in quel giorno conseguiti: dal 21 al 22 di marzo, che era un venerdì, cadde in suo potere Cotrone; il 10 di maggio, anche un venerdì, Altamura, la più importante e forte piazza dei ribelli in quella regione, fu vinta; dopo che nella notte del venerdì 14 di giugno fu preso il castello del Carmine, nelle ore seguenti le colonne dell’armata cristiana entrarono nella capitale; il venerdì 12 di luglio, per la prima volta dopo i sanguinosi combattimenti del gennajo, sventolò novamente la bandiera reale sulle mura di S. Elmo che avea capitolato il giorno innanzi; e se Capua si arrese di domenica, le trattative erano cominciate il giorno di venerdì 26 di luglio (512).

Alle operazioni innanzi a Gaeta sembra che l'esercito del Ruffo non prendesse parte degna d’esser menzionata, il che si spiega per la situazione di quella piazza forte, che andava specialmente attaccata dal lato del mare. Il Nelson non tardò a fare gli apparecchi d’un formale assedio. Al capitano Louis del Minotauro ordinò che, preso un certo numero di soldati. di marina a bordo, facesse vela a quella volta, e giunto innanzi la fortezza invitasse il comandante a seguir l’esempio di S. Elmo e di Capua ed arrendersi. Già il 31 si mostrò il Girardon pronto alla capitolazione, che lo stesso giorno a bordo della nave ammiraglia inglese fu conclusa, e dal ministro Acton e dall’ammiraglio Nelson firmata (513). Non essendo stata la fortezza regolarmente assediata, ma bloccata solamente, i patti furono pel presidio più favorevoli: poterono uscire con gli onori militari e non furono considerati come prigionieri di guerra; solo ai sudditi del re Ferdinando toccò la stessa sorte che a quelli di S. Elmo e di Capua; si trovava tra loro il principe Pignatelli-Moliterno.

Quasi nello stesso tempo capitolarono Pescara sull'Adriatico e il forte di Civitella del Tronto; il comandante di entrambi, il conte di Ruvo, che a uso repubblicano si chiamava semplicemente Ettore Carafa, dovette arrendersi a discrezione; senza dubbio fu Pronio co’ suoi calabresi che riportò questa vittoria. Il conte Ruvo fu consegnato ai tribunali di Napoli.

Il regno continentale era oramai sgombro da ogni resistenza armata. Soltanto nel vicino stato romano si trovavano ancora francesi co’ loro aderenti; nel castel Sant'Angelo, in Civitavecchia che dopo mesi di accanita resistenza si era dovuta arrendere, nel Perugino, in Ancona. Già il Rodio con una divisione dell’armata cristiana era entrato nel territorio degli stati già pontiflcj, ed aveva invitato la popolazione a seguire il suo re. Si mise all’opera anche il Nelson; il quale, com’egli stesso scrisse al conte Spencer, riguardava suo principio e dovere «l’entrare con tutte le sue forze in campo quando si trattava di mandare al diavolo i francesi e ridonare pace e ben essere all’umanità (514). Subito dopo la resa di Gaeta ei mandò 500 de' suoi marinari contro Civitavecchia; Fabrizio Ruffo fece partire per lo stesso scopo 600 svizzeri. Ebbe il comando delle forze d'assedio il capitano Hallowell, mentre il suo compatriotto e compagno d’armi Louis doveva appoggiar col Minotauro l’assalto dal lato di mare. Nello stesso tempo una parte della squadra inglese doveva incrociare lungo le coste sino a Livorno, tenere in iscacco, per quanto era possibile, i francesi, e promuovere e ajutare la rivolta della popolazione (515).

Anche degli ordini del suo superiore il Nelson si ricordò, e spedì due altri vascelli di linea, Belle-rofonte e Zelante, a Fort Mahon. La Gallispana aveva intanto lasciato le acque di Cadice il 20 di luglio, lord Keith incrociava a occidente di Gibilterra, e per il momento ogni pericolo nel Mediterraneo era dileguato.

XI

LA CORONA AL MERITO

Per lo spazio di più di quattro settimane Ferdinando IV si era privato del suo godimento favorito a fin di dedicarsi a quei doveri che la sua qualità in tal congiuntura suprema gl imponeva (516). Il Ruffo non credeva che il re avesse ancora adempiuto al suo incarico, giudicava anzi che la presenza di lui fosse più che mai necessaria, mentre al difficile ufficio dèi giudice doveva accompagnarsi il lavoro del carnefice. Ma Ferdinando non si lasciò più trattenere, e anche la regina desiderò ch’egli si riducesse in luogo sicuro, non volendo più tollerare le angustie onde le era cagione il saperlo presso il focolare della rivolta. Col re doveva anche il Nelson tornare in Sicilia; il commodoro Troubridge prenderebbe, come due mesi prima, il comando della squadra rimasta nel golfo di Napoli, mettendosi costantemente d’accordo col luogotenente reale.

Quest’ultimo ufficio fu conservato al Cardinal Ruffo, verso il quale tanto più si largheggiò di lodi e di lusinghe (517) quanto meno si aveva intenzione di lasciargli, come per lo innanzi, braccio libero. Prima che il re si accingesse a partire dal suo regno continentale, prese provvedimenti per la condotta dei pubblici affari durante la sua assenza. Il posto di vicario generale, creato per le passate circostanze straordinarie, fu abolito; il cardinale Fabrizio Ruffo doveva per l’avvenire portare il titolo di luogotenente e di capitano generale a capo della suprema Giunta del buon governo; la Giunta dipendere immediatamente dal re, e per mezzo dell'Acton e del Castelcicala riceverne gli ordini. Il Ruffo nella sua nuova qualità si trasferì, per volere di Ferdinando, al palazzo reale. Membri della Giunta di governo erano: il consigliere di stato Marchese Don Saverio Simonetti, i due luogotenenti generali Filippo Spinelli e Daniele Gambs, dei quali uno doveva sempre prender parte alle deliberazioni; il direttore di finanza Gius. Zurlo; il direttore della giustizia Eman. Parisi; il direttore degli affari ecclesiastici Fra. Migliorini; a vicenda uno dei direttori della guerra, maresciallo Ferd. Lorgerot, colonnello Gio. Batt. Colajanni, e luogotenente colonnello Ant. de' Torrebruna; uno dei principi della chiesa, arcivescovo Capobianchi di Capua e vescovo Torrusio di Capaccio; come segretario con voto l'avvocato fiscale D. Domenico Martucci (518). Fu per l Acton e pel Nelson una gran sodisfazione che per tal modo all’onnipotenza del Ruffo, il quale secondo loro aveva usurpato il suo primo ufficio di vicario generale, fossero assegnati salutari confini; poiché quanti lo circondavano erano talmente corrotti che non si otteneva nulla se non per danaro. «I soli uomini incorruttibili,» soggiungeva l’ammiraglio al conte Spencer, «mi sembrano l’Acton e il Belmonte» (519).

Anche la Giunta di stato ebbe un nuovo ordinamento e un cerchio di funzioni circoscritto. Ne stava a capo come presidente Felice Damiani, giudici erano La Rossa, Di Fiore, Sambuto, Speciale; faceva da fiscale il Guidobaldi, da segretario Salvatore di Giovanni; avevano ufficio di difensori il Vanvitelli e il Moles, di procuratore de' rei Alessandro Nava; l’esecutore si chiamava Tommaso Paradiso. La Giunta doveva conformarsi alle «procedure sicule» ed era munita di straordinarj poteri. Dovevano pure esser mandate nelle province le «visite di Stato» con istruzioni e ufficj uguali a quelli della Giunta; al qual provvedimento invano il Ruffo si oppose, dichiarandolo anche superfluo, poiché i patriotti delle province o erano già puniti con multe, o dalla furia popolare uccisi, o rifugiatisi nella capitale (520). Fu finalmente formata una giunta di generali sotto la presidenza del luogotenente generale Spinelli per ricercare la condotta degli ufficiali negli ultimi tempi e consegnare i colpevoli al tribunale di guerra.

Per rispetto a coloro che erano compresi nelle capitolazioni dei castelli Nuovo e dell'Uovo e non si trovavano in prigione o sotto accusa, bisognava finalmente prendere un partito. In un «appuntamento» della gran Giunta del 1° di agosto furono condannati all'esilio e al sequestro dei beni; e fu ordinata una esatta descrizione di ciascuno di loro. A tale effetto il giudice di polizia con due membri della Vicaria si recò sulle polacche, dove furono tutti chiamati l’uno dopo l’altro e dovettero sottoscrivere un foglio, obbligandosi a star lungi dai confini dei reali dominj sotto pena di morte, e con impunità, in caso di contravenzione, a chiunque gli ucciderebbe (521). Gl'indugi che furono l'effetto di tali procedimenti impedirono ancora che le polacche rimanessero libere, e quelli che vi dimoravano videro differita di molti e molti giorni la speranza di essere trasportati in Francia.

Il 1° di agosto 1799 fu celebrato nel golfo di Napoli l'anniversario della battaglia navale di Abukir. Il re pranzò dall’ammiraglio, e quando bevve alla sua salute, 21 colpo di cannone da tutte le navi, da tutti i castelli annunziarono al mare e alla terra la gloria del Nelson. Giunse una lettera della regina che chiamava quel giorno eternamente per lei memorabile. «Consegnate questa mia lettera» ella diceva alla sua confidente, «all’eroe del Nilo, al valoroso Nelson, al difensore d’Italia, al liberatore delle Due Sicilie, al quale, finché gli occhi miei non si chiuderanno, professerò eterna gratitudine.» Quanto deplorava di non potere esser presente e gridare con tutto il cuore tre volte evviva, in modo che, non ostante il

tonar del cannone, fosse udita la sua voce (522)! La sera tutte le navi erano illuminate, un grosso trasporto, trasformato in galea romana e ornato di 200 lampioncini di diversi colori, aveva nel mezzo una colonna formata di speroni col nome del Nelson, e dalla parte di poppa un genio con l’effigie di lui; un’orchestra sonava inni in onore dell’invincibile, che avea ridonato a Napoli felicità e pace.

Quattro giorni appresso, il 5 di agosto, il Fulminante che aveva a bordo il re, John Acton, l’ammiraglio e gli Hamilton, levò l’ancora insieme col Principe reale del marchese Niza; la sera dell'8 erano all'altezza di Palermo, dove tutte le navi che vi si trovavano ancorate frettolosamente s’ornarono e tiraron salve, il cui tonare si confondeva con quello delle artiglierie delle mura e dei forti. La regina, il principe ereditario, i principi e le principesse reali andarono incontro e, salutati da 21 colpo di cannone, montarono sul Fulminante, dove per la prima volta dopo più di quattro settimane di separazione col capo della famiglia e col festeggiato eroe e liberatore del regno a una mensa comune s’assisero. Alle quattro il re lasciò la nave ammiraglia, e aspettato sul Molo da una infinita moltitudine fece il suo solenne ingresso in Palermo. Vi entrò in carrozza; andò dapprima al Duomo, dove il senato, le autorità municipali, la corte e la nobiltà lo accolsero, e fu cantato un Te Deum; e poscia al palazzo reale, dal cui balcone egli e la regina dovettero mostrarsi per salutare e ringraziare con affabili gesti il popolo, che gridando e applaudendo tutto il tempo li aveva in folla fin lì accompagnati. La sera illuminazione della città e fuochi d’artifizio; e poi passeggiata in carrozza della famiglia reale senza alcuna scorta per le strade della città in mezzo alla moltitudine giubilante (523). Il ministro imperiale conte Esterhazy ebbe il singolar favore di restare con la famiglia reale in tutte le feste, a cominciare dal banchetto sul Fulminante. Maria Carolina anche in presenza di altri gli dichiarò apertamente che, se la riconquista del regno e la liberazione d’Italia erano riuscite, bisognava in primo luogo farne merito agli armamenti dell’Austria ed ai fatti d’arme dell’esercito imperiale, e che il considerar ciò la moveva a vivissima gratitudine verso l’imperatore (524).

Né minori di tali dimostrazioni di gioja furono le onorificenze con cui la corte di Palermo significò la sua gratitudine. Innanzi a tutti, come conformemente alla general disposizione degli animi era da aspettarsi, andò l’ammiraglio inglese; fu creato duca di Bronte, con un ricco possesso e con una rendita di 18000 ducati. Il Nelson, a quel che dicono i suoi biografi, sulle prime non voleva accettare il real dono; ma lady Hamilton in nome di Ferdinando gli fece osservare che «egli collocava il suo onore troppo in alto, se rifiutava di accettare ciò che il re e la regina per l’onor loro riguardavano come inevitabile.» Ferdinando stesso gli rivolse la domanda: «Volete voi che il vostro nome soltanto passi con onore alla posterità, e che invece sul mio rimanga la macchia dell'ingratitudine?» (525) Alla vezzosa amica del Nelson la regina porse il suo ritratto in diamanti con la iscrizione: «Eterna gratitudine,» appeso a una catena d’oro da mettere intorno al collo. Altri doni per lei del re, per lei e pel marito Hamilton del re e della regina, raggiungevano il valore di 6000 ghinee; tabacchiere, orologi, anelli e simili, il tutto riccamente montato e di gran pregio, ai capitani Foote, Troubridge, Hardy; minori doni all’equipaggio del Fulminante e del Cavallo marino.

Si poteva fra tante feste e gioje pensare agl’infelici ch’erano stati lasciati nel golfo di Napoli? Dopo la partenza del re per la Sicilia il loro numero era cresciuto. Il 5 di agosto Guglielmo Pepe con la maggior parte de' suoi compagni di carcere, e fra gli altri Vincenzo Russo e il prof. Fil. Guidi, era stato dai Granili condotto sulla corvetta Stabia, che al pari di tante altre navi faceva l'ufficio di prigione. Ivi essi stavano, come i prigionieri del 26 di giugno, sotto i cannoni delle navi inglesi, e non erano meno duramente trattati, poiché dormivano sulla nuda terra e non avevano per lo più da mangiare se non pane asciutto (526). Finalmente sonò l’ora della liberazione pei rinchiusi sulle polacche — ma non per quelli della corvetta Stabia, la cui uscita fu rimessa a tempo più lontano. Dopo tante carcerazioni, di 1300 che, al dire degli accusatori della corte, il 26 di giugno erano stati per ordine del Nelson fatti uscir fuori dai castelli Nuovo e dell'Uovo, 500 appena il 12 di agosto partirono dal golfo di Napoli verso il settentrione. Di certo alle insistenti premure del Ruffo andavano essi debitori dell’essere finalmente lasciati partire per la Francia. Cosi la promessa che, costretto dalle circostanze, avea fatta sulla sua parola e sull’onor suo al vinto nemico, fu almeno in parte mantenuta; ed egli potè dire, che per riguardo suo non tutti almeno erano stati messi in carcere e abbandonati a quei tribunali, che per mesi e mesi e anche per anni dovevano esercitare il loro severo e spesso sanguinoso ufficio.

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Fra le molte dimostrazioni di favore, che il Nelson seguitò ad avere dalla real famiglia, vi fu il dono che Ferdinando gli fece della spada ornata di preziosi diamanti, che un giorno Carlo III aveva insieme col trono lasciata a suo figlio. Ma non sarebbe essa con miglior diritto spettata al valoroso e prudente cardinale e general Ruffo? Non lo trascurarono certamente — come avrebbero potuto? — egli ebbe una rendita di 15,000 ducati, una di 3000 suo fratello; al duca di Baranello, primogenito della famiglia, fu concessa la ereditaria giurisdizione su S. Sofia di Benevento; senza parlare di infinite altre concessioni di terre, pensioni, titoli ed ordini, con cui il favore reale ricompensò i meriti, che i servitori, aderenti e vassalli di casa Baranello Bagnare si erano acquistati nel corso degli ultimi anni. Anche ciò che fu fatto per S. Antonio di Padova accadde in grazia di Fabrizio Ruffo. Essendo caduta nel giorno di questo santo la vittoria del Ponte della Maddalena, ed essendo stata da tutti con riconoscenza attribuita tal vittoria alla miracolosa cooperazione di lui, il re ottenne dalla Santa Sede la facoltà di mettere il protettore di Padova fra quelli del regno di Napoli, e il suo giorno fra le festività più segnalate e cospicue (527).

«I re sono ingrati.» È una vecchia sentenza che ha molto di vero; ma non bisogna dimenticare che i potenti della terra vivono non di rado in un cerchio nebuloso, e soggiacciono a efficacie da cui non possono liberarsi. Il che va specialmente detto della corte palermitana. Ferdinando che poco si curava di ciò che non si riferiva alla caccia e alla pesca, Carolina che, d un’indole diametralmente opposta, per tutto ciò che le si presentava innanzi all’animo troppo subitanea e vivace si appassionava, erano, dopo la partenza del Ruffo da Palermo, circondati da gente, se non del tutto ostile, quasi senza eccezione poco bene affetta al Ruffo. L’Acton era il braccio diritto del re, Emma Liona era la confidente della regina, il Nelson era l’idolatrato eroe, dalla cui gloria tutte le altre dovevano rimanere offuscate. Il Nelson non era mai stato ben disposto verso il cardinale; ma dopo gli ultimi avvenimenti egli e gli altri suoi inglesi avventati non sapevano perdonargli i biasimevoli accordi con inutile precipitazione firmati coi ribelli. Oltre di che c’erano qua e là parecchie altre piccole ragioni di scontento e di animosità contro di lui. Antonio Micheroux non avea del tutto dimenticato l’opposizione che il Ruffo avea fatta all'entrata del cavaliere nel territorio di Lecce e di Otranto. Diego Naselli gli portava rancore per aver dovuto andar prigioniero in Sicilia, sebbene in fondo il Ruffo gli avesse per tal modo salvata la vita. Qual meraviglia dunque che i circoli intorno alla real coppia esercitassero una critica severissima su tutto ciò che non era fatto da quelle onnipotenti persone, e che da lontano facessero carico al cardinale ed a' suoi strumenti di tutto ciò che non andava secondo i pensieri e i desiderj loro? Egli aveva menato a felice successo un’impresa, della quale pochi mesi prima, tanto in corte quanto sulla nave ammiraglia, si dubitava; e adesso quelli che non avean messo piede fuori della loro casa o del palazzo reale, trovavano nella sua condotta, nelle sue azioni mille cose da apporre, da biasimare, da mettere sotto cattiva luce. Persino l'armata cristiana, ch'egli avea per cosi dire fatta sorger di terra e con la cui sola opera era riuscito a effettuare il suo disegno, era ivi argomento di malevoli giudizj. Il cardinale avea compiuto cose incredibili o almeno insperate; coi più rozzi, indisciplinati elementi, che a caso erano venuti ad affluire intorno a lui, aveva saputo formare un esercito vittorioso; e adesso gli si rimproverava, che non erano soldati a modo quelli con cui aveva riconquistato il regno e rimesso all’ordine la ribellata capitale (528). Né si mancò di far correre dicerie manifestamente menzognere contro il conquistatore di Napoli, come per esempio che egli, con l’ajuto del suo esercito e di una parte dei patriotti avesse voluto far proclamare re suo fratello Francesco! Quando sul mezzo del luglio l’ispettore dell'esercito fu mandato con un incarico del Nelson a Palermo, sulle navi si bisbigliava che mandavano Francesco come una specie di ostaggio per esser sicuri di Fabrizio.

Da sì fatta sfavorevole disposizione non rimase finalmente aliena neppur la regina, soprattutto per rispetto agli avvenimenti di quel periodo, quando, rimasta sola in Palermo, vede va le cose di Napoli con gli occhi del Nelson e della Hamilton, e stava con questa in continuo carteggio mentre le lettere del Ruffo erano assai diradate. Quello stesso cardinale ch’ella aveva prima levato al cielo, e non sapeva abbastanza significargli la eterna gratitudine sua, del marito, dei figliuoli per aver loro riacquistato il regno, tanto, presa da subita alterazione d’animo, diversamente poi lo giudicava da scrivere alla sua amica: «Per il cardinale non so come finirà; sicuramente che a me non ispira fiducia veruna, e credo che burli tutti per restare alla partenza del re dispoticamente a comandare… Bisogna ora vedere come il cardinale si regolerà. 0 domanderà di essere dispensato dall’ufficio, ma lo farà in quel modo ch'è proprio di chi vuole invece essere in esso conservato, ovvero s’adatterà a tutto e cederà in ogni cosa soltanto per rimanere a capo del governo. E nell’uno e nell'altro caso temo le conseguenze. Fino a tanto che il re si trova sul luogo co’ suoi ministri, sapranno quel che avran da fare; ma se, anche dopo la partenza del re, il cardinale conserva il governo in mano, la sua condotta e i suoi disegni mi daranno molto da pensare, molto da temere» (529)). Da sì dure parole al sospetto ch'egli disegnasse di usurpare il trono non ci corre mica gran tratto.

Poiché gli Hamilton e il Nelson furono ritornati a Palermo, le relazioni di Carolina col Ruffo cominciarono novamente a migliorare, al che contribuì senza dubbio l’essere stata rimossa la principal pietra dello scandalo col risolvere la questione delle capitolazioni secondo le sue idee ed a sua piena sodisfazione. Oltre di che Fabrizio Ruffo era oramai a Napoli il primo e il solo, a cui ella potesse nelle più gravi congiunture rivolgersi, talché il mantenersi in buoni termini con lui era opportuno e necessario. Ricominciò a manifestargli, come per l’addietro, le sue speranze e disillusioni, non dimenticò mai di significargli la sua inalterabile riconoscenza, e non ostante la massima più volte ripetuta di non volersi ingerire negli affari dello stato, discuteva con lui le faccende più importanti, la condotta della Giunta, con la quale non era punto d’accordo, il cattivo raccolto della Sicilia, i mezzi per evitare al continente la carestia che minacciava, e simili altre cose. Certamente accadeva loro d’essere spesso, come per lo innanzi, di diversa opinione, ma non mai tanto che le relazioni personali ne fossero in alcun modo turbate. La regina pensava che, se avessero potuto conferire a voce, si sarebbero meglio intesi: «o V. Eminenza mi convertirebbe, e questa è certamente la cosa più verosimile; o riuscirebbe a me di convertir Lei, poiché tutti e due senza dubbio non abbiamo di mira se non il pubblico bene» (530).

Verso i congiunti del cardinale la regina si porgeva piena di riguardi e di bontà. Oltre a «Ciccio» ispettore dell'esercito, dal quale si lasciava volentieri,raccontare i casi dell’ultima e «veramente miracolosa» campagna, si trovavano allora in corte ancora un fratello e una sorella di Fabrizio: Poppo Antonio e la contessa Snelli che la regina volle avere presso di sé. Tuttavia ci vollero degli anni perché la regina ed il re potessero affatto spregiudicatamente considerare quel che l’invidia e il disfavore aveano operato contro il Ruffo; e cominciassero a intendere che impagabile servigio il cardinale aveva reso loro, quando essi in condizioni disperate si trovavano ed egli solo conservava la sua presenza di spirito. Se nei primi anni dopo il 1799 alla corte siciliana non si riconosceva quasi né stimava altri che il grande eroe inglese, e si celebrava il 1° di agosto, anniversario della giornata di Abukir, come una festa nazionale, a poco a poco poi il 13 di giugno, giorno della battaglia presso il Ponte della Maddalena, cominciò ad esser tenuto di conto, e finì con l’essere considerato nella real famiglia come giorno di buon augurio, al quale si cercò per quanto era possibile di collegare i notevoli avvenimenti domestici. «Oggi dopo mezzogiorno» scriveva la regina il 13 di giugno 1805 a Vienna, «ci rechiamo a S. Antonio; è la commemorazione per noi famosa della battaglia presso il Ponte della Maddalena e della riconquista del regno; jeri Leopoldo ha ricevuto la confermazione, il nostro bravo Cardinal Ruffo fu suo compare.»

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Dai posteri Fabrizio Ruffo ba dovuto sopportare anche più ingiusti giudizj che da' suoi contemporanei. Le testimonianze di coloro che presero parte alla sua impresa, come un Sacchinelli, un Cimbalo e un Petromasi, tutti seguaci e ammiratori fervorosi di lui, si persero in mezzo al vario schiamazzo che contro di lui si levò. Nella letteratura egli ebbe contro a sé gli autori della rivoluzione, gli scrittori inglesi e russi di cose militari. Il modo di procedere dei radicali è in tutti i tempi e in tutte le zone lo stesso: a loro è permesso ogni cosa, ma quello che fanno gli avversarj è tradimento e delitto. Fabrizio Ruffo fu e rimase per loro un generale predone, le sue orde guerriere non erano che briganti, galeotti e malfattori evasi, dai quali non c’era da aspettare altro se non gli orribili fatti di Catanzaro, di Cotrone, di Altamura!... Questo ultimo nome i rivoluzionarj farebbero meglio a passarlo sotto silenzio, poiché gli atti ivi commessi dai realisti furono provocati dai più tristi eccessi delle crudeltà repubblicane. Ma, per rispondere in qualche modo agli esempj che si adducono di Catanzaro e di Cotrone, che si dirà di Benevento e di Piedimonte? di Aquila e di Isernia? di Guardiagrele? di S. Severo, Andria e Trani? Il repubblicano Cuoco, uomo, non ostante le sue esagerazioni, onorevole e ammodo, non potè neppure lui, per rispetto ai tre ultimi luoghi, fare a meno di dichiarare che la pena era andata molto più in là che non meritasse la colpa. E nota bene: la colpa era quella di conservarsi fedele al legittimo principe!

Ai moscoviti ed agli anglicani dell’alta chiesa dava già noja la veste talare del prelato romano. Che cosa voleva far Sanile fra i profeti? Dal momento che un manipolo di russi si congiunse all’armata cristiana; dal momento che il Ruffo si mise d’accordo col Foote, e dal momento infine che i marinari dell’eroe del Nilo furono sbarcati, agli occhi degli ufficiali stranieri l’armata cristiana non valeva più nulla; tutt’al più i calabresi potevan servire come carne da cannone innanzi a S. Elmo e a Capua! Le presuntuose vanterie dei russi toccano talvolta a questo proposito i confini del ridi— colo. A sentire gli scrittori loro, le poche compagnie del Baillie avean da sé sole fatto ogni cosa da Nola a Gaeta. Ai Miliutin-Schmitt (IL p. 327.) sembra niente esser tanto da deplorare quanto il «laconismo spartano» del Baillie che scrive, per esempio, al suo generale: «Nel marciare verso Napoli ho preso tre forti e una batteria, e più tardi Castel Nuovo, Castel dell'Uovo, la cittadella di S. Elmo e la città di Capua. Ho l’onore di informarvi che il paese è sgombro dai repubblicani.» È certo una concisione che anco chi non è russo deve deplorare! Sarebbe stato davvero curioso il conoscere i minuti particolari del modo come il Baillie co' suoi russi, e solamente con loro, prendesse il forte Vigliena e il castel del Carmine; dacché, a quanto sappiamo, il primo fu preso d’assalto dai calabresi del Rapini e il secondo da calabresi e turchi senza che i russi vi avessero parte veruna. E quale poteva essere il terzo forte preso nel marciare verso Napoli? Il Granatello forse? Ma questo era caduto quando nessun russo aveva ancor messo piede a Napoli. Per ciò che riguarda gli inglesi, questi certamente non menavan vanto di vittorie a cui non avessero partecipato, ma circa al lodare ed esaltare se medesimi non lasciavan punto indietro i russi, tanto che finalmente la stessa Carolina ne ebbe sdegno, la quale senza dubbio aveva una singoiar preferenza pel Nelson, per i suoi paladini, e per la nazione inglese in generale. «Io vedo» ella osservò nell’occasione di un ingiusto giudizio contro il Ruffo, «che i nostri, sebbene, senza araacemenf e senza giuramento alle bandiere, fossero solamente mossi dalla loro buona volontà, hanno operato cose di gran lunga maggiori di quelle degli altri» (531).

Uno scrittore di storie imparziale deve mettere fra i più importanti episodj della prima rivoluzione francese l’impresa guerresca del Cardinal Ruffo, arditamente concepita, con perseveranza ed accorgimento condotta, e così nei particolari come nel gran risultato finale coronata dal più splendido successo. È notevole che i tre fatti principali del giorno di S. Antonio: la marcia su Napoli, la presa del forte Vigliena e l’assalto del castello del Carmine, sieno avvenuti senza il comando del generale in capo. In una guerra combattuta da eserciti disciplinati una tal cosa sarebbe certamente inaudita e, secondo i principi della militar disciplina, degna di severo biasimo, quand’anche avesse condotto alla più grande vittoria. Ma le condizioni erano diverse, non dalla parte del Ruffo solamente, anche da quella dei suoi avversarj, poiché i soldati dell'esercito del Macdonald in quella battaglia non ebbero parte. Oltre di che il Ruffo era talmente favorito dalla fortuna, che in tutta la sua impresa non ebbe da lamentare un sol cattivo successo e, come uno de' suoi biografi giustamente osserva, anche gli errori de' suoi sottoposti, le opere da loro fatte contro gli ordini superiori, tornavano a vantaggio della riuscita finale. Da ultimo quei tre fatti furono compiuti da' suoi cacciatori calabresi, ch'egli aveva nel corso della campagna esercitati, e comunicato loro tale spirito ardimentoso, che erano avvezzi a scagliarsi, senza aspettare gli ordini, sul nemico, quando se lo vedevano comparir davanti o per sicuri indizj ne sospettavano la presenza.

Circa alla persona del Ruffo, accade a essa come a quella della sua real protettrice: quanto più l’una e l’altra guardiamo, quanto più, senza curarci delle sentenze proferite finora sul loro conto dalla storia, ci facciamo dà vicino ad esaminarle, tanto più spiccano fuori pure e luminose dall’oscura e sudicia nebbia, nella quale le contemporanee passioni partigiane, la maligna calunnia e la volgare smania di cianciare hanno saputo nasconderle. Fabrizio Ruffo specialmente apparisce come un uomo pienamente meritevole di esser nominato toga sago quo clarus, che portò con ugual dignità l’armatura e la porpora e che, per rispetto all'impresa del 1799, diè prova d’essere così valente soldato come prudente politico. Chiamarlo capo di briganti e di banditi, come sino a poco tempo fa si soleva, rappresentarlo crudele ed assetato di sangue, era cosa a quelli solamente possibile, che ignorassero compiutamente le circostanze nelle quali egli si trovava, ovvero a bello studio i fatti più incontrastabili svisassero. Per contrario, come egli in tutta la campagna, fino a che potette indipendentemente operare, seppe col generoso perdono e con le affabili maniere accattivarsi i più dichiarati aderenti del nuovo ordine di cose, e si sforzò di far ponti d’oro agl’irreconciliabili perché si allontanassero da una scena dove non avean più parte da rappresentare, così più tardi, quando si trovò in immediata relazione col Nelson e co’ suoi capitani, col re e con quelli che lo circondavano) co’ siciliani e co’ tribunali sanguinarj in cui essi prevalevano, si mostrò certamente l’unico uomo, i cui consigli non uscissero mai dalla via della saggia moderazione e della prudente indulgenza.

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La più parte delle lettere che seguono son della mano della regina, la cui scrittura è tanto singolare che Raffaele Palombo non manca di fargliene un nuovo carico. Infatti negando egli a Carolina qualunque bontà e delicatezza d’indole e di sentimento, osserva che ciò apparisce persino dal governo che nelle sue lettere ella facea della lingua: «faceva strazio di tutto, anche della lingua e dello stile» (pag. 76 ann.); e riporta nell’appendice, come francamente confessa nella prefazione a pag. XII, le lettere di lei testualmente al solo fine «che il lettore vegga il grado di coltura di colei che scrivevate.» È vero che, disposto a indulgenza, egli conviene, doversi ciò attribuire al non esser Carolina nata italiana; ma con nuova villania soggiunge, avere le nebbie settentrionali impedito che «la dolcezza della nostra lingua avesse efficacia su lei, come impedirono pure che il suo cuore si nobilitasse.»

Io mi permetto invece di osservare le seguenti cose. In primo luogo vorrei sapere se il sig. Palumbo parla e scrive, oltre la lingua materna, due lingue straniere, come la regina Carolina, oltre il tedesco, parlava e scriveva il francese e l’italiano. Se egli non sa, bisogna convenire che sta per questo rispetto di gran lunga indietro a colei che ingiustamente accusa. Ma quand’anche ei rispondesse affermativamente alla mia domanda, dovrebbe tuttavia pensare che non è sempre una prova di rozzezza intellettuale o di scarsa cultura il non saper trattare con egual sicurezza tre ortografie tanto diverse fra loro quanto la tedesca, l’italiana e la francese. Se finalmente rammentiamo che a quei tempi persino alti e cospicui uomini vi furono, i quali neppure la loro propria lingua correttamente scrivevano, la galanteria ci tratterrà dal farne carico a una donna, che come madre e come principessa era occupatissima, e oltre a ciò scriveva in mezzo ad avvenimenti che le eran cagione di continue commozioni. Che ella fosse capace di scriver meglio di quel che ordinariamente faceva, lo dimostra il confronto fra le sue lettere all’imperator Francesco e quelle all’imperatrice sua figliuola. Nelle prime bada di più non solamente alla scrittura e alla punteggiatura che, come spesso apparisce, correggeva nel rivedere lo scritto (532), ma anche alla forma e alla sostanza del componimento, ch'è più elegante, più adeguato al soggetto e condotto con la mente piuttosto che col cuore. Persino le comunicazioni intorno a cose di famiglia sono ivi trattate meglio, mentre scrivendo alla figlia intorno ad argomenti femminili ella parla con una disinvoltura e una crudezza che non farebbero torto a Emilio Zola.

Là dove Maria Carolina è trascurata, il lettore severo trova molto da apporre. Alcune cose si spiegano dal tempo in cui scrive: evenemens, enfans, parens per événements, enfants, parents; oi per ai; connoître, étoient, faiblesse, française ec; aurés, devés ec. per aurez, devez; spesso y per i: mary, yey, loy, aussy. A ciò si aggiungano bizzarrie particolari d’ogni maniera: così per es. quasi sempre cella per cela; merr per mer; conter, contant per compter, comptant; scambia spesso et con est, e anche est con aie. Non di rado scrive a orecchio: j’ai quittez la ville, autant per òtant, canaux per canots; l'armée que les cinq généraux attendoit et en parti organisoit ecc. Sbagli che nascono da mancanza di attenzione occorrono sotto tutte le forme. Come donna si è avvezzata per es. ad abusare del femminino: le courrier n’est point encore arrivée, votre pere est sortis, pour ne point avoir l’ennemie a nos frontières. Scrive: Dieu auxquels je les recommande, pensando forse al numero de' suoi figliuoli. Così pure: au millieux per milieu; conjuga soutena invece di soutint; l’honneur ne se raquere plus invece di racquiert, e via discorrendo.

Anche altri indizj della sua distrazione appariscono; per es. scrive: Naples ce 18 mars 1799 in un tempo che da più di tre mesi e mezzo si trovava a Palermo.

Quello che rende difficile la lettura delle lettere scritte in fretta da Carolina è la quasi assoluta mancanza di accenti: deja, tres; in modo da confondere talora il senso, per es. porte per porté; inoltre la mancanza di punti sull'i, di apostrofi ec. Oltre di che accozzando insieme parecchie volte le parole (aste per a étè, jen per j’en), e servendosi di un alinea rarissimamente, e di una pausa soltanto se passa da un oggetto all’altro, ne segue che spesso pagine intere offrono un aspetto uniforme, come se formassero un sol periodo senza interruzioni nò parentesi. Tali trascuratezze divennero con l’andar degli anni sempre peggiori; le lettere fra il 1813 e il 1814 sono orribilmente scritte, contrarie a tutte le regole dell’ortografia, confuse nel senso, piene di ripetizioni, e via discorrendo.

Adoperando ella nel pensare e nel conversare tre lingue, e forse anche quattro se vi si comprende la spagnuola, le accadeva nello scrivere di oltrepassare talvolta i confini di ciascuna. I più rari sono i germanismi: je fie sur votre amitié, le throne du roi, souverainite, j’ai ete assez bien a Palerme vu egards les nerfs, ec. Frequentissimi nello scrivere il francese le occorrono gl’italianismi, il che facilmente si spiega poiché l’italiano aveva tutti i giorni più spesso negli orecchi. Cosi scrive artiglerie, secature, meilleurer, segretaire, affretter, la force française plombe sur nous, je l’ai supere e simili. Nel suo ultimo viaggio del 181314 è notevole come essa italianizzi i nomi turchi e slavi. Nel mar nero cerca rifugio nella rada di Cagliare (Kali Akra); da Padolia la troviamo a un tratto con sommo nostro stupore in Dulcigno, e ci accorgiamo poi che vuol intendere Tulczyn, magnifico possesso della contessa Potocka. Il contrario, cioè che adoperi gallicismi scrivendo italiano, le avviene rarissime volte; ne ho osservato un solo esempio, dove parlando del Caracciolo scrive: «credendo che un simile Forban per mare possa essere pericoloso.» Talora incorre in qualche costruzione spagnuola: vos lettres ont consterne a nous tous. Del resto non si perita di crearsi da sé le parole, per es. trideum, cherissime ec. Anche dal dialetto napoletano e siciliano accatta voci qualche volta, come paglietto per avvocato.

Non meno del modo di scrivere dà da fare il suo modo di esprimersi; salta da una cosa all'altra, talché il lettore, se non vuol farle torto, deve riempire i vuoti. Così scrive il 28 di aprile all’imperatrice: je crains d'un jour a l’autre un massacre dans la ville, inutile et que je voudrois empecher, epargner au moment du besoin; dove nella seconda parte non intende parlare del massacre, ma di una sollevazione de' suoi fedeli contro gli avversarj. Simili rapidi passaggi di pensiero, non bene significati dalla penna, s’incontrano di continuo nelle sue lettere. Né si può fare a meno di notare che quelle alquanto lunghe debbono essere state per lo più scritte a pezzi e bocconi. Spesso lo avverte essa medesima: jygnore ou jen etois et recommence ma triste narration. O apparisce una diversità d’inchiostro e di penna, e se ne deduce che la lettera fu interrotta e poi ripresa, il che spiega le molte ripetizioni di pensiero e di frasi.

Caratteristico per lo stile di Carolina è il rinforzare ch’ella fa o chiarire un pensiero col far seguire immediatamente l’una all’altra due o tre parole. Così, per esempio, nel novembre e dicembre 1798 chiedendo ajuti all’imperatore e all’imperatrice ella scrive: puisse le ciel vous benir eclairer; e altrove: je conte a votre loyaute verite. L’11 di dicembre descrive l’amor conjugale del suo primogenito e afferma con assoluta sicurezza ch’egli neanche col pensiero è infedele alla moglie: beaucoup moins de fait regarde approche ecc. A sì fatta copia dicendi il lettore si avvezza presto, perché la scrittrice ne fa frequentissimo uso.

La più parte delle lettere di lei — e tutte quelle del re — sono scritte al modo comune, non adoperando ella scrittura segreta se non in congiunture difficili, allorché temeva che il corriere potesse cadere in mano del nemico insieme coi dispacci commessigli. Così una volta, nella prima metà del novembre 1798, ella scrive: «Je n'ose le faire en clair car quoique l'home soit de' toute surete il doit trarerser toute l'Italie,» La sua scrittura segreta non era in cifre; essa si valeva di sugo di limone, per modo che i caratteri, allo scrittore invisibili, risaltavano giallognoli all’occhio del lettore che a un luogo caldo li avvicinasse. Impiegava le cifre soltanto a fine di ingannare la temuta indiscrezione: allora scriveva per lo più nella prima pagina sola in righe molto spazieggiate e con inchiostro ordinario numeri di una o più cifre sino a quattro; e sopra o fra quelle righe chiaramente leggibili vergava il vero testo a prima giunta invisibile. Nelle lettere scritte con sugo di limone occorre talora la stessa parola ripetuta di seguito due volte, poiché forse la scrittrice, alquanto interrotta, non potendo rileggere lo scritto non sapeva a che punto fosse arrivata della frase che in quel momento scriveva.

Nel riprodurre le lettere scelte che seguono mi sono conformato all’esempio di autorevoli predecessori, e per uso del lettore, a cui importa conoscere il contenuto e l’espressione del pensiero, ho recato a compimento ciò che la scrittrice in fatto di segni o accenti trascurava, ovvero ciò che in materia di ortografia francese o italiana dimenticò. Così nelle parole del resto come nella costruzione di esse non di rado assai strana non ho cambiato che ben poco.

Le lettere del re non abbisognano quasi punto di correzione, come quelle che per lo stile e pel processo delle idee dimostrano chiaramente come a quel monarca non mancassero di certo le doti necessarie all’adempimento dell’ufficio che la Provvidenza gli aveva assegnato. Dalle lettere contemporanee di Ferdinando e di Carolina apparisce in primo luogo quanto entrambi fossero d’accordo nel giudicare le condizioni delle cose e le ragioni determinanti delle azioni e imprese loro; e in secondo luogo come il re sin dal principio fosse informato dell’essere l’imperatore Francesco avverso a una affrettata apertura delle ostilità contro la Francia; il che, come già fu osservato, riduce al nulla il mito del Ferreri, a disfavore della regina e dell’Acton inventato.

Di grandissimo interesse certamente sarebbe il possedere anche le lettere dell’altra parte, e metterle al luogo conveniente fra quelle della regina; ma ciò, come per la corrispondenza di Fabrizio Ruffo, cosi anche per questa e per lo stesso motivo non è possibile. Soltanto in minima parte ci porgono un compenso le copie che l’imperatrice in momenti di maggiore importanza, sia per proprio impulso, sia per consiglio dell’imperatore, prendeva di propria mano e conservava delle lettere che mandava a Napoli. Ne riporto alcuni esempj in istampa e in facsimile. E riporto anche in istampa un esempio dei ragguagli diplomatici officiali, che per disgrazia non sono senza interruzioni, poiché molte mancano fra quelle relazioni che il Cresceri mandava all’imperial ministero degli esteri intorno alle condizioni e agli avvenimenti di Napoli dalla fuga della famiglia reale fino alla partenza di lui per la Sicilia. Nella nota a pag. 44-45 abbiam già fatto osservazioni sul contenuto e sul valore di sì fatti documenti.

Fra le lettere riprodotte in facsimile ha il primo luogo quella dell’11 di Ottobre 1798, nella quale il re comunica con ringraziamenti all'imperiale suo genero la venuta del general Mack a Napoli. Ma la vera e propria scelta delle lettere stampate comincia col novembre del 1798; e a me sembra opportuno di dare un prospetto compiuto di esse con l’indicazione del luogo e del mese. Alcune di quelle della regina, mancando di data, non possono esser messe in ordine; ma oltre all’esser poche di numero — cinque o sei all’imperatrice nell’anno 1799 — sono anche quasi tutte brevi e di nessuna importanza.


FERDINANDO IV MARIA CAROLINA
1798
all'imperatore all’imperatrice all’imperatore all’imperatrice
Novembre 5

Caserta
6 Caserta Caserta
Caserta
8

Caserta
12
S. Germano

13


S. Germano
20


S. Germano
22 S. Germano
Napoli Napoli
27


Napoli
28

Napoli Napoli
Dicembre 4


Napoli
dopo 8

Napoli
11

Napoli Napoli
13


Napoli
18
Napoli
Napoli
21
Napoli Napoli e a bordo




della Vanguardia
27


Palermo





FERDINANDO IV MARIA CAROLINA
1799
all'Imperatore all’imperatrice all’imperatore all’imperatrice
Gennajo 5

Palermo Palermo
21

Palermo
27


Palermo
28


Palermo
31


, Palermo
Febbrajo 7


, Palermo
9


Palermo
11


Palermo
13

Palermo
17

Palermo Palermo
20


Palermo
26


Palermo
Marzo 4 Palermo


5 Palermo

Palermo
15


Palermo
16


Palermo
19

Palermo Palermo
28


Palermo
Aprile 2

Palermo Palermo
11 Palermo


19


Palermo
20

Palermo
21

Palermo
28


Palermo
Maggio 1°


Palermo
9


Palermo
11


Palermo
12


Palermo
14

Palermo
16

Palermo Palermo
29

Palermo Palermo
Giugno 12

Palermo Palermo
15


Palermo
17


Palermo
23


Palermo
Luglio 3

Palermo Palermo
4


Palermo
8


Palermo




FERDINANDO IV MARIA CAROLINA
1799
all'Imperatore all’imperatrice all’imperatore all’imperatrice
Luglio 11


Palermo
29

Palermo Palermo
31


Palermo
Agosto 3 Rada di Napoli

Palermo
30 Palermo Palermo



Ci resta da dire qualche parola dei facsimili.

Il primo è di quella lettera dell'11 di ottobre 1798, della quale poco più su discorrevamo; il facsimile ne riproduce la prima pagina; sulla seconda si trova soltanto la chiusa con la firma Ferdinando B (Borbone); poi un breve poscritto: «Vi acchiudo una lettera, che in punto mi a portato Mack, pregandomi di rimettervela.»

Il secondo e terzo son tolti da lettere della regina dell'11 di gennajo 1799; quello riproduce tutta la lettera scritta con caratteri ordinarj, questo la prima pagina di un’altra scritta «in cifre,» come la regina nel P. S. osserva. Del valore delle cifre come semplici figure abbiamo dianzi parlato. Poiché i caratteri invisibili non divenivano appariscenti se non per un processo di riscaldamento artificiale, il lettore deve immaginarsi giallognola la carta su cui si facevan risaltare le righe d’un giallo più cupo, mentre fra quelle le cifre erano vergate in nero; qua e là poi macchie di un giallo più carico o anche qualche pezzetto bruciacchiato, laddove la imperatrice nel riscaldare il foglio passava alquanto la misura.

Il quarto finalmente è tolto alla prima pagina d’una copia, che l’imperatrice Teresa conservò d’una sua propria lettera del 4 di marzo 1799 diretta a sua madre.

.

Caserta 6 9bre 1798.

Figlia Carissima. Nel participarti il felicissimo parto di Clementina, che non à voluto far torto alla famiglia, incominciando con una femina, profitto dell'occasione di questa spedizione per darti le mie nuove e della famiglia.

Clementina dunque dopo un regolarissimo travaglio per una primarola diede felicemente alla luce jeri sera alle nove meno un quarto una superba piccinina, forte robusta e di ottima salute, tutto il resto andò anche con somma regolarità, ed avendo tranquillamente riposato l'una e l’altra, oggi stanno benone, e tutta la famiglia consolatissima, come son sicuro lo sarete Voi in ricevere una così lieta notizia. 0l'altri anche stiamo bene, Mamma andandosi sempre più rimettendo, avendoli sommamente giovato l'aria di questo sito, dove rimarrà durante tutto il puerperio di Clementina, e poi si ritirerà forse a Napoli, dove io fui avant jeri per raccomandarmi al glorioso nostro gran Protettore S. Gennaro nel ripartirne che feci jeri per ritornar qui, giacché dopodomani coll’ajuto di Dio parto per andarmi a metter alla testa delle mie Truppe, che avrei ben desiderato avessi visto partire per andare al campo dove saranno tutte riunite per dopo domani: l'allegria, lo spirito marziale e buona volontà dimostrata in tal circostanza, a fatto piacere a tutti.

Vado dunque pieno di fiducia nella Divina Misericordia del Signore, che guiderà i miei passi e proteggerà le mie operazioni, non dirette certamente da secondi fini, ma puramente al ristabbilimento della S. ma nostra Religione, del buon ordine, ed alla sicurezza presente e futura dei miei Stati e famiglia. Come vedi in tal circostanza, innumerabili saranno le mie occupazioni, perciò se non avrai dirittamente le ulteriori mie nuove, le avrai da Mamma, quando però potrò scriverti non mancarò di farlo; in tanto dando a te e a tutta la tua famiglia di tutto cuore la Benedizzione, teneramente abbracciandoti, sono il tuo Affezzionatissimo Padre

FERDINANDO B.

CONTROLLARE NOTA  (533)

Ma bien chère fille, je vous ai écrit aujourd’hui par le courrier extraordinaire, je le répète encore, car on ne peut savoir les événements et si ce courrier n’est pas retardé ou empêché.

Je vous donne part encore ici de' l’heureux accouchement de' votre Belle- Soeur en moins de' 3 heures de' travail d’une jolie saine quoique petite fille, elle se porte Grâce à Dieu à merveille, de même que son enfant qui s’apelle Caroline (534), elle a grand appétit, a pris deux bouillons et est entièrement rétablie, voilà la plus intéressante des nouvelles.

Nous avons le brave Nelson de' nouveau ici, qui a pris l’isle du Gozzo et les forts à Malthe, y a mis pavillon napolitain et portà l’infame Tricolore au Roi ce matin. Votre cher Père part après demain pour l’armée, cela vous dit tout ce dont je me tais, mais ressens au delà de toutes expressions. Nous attendons un courrier avec le plus vif empressement pour savoir quel sort nous attend. J'ai l’âme extrêmement noire et triste, mais suis pour la vie votre attachée Mère et amie

Le 6 novembre 1798.

CHARLOTTE.

.

S. Germano 12 9bre 1798.

Figlia Carissima. La tua affettuosa lettera del 19 dello scorso per l'ordinario ò ricevuto, ma il Corriere proveniente da Londra che mi accennate non è encora giunto, credo a motivo del tempo, e mi tiene in somma agitazione, interessandomi sommamente il contenuto delle lettere che recar ci deve, specialmente nelle attuali circostanze. Godo intanto infinitamente di sentirti in perfetta salute, non ostante il freddo che avevate, straordinario per la staggione. Qui abbiamo avuto in questi giorni un tempo piovoso ed umido; grazie a Dio però stiamo bene. Mamma venne avant’jeri e potrà dirti con meno passione di me, e senza prevenzione alcuna, lo stato delle Truppe e di tutt altro attinente a questa armata del centro, dalla quale non differiscono le altre due e corpi distaccatti. Se il Signore vorrà che ci proviamo coi suoi nemici spero che ci faremo onore. Conservati, Figlia Cara, mentre teneramente abbracciandoti e dandoti la S. ta Benedizzione sono il tuo Affezzionatissimo Padre

FERDINANDO  B.

In punto che ero per chiudere questa mattina 13 giunge il Corriere proveniente da Londra, e ricevo la tua lettera del 19 dello scorso dalla quale l’unica cosa consolante che rilevo si è l’ottimo stato di tua salute, il Signore ti conservi sempre cosi unitamente a tutta la tua famiglia.

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Ma bien chère fille, j’ai reçus vos lettres du 12 du 19, tant par la poste que par le courrier ce matin arrivé. Votre double Belle- Soeur se porte bien en couches, elle nourrit et réussit à nourrir très bien son Enfant; son mari souffre toujours de' rheumatisme au bras et jambe, tous les autres se portent bien. Pour moi je suis depuis samedi à San Germano au Quartier Général, j’ai vus nos belles et bonnes troupes et en ai été infiniment contente. Hier on a eu une manoeuvre à feu de' m/24 (24 m.) hommes et cela est très bien allé. Le temps est bien peu favorable, une pluie et humidità continuelle qui est bien malsaine. Je me sens contente d’être ici, mais cela ne durera guères, j’ai l'ame très noire et après la reçue de' ce courrier infiniment plus. Adieu, puisse le ciel vous bénir éclairer, et croyez moi pour la vie votre bonne Mère et amie Le 13 9bre 1799.

CHARLOTTE M. P.

(Quel ohé segue scritto con sugo di limone).

Je ne puis vous assez dire combien vos lettres ont consterné à nous tous, en vovant le peu d’envie et d’apparences que Sa Majestà l’Empereur veuille faire la guerre. Nous sommes actuellement dans la dure crise de' ne plus pouvoir nous en dispenser. Menacés de' tous les parts par les Français, jusqu’à l’avoir dit à notre Ministre à Paris, à avoir déjà envové quatre Généraux à Rome qui forment et attendent encore d’autres troupes, nous sommes à la veille d’étre attaqué chez nous dans une frontière énorme sans places et à 5 postes de' la Capitale, ce qui mettrait la confusion et le désordre général. Ainsi il faut sortir, et avant la fin de' 9bre nous serons à Rome sûrement, sauf qu’ensuite, assurée du còtà de l’Empereur ne vovant aucune démarche pour être attaquée, toute la force française plombe sur nous et nous écrase. Nous avons une petite et non aguerrie armée, quoique pleine de' bonne volonté, si nous serons écrasé nos moyens et dépouilles serviront à ruiner l’Emp. qui ne l’échappera point. Je vois bien noir. On a beaucoup tenu Conseils, mais dans le Bureau. Il faut mourir avec honneur et c’est notre cas. Ainsi contez et dites bien à votre mari que nous sortons, il faut compter sur sa lovautà alliance secours, mais si nous avec toute notre innocente famille serons écrasé comptez que vous le serez après nous. Quand vous recevrez cette lettre nous serons de' force ou bongré à Rome et notre sort sera commencé et décidé. Vous pouvez juger de' mon état, Dieu seul le sait, aussi en lui seul je confie voir votre cher Père sortir avec une bien décidée mais petite armée, risquer d'étre opprimé pour périr de' son zèle, honnêteté, désintéressement, je fie en Dieu, à vous autres pourvu que ce ne soit trop tard. Je vous embrasse, bénis, et suis votre triste mais attachée Mère et amie.

.

Ma bien chère Enfant, vous n'aurez que peu de' lignes de' moi pour ne manquer aucune poste, car dans la semaine on va vous expédier un courrier. Je suis encore à San Germano au Quartier Général avec votre cher Père, mais j'en partirai dans peu avec une douleur et la mort dans le cœur. Je hausse les veux au Ciel et ne fie qu'en lui. Nous avons un temps affreux humide, pluie journalière continuelle, enfin toutes les fatalités. Votre cher Père se porte grâce à Dieu bien, que Dieu le conserve pour le bonheur de' ses sujets famille et de moi. Je suis très triste, vous y contribuez en grande portion, mais Dieu le permet ainsi, qu’il veuille avoir pitié de' nous. Votre Belle-Soeur se porte grâce a Dieu bien et continue à nourrir sa petite. Mes compliments à votre cher mari, j’embrasse et bénis les chères Enfants et suis pour la vie, vous priant de' prier et faire prier Dieu pour moi, votre attachée bien que très triste Mère et amie Le 20 novembre 1798.

CHARLOTTE.

S. Germano 22 9bre 1798.

Carissimo Genero! È giunto il momento forzoso in cui abbandonando le mie frontiere corro ad appoggiare la giusta ed indispensabile difesa del mio Regno, alle posizioni più rimote dalla mia Capitale, che sole presenta lo Stato Romano. La necessità di prevenire che l'Esercito francese, già accorso nelle provincie Romane con i nuovi Generali destinati ad invadere i miei Stati, non occupi con forza maggiore di quella già disgraziatamente concorsavi i punti principali, che di tutti i tempi gl'aggressori di questi Regni ed i difensori ugualmente hanno procurato di appropriarsi con premura, ma a costretto a sollecitare la marcia delle mie Truppe: due settimane più tardi non sarei stato in grado di prolungare almeno per qualche tempo la mia esistenza. Questa, Figlio caro, è ora unicamente nelle Vostre mani. Se non mi difendete dall’invasione da tanto tempo decisa dei miei Regni, ed ora mandata in esecuzione in quanto alle operazioni di marcio di forze dalla Francia e di radunanze di Eserciti prossime alle mie frontiere, sarò perso con tutta la mia famiglia e distrutti i popoli a me affidati da ogni genere di sovvertimento, rovina e depredazioni. Coll'ajutarmi all’incontro, e con quella efficacia che è propria del Vostro Cuore, sentimenti e sana raggione, avrete la consolazione di salvare non solo una famiglia che vi è cotanto e così sagrosantamente come per genio unita; ma quella ben anche del Vostro Fratello alla di cui sicurezza accorro pure con i mezzi che ò potuto adoperare, per dargli tempo di poter evitare il colpo contro di lui e della sua famiglia meditato, ed a Voi, Carissimo Genero, il comodo di far adoperare sollecitamente i sostegni ed il braccio potente del Vostro Esercito in Italia: tra alcune settimane sarà decisa la mia e la Vostra sorte. La crudele e più che urgente necessità mi à costretto ad un passo che, se Iddio ha deciso contro di me, mi lascerà perire almeno con onore; quando all’incontro tra un mese o due non ero più in grado di presentare nei miei Regni la valida difesa che conveniva alla nostra salvezza. Gl'Inglesi per mare vegliano a cooperare a quella parte di sicurezza ed operazioni che dalla Squadra possono dipendere; ma in Voi, Figlio Carissimo, ed in Voi solo confido, e devo per tanti e ripetuti titoli confidare. Attendo colla massima ansietà le Vostre repliche a quanto reiteratamente ò fatto passare alla Vostra cognizione sulla sorte critica che mi sovrasta. L’avvicinamento dei Francesi a Roma ed Ancona, le leve forzose dello (535) Stato Romano e nella Cisalpina non mi anno lasciato ulterior scampo che la risoluta marcia del mio Esercito nello stato limitrofo, e verso la Toscana, per incontrar sempre il Vostro: senza questo appoggio ò terminato ogni mia futura esistenza, lo ripeto, e politica ed umana. Giudichèrete al ricevere questa, forse ultima lettera, della situazione in cui sono stato lasciato. Con onore però, e risoluzione degna di me e dei miei maggiori, conchiuderò una vita che troppe circostanze senza mia colpa anno crudelmente amareggiato. Il mio dolore, le mie inquietudini, i vivi voti che presento all’Altissimo per la Vostra felicità quiete e sicurezza, mentre vi prego a credermi sempre lo stesso Vostro affezzionatissimo suocero

FERDINANDO B.

Mon bien cher fils et neveu, vous serez informé par la lettre du Roi mon Epoux, comme par les dépêches, du motif de' cette expédition. Tout ce qui nous parvient de' toutes les cotés d’Italie, Paris, de menaces contre nous, le danger imminent du Grand Duc, la lettre qu'il en a écrit au Roi, les Généranx français déjà arrivés à Rome pour attendre et former leur armée, la réquisition en masse ordonnée en Romagne, enfin toutes les vues hostiles contre nous et qui nous menacent d'étre attaqués chez nous, tout ceci ensemble a forcé mon cher mari à rassembler son armée à la faire camper. Il espérait d'un moment à l'autre d'avoir de' vos nouvelles après les pressantes lettres qu'il vous a écrit, mais les circonstances devenant toujours plus impérieuses, le danger du Grand Duc si inévitable, vous même déjà heureusement entré aux Grisons et Coire, il a cru ne devoir et pouvoir plus attendre et va entrer demain avec l'aide de' Dieu en différentes colonnes en l'État du Pape. J'ai passée avec lui dix à douze jours au Quartier Général, et c'est aujourd'hui qu'avec une douleur qui ne se peut que sentir mais jamais exprimer je l'ai quitté, le bon Époux Père et Souverain. Vous avez actuellement dans vos mains la destruction de vos Beaux Parents Oncle Tante et amis, de' deux Royaumes superbes, de' 7 millions de' tranquilles et paisibles habitants. Si vous retardez en Italie toute la force française plombera sur nous et nous serons écrasé, et ce sera par les mains les plus chères à nous que nous aurons été sacrifiés. Mais je compte à votre lovautà vérité, que vous nous aiderez avec toute l'énergie nécessaire. Ainsi c'est entre crainte et espérance que je vis, souhaitant bien d'apprendre bientôt des encourageantes nouvelles. Nos troupes son pleines de' bonne volontà zèle, mais nouvelles, soldats ni officiers ont jamais été au feu, ainsi il faut redouter les événements. Vous pouvez juger de' mon état: mon cher Mari éxposé à une guerre de' traître où tout est à craindre. Enfin je ne puis que humblement prier Dieu qu'il daigne nous préserver de tout mal, je compte toujours sur votre assistance efficace sans laquelle nous serions perdus et perdus par votre main. — Votre Soeur se porte très bien, de' même que sa chère petite quelle a voulu, mais pas pu nourrir. Adieu, je recommande à votre lovautà attachement notre existence et tout, et croyez moi bien triste mais tendrement votre bien attachée Belle-mère Tante et amie

le 22 novembre 1798.

CHARLOTTE m. p.

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Ma bien chère Enfant, je vous écris de' Naples où je me trouve depuis 5 jours, étant venue le 23 pour assister au trideum pour les armes de votre cher Père qui est sorti le même 23 de' la frontière. Jusqu'à ce moment il n'y a point eu d'affaires positives, mais quelques coups tirés à Terracina et à Veroli sans grand dommage. L'armée du centre où se trouve votre cher Père n'a point fait encore fin, ils ont eu bien de' la difficultà pour les chemins boue, tirer l'artiglerie chariots; car il fait un temps abominable. Mais enfin tout est en ordre, il m'a écrit deux fois de' Frosinone où, quoique il ait été prêt de' 36 heures sans pouvoir se changer, les équipages lui manquant, il se portait grâce à Dieu bien; les troupes sont pleines de' bonne volonté et si le nombre ne les écrase, ce qui dépend seulement de' vous, je crois qu’ils se feront honneur. Nous avons été à St. Janvier avec toutes vous sœurs et frères prier Dieu bien ferveusement et de' cœur pour la santé et bonté de' votre cher Père lequel a écrit une lettre à son départ qu'on a imprimée (536) et qu'a faite un exeellent effet; je vous envoie aussi le manifeste donné en sortant. Je ne puis vous parler que de' cela, car c'est ce qui uniquement m'absorbe et m'occupe, mes pensées tête est toujours à l'armée. Vos bonnes sœurs se portent bien, la bonne Mimi ne fait que prier Dieu pour son Père. Votre double Belle-Soeur est restée à Caserte, n'étant point encore en état de' suivre, nous y retournerons en peu de' jours; depuis qu'elle a donné une nourrice à son enfant elle se porte bien et l'enfant commence à. augmenter. Pour moi vous pouvez juger de' mon état, Dieu veuille nous aider! Faites mille et mille compliments à votre cher mari, nous dépendons de lui. J'embrasse vos chers Enfants et suis de' cœur et pour la vie votre tendre mère et amie

Le 27 novembre 1798.

CHARLOTTE m. p.

Vient une feuille en chiffre, les deux imprimés.

(La lettera seguente è scritta con sugo di limone; sulla prima pagina tra i righi numeri di 4 cifre da sembrar segni convenuti, con inchiostro ordinario).

Ma bien chère Thérèse, votre cher Père est à Valmontone Anagni ou peut-être Frascati, je l'ignore aujourdhui où, il m'a écrit deux fois de' Frosinone. L'armée et train d'artiglerie a un peu souffert des chemins bourbeux, mais s'en est tiré, tout le monde est plein de' bonne volonté et courage, à l'erraci n a comme à Veroli les coquins Français Polaques ont tiré quelque coup, nous ont tué quelques hommes, ainsi l'hostilités sont commencées. Je vis dans les angoisses de' la mort et sursaut continuelles. Dieu veuille nous aider, notre sort est dans les mains de votre cher mari, qui peut nous perdre en tardant à nous secourir, au nom de' Dieu qu'il ne retarde point, car nous serions perdus. Je me recommande à Dieu et à vous, tout Naples est en peine pour leur Souverain qu'ils adorent et en crainte des suites effets de' la guerre, mais si votre mari emploie tous les efforts, et vite, il peut avec notre petit aide devenir le libérateur de' l’Italie et y donner la loi, en nous sauvant et acquérant notre tranquillité. Mais s’il tarde il aura l’éternel remords de' nous avoir perdus, de m’avoir fait mourir de' douleurs, car je ne résiste pas à ce malheur, et de' la main de' mes enfants! En un mot tout tout dépend de lui, l’armée est dehors, les hostilités sont commencées, nous sommes dans la crise, votre cher Père souffre toutes les peines incommodités avec un courage digne de' lui, que Dieu daigne le bénir, conserver. Je me flatte que Nelson, malgré le mauvais temps eu, sera déjà avec les 6000 hommes de' troupes et artiglerie bien près et peut-être arrivé à Livourne, ce qui sera une espèce de' sûretà pour le pauvre Grand Duc et sa famille. Les îles Vénitiennes sont aux Russes à l’exception du fort de' Corfou, les Anglais ont aussi pris Mahon, voilà toutes de' nouvelles encourageantes, il fraudrait en profiter. Je me recommande à Dieu et à vous. Ma santé est abîmée, au nom de' Dieu que votre mari ordonne à ses Généraux d’être loyal, de bonne foi et de' s’entendre avec nous, car nous le sommes certainement. Notre position est très dangereuse, mais le sort en est jeté. Croyez que dans tous les événements je serai toujours votre tendre mère qui vous bénit et embrasse jusqu’au tombeau la même. Adieu.

Ma bien chère fille, je vous avais écrit hier par la poste; la lettre fermée à onze heures du soir arriva le Courrier du Camp nous porter la nouvelle que les Français se retiraient. Ils avaient fait les braves disant ne pouvoir permettre notre entrée à Rome; mais à la seconde sommation faite du brave et estimable Général Mack, et à la nouvelle que toute l’armée était en pleine marche, Championne! a fait dire qu’il quittait Rome, n’ayant pas ordre du Directoire de' faire la guerre à nous, et il est parti. Le 27 notre avantgarde et l’aile gauche devait prendre possession, votre cher Père devait entrer le 28, j’en attends les nouvelles avec le plus vif empressement. Mais tout ceci ne sort à rien si votre cher mari ne se remue, et au plutôt nous serons écrasés, se retirer ne sera que pour mieux nous accabler et ces gens de' la meilleure volontà en seront la victime avec nous. Au nom de' Dieu poussez priez votre cher mari de' se remuer. Je vous embrasse bénis, suis trop affectée pour pouvoir écrire, mais suis pour la vie votre tendre mère et amie

le 28 9bre 1798.

CHARLOTTE m. p.

10

Mon bien cher fils et neveu, nous venons de' recevoir le Courrier de' mon cher mari de' Ferentino avec la relation du brave Général Mack. Les Français avaient fait mine de' se vouloir défendre à Frascati, mais sans encore coup férir le Général les a fait tourner par une colonne et intimer qu’on allait les attaquer; alors le Général Championnet jugea à propos de' faire dire verbalement que, n’ayant pas d'ordre du Directoire de' faire la guerre au Roi de' Naples, il allait se retirer, évacuer Rome d’abord, et de' fait avant lundi du 26 les Français devaient être partis et les 27 nos troupes, c’est-à-dire l’avantgarde et l'aile gauche, y entrer. De l’aile droite qui opère en Abruzzo et vers Ancòne nous n’avons point encore de' nouvelles. Les troupes ont fait de' marches forcées au milieu de' chemins et boues terribles, ils ont perdu beaucoup de genres qui les suivent comme extraordinaires en poste aujourd’hui, comme souliers habillements etc. La troupe toute nouvelle a montré courage et bonne volonté par des temps affreux, on pourra à peine un peu les remettre à Rome et courir en avant, car ces coquins ne se sont sûrement retirés que pour mieux s’unir et résister. C’est bien dans ce moment, mon bien cher fils, que votre aide est indispensable, si tout ne doit être perdu; mais je compte sur votre attachement loyauté et promesses, car c'est le moment décisif et peut-être Dieu permettra-t-il, si nous y allons vite et de' bonne foi, que nous délivrions l'Italie de' ces monstres, cela dépendra des mesures bien concertées. Je suis en ville priant aves mes innocents chers Enfants Dieu pour le succès des armes de' leur excellent Père, mais vis en grande inquiétude pour les événements et les suites. Je calcule le Roi dans son Palais à Rome se reposant des fatigues eues les premiers jours. — Je peux vous donner de bonnes nouvelles de' votre chère Soeur qui de' même que son Enfant se porte très bien. Nous attendons avec empressement de' savoir si l’entreprise de' Nelson a réussie sur Livourne, ce qui nous intéresse pour le service d'avoir cette place avec 6000 hommes de troupes, et nous intéresse encore plus d’avoir l’Escadre pour mettre en sûreté le Grand Duc et son innocente famille, s’il le croira nécessaire. Mais tous ces intérêts sont subordonnés au grand infini que vous vouliez bien commercer à vous remuer et nous secourir, laisser les places masquées gardées, marcher avec l'ennemi, le chasser, et les places tomberont d’ellesmêmes et sans siège, n’ayant plus le secours d’une armée et le pays contre eux. Voilà mon ignorante idée, mais sûrement dirigée par le désir du bien. Je tiendrai à vous et à ma chère fille informer successivement de tout ce qui arrivera. Continuez-moi vos bontés, venez à notre secours, à notre gloire avantage, pensez que vous avez en main la distruction ou bien-être de' vos Parents, amis et Alliés, Dieu veuille vous inspirer aider affretter, et croyez moi de' cœur votre bien attachée Mère Tante et amie le 28 novembre 1798.

CHARLOTTE m. p.

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Mon cher fils et neveu, je profite de' cette occasion pour vous écrire deux mots et toujours plus recommander à votre chère amitié. Notre sort est dans vos mains, encore de' délai et vous nous perdez irrémissiblement. J'adorerai les décrets de' la Divine Providence, mais il sera affreux pour nous et la postérité d'avoir été victime d'une tortueuse Politique, puisse le Ciel ne point vous y entrainer, vous même après noux! Mon cher et respectable mari est à Rome, il y est arrivé sans difficulté, les Français «’étant toujours comme les plus faibles rétirés; mais l'aile droite a eu un échec en deux endroits, mais que l'on espère de' réparer. Il faut excuser nos gens, dans toute l'armée, hors une couple d’étrangers, il n'y a pas un homme qui ait vu ni feu ni armée moyennant une longue et heureuse paix de' 50 et plus d'années, cela fait que tout nous est nouveau; malgré cela l'espèce de' soldats est de' la meilleure volonté et espèce, et fait ce que les officiers les conduisent à faire; ceux-ci sont à veiller, on le fait, mais on ne peut être à tous le còtés. Je vis dans les angoisses de' la mort pour mon cher mari à l'armée, dans un pays de traîtres; les généraux français écrivent les lettres les plus outrageantes et menaçantes, parlant d'écraser. Ce ne sera que si vous nous abandonnez ou retardez que cela s'effectuera, mais j'avoue je commence à le craindre, chaque jour est pour nous une perte irréparable. Ressouvenez-vous que votre Ministre nous a fait écrire de nous faire forcer par les Anglais à les recevoir pour avoir un prétexte à faire la guerre, et tant d'autres lettres avec promesses que, si nous fussions obligé à les publier, prouveraient la justesse de' notre démarche. Si ensuite par des tortueuses négociations, par le malin plaisir d'une vengeance personelle contre la fille et petits-enfants de' la grande Marie Thérèse, de' celle qui a donné l'être et l'existence à vos actuels Ministres, on veut nous tuer anéantir et ruiner, chose qui indubitablement arrivera.... patience, je le remets à Dieu.... après que les Français auront pris des ressources immenses chez nous, dépouillé un pays superbe, mis à la misère une nation qui ne le mérite point par son attachement et fidélité, ces mêmes ressources tourneront contre vous. Pour nous, fidèles à nos principes, nous ne varierons point, nous serons les victimes, mais ne nous jetterons point ni dans les bras de' l'Espagne, ni profiterons des offres françaises qui déjà nous ont été faites, encore actuellement les hostilités commencées; l’ambassadeur La Combe a dit hier (537) à Gallo: Mais si le Roi veut Rome, la Romagna, on pourrait s’entendre etc. etc. et nous fidèles à nos principes dont nous serons les victimes, le dernier mot sera: Mourrons, mais avec honneur....

J’en étais là de' ma lettre quand elle a été pendant plusieurs jours suspendue, de' même que le courrier. Je la réprends bien tristement, les événemens se succèdent journellement avec une rapidité étonnante et désolante; l'échec souffert à l’aile droite a été très considérable, plus en effet, artiglerie armes tentes bagages, qu’en hommes; l'armée actuellement se rassemble sous et dans la forteresse de' Pescara, l'ennemi campe sous notre frontière, envoie des manifestes, imprimés les plus imfâmes, séduction, tout est employé. On a ordonné la levée en masse dans les Provinces d’Abruzzo, et si ces bons gens ne seront pas séduits et auront des bons guides, ils pourront se défendre, les montagnes leur étant propices. L'aile gauche a aussi eu une complète déroute, le Commandant mortellement blessé et une perte très très considérable en train artiglerie bagage etc. etc. L'armée du centre n'a point encore eu d'affaire décisive, elle entoure Civita Castellana, où le général français est enfermé avec ses troupes. Le brave Général Mack est désespéré, furieux de' ces échecs, nous en sommes tous dans la désolation, on travaille jour et nuit à réparer les malheurs. Le Roi est à Rome, le Château St. Ange au pouvoir des Français me l'v fait voir avec une peine infinie, en un mot je ne vis que des peines chagrins et inquiétudes et suis sûre que j'y succomberai. Je vous recommande même alors ma chère famille, mon digne mari, ne les abandonnez point et sauvez les, il y va de' votre dignità honneur et propre sûreté, car les ressources qu'ils trouveront chez nous retourneront contre vous, ainsi je vous conjure pour des prompts secours, si vous ne voulez nous voir ruiner. — A ce sujet je vous conjure de' permettre la sortie, achats de' fusils, de boulets grenades dont j'envoie la dimension modèle à Gianaante, comme aussi de' permettre une remonte de' chevaux soit en Hongrie latrie ou autre part, parceque de' deux l'un: ou nous serons détruit avant qu'elle soit complète et nous vous la revendrons, ou nous nous soutenons et elle nous sera de' la plus grande nécessité, comme aussi de' pouvoir faire une coupe en latrie Dalmatie de' bois pour des mâts sans lesquels nous nepouvons armer tous nos bâtimens. La guerre nous a fait prendre deux vaisseaux chargés de' ce genre, et n’en plus venir. Je fie sur voire amitié et vous prie surtout cela de' me dire exactement votre réponse, fiant entièrement sur votre chère amitié et sur le désir nécessaire de' soutenir à des parents amis, dont la destruction ne sera ni heureuse ni utile à vos intérêts. Voilà en peu de' mots notre actuelle triste et désolante position. Votre respectable Beaupère et Oncle se porte grâce à Dieu bien, mais est vivement affecté et pénétré de' sa situation, je crains pour sa précieuse santé, et nous ne vivons que de' pleurs et inquiétudes, tous mes chères et malheureuses Enfants prient Dieu, il y a des prières publiques dans toutes les églises à cette fin et toutes les âmes sont suspendus, enfin notre situation vous ferait pitié. Il est dans votre main de' nous perdre ou relever, et vous le pouvez, mais il le faut sans délai. Nous avons trouvé les magasins des Français faits sur notre frontière pour venir invader Naples, eux ont fait toutes les agressions, même en traître, car après qu’ils ont abandonné Velletri Frascati où ils étaient plus faibles, se retirant, ils ont dérouté par des embuscades les deux ailes de' la droite et de' la gauche, en fesant feu à mitraille et courant à l’imprévue et avec la baïonnette sur eux, ainsi ils sont pleine et costement (538) agresseurs. Mais toutes les vérités sont inutiles, si votre cœur ne vous parle point en faveur d’une famille qui vous appartient à tant de' titres et si vous, et vos ministres surtout, ne sont persuadés que notre perte entraînera celle de' vos Etals; les richesses que les Français tireront de' ce pays sont immenses et leur serviront à envahir les autres. Pour nous, décidés de' nous défendre jusqu’au dernier moment, nous sommes décidés de' faire tout, masse, enfin toute la nation est bien intentionnée, mais la crainte seule ne sauve pas et ce sentiment prédomine dans toutes les classes, je l’avoue à ma honte, voilà notre triste position. Adieu mon bien cher fils, je n’ai ni la tète ni le cœur de' vous parler de' rien d’autre. Votre Soeur est ici avec nous, elle a une petite toux et une petite fièvre journalière qui me fait un peu d’appréhensions, on le croit effet du lait ou des nerfs; au reste elle est levée coiffée, a le teint éclairci; la petite est un éventail, petite mais gentille. Je vous recommande de' nouveau nous et nos beaux Royaumes quoique poussés à l’extrémité nous n’entrerons, au moins de' mon consentement, dans aucune trêve ou accord avec les scélérats, quoiqu’il en arrive, nous périrons honnêtement. Ce n’est que mon cher mari éloigné, en danger, dont le cœur me saigne, j’avoue je le désirerais de' retour et suis en peipes mortelles pour lui. Si les nouvelles en Abruzzo empirent, si les Français y font l'irruption, j'y enverrai mon fils; je sais bien qu’il ne peut commander, mais il pavera de' sa personne, animera ses sujets. Enfin je suis très affectée et malheureuse, je n’espère qu’en Dieu et en vous dans le dernier des malheurs; si vous ne pouvez, ne voulez nous aider, et même en cas que vous vous remuerez ne pourriez nous envoyer 12jm à 20jm hommes, nos vaisseaux, les Anglais Portugais iraient les prendra à Trieste ou Fiume, nous les paverions, ils apprendraient à nos gens leur métier, et l’émulation les ferait marcher. Enfin je vous conjure, prompte réponse, pour faire les démarches sur tout ceci, car notre sort est très précaire et je rends assez justice à votre cœur que, si vous vissiez combien sont grands nos malheurs, vous viendriez à notre secours. Je vous le repète, nous. nous laisserons perdre écraser, mais nous ne ferons jamais d’accommodement avec les Français. Ou vous nous aiderez par la force, ou vous leur en imposerez par les paroles, avant la force en main, et vous l’êtes, j’ose même dire, il convient à votre gloire cœur honneur, de parler agir, pour un Beau-père Oncle et Allié. J’y compte, si vous ne consultez que votre cœur et gens de' justice. C’est avec cette espérance et au milieu des plus cruelles alarmes, angoisses, que je suis pour la vie avec une vraie tendresse, vous donnant de' même qu’à vos chères Enfants ma sainte bénédiction, vous recommandant mon respectable (539), mes chères aimées Enfants, notre bon pays et sujets. Adieu, j’attends vos nouvelles décisives promptes comme notre sentence, et croyez moi pour la vie avec la plus sincère tendresse votre bien attachée Belle-mère tante et amie Le 11 Xbre 1798.

CHARLOTTE m. p.

12

Ma bien chère Enfant, le dernier courrier de' Vienne du 15 9bre a comblé de douleurs et chagrins nous tous. Ces malheureuses lettres sont arrivées quand votre cher Père était déjà avec toute son armée à Rome et plusieurs sinistres événements arrivés, vous pouvez donc juger de' notre désespoir et de' celui que j’ai dû causer à votre cher et respectable Père. Enfin nous sommes dans les mains de Dieu auquel je m'abandonne et résigne, mais je doute que ma machine puisse résister au choc de' tant de' peines angoisses continuelles. Le courrier d'Esterhazy n’est point encore arrivée. — Voyez nos tristes événements! Votre cher et respectable Père est sorti le 23 novembre de' sa frontière en 5 colonnes, y comprit l’Abruzzo, Terracina, et lui au centre par Coprano etc. avec Mack. Lee chemins étaient abominables, l'artiglerie a eu du retard, une pluie continuelle, des marches forcées, tout cela a surpris les Français qui ont cédé à Terracina Velletri, à Veroli Frosinone Frascati, â Rieti Ascoli, partout et se sont retirés, enfin Championnat a écrit très poliment qu'il évacuait Rome, tout ceci pour ne pas être battu en détail. Nous fidèles (et malheureusement trop fidèles à nos engagements) pour ne pas être agresseurs, les avons laissé se retirer et ainsi perdu de détruire inutiliser 7(m à 8[m hommes, donner du courage à nos troupes nouvelles nous avons donc voulu être exactes et avons cru aux paroles de' ces misérables. À Rome ils ont, contre la foi de' la parole donnée d'évacuer Rome, retenu le Château St. Ange où ils sont encore et me causent une inquiétude mortelle, et sont allé tous se nicher à Civita Castellana. Le brave Mack y a marché. Entre-temps pour notre malheur les deux colonnes d'Abruzzo se sont laissé battre, mettre «en complète déroute, perdre artiglierie caisse bagage tentes, enfin une vraie déroute; c'est ce fatal Micheroux qui commandait, neveu de' celle que vous connaissez et qui a épousé une de mes femmes, homme dont je n'ai jamais eu opinion. L’autre colonne, c'était un nommé San Filippo qui a jugé bon se faire prendre prisonnier; comme toutes les marches étaient calculées combinées, cela a fait un désappointement terrible. Malgré cela on espérait entourer et prendre Civita Castellana, quand malheureusement la gauche commandée par le Chevalier de' Saxe est tombée dans une embuscade qui a dérouté entièrement toute cette colonne que l'on n'a jamais pu rallier; le Chevalier est dangereusement blessé par deux coups de' mitraille et une balle qui lui passe au travers du corps, ainsi son honneur sauvé, mais le malheur pour nous n'en est pas moins grand; artiglerie bagages tout perdu, c'est une perte énorme. Actuellement le brave mais désespéré Général Mack doit changer de' plan, vu tous ces désastres que je gémis rougis de' raconter, mais qui n'en sont pas moins vrai. Barco est légèrement blessé à une jambe, il y a bien de' morts blessés et prisonniers, et on ne voit que pleurs, d'autant plus que cela est tout nouveau pour le pays. Du milieu de' toutes ces douleurs ma plus grande est celle de' voir votre cher et respectable Père à Rome où le Château St. Ange est dans les mains de' ces misérables où ils ont encore un parti de' Jacobins et de' craintifs. Enfin je ne vis que d'inquiétudes et angoisses, Dieu veuille sauver la vie santé à mon cher mari et je me souscrirais à vivre dans la plus grande médiocrité et malheur, mon tourment, mes peines sont pour lui, je voudrais aller cachée à Rome en courrier le prendre, reconduire au sein de' sa famille et an milieu de' ses fidèles quoique peu courageuse nation (540), enfin ce qui m’ôte la santé et rie c'est cette alarme crainte continuelle, mes chères Enfants ne font que prier Dieu et nous pleurons ensemble. Si dans ce moment-ci votre cher mari ne vient pas bien promptement à notre secours nous sommes irrémissiblement perdus. Nous nous conduirons en honnêtes mais malheureux gens, nous défendrons le Royaume palme à palme, chercherons tous les moyens et ne ferons ni trêve ni paix avec les scélérats. J'ai prié votre cher mari de' venir, mais d'abord, immédiatement à notre secours, où s'il est absolument paralysé, de' nous envoyer des troupes que nous paverons, où de' lui dire: «Alto-là! Qu'est-ce que c'est, cette querelle entre vous, je veux l'accommoder,» et lui, appuyé par la crainte de' ses forces, peut se faire respecter, et j'ose dire, il le doit à son honneur, à son cœur vers des Beaux-parents Oncles et Alliés. Enfin nous vivons dans les plus vives alarmes, le Général Ruse a campe sur la frontière d’Abruzzo, menace de' voix et par des manifestes imprimés tout etc. séduction aux peuples, démarches qui sont ordinairement leurs avant-gardes. Comme dans ces provinces il n'y a que les débris des deux colonnes battues, ils se reunissent dans la forteresse de' Pescara. On a ordonné levée de' masse et voilà le manifeste que je vous envois (541), que les maudits Français ont été les agresseurs et que nous malheureusement n'ayont eu que trop de' complaisance. Je peux faire faire un témoignage de toute l'armée et provinces, c'est en disant de' se retirer que le Général Rueca attira dans l'embuscade Micheroux et l'autre de l'autre côté Saxe, ils ont donc été agresseurs et traîtres; c'est par cette sotte confiance dans la parole de' tels misérables que l'on conduisait artiglerie réserve caisses bagage et qu'on a tout perdu, en un mot ils ont été complètement agresseurs. Mais cette vérité ne servira de' rien si notre mauvais sort est décidé et si les secours ne sont immédiats, nous sommes de' même perdus, et cela sans remède. Je veux bien tout souffrir pourvu que votre cher Père retourne et je suis dans les plus vives inquiétudes pour sa précieuse et chère personne. — Je prie pour différents points que Giansante expliquera mieux, remontes de' chevaux, fusils boulets grenades et en dernier cas troupes que nous paverons: tout cela si, comme j'espère, par tous les moyens extraordinaires et d'énergie nous continuons d'exister. Enfin ma position est terrible et je doute fort d'y pouvoir résister, je voua recommande dans tous les cas mes chérs Enfants, mon respectable mari, ces beaux pays, le cœur me saigne en les pensant proie des Français, ce qui est immanquable si un prompt secours de' votre cher mari ne nous sauve et fasse une diversion. Nous avons trouvé entre Rome et Naples les magasins de' vivres des Français, faites pour l'armée qui dans peu de' jours devait marcher contre Naples et que les 5 généraux à Rome attendaient et en partie organisaient; enfin notre sort est bien malheureux, mais nos démarches ont été forcées. Je ne veux point affliger votre cœur, dans votre état de' grossesse surtout, mais je dois vous dire que notre sort, celui de' vos parents frères sœurs, de' votre pairie est dans les mains de' votre cher mari, ou qu'il se remue immédiatement, les dévie distrait, en impose, ou qu'il parle à ces gueux en maître et les arrête, fasse le compositeur, le bienfait sera momentané, mais sauvera l'éminence du danger. Mais qu’il agisse pour nous, nous ne voulons entrer en composition ni le voulons (542), il faudra donc se défendre palme à palme et périr arme à la main. Le Ministre et tous les Français ont été chassés hier 10 du mois après la preuve bien constatée de' leur agression sur tous les points de' l’armée, ainsi il me paraît que nous avons rempli les conditions, la sortie était indispensable pour ne les point avoir à nos frontières, l'ennemi, et avec un echec à la Capitale. Que c'étaient leur intentions, le prouve l’avoir trouvé les magasins déjà faits, pour le motif que nous n’avons que trop respecté cette parole n’être point agresseur; le prouve que nous avons laissé partir librement l’ennemi de' l'elle tri Frascati Terracina Ascoli Rieti, qu’ensuite eux en traître ont gardé le Château St. Ange duquel traîtreusement ils ont tiré sur nos gens une nuit, et ensuite fait tomber nos gens inexperts, recrues dans une embuscade en trois différents endroits; ces faits non secrets, mais que tout le publique peut constater, n’admettent point de' doute de' leurs agressions, ainsi le casus fœderis! Mais si on veut chicaner politiquer méchamment, nous nuire, nous serons perdu sans ressource par la main de' nos Enfants, car la postérité n’ira pas rechercher des ministres, ministres qui doivent leur existence être à feu ma respectable mère et qui actuellement en sacrifient la fille et sa famille, je pourrais dire de' plus ministres qui tout le temps de' mon séjour de' Vienne fesaient heures et heures d’antichambre avec les domestiques pour me faire une révérence et obtenir de' moi une reccomandation à feu mon pauvre frère, ce que je n’ai jamais voulu faire, et actuellement ils s’en vengent, enfin le cas est à pleurer larmes de' sang. Je vous envois un éventail où il y a nos portraits cheveux et des motus (543) selon chaque cheveux; Hélas il vous représentera votre famille qui vous chérit et se trouvera peut-être perdue sans ressource! J'ordonne aussi à Giansante de' vous présenter plusieurs petites choses pour vos chères Enfants; comme l'état qui se présente me rendra impossible au futur de' rien faire, qu'ils reçoivent ce léger ressouvenir, je mets tant de' plaisir à m’occuper d’eux, avec quelle satisfaction je les aurais serré contre mon cœur, mais ce bonheur je ne l’aurai, ni ne peux plus l’avoir, ainsi je les bénis embrasse de' loin, vous prie de' le faire en mon nom et de' leur dire qu'ils ont une grande mère à eux bien dévouée et qui, si elle continue à vivre, priera Dieu pour eux. — Ma santé se ressent, je ne puis prendre que du bouillon et une glace, vue la violence de' ma situation dans les alarmes pleurs et épouvantes continuelles. Mon respectable cher mari m’assure se bien porter, malgré qu’il ne fait aucun mouvement et a des crèvecœurs continuels. Votre double Belle-Soeur est ici avec nous, elle a une légère fièvre journalière, une petite toux, le médecin la dit malade, lui donne la Salsa pariglia pour purifier le sang, il y a un galimatias et une cachotterie là dessous que je ne comprends point et qu’en vérité je n’ai pas le temps de découvrir, elle est levée coiffée, mais n’est pas bien, je ne sais qu'en penser; lui est aussi pâle, plein d’humeur, rheumatique diton; l’enfant est gentille, petite comme un éventail, mais très délicate; les Epoux sont très unis et bien ensemble, et lui est absolument et sûrement, pas même de' pensée, beaucoup moins de' fait regard approche, pas même de' désir, une autre femme, de' cela je suis sûre. Cotugno a toute leur confiance --------------

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(544), d’ailleurs je suis contente de' les voir bien ensemble, Dieu seul sait le vrai, mais je suis trop préoccupée de' la crainte de' perdre mari état existence pour m'occuper de' cela. Tous mes chers Enfants ne font que prier Dieu et pleurer, c’est le sentiment que leur vue nie ranime. Adieu ma bien chère Enfant, puisse votre cher mari être notre sauveur, mais bientôt, sans cela il ne sera plus â temps. Tout ce que je vous ai dit, et de' la santà de' votre Belle-Soeur et de la défection de' nos troupes, n’est que pour vous. Adieu, je vous bénis embrasse et vous assure que, dans tous les cas malheurs disgrâces, je serai toujours votre attachée tendre Mère et Amie

le 11 Xbre 1798.

CHARLOTTE.

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(Con sugo di limone; sulla prima pagina e la prima metà della seconda cifre per ingannare; la scrittura originale conservata ad li ter am et punctum).

Ca sera ma chère Enfant peut otre ma derniere lettre sur le Continent la Merre va encore nous séparer de plus Dieu sait quand je pourrois avoir de' vos nouvelles et je suis au desespoir notre malheur est a son

172— 301 — 240 — 580 — 103

Comble notre infame armee seduite vendue ne fait que fuir lâche.

125— 432 — 317 — 450 — 637 — 354 — 235 — 340 — 162

le pied votre malheureux et respectable Pere est au moins en sarete

370— 230 — 506 — 182 — 238 — 543 — 617 — 821 — 314

mais dans le desespoir de' lame en Abruzo une Province et déjà

712 —123 —246— 483— 735— 131— 412— 537— 181

perdue Teramo est dans leur pouvoir ils y ont arbore le pavillon

351 —728 —362—439—234—621 —263—451 —342

Tricolor et ote des prisons les malfaiteurs les Jacobins dons les Em

159— 683— 293 — 124— 104 — 930 — 140 — 623— 190

ploi du cote du digne mais bien malheureux Mach ils sont a Velletri

354 —171— 450 — 231— 528 — 203 — 738 — 173 —405

Costerna (545) Leffroi et partout et persone ne se remue le tableau de' Na

393— 182 — 457 — 890 — 731 — 103 — 301 — 258 — 784

pies et afreux a tracer mais vrai un effroi general mais aucun remede

361— 905 — 183 — 192 — 590 — 134 — 791 — 463 — 129

ni Energie nous devons brûler presque toute notre marina pour ne pas

107— 725 — 305 — 407 — 712 — 179 — 541 — 275 — 127

la la (546) laisser a l’Ennemie on ne trouve pas de' matelots tous craignent

180— 238

pour leur femes enfans et tout et ou moux ou corrompus la Noblesse fait de long visages cache argent (547) effets et noffre ni ne fait rien la Magistrature Avocatie se cache de la cour (548)complotto le Militaire

fuit et sont des infâmes poltrons le Peuple est le moins mauvais mais suit limpulsion des autres enfin il n'y a que traîtres gens séduit a mo

790— 457 — 308 — 652 — 186 dernes principes ou Vils poltrons sans cœur ni Energie notre sort est

957— 287 — 137 — 795 — 124 — 172 — 358 — 136 — 312

afreux le Segretaire de' la guerre a ete arrête aujourdhui mis au chatea.

812— 573 — 367—801 — 547— 237 — 146— 723 — 801

scelle sur ses papiers c'est Ariola qui a tous les jours ete a nos confe

195— 472 — 713 — 582 — 179

rences jugez du reste si nous serons sauve si nous n'aurons pas un second Varenne avec toutes ses suites cela ne sera due qu'au brave Nelson mais je suis bien loin den etre sure nous sommes 12 personnes de famille ne pouvant laisser sous le glaive Jes deux vielles malheureuses dans une saison afreuse avec des temps horribles la peine le chagrin je doute d’arriver tous en vie mais quelquonque soit mon afreux sort je vous reccomande vos pauvres Soeurs les voilla tout perdus leur peculieto amasse tout employé vci enfin les voilla perdus nous somes réduit au quard de' notre fortune et peut etre moins mais sur cella nous nous fesons une raison mais tant et tant de malheureux pleurs cris tant de' persones victimes des nous avoir ete attache ma pauvre belle fille entraine dans notre malheur avec une santà qui me fait peur elle montre bien de' la vertus je tremble pour elle pour ce misérable petit enfant pour mon fils Albert pour mes filles qui ne font que pleurer et notre Sort est si funeste que nous devons etudier de' tromper tout le monde car de' persone nous ne nous pouvons fier crainte d’etre aretee le danger et très pressant et serieux je vous fais la un afreux tableau mais si j'en echape je vous ferois notre triste description votre mary pourra avec le temps nous faire rendre ce Royaume mais gâte perdus dévasté et ce qui et le pire corompue l'armee l'est déjà en plein car trahison et codarderie ont perdus en 3 semaines une armee de' 40jm a 50jm homes fournie de' tout je ne survivrais point a ce coup mon respectable mary dit de' meme je vous reccomande vos pauvre sœur dans tout les cas et priez Dieu pour moi je ne sais ou en est ma tete Mack qui n'est pas un poltron et que je reccomande a votre cher mary ce digne home avant fait l'impossible Mack écrit lettre sur lettres envoie Adjutant sur Adjutant pour demander que nous quittions allassions en Sicile la force des François a notre eternelle honte et très petite et le Royaume est dans la confusion jvgnore ou jen etois et recommence ma triste naration le temps est si mauvais de merr que si le tumulte comence ou que les François avancent nous somes perdus sans nous pouvoir meme embarquer Cette idee fait frémir vous sentez que tout perdre

Etat Royaume aise comodites vie amie et peutetre etre dans un chateau des propres coquins foure (549) fait frémir et tel est notre sort je l’offre a Dieu mais me sens complettement malheureuse je vous prie reccomandex ma famille a votre cher mary qu’il fasse rendre son Royaume a mon marv et Enfants a la Paix pour moi le coup en trois semaines a force de' trahison vilte infamie de perdre le Royaume me tue et je n’y survivrois point je vous bénis de meme que vos chères Enfans puissiez vous etre plus heureuse que moi je vous montrerai que tel sort que me sera encore destines je mourerois come je devrois j’espere en bonne Chrétienne et come fille de' mon auguste Mere Adieu je vous bénis nous ne nous reverrons plus Adieu Adieu Adieu ma bien chère Therese.

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(Risposta dell’impératrice alla lettera scrittale dalla madré nella prima metà di dicembre).

COPIA

Sur ce que vous avez daignée m’écrire au sujet des affaires, que puisje, hélas! vous dire! J’ai d’abord exposée à mon cher mari votre triste situation et votre souhait d’avoir un prompt secours actif, que ses troupes agissent. A ceci, chère Mère, je puis vous répondre que malgré l’attachement sincère qu’il a pour vous, mon cher Père, l’intérêt qu’il a de' voir vos États point ruinés, if est Père, Souverain de' Ses Sujets qu’il doit ménager. La saison si peu propice cette année, les terribles neiges empêchent d’agir, la malheureuse perte du Prince d’Orange, le choix si difficile d’un bon brave Commandant, tout ceci sont des malheureux retards agissant à présent, la campagne ne pourrait avoir de' durée et pourrait avoir de' mauvaises suites ce qui, au lieu de' vous servir, pourrait devenir dangereux. Ce qu’il pourra vous donner, boulets fusils, connaissant son cœur, je suis sûre qu’il le fera avec plaisir, pour les troupes c’est impossible, premièrement il n’y en a de trop que nous puissions òter, et puis on n’en donne ici à aucune Puissance même alliée en solde. Pour ce qui regarde le parler, faire parler à Paris, à l’armée française pour leur en imposer, cela ne se peut faire que les armes à la main et tout prêt pour qu’en cas de' refus impertinence on agisse, et nous revenons au premier cas. Mon cher mari n’a sûrement de' canal ouverture négociation de' paix, hormis Rastadt qui est comme chef de' l’Empire, il voit bien qu’avec ces misérables aucune paix n’est stable, solide, mais la guerre il ne peut la faire que quand il est sûr de pouvoir la continuer avec honneur succès, et finir par les mettre en leurs bornes et aussi nous procurer à tous du repos.

1.

Napoli 21 Xbre 1798.

Carissimo Genero! Perdonerete se sono breve, ma non mi è possibile farlo altrimenti. Vi chiedo in primo luogo scusa se immediatamente non ò risposto alla Vostra lettera del 15 dello scorso, ed in secondo luogo vi prego a rapportarvi a quanto in mio nome vi esprimerà Gallo, che mi sono veduto nell’obbligo d'immediatamente dover spedire. Siate intanto certo che in ogni luogo tempo ed occasione mi troverete sempre lo stesso Vostro Affezionatissimo Suocero

FERDINANDO B.

1.

Mon bien cher fils et neveu, ce sera le Marquis de' Gallo qui vous apportera cette lettre et vous instruira à voix du malheur qui nous accable. Il est inconcevable tout ce qui est arrivé en l’espace de 4 semaines, j’en suis si étourdie que je ne puis me remettre; il vous prouvera, s’il vous parle comme à nous, que nous n’avons pu faire autrement, menacés d’un moment à l'autre d’une invasion. Les Généraux à Rome, les magasins aux frontières faites, et s'il fallait être battu de' cette manière il vaut encore mieux que cela ait été en Romagne qu’à la frontière, avant au moins le temps de nous reconnaître; de' 64 Bataillons il n’en reste que 10, tout le reste est fui dispersé prisonniers fuyards, j’en meurs de' honte et voudrais être morte avant ce malheur. Le Malheureux et brave Général Mack, dont le courage l’activité surpasse toute idée, est venu ici à perdre sa glorieuse et justifiée réputation, ceci me déchire l'âme. Nous sommes complètement malheureux, les fuyards arrivent en grand nombre, toute la ville est découragée, le peuple crie hurle se ressemble, mais dit vouloir saccager punir les Jacobins internes, non châtier les combattre, c’est à dire il voudrait saccager avant la venue des Français et ceci est une populace très nombreuse. Hier ils coururent en foule de' milliers sur la place à faire sortir le Roi sur la fenêtre: «Vive le Roi! Vous ne partirez point! Nous voulons faire main basse sur les Jacobins!»... c’est à dire un massacre, des passions privées, et cela avec une infâme troupe qui ne résiste à rien. Va tout cela noue avons notre peu de' marine armée en Rade l’amiral Nelson lui seul et quelques vaisseaux Portugais: nos autres batiments 4 vaisseaux frégates corvettes sciabecques galiotes et 120 chaloupes canonnières et obusières se forcent à armer avec la double pave personne ne veut venir, les matelots répondent: Voglio vedere che succédé a casa mia. A tant de' lâcheté viltà trahison, il faudra brûler une marine qui a coûté des millions pour ne pas laisser cette défense et arme à l’Ennemi qui en profiterait de' venir en Sicile. Nous comptons et devons en dernière analyse y aller, mais il est très douteux si on le pourra et si les scènes de' Varennes avec toutes leurs suites, car il y a beaucoup de' tumulte et fermentation (550). Nous sommes 12 de' seule famille, y comptant les deux vieilles Mesdames de' France que l’honneur et probité nous oblige de' sauver. Nous voulions défendre le pays pas à pas dans toutes les provinces, le retenir, espérant de' Dieu, de' vous un secours, mais avec des troupes infâmes qui dans 7 ou 8 occasions se sont enfui, criant Salvo chi puole, avant des forces très inférieures aux nôtres, que peut on espérer! En Abruzzo Teramo et l’Aquila, c’est à dire deux Capitales et entières Provinces sont déjà dans leur main, et ils y plantent d’abord l’Étendard tricolore et révolutionnent; chez nous je crois qu’on les déteste, mais la crainte est si grande, la noblesse ne fait rien que blâmer tout ce que fait le gouvernement, le militaire et la marine est douteuse, le peuple lâche licencieux, voulant piller avant que les Français le fassent, il faut tenir avec le canon les matelots à bord, car tous veulent s’enfuir.... Mack a déjà écrit en trois ou 4 lettres que pour l’amour de' Dieu on aille en Sicile, qu’il fait ce qu’il peut pour allonger la retraite et nous en laisser le temps, mais qu’il n’a pas 3000 hommes à s’v fier, petit nombre de' bons officiers et blessés hors de' combat étant resté. Seuls enfin notre lot est déplorable, c’est à vous mon cher fils que nous recourrons, pour moi je vous conjure de' parler concerter avec Gallo, rien de' honteux, mieux la mort et la misère (la honte de' l’arrivé déjà me portera au tombeau), rien de' contraire à nos alliés, les Puissances maritimes Angleterre Rusais, dont nous sommes de' nécessité dépendants dans une isle, avant Malthe encore aux Français, et tout le malheureux Royaume de' Naples, d’où je gémis pensant aux extorsions qu’une poignée de' scélérats va faire! Le Roi compte y laisser un Vicaire Générale, le gouvernement en ordre et partir, si les circonstances pressent sur l’amiral Nelson et les Portugais, se fesant suivre des Napolitains en rade, et ce qui ne peut marcher on le brûlera. Enfin je vis encore et en suis étonnée, honneur, gloire existence état, voilà tout détruit et à jamais, car l’honneur ne se raquére plus. Noua aurons un 6me de' nos rentes et une famille nombreuse. voir les pleurs de' tant de' malheureux qui vont tout perdre me déchire l’âme et je doute d'y survivre, d’ailleurs la réussite de' notre embarquement est très douteuse et pourrait être funeste, car on ne veut pas notre départ, aucune classe, mais nous tenir en otage et forcer à prier les conditions de' ces Scélérats, ce qui se réduirait à garnison dans Naples et tout ce qu’il y aurait de' plus infâme, pire que Turin, la haine pour nous et le butin à faire étant bien plus fort. Enfin voilà notre malheureuse position, toute ma chère famille est en transes et prières, votre chère Soeur, qui me déchire l’âme de' l’avoir entrainé dans notre malheur, me fait bien peur, elle a une petite fièvre continuelle, mais qui ne la force point au lit, une toux sèche et est très défaite, sa petite avance, mais lentement: emporter secrètement tout cela de' nuit, avec tous nos gens à l’affût pour savoir le moment et le divulguer, tout cela est d’un danger à faire frémir. J’aurais préféré envoyer la famille, et nous rester, mais comme malheureusement on ne peut se fier qu’à peu de' vaisseaux, les nôtres, les équipages et même quelques officiers se montrant très mal, cela ne laisse aucun autre moyen. Dans ce moment d’hiver les temps sont affreux, il faut voir si nous arriverons tous en vie, j’en doute fort pour moi, je ne désire conserver le mienne qu’autant qu’il faut pour sauver mon malheureux honnête homme de' mari, mes enfants, le peu de' gens attachés à notre malheureux sort, les établir dans notre précaire petit sort et ensuite finir mes jours dont les dernières années, et le coup à mon âme et cœur, je ne puis relever, aussi j'ai renoncé au monde, à la réputation, femme, mère, et me prépare à mourir à une éternité que je désire, voilà ce qui me reste. Gallo vous expliquera ce qui est notre situation, ce que vous pouvez faire sera un bienfait pour le futur, pour nos pauvres Enfants qui méritaient un meilleur sort, mais notre malheur est assuré. Enfin Dieu sait dans cette isle à la pointe de' l’Europe quand et comment nous recevrons de' vos nouvelles; séparés du monde entier, croyez que, si nous prenons cette fatale fatalissime résolution qui me sépare du monde entier, ce ne sera que pour la sûreté de' vie, honneur de' ma famille, par les insinuations et conseils d’un homme ¡aussi brave que Mack (que je vous conjure à genoux de' toujours considérer), car il est victime avec nous et par nous. Enfin ne croyez ni lâcheté ni viletà en nous, cette idée seule me tue, croyez que je saurais et aimerais de' mourir, mais je suis mère et femme, épouse et dois penser à cela. Enfin je vous conjure, faites ce que vous pourrez pour nous! ce beau riche fertile pays, de' ma vie je ne reviendrai de ce malheur, et je suis sûre que j'y succomberai. Je vous recommande ma chère fille, son dévouement attachement unique pour nous fait ma consolation, je la sais une brave femme, bonne mère, que Dieu la bénisse de' même que vous et vos Enfants. Ressouvenez vous quelquefois de' moi, je l'ai passionnément aimée, et mon désir était toujours de' la revoir un jour, Dieu en a destiné autrement, j'adore Ses divins décrets avec une humble résignation, mais je vous conjure, aimez sauvez mon mari Enfants État, et croyez moi jusqu'après ma mort votre tendre bien attachée Belle-Mère Tante et amie

CHARLOTTE.

le 21 Xbre 1798.

(551) Je vous conjure la dernière fois de' ma vie peut-être, avez amitié attachement pour mon mari enfants, pour un pays faible peureux, mais peut-être bon, mais ne me taxez ni de' vile ni de' craintive, mais de bien malheureuse mère et tante. Adieu je vous bénis

P. S. —

à 9 heures le 21.

(552) Pour vous dire tout, durant que j’écrivais à votre femme (553), est venu le peuple en fureur, en foule, à tirer un homme sous les balcons qu’il disaient Jacobin, j’ignore qui c’est, mais c'est un mauvais commencement, le Roi est sorti au balcon, a montré son indignation, le peuple a battu les adjudants en effréné, le Roi a crié grondé, et pour le moment c'est dissipé, mais le danger est terrible, d'un instant à l'autre les fuvards blessés arrivent, le peuple en fureur, sans raison, Dieu veuille nous aider, au bord une fois sauvés vous saurez que nous sommes sauvés, mais malheureux et déshonorés!

à 3 heures.

(554) Le tumulte est un peu calmé, on demande châteaux armes, mais cela recommencera plus tard sûrement. Les tués ont été des malheureux émigrés, mais on voulait tuer aussi le Chef de' Police, homme doux honnête, parceque, disentils, il nous enferme. Enfin notre danger est imminent, mais Dieu veuille nou sauver. Je vous recommande ce qui de ma famille survivrai

du Bord Vanguardia (555).

Nous voilà tous sauvés, mais quelle douleur! Les massacres avant continué aux Emigrés, le peuple a tumultué, la troupe à ne s’v pas fier, les matelots à nous à se révolter et ne pas vouloir obéir, il a fallu prendre la cruelle résolution. Nous sommes descendus avec le plus grand secret, 10 de' famille, à l’obscur sans femmes ni personne, personne ne le savait, et en deux bateaux, guide Nelson, Nous sommes à bord, fils 3, filles 3, belle-fille, son enfant, le Roi et moi, les deux pauvres vielles dames françaises iront à Manfredonia, car on n’ose plus risquer de' les faire voir, car le peuple est en fureur. Enfin voilà le terrible cas arrivé, Dieu veuille préserver Naples de' malheurs, je n’oublierais jamais Naples où j’ai vécu 30 ans, Dieu veuille faire qu’aucun massacre arrive, ni d’amis ni d’ennemis, je ne vivrai qu’alors que je saurai tout le monde assuré. Je vous recommande mon cher Royaume de' Naples, je vous prie pour Mack, estimez-le, il est malheureux. Si les deux malheureuses vieilles ne pouvaient venir en Sicile et devraient venir à Trieste, avez pitié d’eux, donnez leur une ville, un endroit, nous tâcherons de' leur donner à vivre, hélas je sens si fort ce que c’est le malheur! Je me recommande moi, ma famille, sortie de' notre beau et bon pays, ah faites nous y retirer (556), je ne désire que cela, me retirer du monde et finir mes jours en paix. Adieu, la plus malheureuse attachée Belle- mère et Amie.

(557) Grâces a Dieu nous sommes à bord, mon très cher frère, vous ne pouvez croire quel regret nous avons quitté Naples, ce beau et superbe pays, et toutes mes connaissances. Mon unique consolation est de' voir toute la famille sauvée et d’être au milieu d’eux, car ils me comblent, moi et mon enfant qui se porte à merveille, d’amitiés. Je ne doute pas, mon très cher frère, que vous ne pensiez aux moyens de' nous faire rentrer à Naples, vous l’avez promis et ne pouvez manquer à votre parole, je ne suis sûre. En attendant je vous embrasse, vous votre femme et vos enfants et suis pour la vie Votre tendre Soeur et Amie

CLÉMENTINE.

17

Ma bien chère Enfant, le Roi votre cher Père estimant envover un Courrier à Vienne et Londres, j’en profite avec empressement pour vous écrire, quoique certes je ne puis rien vous dire que de' triste après tous nos malheurs, que je n’ai même plus le courage de' vous répéter: fuite départ tempête, perte de' mon fils Albert en huit heures de' temps, manque de' tout. J’ai été deux jours sérieusement malade avec forte fièvre, mais je l’ai encore supéré, il ne me reste qu’une forte toux et je ne puis un peu reposer la nuit qu’avec des opiat. Votre cher Père se porte grâce à Dieu bien. François a fièvre et mal de' gorge. Ma belle-fille, qui depuis sa couche ne s’est jamais remise, a l’autre nuit craché deux mouchoirs plein de' sang, le médecin l’a mise à entier régime de lait qu’elle supporte bien, et l’a forcé de' rester au lit ce qui fait que depuis deux jours les fièvres et sueurs journalières ne sont pas venues, ———————

—— (558) je ne m’y entends point ni au mal ni aux remèdes qui ont été la mauve et actuellement une pommade de' Goulard, car en 17 enfants cela ne m’est jamais arrivé. Vos sœurs et Léopold sont tous défaits de ce que nous avons souffert et souffrons encore, car il ne passe point de' journée que nous n’avons quelques sursauts et chagrins des nouvelles de' Naples, où de' tous les còtés l’ennemi s’avance. Nous manquons de' tout, nos rentes de' trois quarts anéantis, presque rien sauvé, il faut nous fournir de' tout et le cœur me saigne de' ce qu’il faut rendre et voir tant des gens malheureux, mais enfin tel est notre sort actuel et il faut plier la tête aux Décrets de' la Providence. A Naples la noblesse se conduit au plus mal et empêche toutes les bonnes dispositions à prendre, le peuple est le mieux, la noblesse veut la paix, capituler s’humilier, se faire faire la loi des Français plutòt que de' contribuer ou de' risquer eux en armant le peuple, enfin tout y est complète confusion et aucune bonne volonté, cela nous perdra certainement. Les Siciliens montrent jusqu’à présent beaucoup de' bonne volontà et zèle, c’est à désirer que cela continue; mais tous les moyens nous manquent: marine artiglerie, magasin de' tous les deux espèces, fonderie machines fabrique d’armes, rien n’y est et tout a été trasportà établi à Naples, ce qui fait que tout manque pour la défense«et c’est une cruelle position. Mon unique espoir est que les Français n’étant pas en nombre considérable, tarderont à Naples où leur déprédation trouvera de' quoi s'occuper, et qu'ils n'oseront s'avancer en Calabre et de' là en Sicile, crainte des événements à arriver à leurs épaules. Mais tout ceci n'est qu'espoir; j’ai vu arriver des choses si incroyables et étranges qu'on peut craindre de' tout. J'avoue je ne puis me consoler et mes journées se passent à pleurer, je ne sais ce que tout cela diviendra. Je crains, même suis convaincue, que ma belle-fille a la consomption, je crains pour son jeune mari qui n'est pas bien et qui comme jeune me fait trembler, dormant ensemble; je crains pour mes filles vivant toutes en communauté, et notre actuel état ne permettant guère de' faire des divisions. Pour moi je suis ruinée, ce dernier événement m'a tué et je n'n reviendrai jamais. Je vis dans un appartement où jamais depuis peu de' temps qu'il est fait personne a logé, mur frais, sans rien, ni aucune tapisserie ni meubles, cela me ruine; un froid humide à mourir, et en vérità on ne peut se remettre. Ici est un autre pays, on est constitutionnel, le Roi n'a pas un sou sans l'aveu du Parlement, la justice, le tout a des autres régies, et enfin tout est sur un pied très différent, il le faut souffrir et prier Dieu qu'au moins cela nous reste. Pour ce que nous savons de' Naples depuis notre fatal départ, est que les Ennemis s'étaient rendu maîtres de' tous les Abruzzi, avaient passé Venafro et de' différents còtés étaient près de' Capoue. De ma vie je ne pourrai me persuader ni consoler comme 16(m à 20jm scélérats assujettissent conquérent 4 millions d’âmes qui ne les veulent point chez eux! Cela me passe et désole, enfin je prie Dieu de' ne point en perdre la cervelle. Je ne puis que me recommander vaguement à l'amitié et secours de' votre cher mari, car notre position est très peineuse et tourmentée. Mandez moi, ma chère Enfant, quand vous comptez d'accoucher pour que je redouble et fasse faire des prières pour vous, c'est tout ce que ma triste position me permet de faire....

(Qui cessa lo scritto per ricominciare sulla stessa pagina più di tre settimane dopo; nell'intervalle cade la seguente alV imperator Francesco, ugualmente interrotta e dopo lungo tempo ripresa).

18

Mon bien cher fils et neveu, je profite d’un Courrier pour vous écrire, je n'ai ni la force ni le courage de' vous parler de' notre plus que douloureuse position. Nous sommes à Palerme, recevant chaque jour quelque nouvelle désolante du cidevant Naples, ou voyant venir des fugitifs malheureux, que nous n'avons pas la possibilité d'aider, notre maison qui coulait 600¡m ducati l’année est réduite à 120 ¡m, on ne voit que pleures malheureux, nous avons tous la moitié de' nos assignements, mes Enfants ont tout perdu: fonds rentes tout enfin, je suis complètement malheureuse«L’armée continue à se conduire infâmement, et la Capitale commence a être très inquiète; la noblesse qui a le plus à perdre est celle qui se conduit le plus indignement, enfin tout est pour se désoler, aussi suisje dans la plus profonde et vive affliction. Votre sœur, ma chère Belle-fille a de' nouveau craché du sang, et comme elle a une fièvre journalière, sueurs, toux sèche, cela nous alarme; elle a aussi des autres incommodités; on lui a prescrit à une diète de lait stricte, cela va un peu mieux, ou du moins n’a pas empiré. Mon fils a aussi une toux et fièvre journalière, j’espère que ce n'est que rhume. J’ai été aussi obligée deux fois de' garder le lit, et depuis ma triste arrivée je ne suis allé que prendre la bénédiction à une Église, mais je ne suis sortie nulle part, je ne vis que dans les chagrins larmes et suis complètement malheureuse; on va saccager appauvrir le beau Royaume, en tirer des ressources infinies, corrompre, et jamais plus nous n’aurons ni serons ce que nous avons été, ce sont de' tristes mais vraies réflexions! Païenne témoigne beaucoup de' bonne volonté et attachement, mais le site n’est aussi beau que Naples, et puis nous manquons de' tout, une maison non meublée, étroite, ne voulant ni pouvant faire dépense, en un mot une cruelle vie, mais il faut s’y soumettre. La lâcheté, mauvaise volonté de' la manne a aussi empêché que l'on ait pu sauver la marine artiglerie munition, richesse en tout genre, personne n’a voulu aider à l'embarquement, et de' dessus les bâtiments royals armés ils fuyaient, ce qui a forcé de' détruire Vaisseaux Frégattes Corvettes Brigantines Galéotes et 90 chaloupes canonnières et bombard. ères pour une perte de' plus de' 4 millions de' ducats et de' 20 années de soins, cela fait mal au cœur, mais c’était une nécessité pour ne le point laisser en mains aux ennemis. L’affaire de' Piémont est aussi bien triste et joint malheur à malheur, enfin je ne vois guère plus quel remède à tant de' maux, et pour nous, nous sommes perdus sans guère d'espoirs de' renaître, aussi ma tristesse estelle à son comble et je ne vis qu’en pleurant. Des nouvelles du monde nous ne savons rien, hors que nous sommes bien malheureux. Mes chers Enfants sont tous souffrants, très défaits, car ils sentent notre et leur position et la cruelle différence, mais leur santà se soutient. — J’espère d’apprendre que Vous et votre chère famille se porte bien, je vous recommande votre chère femme, nos intérêts je les remets à Dieu, à votre amitié, mais c’est surtout mes chers Enfants que je vous recommande. Adieu, soyez heureux.

je Vous souhaite dans cette nouvelle année autant de' bonheurs que j'y ai eue dans celle qui vient de' finir de' mortelles douleurs. Adieu, je me recommande à votre chère amitié. Je dois aussi vous prier de' ne point diminuer de' votre estime et opinion du brave et malheureux Général Mack, il a fait ce qu'il était à lui possible, mais soit corruption ou lâcheté tout était en vain. Conservez moi votre chère amitié et croyez moi pour la vie Votrebien attachée Belle-Mére Tante et Amie

Ce 5 janvier 1799.

CHARLOTTE.

19

Le 21 janvier.

Vous verrez par la première date de' la lettre que voilà 16 jours qu’elle est écrite (559), mais le malheur qui nous poursuit a rendu si constamment mauvais le temps que rien n'a pu passer. Les événements se sont succédés avec tant de' rapidité que chaque jour nous apportait un nouveau malheur de' Naples et que vent et mer nous contrariaient d'y pouvoir répondre ou écrire. Enfin je n'ai ni la force ni le calme de' vous faire la série de' nos malheurs. Les Français ont toujours avancé vaincu, pris Gaëte sans coup férir, par trahison, avancé sous Capoue. Ils ont eu quelque petit échec auprès de' cette place et de Cajazzo, cela a ranimé un peu les esprits abattus, quand les Commandants portugais, las de' tant attendre, ont jugé à propos de brûler toute notre marine et de' partir. C'est une perte très considérable immense, dont le cœur me saigne et que de' notre vie nous ne verrons plus reparée; Nelson a mis à son arrivée le Capitain en conseil de' guerre. Sur ces entrefaites nous arrive la nouvelle d'une armistice faite avec les Français du consentement du Vicaire Général qui n’en avait pas la liberté ni permission, une armistice infâme leur livrant Capoue avec toute son artiglerie munitions, y remettant même la détachée, leur donnant une quantité d'endroits et Provinces où ils n’avaient point encore approché, et les plus riches, leur donnant deux millions et demi dans le simple mois de' Janvier, fermant les ports des Deux Siciles aux Alliés en guerre contre eux, enfin des impossibilités à permettre. Mais la chose avait été exécutée sans attendre notre ratification ni consentement. Quand nous étions occupés de' remédier écrire contre cela, arrive sur un petit bâtiment impérial le Vicaire Générale en personne, avec les premiers officiers des gardes; pour un tumulte arrivé la ville, les élus, tous, noblesse se sont constitués gouvernement provisoire et de' tranquillité publique, démis et òtà authorité et pouvoir à notre Vicaire Général. Pignatelli est aux arrêts sur le vaisseau et pour l'armistice et pour avoir quitté Naples à l'anarchie. Le peuple s'est armé, plus de' cent mille hommes le sont, ils ont élu un Général à eux, ils ont ouvert les prisons: saccagé la darse, emparé (560) de tous les châteaux, enfin ils sont les maîtres, personne ne nous écrit plus ici un mot, les proclamations ordres s'impriment sans parler du Roi. On dit que le peuple crie Vive le Roi, vive St. Janvier, mais est tout en armes. Mack a quitté l'armée sans nous en rien écrire, ni dire où il allait, il a disparu, c'est l'unique mot que Salandra marque, qui commande ces débris d'armées. Voilà toute notre triste affreuse position. Si je perds le royaume de' Naples par démocratisation ou conquête je ne survivrai point à ce malheur, en un mot, je suis très très malheureuse et, j'ose le dire, sans l'avoir méritée, pour avoir voulue être fidèle et loyale. Ma santé est perdue, et doit bien se ressentir de' tant de' mortels chagrins. Ma chère Belle-fille va un peu mieux, la diète de' lait elle la digère et la continue avec une grande persévérance; elle est plusieurs heures de' la journée levée, et la toux est moindre. Mes autres chers Enfants sont tous avec nous, souffrant des affaires et des privations en tout genre qu'il faut s'v plier. Mon cher Mari est le plus résigné et vertueux de' tous, j'avoue, je ne puis me consoler et ce malheur-ci me tuera. Je vous recommande à votre chère amitié mes chers Enfants, nos affaires État. Je remets entre les mains de' Gallo nos affaires, qui vous en informera mieux que je ne pourrais faire. Nous sommes dans notre relégation, sans rien savoir des affaires du Continent, de vous mon cher fils, de' votre intéressante famille. Adieu, pardonnez, si je vous ai parlé confusément, mais la matière l'est cruellement, moi même je ne sais encore comprendre ce qu'est Naples, Aristocratie, Démocratie pour ou contre Français, voilà ce que j'ignore, ni armes artiglerie munitions, ni l'argent à nous, ni nos effets, rien rien ne se peut avoir et tout est perdu. Je loge dans des chambres à mur blanc froid et humide. Adieu c'est trop au long, mon cher fils, vous parler de mes souffrances, puissiez vous être heureux et ne jamais éprouver despareils malheurs, je vous recommande votre chère femme, mes Enfant, et croyez moi de' cœur et pour la vie votre bien attachée Belle- Mère Tante et Amie

Palerme le 21 janvier 1799.

CHARLOTTE.

P. S.

Je joins encore ces deux lignes à ma lettre pour recommander à vos bontés les deux vieilles Mesdames de' France. Les malheureuses Princesses sont près de' 3 ans chez nous, elles logent à Caserte, vivaient très retirées et contentes à leurs frais, et nous ne leur donnions que la maison, deux vieux carrosses et six mauvais chevaux, elles étaient heureuses et tranquilles, reconnaissantes et pleines d’attention pour nous. Quand ce malheur général est arrivé, je leur écrivis, mais le peuple étant en insurrection elles et nous craignîmes des les faire venir en ville, et je leur proposai d’aller à Manfredonia, croyante qu’une frégate à nous y était, mais elle se trouva allée h Messine, elles restèrent tranquilles, mais comme cette partie est cédée par l'armistice, ces malheureuses Princesses auront été obligé de' fuir, elles en moureront (561) de toutes ces peines, mais si elles arrivent vivantes, je vous les recommande, c’est une charité, j’ose dire, une hospitalité due à leur rang et naissance. Ainsi je vous prie de' leur accorder protection et amitié, et vous obligerez infiniment celle qui, étant elle-même si malheureuse, sent plus le malheur d’autrui, étant très possible que la même chose encore m’arrive.

20

(v. l'osservazione alla pag. 389)

le 28 janvier.

Voilà, ma bien chère Enfant, une longue lacune de' 23 jours que les mauvais temps, une mer orageuse, ne m’a pas permis au Courrier de' partir. Que d’événements arrivés depuis, tous tristes et fatale! J’envoie par le Courrier à Gallo toutes les tristes pièces qui constatent nos malheurs. La noblesse, à peine le Roi parti, a élevé son unique voix, et malgré les lettres ordres du Roi, un Vicaire-Général, a dit qu’elle devait gouverner, soigner la tranquillité publique. Pignatelli s’est défendu, mais faiblement, on a formé à leur demande une garde civique, on leur a permis quelques autorités, ils en ont abusé; on a demandé hautement armistice, et le Général Mack le premier. Championnet a répondu ne reconnaître d'autre autorité que la ville, Pignatelli soutena et envoya, Migliano et Gesso en conclurent un infâme, sans attendre l'approbation de leur légitime Souverain et Roi, et qui leur donne en main des provinces les plus riches, les ports de' l'Adriatique, des endroits où ils n’avaient point encore mis le pied, leur donne Capoue avec toute l’artiglerie, enfin leur cède tout hors la chère Capitale. Pignatelli dit que Mack l’a approuvé; cette infamie, signé ratifié conclu et mis en exécution, fut envoyé au Roi qui la désapprouva cassa, et comme le temps de' mer était mauvais, envoya un Courrier de' terre pour ne point tarder; mais deux jours après la nouvelle arriva de' nuit sur une polacque le Vicaire Général Pignatelli chassé de' Naples, la ville, ou soit la noblesse, s'était érigée en provisoire Comité, chassé l’autorité Royale, le peuple avait fait son insurrection, que je crois pavé guidé par eux, désarmant tout le reste de' troupe, criant Viva Napoli e San Gennaro, avait créé leur Commandant Général Moliterno, jeune homme de' courage, mais écervelé, le peuple s’était emparé de tous les châteaux, darse, de' tous les endroits militaires jusqu'au Collège des Cadets, tout pillé, les châteaux sont par eux gardés, les canons de' l’artiglerie, poudre, encore un batiment reste (apres la fatale entière destruction et brûlure de' toute notre chère et coûteuse Marine), enfin le ministre des finances traîné traduit au tribunal de' la noblesse et enfermé, quelques autres personnes du Gouvernement, de' même le Vicaire Général Pignatelli menacé, la troupe jettant les armes au peuple pour s'armer, deux régiments de Cavalerie et un d’Infanterie désertait le même jour, Mack étant disparu, on ignore au jour d’aujourd’hui, et c'est 15 jours, où il est allé, ce qui fait une mauvaise sensation et beaucoup parler et conjecturer. Enfin Pignatelli partit, depuis le 15 d’alors jusqu'aujourd’hui pas une nouvelle ni une lettre du criminel Naples; des Ragusais venus disent que les coups de' canon fusil étaient continuels, enfin un malheur inoui et pour nous incompréhensible. La noblesse ville veut se donner aux Français, faire ses pactes, être une République aristocrate, et trahit pour cela tous les plus saints devoirs par l’espoir de' conserver leurs richesses. Le peuple est forcé, ne veut point de' Français en ville, mais ne veut se défendre que dans la ville. Le tumulte licence est extrême, tous les prisonniers forçats, tout est libre et tout est licence anarchie; le peuple sera trompé subjugué, et ce silence de 15 jours me fait craindre que le pavillon tricolore y est déjà établi. L'unique chose qui peut encore le retenir c'est que les Français sont peu en nombre, pour l’immensité des pays qu'ils doivent couvrir et qu'ils ont pris et qu'on leur a donné et que, comme le peuple napolitain n’est point pour eux, ils y penseront deux fois avant d'y entrer dans une si immense Capitale. Mais qu’importe î L’anarchie y régne, ce pays est perdu pour nous, depuis 15 jours aucune nouvelle, aucune ligne, hélas cela me rend très triste! Nous avons tout perdu, marine toute détruite brûlée, artiglerie poudre munition magasins finances argent dépôts, arrangements de' mes Enfants, un pays riche superbe, 5 millions d’habitants, 8 et plus rentes. Enfin notre malheur est complet, et je ne m’en remettrai jamais. La troupe de' retour de' Livourne et la colonne de' Damas, un corps de' 9 à 10 milles hommes sont arrivés, le peuple est tombé dessus, a désarmé la troupe qui est de' concert avec eux, ôté la poudre de' dessus la frégate et pris la frégate de' force dans le mole pour eux, tout ceci est fatal, mais le silence est le pire de tout, durant qu’il y a de' Marco Simonetti Corradino Spinelli l’Archevêque, tous les magistrats, et personne ne se ressouvient de son Souverain, de' son Roi, c’est un cruel et bien triste exemple pour moi. Je puis vous assurer que je ne vis existe plus et prie Dieu de me conserver ma raison. — Votre cher Père, pour n’avoir rien à se reprocher et tenter tous les moyens, a créé le Cardinal Ruffo Vicaire-Général des Provinces qui lui sont restées, en commençant par les Calabres et tâchant de' les animer au bien et à la fidélité. J’v compte peu, car je vois le plan trop bien concertà pour nous rendre complètement malheureuses, et cela a réussi entièrement. Je suis convaincue que le Royaume de' Naples tout révolutionné la Sicile ne tardera guères à le suivre et la révolution y sera promptuaire et féroce, et je suis convaincue qu’aucun de' nous en échappera en vie. Vous sentez combien cela rend ma position affligeante, je ne regarde jamais mes Enfants sans pleurer. Votre cher Père se porte, soit religion résignation, or il se porte bien et est content, il a pris une jolie maisonnette de' campagne, bâtit cultive, le soir va au théâtre, bal masqué, est gai et je l’admire, Naples est pour lui comme les Hottentots, il n’y pense plus. François est à peu près de' même, mais celui-là soupire encore après Naples. Mes filles, moi et mon cher Léopold, nous ne sortons pas de' nos chambres, j’ai réellement honte de' me faire voir après ce malheur arrivé; mes pauvres filles vivent de' même que moi de' privations; des chambres infâmes, non meublées, froides humides, et l’un sur l’autre; ni meubles ni même toute notre garderobe à nous a été sauvée, nous manquons de' tout et ne devons pouvons rien faire. La maison royale au lieu de' 600jm ducati en a 120jm à dépenser, tous nos assignements tout réduits au tiers, j’ai 120|m ducati de' moins par an et n’ai plus que 30jm pour moi et Enfants maîtres cuisine etc. etc. Tout le monde pleure hurle se désespère, tant pour les paies diminuées que ses parents amis pays perdus. Enfin je suis comme reine mère femme maîtresse de de maison, sous tous les aspects très malheureuse. Palerme est un air humide gros, les alentours montagnes de' pierres, nues tristes, les Palermi tai ns gens d’esprit feu, avantageux, le Peuple d'une crasse cochonnerie, tout qui surpasse l’imagination, on ne connaît point l’acier, on ne sait faire une bonne serrure; et tout selon ceci. Réellement je sens que je succomberai bientôt si je reste ici. Mes Enfants dévorent leurs peines larmes pour me soulager, ils se conduisent au mieux et mériteraient un meilleur sort. Ma Belle- Fille va un peu mieux movennant la cure de' lait, elle se croit enceinte, moi je ne le crois point, et ne sait que désirer; elle a souvent la fièvre mais petite; si elle dit 20 mots de' suite elle tousse, une pâleur maigreur à faire peur, elle dit toujours être bien, mais est à peine 6 à 8 heures levée et ne sorte de' sa chambre, de' lit. Son enfant est bien, mais elle est près de' 3 mois et ne tient point encore sa tête, elle m'a un air et figure de' la fille de' votre mari de la Wurttemberg un peu, sans comprendre, je la vois caressée, mais laisse aux parents la cure physique et morale de' l'enfant. La santé de la mère m'affecte pour elle, qui est un ange de' bonté tranquillité pour son jeune mari; — — —— — —— — ——— —— — —— — —— — —— — —— — —— — —— — —— — —— — —— — —— — ——— (562) Son mari l'adore unique-et seulement au monde, il n'a pas même une idée, une pensée que femme au monde hors elle existe et sur cet article, par vertu religion horreur du vice, par tempérament embarras, je suis sûre de' lui, il n'a de' plénière confidence qu'en elle, et leur union fait plaisir à voir, et quoiqu'il aime bien soi même, l'idée de' consomption, crachements de' sang, ne lui fait aucune appréhension, vu son attachement pour elle, que je cultive de mon mieux, le tenant pour une bénédiction du Ciel. Par ennui elle veut les filles toujours dans sa chambre, elles y vont volontiers l'aimant beaucoup, mais moi je ne puis nier mon appréhension. Voilà ma chère Enfant, mon triste tableau sous tous les rapports: pour Naples je le crains perdu, et Dieu sait si jamais nous le recevrons; pour ici je ne suis nullement tranquille. J'espère que Gallo vous exposera, avec le zèle d’un honnête attaché homme que je le crois, nos tristes circonstances«Je me recommande à votre amitié soins, et à celle de' votre cher mari, je ne sais dire comment et quoi, car en vérità je l'ignore moi même. Les malheureuses dames de France, ces deux vieilles Princesses, arriveront si elles le pourront à Trieste, je vous les recommande, elles méritent égards et pitié, elles ont une modique pension d'Espagne et ont eu la délicatesse de' ne jamais rien demander, elles étaient heureuses contentes et tranquilles dans le vieux Palais de' Caserte.

Actuellement nous sommes tous malheureux. Championnet loge dans nos chambres et se sert de' mes meubles à Caserte, patience, ils ruinent détruisent tout et corromperont entièrement les esprits. Je me sens bien malheureuse, mais vous recommande de' nouveau ces deux vieilles Princesses qu’un concours de' malheureuses circonstances ne m’a pas permis de' sauver avec nous, et que je tremble qu’elles y succombent, et c’est une douleur de' plus et remords pour mon cœur, ainsi je vous les recommande. Adieu ma obère Enfant, dans une isle au bout du monde où je me retrouve, tonte l’Italie francisée, les mers infectées, de' courriers, je risque d’être des mois sans avoir de' vos nouvelles, autre peine de' plus à mon cœur maternel; ainsi il m’en coûte de' plus de' finir d’écrire, mais c’est une nécessité. Adieu donc, ma chère Enfant, je vous souhaite une heureuse nouvelle année et une couche d’un enfant sain parfait et prospère, un beau garçon, mandez moi en le temps, afin que je puisse prier Dieu pour vous, voilà tout ce que je puis faire. Je vous recommande nos malheureuses perdues et pour moi incompréhensibles affaires, sovez notre advocate auprès de' votre cher mari, ce que je vous recommande le plus et instamment, c’est d’avoir soin protection de' mes Enfants, qu’après ma mort mes filles soient mises à la Visitation (563), qu’on les établisse ou rende Chanoinesses, Dieu vous bénira sur vos Enfants du soin que vous en aurez, elles sont bonnes retirées accoutumées aux privations, un petit toit, et elles n’incommoderont point; la Vente de' mes bijoux et du peu que j’ai servira à les faire vivre, pourvu qu’elles aient une main qui les protège. Je ne désire plus que cela pour mourir en paix, la plus malheureuse tendre attachée mère et amie

le 27 (564) janvier 1799.

CHARLOTTE.

22

Nro. 8.

Eccellenza

A. Mi lusingo eh Ella riceverà a dovere le mie Relazioni dal di 15 sino a tutto il 21 di questo mese per mezzo del Capitano Ròdlich il quale partì da qui il dì 22 (565).

B. In quel giorno medesimo i Francesi nuovamente si avvicinarono a Napoli, ma per la strada di Capo di Chino. Anche in quella furono incontrati dal basso Popolo, e questo essendo stato sbaragliato e ri spinto divisi in tre Colonne, una venne ad appostarsi al Largo delle Pigne, una fuori di Porta Capuana, e la terza per strade oblique si portò sino sotto le mura del Castello S. E ramo, disfatto ch’ebbe un distaccamento di Napoletani che avea tentato di opporsele.

C. Il principe Moliterno si era proposto di darlo in mano ai Francesi tostoché vi si fossero accostati, ma gli conveniva di farne prima uscire i Napolitani: era perciò ricorso agli stratagemmi. Per sempre più far credere al Popolo che la sua intenzione fosse di voler fare resistenza al Nimico, avanti d’entrare in esso Castello avea istituita una Processione nella quale avesse a portarsi il Sangue di S. Gennaro, ch’egli assieme con un Popolo immenso accompagnò a piedi ignudi; col pretesto di meglio guardarli avea fatti condurre nell’¡stesso Castello tutti li Giacobbini che dalla Plebaglia erano stati chiusi in varie carceri; avea fatto spargere la voce che per mezzo della Bandiera da lui fatta esporre intendeva d’ispirare sempre maggior coraggio. Dopo tutto questo a quei che tenevano occupato il medesimo Castello avea dato ad intendere che conveniva di fare una sortita, per disfare una Truppa di Giaccobini che serano appiattati in quelle vicinanze per assaltarlo di notte tempo, e sortiti che ne furono avea alzati li ponti levatoj: con che resone padrona all’approssimarsi che fece l’accennata Colonna di Francesi l’introdusse nel Castello, e la mattina seguente vi si vide spiegata la loro Bandiera. N’era rimasto d’intelligenza col Generale in Capo Championnet sino da quando nel dì 17 si era portato ad abboccarsi con lui, e quando vi ritornò in compagnia dei Deputati dei Quartieri non avea avuto altro scopo, se non che di prevenire qualunque sospetto che avesse potuto nascere in conseguenza della precedente sua gita.

D. Tutto ciò erasi da lui maneggiato di Consenso degli Eletti Nobili della Città, li quali di più ne mandarono di poi le chiavi al suddetto Generale con fargli anche delle buone offerte, impazienti ch’egli l’avesse occupata. Tale era divenuta la sfrenata licenza del Popolaccio e tanta la sua avidità di spogliare e rapire che, se i Francesi forse l’un o l’altro giorno di più avessero tardato a venirci, oltre i nuovi e molti massacri che avrebbe commessi infallantemente avrebbe dato un sacco generale al Paese, come ben si può dedurre dagli spogli e dalle rapine che fece in ultimo luogo in più Palazzi e Case claustrali, segnatamente nel ricco Monastero di Dame di S. Gaudioso, cui appiccarono di più il fuoco dopo d averlo intieramente spogliato. Erano altresì in continuo pericolo della vita tutti gli Abitanti di Napoli, li quali fossero stati in necessità di camminare per le strade o avessero voluto affacciarsi alle finestre, giacché gli ultimi due giorni da molte case e specialmente da parecchi Conventi di Frati si spararono infinite archibugiate, e vasi da fiori si slanciarono contro quelli che armati correvano per opporsi ai Francesi, e infinite archibugiate si spararono contro le finestre; talché l’universo spavento e l’orrore per l’attuale spettacolo, accresciuto dall’apprensione di quanto questo Popolaccio fosse ancora per poter attentare, rendevano il soggiorno di Napoli il più lugubre e il più funesto che mai si possa immaginare. Non fu rispettato nemmeno il Palazzo dell'Ambasciata, oltre d'essersi la penultima sera dati dei furiosi colpi nel Portone perché si spalancasse, dalla quale pretesa bensì mi riuscì di far desistere gli aggressori a forza di qualche denaro, l’ultima essendo state sparate due archibugiate contro lo stesso Portone.

E. In si deplorabili circostanze ritrovandosi questo misero Paese furono riguardati quali Angeli discesi dal Cielo li Francesi delle suddette prime Colonne li quali, mentre il Popolaccio, essendo precorsa una voce che gli era lecito di farlo, stava intento a dare il sacco al Palazzo Reale, entrarono in Napoli la mattina del dì 23, giornata del mese che, secondo il linguaggio dei nostri Padri, potrebbe dirsi climaterica per questo Regno, ai 23 del novembre essendosi mosso l’Esercito del Re dall'accampamento di S. Germano, e ai 23 di dicembre avendo egli fatto vela per Palermo.

F. Alla testa d’un distaccamento di Cavalleria seguito da due cannoni e di buon numero d’Infanteria, in mezzo allo Stato maggiore, traile acclamazioni in quell’istesso giorno il Generale in Capo cavalcò per le strade principali della Città, preceduto da un Plebeo (566) pure cavallo il quale andava gridando: Viva S. Gennaro, viva la libertà! e assicurando il Popolo che il suo santo Protettore si sarebbe rispettato, come in fatti il Generale vi fece poi mettere delle Guardie Francesi e andò a visitarlo egli stesso. Degli altri tre Castelli quello dell’Uovo e il Castel Nuovo gli furono aperti senza alcuna resistenza, e quello del Carmino fu da lui espugnato a colpi di cannone.

G. L’indomani si vide affisso per le Cantonate della Città un suo Proclama, col quale traile altre cose assicurava i Napolitani che resterebbe intatta la loro Religione e sarebbero rispettate le proprietà di ciascuno.

H. Jeridì poi ne uscì un altro il di cui essenziale contiene che Napoli è dichiarato Repubblica, che questa provvisoriamente è rappresentata da vent'uno Cittadini, che l’Assemblea di questi Rappresentanti è investita dell'Autorità legislativa ed esecutiva sino all'organizzazione del Governo constituzionale e che i Decreti dell'istessa Assemblea non avranno forza di legge se non dopo d’essere stati sanzionati dal Generale in Capo.

I. La Città in ora è quieta e tranquilla per le provvide cure dello stesso Generale, il quale altresì è pieno di umanità e di moderazione. Vi corrisponde anche. il suo ¿ratto manieroso e cortese. Lo esperimentai io in particolare all'occasione che il giorno seguente al suo arrivo stimai a proposito di fargli una visita. Intenzionato di. pregarlo con tale incontro che mi facesse rilasciare una salva guardia tanto per il Palazzo dell'Ambasciata quanto per quello che è di proprietà di S. M. l’Imperatore, come pure per gli Sudditi Imperiali, fui prevenuto con avermi egli offerta una sua carta rapporto al primo, sotto alla quale, pure di. suo proprio, egli aggiunse che, da me richiedendosi, mi si dovesse dare. una forza armata, e promise chemi avrebbe mandati parecchi Foglj di Salva guardia stampati, chi da un’ora all’altra dallo Stampatore stava aspettando. Trattenuto mi con lui alcun tempo in famigliari discorsi mi fece capire tra le altre cose, che alla Repubblica Francese èra cara l’amicizia dell’Imperatore e si espresse che supponeva non le sarebbe anzi stato discaro se le fosse alleato. :

L. Oggidì per di lui disposizione essendosi riaperto il corso delle lettere, ho stimato mio dovere di non ommettere di profittarne per inviarle la presente e per rinuovarle le proteste dell'ossequioso rispetto col quale, in attenzione sempre di sue venerate istruzioni, ho l'onore di raffermarmi a Vostra Eccellenza umilissimo devotissimo obbligatissimo Servitore

Napoli 26 Gennaro 1799.

CRESCERI.

23(567)

Ma bien chère Enfant, je profite de' l'occasion du courrier que Kofi envoya pour voue écrire de' la relégation où je me trouve; depuis novembre je n'ai aucune de' vos nouvelles et cela dans des moments aussi essentiels pour nous, pas même encore de' réponse au malheureux courrier qui vous apporta la nouvelle de' notre sortie si infortunée des frontières, beaucoup mine à toutes nos consécutives disgrâces. Notre position devient toujours plus peineuse, je ne ne sais plus que penser de' tout ce qui arrive. Gallo est parti le 21 décembre de' Naples, il devait courir en courrier, et nous apprenons, non de' lui, mais indirectement, que le 21 janvier il était encore à Brindisi; ainsi toutes nos nouvelles lettres prières ne vous sont point parvenues. — Mack a tout quittà et sans écrire ici une ligne est parti, cela fait un affreux effet et fait tenir les discours les plus absurde et les conjectures les plus injurieuses. Tout le pays à son départ et à celui du Vicaire Général Pignatelli s'est révolté, le tocsin a sonné partout, une insinuation perfide a trompé le peuple bon et attaché en les animant à désarmer la troupe qui a trahi, cela a été exécuté avec une fureur et violence incrovable, canons fusils tout a été ôté à tous les soldats généraux blessés, d'autres traduit au tribunal de la ville où les ingrats Élus tous de' la noblesse présidaient et où 2 Capitaines Généraux élus par eux, Moliterno et Rocca Romana, deux polissons, deux jeunes gens qui ne sont bons qu'à courir à cheval et que nous avons comblé de' bontés, sont les commandants. On animait, promettait aux bons officiers grades etc. etc. pour servir la République, et de' fait pas un Napolitain est venu, les Étrangers et Siciliens ont tenu ferme, et même pas tous, et exigé de' venir et avoir passeport pour aller près de' leurs Souverains légitimes. Le peuple était tout armé et sans frein, une criminelle anarchie; malgré cela il ne pillait ni saccageait, mais hurlait criait vouloir tuer les Jacobins et ne point laisser entrer les Français. La ville et le mauvais sujet de' Moliterno (fils du Prince Marsico) allait et venait avec beaucoup de' la Noblesse à Caserte à traiter avec Championnet et faire leurs conditions, ajuster leur iniquité et probablement se vendre. Le peuple qui était toujours dans les bons principes et qu'on a indignement trahi, le peuple commença à prendre soupçon de' Moliterno et se décida à tuer les Jacobins, il trouva au Duc de' la Torre une lettre française, le tua avec son frère et un moine (et j’avoue, je crois que le peuple avait grandement raison), il commença à murmurer de' son Capitaine Généra Moliterno, d’autres de' Cassano, Medici etc. etc. Cela alarma ceux qui sentaient leurs crimes, on fit sortir la statue de' St. Janvier, on joua l’imposture même de' cette dévotion et St. Protecteur; on le promena par toute la ville, le Clergé prêchait tranquillité calme, et le coquin de' Moliterno, jeune homme sans religion moeurs ni principes, pour gagner popularité porta l’étendard nu pied; après à procession fini le peuple un peu calme, il prit la famille amis parents et conjurés, et se retira au Château St. Elme d’où il chassa tous ceux qui n’étaient pas de' son parti et s’enferma avec ses conjurés. Le peuple animé de' haine contre les Jacobins, de fidélité au Roi, se porta a Capo di Chino, érigea des batteries, mit des canons avant la grotte de' Puzzuoli, des autres au pont de' la Madelaine, des autres à Poggio Reale, fit garde et plus de' 10[m hommes en armes y furent sans chef ni conducteur. Entre temps l’infâme noblesse et parti Jacobin premier et 2° Ceto firent appeler, donnèrent nouvelles de' tout aux Français qui vinrent en 4 colonnes; le malheureux et fidèle peuple se battit en héros sans chef, sans troupes, pendant 3 jours, les Français ne purent pénétrer, les gens de' St. Lucia, ceux de' Mercato Conceria se sont immortalisés, les chefs à eux couraient, donnaient pain et vin gratis aux combattants, criaient pour Dieu et notre Roi, point des Français chez nous; cela fut si fort, en train an t des canons de 24, de' 32, et massacrant quoique non experts, une horreur de' Français qu’il demandèrent à 4 heures de' nuit un armistice de' quelques heures que le Peuple ne leur accorda point, les Français harassés se jettérent vers les Paduli et alors ceux de' San Giovanni Anteduci (568), toujours entre eux et sans chefs, en firent un affreux massacre. Au milieu de' ces prodiges de' valeur et fidélité, un peuple sans chef, sans soldats, l'infâme Moliterno, son exécrable parti Jacobin fit vepir de' nuit par Capo di Monte une grosse colonne, la fit introduire à St. Elme et descendre par les chemins de' la Madonna di 7 dolori et prendre tout ce malheureux peuple par les épaules. Alors le parti Jacobin haussa la tête, on arbora l’étendard infâme de' la République Vésuvienne, bleu jaune et blanc, les Seigneurs donnèrent à leurs domestiques le plaisir du sac au Palais, le cocher de Cassano à la tête; 3 heures détruisit le palais jusqu’aux fenêtres croisières terrasses écuries chevaux, tout palais n’a plus que les murs. De là Championnet ordonna ville qui s’était (et si bien) défendue le sac pendant 18 heures, mais comme cela touchait la noblesse de' près quelle lui avait été si fidèle, le pauvre vieux Archevêque, le Clergé, le coquin de' Capitain Général, toute la noblesse intercéda et cela fut changé dans une énorme somme de' 4 ou 6 millions à paver dans peu, ce dont je n’ai ni compassion ni douleur, car ceux qui paveront le méritent bien; on ordonna le désarmement général sous peine de' mort et en peu d’heures tout le fidèle Peuple, mais lors fatigué avili, fut désarmé. Championnet prudemment se retira au Château Neuf, on célébra la République Liberté, obligea tous à crier «Vive la liberté,» celui qui se taisait on tirait sur lui, et on créa les 5 directeurs: Mario Pagano, un homme profondément scélérat, ma de' grands talents, qui a été juge de' l’amirauté; Père Caputo Bénédictin moine, prêtre théologien, instituteur ami intime de' Gallo et qui a corrompu beaucoup de' jeunesse; Fasulo ami créature de' Medici, avocat— les trois ont été enfermés trois ans comme Jacobins et relâchés par faiblesse et manège des mêmes Jacobins avec le Gouvernement—; Flavio Pirelli Ministre du Roi est le 4me Directeur, c’est celui qui a défendu les Jacobins dans leur procès; le 5me est Zarillo un Antiquaire, méchante langue, qui a volé à Capo di Monte des camées au Roi et en a été òté, et pour lequel tout Naples alors s’intéressa. Le peuple fidèle est avili, désarmé et, je tremble d’apprendre, leurs chefs fusillés — ils ont perdu 8|m à 10[m hommes en trois jours d’enragés combats, ils ont tué des Français en grand nombre au point qu'on a été obligé de brûler des monceaux de' cadavres, crainte de' peste —, enfin le fidèle Peuple a fait ce qu’il a pu, actuellement il est dompté désarmé avili, les coquins triomphent, par ordre de' la République on a détruit chassé péché tout endroit appartenant au Tyran, voilà l’expression, enfin des horreurs qui font désespérer! Nous ne recevons ni lettres ni bateaux ni nouvelles, tout le monde nous a oublié et ne se souvient de' nous que pour nous trahir, point de poste, rien ne vient, on a ordonné peine de' mort tout homme ou lettres que de' Palerme on laissât introduire. Nous avons beaucoup de gens, entre autres Caracciolo de' la marine que nous avons toujours distingué, qui demande retourner à Naples: ce sont autant de' coups de poignard, en un mot, je suis vive encore et en suis étonnée. Votre cher Père supportait le malheur avec plus de' résignation; mais depuis la formation de' la République, la mort de' tant de' fidèle peuple, le mépris que ces misérables lui témoignent et l’effet très pernicieux que cela fait ici, il est excessivement triste affecté et me fait une peine infinie. François de' même, ma Belle-Fille va un peu mieux, quoiqu’elle ait encore craché du sang, elle prend le lait qu’elle digère bien, la fièvre vient rarement, mais à chaques vingt paroles elle tousse, en un mot elle est étique assurée, mais point à sa fin prochaine, je ferais tout au mond pour elle, car elle le mérite, mais je crains qu'un autre voyage de mer ou épouvante ne la tue. Vos sœurs sont toutes affligées et défaites, chaque jour elles pleurent: tout leur manque, elle ne s'en plaignent point, mais pleurent leurs gens connaissances; enfin elles sont très malheureuses et vertueuses victimes de' mon triste sort. Le pauvre Léopold se néglige gâte, on ne peut l'élever manquant de moyens et secours. Je ne vous parle pas de' moi, je suis complètement malheureuse, je n'ose même rien faire ni dépaqueter ni m'arranger; j'ignore quel sera notre sort; je vis encore dans des murs blancs n'osant ni dépenser ni rien faire. On tâche de' mettre la Sicile en défense, mais sans marine, sans soldats ni artiglerie, tout tout avant été pris ou détruit à Naples, cela est bien difficile. On travaille beaucoup ce pays, l'idée française ne séduit point, mais l'idée république à soi est un dangereux appât. Enfin je suis excessivement malheureuse et moi même étonne que je vis encore, vu mon état de' peines larmes et transes; nous sommes d'ailleurs dans une isle, logés deux milles loin de' la mer, devant traverser toute la ville pour être à même de' s'embarquer; je ne prévois que du funeste et le cœur ne me saigne que pour mes Enfants, car pour moi je n'ai que trop vécu, je ne vois jouis de rien, car je suis convaincue que cela ne peut durer, enfin je suis complètement malheureuse. — Dans cet état que puisje vous dire et de quoi vous prier, je ne le sais moi-même, depuis trois mois sans aucune nouvelle du Continent, j'ignore même ce que vous pensez sur notre compte. Gallo n'arrive point, soit causalité ou mauvaise volonté; nous sommes trompés trahis de' toute part et je ne désire que de' finir ma triste carrière et que mes Enfants soient en sûreté.

Le 11 février.

Ma bien chère Enfant, je vous continue mon triste journal de' ma vie, je tâche de' diminuer mes lamentations pour ne point trop affecter votre cœur, mais tout, même les choses les plus innocentes, combinent contre nous. Je ne sors presque jamais; aujourd'hui partie par complaisance pour soulager votre cher Père, parti pour la belle journée, je suis sortie, l'essieu s'est cassé de' botte et nous avons tellement versé, moi dessous et votre cher Père sur moi, que les gens nous croyaient tués; grâce au Ciel, votre cher Père a une légère contusion au front, moi au genou bras et un peu à la tête, mais tout chose de rien; nos domestiques sont tous trois, et un grièvement, blessés à la tête, et cela est arrivé au milieu de' la rue principale du Cassero. Enfin cela est passé, je désirerais que les autres malheurs le fussent de' même, mais bien loin de' là, chaque jour naissent de' petites insurrections en Sicile eh plusieurs endroits et tout se prépare pour une explosion générale. Dieu veuille l’empêcher et laisser au moins la bonne saison venir; car des dangers dans l’équinoxe et l’Adriatique tueraient mes enfants qui déjà souffrent tant. En un mot, ma bien chère Thérèse, je suis très triste et ne puis me remettre, la Providence fera de' nous ce que bon lui semblera.

Le 17 Février.

Je termine, ma bien chère Enfant, cette triste Jérémiade, mon âme est bien noire, on menace beaucoup la chute de' Messine, et si elle s’effectue nous sommes perdus indubitablement tous. Jugez de' mes inquiétudes! Le Royaume de' Naples est entièrement démocratisé, à peine une ou deux petites villes tiennent encore bon par les soins du Cardinal Ruffo qui y anime avec un zèle incroyable une espèce de' croisade. De Parme on écrit l’Archiduchesse Amélie morte (569), je l’ai caché à ma Belle-Fille à cause de' sa faible santé et attends des nouvelles plus sûres. Cette privation de' tout savoir d'êtres si chères me tue, Dieu veuille que nous puissions nous soutenir en Sicile, mais je suis très inquiète. Je vous bénis embrasse, désire vos nouvelles et suis votre tendre mère et amie

CHARLOTTE.

une lettre pour la chère Louise (570) 2 feuilles en chiffre.

23

(Scritta con sugo di limone, e con cifre tra le righe della prima pagina, scritte con inchiostro nero.)

Le 9 février 1799.

Ma bien chère Enfant, pensant à votre état je n’ose qu’avec peine vous dépeindre le mien, pour ne vous point affecter; mais j’avoue, il est nécessaire que vous savez notre situation et mes projets, sauf si j’aurai assez de' bonheur pour les pouvoir exécuter. Voici notre position: Naples est entièrement perdu, non seulement nous n’en avons plus un sou, mais une 80 à 100 personnes échappées des horreurs, restées fidèles, il faut leur donner à vivre. La Sicile rend très peu, et tout se doit employer à la défense où tout manque; car après la bataille de' Nelson et la des traction de l'Escadre française on a cru qu'il n'y avait plus de' danger pour la Sicile et tout a été perdu, et nous sommes actuellement sans marine canons fusils munition, sans rien, menacé des Français et de' nos infâmes rebelles, j’avoue, cette position est affreuse! Le pays qui a beaucoup de' sagacité esprit, le sent et craint que, n’ayant pas assez de' moyens, ils seront victimes et voudraient faire sous mains avec les Français leurs conditions. Nous avons le plus grand des dangers ici, et je n'ose y penser sans frémir pour vos sœurs et frères, car nous n'avons que trop vécu; ce paysci, les gens sont féroces et sanguinaires. Nous logeons au palais deux milles éloignées de' la mer, devant passer par une rue appelée Cassero, plus peuplée que Toledo, tant de' personnes de' famille, jamais ici nous en sortirons vifs! Voilà donc quel serait mon souhait: d’avoir deux ou 3 Vaisseaux anglais, y embarquer mes trois filles, Léopold, ma Belle-Fille, si les médecins croient que cela ne la tuera point, et son enfant, le très peu d’argent hardes bijoux à nous, ensuite le reste rester, le Roi moi mon fils, à mourir ou nous sauver, mais je désirerais mes Enfants sauvés. Mon idée serait de' vous les envoyer, exigeant par pacte exprès qu'elles soient mises en dépôt à la Visitation et le garçon à còtà d’eux au Belvedere, qu’ils vivent à nos frais; car si nous pouvons sauver le peu à nous, nous aurons 30[m à 40pu Francs de' rente, tout sera calculé, mais je ne veux vivre aux frais de' personne, j’aimerais mieux brouter l’herbe. La grande difficultà sera d’avoir et pouvoir détacher 3 Vaisseaux sans risquer la Sicile, l’autre sera le désespoir de' mes enfants, je ne compte le mien, car l’idée de' les sauver du très grand danger qu’ils courent me fera consoler de' cette mortelle séparation. Le jour que je les saurai à Vienne je baiserai la terre et arroserai de' mes larmes le Dieu de' Miséricorde qui les a sauvé, alors je me dévoué avec plaisir et ne quitterai point la Sicile, dussent tous les poignards jacobins me percer. Naples a prouvé ce qu'il y avait, ils commettent des atrocités horreurs contre tout ce qui appartenait, était fidèle au Roi ou à moi, ils sont enragés, et le disent, de' n'avoir pu nous traîner sur le gibet, et s’en vengent sur des innocents, ils arment terre et mer, envoyent assassins des corrupteurs, je désirerais mes Enfants en sûreté et me moquerais de' tout. J’ignore si Gallo est à Vienne, ce qu’il fait. Son neveu Comte Rocca, ses amis instituteurs sont des scélérats, il répugne à mon cœur de' le croire tel, mais d’avoir été le 21 janvier encore à Brindisi sans donner à nous signe de vie, de' vendre ici à Palerme tous ses effets, tout ceci est louche; le Roi le croit traître, moi cela me répugne et j’espère avoir raison, mais tout ce qui arrive est fait pour donner soupçon (571). Je suis convaincue que nous ne serons pour 4 mois à Palerme sans y avoir la révolution et alors gare le massacre à nous tous. Si la saison était plus sûre et le voyage moins long, je risquerais tout pour renvoyer mes Enfants et les mettre en sûreté, mais hélas nos circonstances sont cruelles. — Je suis fâchée de' vous affecter et c'est bien malgré moi, aussi je (ne) vous dis que l'indispensable. Adieu ¡e compte sur votre tendresse sûreté, que vous aurez soin de mettre vos sœurs au Couvent et de' permettre et suivre en tout ce que je tracerai. Adieu, quel temps, quel siècle pour moi! Enfants à part je ne désire que le tombeau. Adieu, puisse le Ciel vous rendre heureuse, vous préserver de' tous les malheurs qui déchirent mon malheureux cœur. Je vous embrasse bénis et vous assure que je suis la plus tendre comme la plus malheureuse des mères. Adieu.

Palerme le 17 février.

(Altro foglio doppio, ngualmentc scritto con sugo di limons, salvo sulla prima pagina cifre scricte con inchiostro nero.)

Je joins encore cette feuille, ma bien chère Enfant, pour recommander nos intérêts à votre chère amitié. Nous avons expédié à Corfou implorer au moins 3|m Russes pour la Citadelle de' Messine; cette ville est très mal pensante, tout le reste de' notre malheureuse détruite marine s’v trouve en 2 vaisseaux 4 frégates 4 corvettes 6 galiotes; si nous les devons perdre en perdant tout, je voudrais au moins les donner à des amis comme vous autres, cela vous défendrait vos États italiens, Litoral, qu’après la perte des nôtres je crains ne vous restera pas bien assuré. Enfin je suis très malheureuse. Messine se montre très mal et n’a aucune force réelle pour la contenir, si elle est révolutionnée ou prise par les Français toute la Sicile est perdue et votre malheureuse famille aussi, car ou massacrée ou mise en prison ou errante dans l’équinoxe et mourante en mer, que Dieu sait combien y périront do mes chères enfants, petit-enfants, belle-fille dans le dangereux Adriatique. Votre cher Père voudrait aller en Angleterre, j'y ai une répugnance invincible pour bien de' motifs, et aussi l’économie; je préférerais encore Péra ou Constantinople pour ne point vous incommoder; si la traverse était faite et que je sentisse vous peser, une petite ville d’Empire m’offrirait un asile; en un mot je ne sais me fixer, tous offrant de' difficultés insurmontables et je crains un jour tout à coup la chose devienne indispensable, car nous ne pouvons assister ou rester auprès l’arbre fatale planté. Enfin notre malheur est à son comble et il n’y a que notre sainte religion qui me fait encore vivre, sans cela j’aurais fini mes malheurs qui sont au delà de' mes forces. J’ignore, ma chère Enfant, quand vous devez accoucher, que Dieu vous rende heureuse et contente, ce sont mes voeux bien sincères. Si jamais nous sommes obligés de' partir, que nous le puissions exécuter et que vous nous accordassiez asile, une retraite, petite ville de' province, une campagne, çouvent à des êtres comme nous qui ne pouvons plus nous montrer, et certes que nous n’aurons jamais de' Cour ni ferons le pendant à Milan (572). Les compagnons de' notre infortune feront maison avec nous et ¿lèveront nos Enfants pour nous sauver. Si des Turques Russes ne viennent au plutôt cela deviendra plus difficile, l’esprit sera plus corrompu et on ne se prêtera pas si facilement. Dans ce moment-ci je crois le gros de' la nation et surtout du Peuple encore bon. Vous aurez déjà vu Mack (573), veuillez me dire ce qu’il dit; son départ en toute cérémonie avec passeport de' Championnet et tout son bagage, après qu’il nous avait promis, et écrit et de' voix, de' venir même avec cent hommes en Calabre — ce départ et la forme m’a confondu humilié et je ne sais qu'un juger. Si votre mari peut ou veut envoyer des troupes, par Barletta Manfredonia pour nous serait le meilleur, pour lui Ferrara Bologne Rome, il n'y a personne, car tout est venu nous piller. Le Pape est mort diton, Dieu veuille que l’élection se fasse légitimement et d’un saint homme et point un intriguant. Enfin tout dépend des grandes Puissances, nous autres sommes écrasés, je m’humilie avant Dieu et ne pleurs que le sort de' mes chères bien aimés Enfants. Si la Sicile peut (mais ce sera un miracle de' Dieu) se soutenir, je me fiatte avec des troupes étrangères, un menacement de' bombardement, animer le Peuple de' chasser Français et Jacobins, car le peuple est bien pensant et cela pourrait encore se réparer; mais si cette habitude de licence effrénée, libertinage irréligion se prend, si la moitié de la nation se rend si coupable par les crimes qu’elle commet qu’elle n’ose plus en relever, tout en sera dit et cela ne reviendra plus, voilà mon opinion. J’ignore absolument ce qui en sera de' nous: la saison, le manque de' bâtiment, durant que les maudits Français ont trois ou 4 vaisseaux à Ancone, tout ceci n’ose me faire risquer en peu de' nombre mes bien aimés Enfants. Quelque soit notre triste sort conservez vous et conservez nous votre amitié, c’est surtout pour vos Soeurs que je l’implore, elles le méritent. Cultivez nous un peu l'amitié de' votre cher mari, dites nous ce qui en est arrivé de' Gallo depuis le 6 (574), mais je n’ai plus de' ses nouvelles. Ménagez votre santé. Conduisez vous toujours comme jusqu’à présent en brave honnête femme et bonne mère, croyez que ce n’est que par la vertu et sainte Religion qu’on est heureux. Ce sont les conseils, peut-être les derniers d’une mère qui vous a toujours tendrement aimé, qui vous chérit encore, vous donne sa maternelle bénédiction et vous assure de' toute sa tendresse. Adieu.

24

Le 20 février 1799.

Dans le malheureux exil où je vis absolument éloignée de' toute nouvelle je commencerai, pour moins souffrir de' cette privation, de' vous écrire, ma chère Enfant, journellement un peu et ainsi un peu me soulager, comme aussi pour que l’ouvrage au dernier moment d’une expédition de' courrier ne soit point si considérable, ma santé même souffrant en écrivant des heures entières. Ce parfait silence de' chez vous nous tue, d’ailleurs je calcule que votre terme pour accoucher ne doit point être éloigné, cela augmente mes inquiétudes soins et les prières au Seigneur pour votre santé et bonheur. Que puis-je vous dire de' nous? Nous sommes parfaitement malheureux, je suis étonnée n’être point encore aveugle à force de' pleurer, je ne puis m’accoutumer à notre malheur ni à la Sicile; toutes les peu fois que je sors la tristesse m’en augmente, et enfin je suis très peinée, je me couche le soir et me relève le matin avec la crainte d’apprendre Messine perdue et cette perte entraînera celle de' l’État entier. Enfin Dieu veuille avoir pitié de' nous! Ma Belle-Fille commence à meilleurer, elle a meilleure couleur et se nourrit un peu, elle se croit enceinte et je commence à le croire aussi, une grossesse, couche heureuse et bien soignée pourrait la sauver, j’en serais enchantée. Adieu je vous embrasse tendrement, souffre beaucoup de' ce cruel manque de nouvelle et suis votre tendre mère et amie pour la vie.

Le 21 février jeudi.

Point de nouvelles de' ma chère Enfant, de' personne du Continent, nous sommes toujours comme hors du monde et cela me rend bien triste. J'ai été aujourd’hui un peu promener avec mes chères et malheureux Enfants vers Monreale, mais le régulier quand je sors est l’augmentation de' ma tristesse, tout me déplaisant si mortellementi Nos nouvelles de' Calabre ont été un peu moins funestes, le brave Cardinal Ruffo a fait un petit corps de' 400 hommes qui marchent avec lui, plusieurs arbres de' la liberté ont été jettés bas et il a munis tous ses gens d’une croix blanche, il prêche au milieu des rues, enfin il y met un zèle infini. L'ordre est venu aux seuls Calabres de' paver deux millions et demi de' ducati immédiatement à la République française. Dieu veuille que cela fasse soulever tes peuples contré eux! Enfin nous ne vivons que d’inquiétudes et Sursauts, quelque soit mon sort, comptez toujours sur mon bien tendre sincère attachement.

Le 22 vendredi.

J'ai passé une bien triste journée, même très incommode, mais tels elles s'écouleront toutes dorénavant pour moi. Le soir est arrivé deux bâtiments, un Ragusais l'autre Impérial, ils portent grand nombre de' Siciliens qui tous s'enfuient de' Naples, dégoûtés du désordre tuage, personne ne veut retourner ni venir nous voir, nous recevons toutes les preuves de' la plus noire ingratitude, mais il faut s'humilier. Le peuple continue de' nuit à massacrer des Français qui sont très mal vu du peuple, les vivres commencent à manquer et en tout ils sentent le besoin, enfin ils ne sont que 6000jm hommes desquels 450 ont déjà de' nuit été tués, enfin une petite force remédierait tout, mais cette force n'y est pas, enfin il faut prier Dieu et espérer seul de' lui. Adieu, je vous embrasse.

Le 26.

Toujours sans aucune de' vos nouvelles, ma bien chère Enfant, j'avoue ceci surpasse toutes les idées, le temps de' mer est beau et cela depuis plus de' 15 jours, et rien n’arrive, j'ignore depuis novembre vos nouvelles et si vous savez ou ignorez nos malheurs, j'en suis profondément affectée. Nous avons reçu ces derniers jours plusieures nouvelles de' Naples de' passagers enfuis à la rigueur des lois et perquisitions, ils raccontent que tout est en pleine républication, que toute la ville et environs a des arbres plantés de la soi-disant liberté, que chacun est municipaliste et porte au bras le tricolor bleu jaune et rouge, que les Employés portent la même écharpe en bandoulière, que tout le monde sans exception fait la garde nationale, que les Militaires logent chez les particuliers, mangent vivent à leur dépens, sortent avec leurs voitures. Ils ont imposé deux millions et demie en peu de' jours en numéraire et 15 millions aux provinces, tout cela Ducati; on joue les pièces les plus infâmes, la fuite du Roi et pareilles galanteries, et cela s'approuve; le Palais, toutes nos maisons propriétés biens de' nos Enfants, a été saccagé, les gens les plus comblés de' bienfaits servent la République, militaires civils Employés, et c'est à qui peut renchérir en coquinerie, des imprimés infâmes, enfin des choses dont je ne croyais jamais Naples capable se font et me percent le cœur. Enfin avec la meilleure volontà du bas peuple et le dégoût de' bien des autres, malgré tout cela Naples ne reviendra jamais sans une force du déhors, toit celle de' votre cher mari ou des Russes, enfin Dieu nous aidera. Il y a des rassemblements en Pouille Abruzzo et en Calabre, dans la Romagna le mécontentement éclate aussi de' tous les còtés et je crois, si on voulait y aller de' bonne foi, ce serait peut-être le moment de délivrer l'Italie entière de' ces monstres, et alors je bénirais toutes mes énormes pertes faites comme mes mortels chagrins et douleurs; tous les gens les plus bénéficiés sont ceux qui se sont le plus mal conduit, cela rend la vie odieuse. Adieu ma chère Enfant, puissai-je bientôt avoir de' vos nouvelles, car depuis novembre je n'ai eu aucune nouvelle,

Le 19 mars.

Ma bien chère Enfant, point de' nouvelles, il faut avouer que cela est bien triste et cruel, je ne sais plus que penser, pourvu que vous vous portez bien je dois être contente, mais le silence de' cinq mois dans nos circonstances fait le plus mauvais efiet et me cause même par là bien de' chagrin. J’ai appris par la voie de' Parme que l'Archiduchesse Amélie était morte, mais sans aucun détail du comment ni de' la maladie, j'ai supprimé cette lettre à ma Belle-Fille qui est encore faible quoiqu'elle va beaucoup mieux et je la crois même enceinte; je verrais à l'arrivée, si jamais courrier arrive, ce qui en est et ce qu'il faut dire et l'v préparer. Ma Belle-Fille va mieux, elle n'a plus craché de' sang, la fièvre le soir ne vient plus et la toux est moins fréquente, je commence même à la croire enceinte, mais elle est très délicate faible, et ne pourra vivre qu'à force de' soins et attentions; au reste c'est la meilleure enfant du monde, et il n'y a jamais une parole entre nous ni la moindre tracasserie et je la gêne en rien, elle est adorée de son mari et ses bellessœurs l'aiment beaucoup. Ma santà souffre beaucoup, vous vous en apercevez au style de ma lettre et à mon écriture; mes tournements de' tête, mes attaques me sont retournés et me rendent très malheureuse, m'empêchant et difficultant toute application, unique ressource dans ma plus que triste situation. Vos seurs se portent bien et font ma compagnie et consolation, elles se conduisent très bien dans notre commun malheur, Nous brodons actuellement un drapeau pour les Calabrais qui se conduisent très bien, ils ont jetà les arbres de la fausse libertà par terre et marchent en avant sous les ordres du Vicaire Général Ruffo, et ils font de' grands progrès. Les autres provinces, à ce que nous en savons par des on dit (car nos Républicains Napolitains nous empêchent toute nouvelle et communication et arrêtent tous ceux que par différentes voies nous y envovons; malgré cela nous savons que les Provinces sont toutes en insurrection, qu'à Naples le mécontentement y est général, la pénurie aussi. Le Peuple est tout pour le Roi, mais peu de' nobles et demie-noblesse font tout le mal et enchérissent sur les coquineries même des Français par des écrits exécrables, des horreurs en tout genre, cela fait pleurer larmes de' sang les ingratitudes que l’on éprouve. Avec tout cela je suis persuadée qu’avec un peu de' forces étrangères tout se remettra; d’abord on nous en fait espérer des Turques et Russes, j’aurais désiré avoir cette obligation à nos Enfants et Alliés, mais en défaut et impossibilité, de' quiconque viendra à notre secours je suis convaincue que, si on s’y prend, l’Italie vu les dispositions où elle est toute et le peu de possibilité des Français d’envoyer des renforts, toute l’Italie se purgerait de' ces monstres et je bénirais mes souffrances pour obtenir ce bienfait. Ah combien des choses, ma chère Enfant, j’aurais encore à vous dire, mais ma tête me tourmente. Embrassez en mon nom tous vos chers Enfants, avez bien soin de' vous dans vos couches qui, je crois, s’approchent, recommandez nous à l'amitié de votre cher mari, je vous recommande nos intérêts et ma chère famille et suis pour la vie votre bien attachée Mère et amie.

Le 19 mars 1799.

CHARLOTTE.

25

Ma bien chère fille, ce sera le malheureux Barco qui aura l’honneur de vous apporter cette lettre, je n’ai pu la lui refuser, avant femme et enfants. Il s’est conduit comme soldat avec courage et honneur, tout le reste j’ai été trop éloignée occupée pour en juger. Le Roi votre père dans les présentes circonstances doit restreindre ses dépenses, n’avant plus les moyens. Barco, Adjutant de' Mack, dont le nom fera pour un siècle au moins tressaillir tout sujet des Deux Siciles, n’aurait pas été toléré en Sicile d’ailleurs; il a été avec Championnet longtemps à Naples, et ce n’est qu’au départ du scélérat Moliterno pour Paris, avec lequel il était lié, qu’il est venu ici. Tout cela a fait que le Roi ne l’a voulu ni à son service ni permettre de' se montrer à Palerme; malgré cela, c’est un homme perdu avec femme enfants, je le recommande à votre charité et bonté, mais dois dire la vérité pour ne point tromper. J’espère que votre chère santé est bonne. D’être depuis novembre sans vos nouvelles est cruel, Dieu sait quand celle-ci vous arrivera; je me borne donc à vous recommander le porteur de' celle-ci, d’avoir pour lui et sa famille miséricorde. Adieu, croyez moi pour la vie votre bien attachée Mère et Amie.

Palerme le 15 Mars 1799.

CHARLOTTE.

26

(L'impératrice Teresa a sua madré; copia di mano dell’imperatrice).

Le 4 Mars.

Je me réserve à écrire par ce moyen ce qui m’est le plus à cœur, celui de' vous consoler, adorable Mère, autant que je peux. Gallo vous écrira bien mieux que moi tout ce qui regarde affaire, cette matière, moi je souhaiterais pouvoir vous dire ce que mon cœur voudrait, que demain je puisse remettre mon Père dans tous ses États bien et content comme avant; mais cela n’étant possible, ce que je peux vous assurer est que mon cher mari ne peut faire la paix avec ces Gueux stabile, ainsi la guerre est sûre inévitable, la mauvaise saison neiges ont empêché jusqu’à présent à agir, mais cela va finir, il fait marcher nombre de' troupes en Italie où il aura près de' 120000 hommes; il compte dès qu’il peut agir avec toutes ses forces en cette partie et, débarrassé un peu en haut, aider mon cher Père, le délivrer et remettre dans mon cher Naples. Si cela ne va de' cette manière il est fermement décidé d’autre à aider mon cher Père, ne pouvant laisser à part le cœur sang tendresse filiale, laisser les états de Naples révolutionnés. Je souhaite ardemment que cela ce fasse bientôt, que les Russes qui viennent commencent en attendant à imposer aux Français. Je ne peux vous dire, chère Maman, en quelle peine je suis; j’espère en Dieu qu’il bénira nos opérations, pour pouvoir ensuite délivrer Naples et de' concert avec mon cher Père toute la pauvre Italie. Je ne peux comprendre la conduite de Mack; nous n’avons aucune nouvelle de' lui ni savons où il est; il faut pas le condamner; mais j’avoue d’être parti allé chez les Français, cela m’a frappée et rendu stupéfaite. La venue de Gallo ici a fait grand plaisir à mon cher mari, comme il le connaît bien et qu’il sait son zèle, attachement pour ses Souverains, il peut lui parler confidentiellement, et pour le service de' mon cher Père c’est heureux qu’il soit ici; car je ne peux vous cacher, chère Maman, que depuis cette malheureuse affaire de' Belmonte Thugut y a mis beaucoup de' noir, et il s’est glissé un certain picque froid ici vers Naples qui me faisait bien de' la peine. Cela même a empêché beaucoup qu’on aurait dit et fait dans les circostances présentes. Gallo ne peut changer Thugut, car c’est une pierre, mai avec son zèle, manière d’expliquer les choses, faits, qu’on n'a jamais voulu croire ici (comme celui de' la nécessité où était mon cher Père d’attaquer) il est parvenu à adoucir les esprits et j’espère que tout se mettra au bien. Je suis aussi comme une mendiante auprès de' mon cher mari, je ne l'ai jamais priée importunée pour rien, mais ce qui regarde l'existence bonheur de' mes chers Parents m'est un devoir si sacré que je ne peux me taire. J'ai bien prévue ces malheurs, l'ai dit, on ne m'a voulu croire; enfin ceci a réussi, à présent il faut le réparer, et cela j'attends du cœur bon tendre, de' la lovautà de' mon cher mari qui sûrement le fera. A présent je ne peux me taire, chère Maman, sur un point qui m'est terriblement à cœur et qui m'òte tout le repos paix de l'âme. Je veux espérer en la Providence que tout se remette au bien, mais si malheureusement vous n'étes sûre en Sicile, ou bien point tranquille là, venez chère Maman chez nous, mon cher mari, moi nous vous en supplions. Votre précieuse personne, mon adorable Famille seront toujours reçu à bras ouverts, vous pouvez disposer, être ici Maîtresse, vivre pour vous comme vous ordonnez, si Vienne ne vous agrée (ce qui me déchirerait le cœur) toutes nos autres Provinces sont à vos ordres, là tranquillement attendre le sort qui j'espère sera heureux des années, et ensuite retourner tous contents dans notre bien aimée Naples. Moi ici je serai à vos ordres sans vous gêner; quand vous nous voudrez voir cela nous sera une grâce, mais ni nous vouloir vous secquer, ni Dieu préserve que vous croyiez nous être à charge. Si puis, chère Maman, peut-être vous vouliez envoyer mes bien chères Soeurs ici, mon cher mari à qui j'en ai parlé (car pour moi mon cœur parle et souhaite) m'a dit qu'avec bien du plaisir il les acceptera. Elles seront ici comme vous le voulez retirées, seules pour elles, enfin comme vous l'ordonnez, seulement je vous supplie, point au Couvent. A la Campagne Laxenburg ou Hetzendorf c'est comme une solitude, là elles pourraient se promener, jouir de' ces innocents amusements de' la campagne. Si vous le permettez elles pourraient dîner seules avec nous, point d'autre personne, autrement seules; quelquefois quand vous le permettrez je les mènerai promener, enfin Louise, mes enfants, nous tous, en partageant leurs peines, tâcherons de' les adoucir autant que possible. Elles ne. verraient âme au monde, que qui vous m'ordonnerez. Je serai volontiers de' cœur leur Mère Amie Gouvernante Servante, enfin tout. Pardonnez, chère Maman, si j'ai osé écrire ceci, mais mon cœur ne pouvait le refermer, n'étant tranquille vous voyant là en Sicile dans cette isle seule sans défense, où je sais que vous aussi n'y êtes contente; mon souhait ardent de' me mettre à vos pieds n'est pas seul ce qui me fait parler, mais votre sûreté et puis le bien qui, j’espère, en résulterait si je pourrai vous parler, mettre au clair de' bien de' choses, enfin, chère Maman, ne voyez en ceci que la tendre dévouée Thérèse qui donnerait sa vie pour votre bonheur et qui vous baise mille fois les mains et pieds.

27

Mon bien cher fils et neveu, avant une occasion pour vous écrire j’en profite avec grand empressement pour vous donner de' mes nouvelles et assurer que nous existons encore. Il m’est infiniment cruel de' ne savoir depuis le mois de' novembre aucune de' vos nouvelles, pas même si ma chère et bien aimée fille se porte bien, je tremble dans son état de' grossesse et avec son âme l’effet qu’auront produit sur elle tous nos malheurs; vous ne sauriez croire l’effet et merveille que fait cet incompréhensible silence. Enfin tel est mon sort qui j’espère aura une fin une fois ma santé souffre, beaucoup de tournements de' tête et des nerfs, mais pour moi je suis étonnée de n’être point morte, ainsi je souffre en silence. Votre sœur va beaucoup mieux, elle mange déjà à dîner et se remet, mais je commence à la croire enceinte. Son enfant se porte très bien, mes autres enfants aussi. De nouvelles je ne puis rien vous dire, car nous sommes entièrement séquestré de' tout commerce avec le Continent, les Provinces chez nous sont toutes en pleine révolution contre la République, Capitale; mais comme il y a des mauvais sujets et modernes penseurs aussi en Province ceux-là se battent avec les bons, mais grâce à Dieu ceux-ci ont le dessus. La Capitale se distingue par toutes les horreurs ingratitudes possibles qui font, quand on les éprouve, haïr la vie. Les Russes et les Turcques nous promettent des secours, s’ils viennent bientôt et avant que les Français puissent avoir des renforts Naples sera bientôt repris, d’autant plus qu’il y a le bas peuple tout pour le Roi, la noblesse et seconde noblesse commence à se dégoûter vue les impositions énormes qu’on leur a imposé et tout ce que l’on fait à Naples. Nous sommes sans aucune nouvelle ni secours de' votre part depuis novembre, les Russes et Turcques nous font espérer les leurs, les Anglais nous ont apportà quelques troupes qui gardent la Citadelle de' Messine. Le Cardinal Ruffo Vicaire Général a déjà reconquis presque toutes les deux Calabres, et toutes nos Provinces sont en insurrection contre la soi-disante liberté, je crois que le moment pourrait être favorable de' délivrer l’entière Italie et alors, si ce bonheur arrive qui dans ce moment-ci serait très facile, je bénirais nos douleurs chagrins et épouvantes, quoiqu’elles m’ayent vieilli de' 20 ans au moins. La Russie, la Porte nous promettent des secours effectifs, ce mois écoulé toutes les opérations de' mer se peuvent entreprendre, mais votre cruel entier silence nous tient en suspens; de' tout le reste de' l’Europe nous recevons des nouvelles hors de' vous, cela est cruel et fait un horrible effet, car on le calcule total et inattendu abandon; enfin je ne sais même quoi dire ni écrire après un silence de' 5 mois» j'ignore ce que vous pensez faites dites» et ce qui est de' pire pour mon cœur, vos santés, avant une fille chérie enceinte et qui, je suis sûre, a pleuré sur nos malheurs désastres, encore bien plus grands que je ne les décris. En un mot, mon bien cher fils» je me recommande à votre chère amitié soins, et croyez moi pour la vie toute à vous dévouée, tendrement attachée Belle-mère Tante et Amie

Palerme ce 19 mars 1799.

CHARLOTTE.

Je vous dois demander mille et mille pardons de' la première feuille qui est à demi écrite, j'ai tels tournements de' tête que je n'ai pas la force de' la récrire, je vous en demande donc mille et mille pardons. Je recommande nos intérêts, ma chère famille et votre chère femme, à vos intérêts et suis pour la vie toute à vous.

28

Ma bien chère Enfant, je vous envois une lettre qui était faite pour aller par la voie de' Livourne, quand la mauvaise nouvelle nous est parvenu que Livourne était dans les forces françaises et que par conséquent cet unique espoir et chemin de' savoir vos nouvelles et vous faire parvenir les nòtres nous était aussi empêché. Je profite donc de' l'occasion d'un bâtiment qui va à Trieste pour vous donner de' mes nouvelles, j'éprouve trop combien il est cruel de' n'en point avoir, étant inconcevablement depuis le mois de' novembre privée de' vos nouvelles. Je suis dans les plus vives inquiétudes pour Louise et ses enfants et donnerais tout au monde pour les voir sauvés; je crains toute espèce de' coquinerie et en suis très inquiète. Ici nos santés se soutiennent, la mienne souffre, mais je regarde comme un miracle que je vis et existe. Votre Belle-Soeur se remet très-bien et si, comme je crois, elle est réellement enceinte, que sa grossesse et couche soit heureuse, je crois qu'elle pourra entièrement se remettre. Votre cher Père frère et sœurs se portent bien, nous fesons tous des vœux au Ciel à fin que notre sort se meilleure, mais cela est encore bien éloigné. En attendant l'Escadre anglaise est allé blocquer Naples et nous verrons quel effet cela produira. Le Cardinal Ruffo a abattu tous les fatale arbres en Calabrie et a ramené toutes les deux provinces à leurs devoirs; nous apprennons que dans les autres provinces il y a aussi des rassemblements en notre faveur et principalement en Abruzzo; je suis bien persuadée que, si un peu de' force se pouvait présenter devant la Capitale où gît la corruption, tout le reste du Royaume retournerait à l'instant à son devoir, mais là resiède (575) la coquinerie dans la plus grande partie de' la noblesse, militaire et quelques jeunes procurera et étudiants comme mauvais prêtres et moines; le peuple est fidèle mais désarmé et avili des fréquentes fusilations. On fait une énorme quantité d’imprimés, un plus infâme des autres, et tels de' faire haïr la vie, quand on voit qu'après 30 années de' tous les sacrifices on est ainsi récompensé. Mais il faut faire son devoir, le mien est dans ce moment de' tâcher par tous le moyens de' faire ravoir à mon cher mari et mes cherissimes enfants leur patrimoine; remplie cette tâche je pourrai penser à mon entière retraite, unique objet de' tous mes vœux, car j’ai trop vécu connu vu et éprouvé pour ne soupirer qu’après la plus austère retraite. — Adieu ma bien chère Enfant, je crois que dans ce mois vous devez accoucher, Dieu veuille vous accorder une heureuse couche, ménagez votre santé. Depuis novembre je n’ai aucune lettre, j’en aurais reçu d’Amérique, des Indes Orientales, et crains que les courriers ou ont péri ou ont été intercepté ou traîtres, car cela n'est pas naturel. Dieu veuille vous conserver, de' même que votre cher mari et enfants que je vous prie d’embrasser en mon nom. Par les nouvelles d’Italie qui actuellement cessent, aussi Livourne Gênes Naples Civita-Vecchia tons les ports étant empêchés, par ces nouvelles nous avons appris les hostilités commencées à Coire, Gallo arrivé le 16 février, mais voità tout. Je suis vivement inquiète pour la pauvre Louise, même pour les vieilles Tantes Mesdames de' France, j’ignore entièrement ce qui peut leur être arrivé; enfin je souffre pour tout le monde et beaucoup pour moi-même. Palerme est une belle ville, mais cette coupure entière de tout commerce humain, comme aussi le caractère des gens, me tient entièrement retirée et je ne vis qu’avec mes enfants, n’ai point encore une chambre meublée ni une connaissance, me flattant toujours d’un mois à l'autre de' retourner chez moi à Naples. Ce qui est certain c’est, qu’ou je retourne à Naples ou je me retire quelque parte, mes filles, bellefille pensent comme moi; votre père et François s’v plaisent, mais moi pas du tout. Adieu, que le Ciel vous benisse conserve rende heureuse, ce sont les vœux de celle qui en vous embrassant tendrement et vous donnant sa sainte bénédiction se dit votre tendre mère et amie

Palerme le 2 avril 1799.

CHARLOTTE.

29

Ma bien chère Enfant, je rouvre ma lettre, elle devait vous parvenir par Livourne, mais au moment de' partir nous en avons açu l'occupation par les Français, ainsi c'est encore un débouché des perdus. Un courrier à nous partira dans 4 jours, mais comme les événements de' mer sont très douteux, je vous envois celle-ci par un Cutter anglais qui accompagne des marchandises à Venise. Je vous annonce la reçue de' 31 de' vos lettres du 25 novembre jusqu'au 4 mars, elles m'ont causé une joie inexprimable et bien vivement touchée par leur tendresse et expression; je vous y répondrai par courrier qui va partir le 16 ou 17 de' ce mois (576), celle-ci seulement je m'empresse à vous dire que nous sommes tous assez bien en santé, que votre double Belle-Soeur se remet, on lui a donné la nouvelle de' sa sœur avec toutes les précautions, elle a été saigné et depuis ce jour sent régulièrement plus d'une fois le jour son enfant et se remet; je crois donc qu'elle accouchera avant les dix mois, n'ayant pas même eu le capo parto. Je suis bien occupée inquiète et en attente de' votre chère couche, et Dieu veuille vous la rendre comme mon cœur vous la souhaite. Nos nouvelles sont un peu meilleures, les Anglais blocquent Naples et ont pris pour nous et en notre nom Capri Procida Ponza, tout avec le concours des habitants; les Provinces Terra di Lavoro vers Gaëte, les Abruzzi Pouille Basilicata Salerno sont en armes contre les Français et gouvernement républicain et ont abattu les fatals arbres, les deux Calabres sont reconquises entièrement. Il n'y a que la Capitale où même le Peuple est bon; la force, crainte des Français, aucune troupe pour les aider, nous devons la perte de notre Royaume et le dépouillement, car ils ont déjà extorqué 6 millions et demi de' ducati, et quand le Roi ne pouvait recevoir un sou on a trouvé tout le numéraire à leur donner. L'armée infâme a tout perdu, la noblesse curiale; le reste, le peuple est fidèle et cela me donne beaucoup d'espoir. Nous sommes coupés de' toutes nouvelles, car l'Italie est séquestrée, l'Allemagne rien ne vient non plus, cela est cruel dans de' pareils moments. Adieu, portez vous bien, puisse votre couche être heureuse! Par le courrier je vous écrirai de' plus, je vous embrasse et bénis.

30

Palermo 11 Aprile 1799.

Caro Francesco! Le vostre quattro lettere del 25 9bre, 14 e 24 Xbre dello scorso Anno, e 4 del caduto Marzo, mi sono alla fine pervenute in una volta con una quantità di Corrieri, dai tempi ed altre tristi circostanze trattenuti da circa cinque Mesi. Ho avuto finalmente la consolazione desiderata di veder riaprirsi la communicazione tra noi, che un troppo lungo e doloroso silenzio teneva interrotta, con aggiunger pena ed inquietudine alle altre serie ed afflittive mie cure. Sommamente sensibile sono stato alla perdita che avete fatto di una Sorella, le di cui doti davano molto a promettere nella famiglia (577). Ai conforti di ogni genere, al sollievo che i sentimenti della parentela possono somministrarmi, devo ricorrere per sostenere me e la mia famiglia nelle angustie sofferte e che non anno ancora il termine per cui sospiro, senza lasciar un istante di adoprare ogni sforzo in mio potere per procurare di accellerarlo. Desidero di cuore che benedica la Provvidenza le Vostre misure e salvi Voi e la cara Vostra Famiglia da ogni pena e cordoglio del genere di quelli da me e da' miei provato. Confido fermamente nella Divina Misericordia che mi continuerà ad assistere con quella grazia almeno, che mantenga in me la fermezza di animo che richiedono le attuali Crisi. Sento dall’ultima delle sopradette Vostre lettere che credete di ritrovarvi presto in guerra, e da posteriori notizie che questo caso sia già giunto. Mi lusingo che l’energia delle Vostre numerose Truppe riparerà, a quanto di danno per Voi e per l’Italia come per l’intiera Europa minacciano l’impudenza e rapacità Francese. Vedo con piacere che Gallo possa porvi a giorno di ciò che concerne me e le Sicilie. Spero che le Vostre premure per la causa piucché mai divenuta commune, avranno il desiderato successo a me specialmente tanto necessario. Sarete da Gallo instrulto della vivacità colla quale animo le misure di ogni sorte a me possibili per estirpare nelle Provincie del mio Regno di Napoli il seme infetto, che il nemico ristretto ora ed in scarso numero nella sola Capitale aveva cercato a spargervi. L’Onnipotente appoggia fin qui le mie vive Operazioni. Da Voi come dai miei buoni Alleati mi auguro spero ed attendo quel conforto, che a tutti insieme recherà quel riparo con l’efficacia dei successi a tanti danni e quella tranquillità che mi lusingo, mercé la buona unione, verremo a riacquistare. La nostra salute grazie a Dio è buona, e Vostra sorella è di nuovo gravida. Godo sommamente di sentire che la Vostra (578) sia anche perfetta, conservatevi e continuatemi quella stima ed amicizia, colla quale teneramente abbracciandovi sono il vostro Affezzionatissimo Suocero

FERDINANDO B.

31

Mon bien cher fils et neveu, après une si longue et désespérante attente 7 Courriers sont arrivés le 2 avril ensemble, et m’ont apportà vos chères nouvelles du 25 novembre, 14 Xbre, 24 Xbre, du 18 janvier et du 4 de' mars. — Je vous dois mille et mille remercîments pour tout l’intérêt que vous nous témoignez aux malheurs inouis qui nous sont arrivés. Il faut espérer en la Divine bonté que les suites en seront moins funestes de' ce que tout fesait, quand je vous écrivis la dernière fois, craindre. Voici notre actuelle position. Les deux Calabres sont de' nouveau malgré ou bongré entré dans l’ordre et il n’y a plus un arbre de' la libertà dans ces deux provinces où le Peuple, comme dans tout le Royaume et même dans la Capitale, est bon, mais les classes distinguées mauvaises. En Pouille un Corse (579) conduit les peuples et a fait abattre presque tous les arbres hors Barletta et Manfredonia, toutes les autres villes sont du Roi, les paysans se sont battus, ont pris des prisonniers et marchent en corps en avant en Abruzzo. Un Abbé nommé Pronio, par surnom de' guerre le Grand Diable (580), a repris toutes les Abruzzi, s’est battu aves des Français et Jacobins, leur a pris canons et la caisse militaire avec laquelle il entretient sa troupe; il est entre Gaëte et Capoue, menace et inquiète la criminelle Capitale, les Anglais blocquent le port de' Naples et y ont pris les isles de' Procida Ischia Capri Ponza et Ventotene, où on a mis garnison napolitaine. Les habitants de' la Capitale sont tous combattus de' différentes passions, crainte désir peur rage, ils préparent de' grands moyens de' défense en batteries artiglerie marine; tous les officiers, qui ont fui comme des lièvres devant eux par poltronerie et trahison, se veulent actuellement montrer des héros. Si les Russes nous arrivaient bientôt Naples serait prise en 24 heures et avec elle tout le Royaume, mais c’est de' leur venue que tout dépend. Je crois bien qu’en fesant approcher les 3différents Corps vers la Capitale, y jetant quelques bombes, on pourrait même sans les Russes s'en emparer; mais comme il n'y aurait point de troupes pour imposer et mettre l'ordre, le carnage serait affreux, les partis s’entretueraient par esprit de' haine vengeance, et quoique très criminels, se sont toujours nos sujets. Ainsi nous attendons les Russes avec une impatience sans égal, et nous leur devrons tout, car je suis sûre de' la pleine réussite, surtout si les Français ne peuvent envoyer des renforts. On dit ici que vous avec déclaré enfin la guerre, que vous avez eu des succès en Italie et au Rhin, mais ce sont tous des on dit, je prie bien Dieu que cela soit ainsi et continue de' même. On dit les malheureux Grand Duc avec leur famille sauvé ce qui me console; enfin nous sommes entièrement de' toutes les nouvelles du monde privés et séparés, ce qui surtout dans ce moment-ci est bien triste et dangereux, ignorant tout Nos santés se soutiennent, mais ma tristesse ne fait qu'augmenter, plus je réfléchis et vois l'ingratitude des hommes; les plus beneficés, les classes les plus privilégiées sont les plus enragées contre nous, cela fait haïr la vie, mais surtout d'être Souverain, enfin tel est notre triste sorte. Votre chère et bonne Soeur se porte beaucoup mieux, elle est enceinte de' plus, cette certitude sa santé meilleure chaque jour; les autres sont aussi bien que l'on peut l'être dans le chagrin et privations en tout genre que nous souffrons. Le Roi est allé respirer un peu d'air de' campagne à un quart d'heure de' la ville en particulier pour se soulager; nous sommes restés, manque de' tout, en ville, où chevaux dîner plats tout volontairement nous avons encore réformé, pour donner un soulagement au Roi ce qui nous parait un devoir. — Je suis bien reconnaissante de' la bonté avec laquelle vous offrez à moi et à mes chers Enfants un asile en cas de' malheur, j'espère en Dieu que ce cas ne se donnera plus, mais en tout cas nous en profiterions avec cette discrétion et limitation que notre façon de' penser nous en ferait un devoir, mais j'espère en Dieu que ce cas ne se donnera plus. Pour les affaires, les Ministres s'entre écrivent, je les connais trop peu et ai l'âme trop affectée de' tant et tant de peines pour m'en mêler. Je vous désire bonheur en toutes vos actions comme mère tendre, tante et amie. Je ne puis nier que tout ce que je vois, et de' tous les cotés, m'inquiète et que je ne vois point clair dans la louche politique de' tous les Cabinets, mais je mets mon espérance en Dieu qu'il voudra nous aider avec mon innocente famille et préserver à tous les Souverains, et beaucoup plus ceux qui comme vous m'intéressent, de' trahison et traîtres qui sont les vrais armes des Français. De Mack nous ne savons rien du tout, on le dit prisonnier dans le même Château que le Pape a Briançon. Adieu mon bien cher fils, je ne veux plus vous ennuyer plus longtemps de' mon ennuyeux verbiage qui, triste comme il est et ne peut être autrement, ne peut que vous ennuyer. Adieu, vous pouvez croire dans quelles inquiétudes je me retrouve, sachante ma chère fille prête d'accoucher, je la recommande à vos soins et attentions. Adieu, continuez moi votre chère amitié, croyez que je ne la démériterai jamais et que je suis avec le plus sincère attachement votre bien attachée Belle-Mère Tante et amie

Palerme ce 21 avril 1799.

CHARLOTTE.

32

Ma bien chère Enfant, j'ai reçu 31 de' vos chères lettres à la fois par l'arrivée de' 7 courriers, la première du 14 Xbre et la dernière du 4 mars. Combien j'ai été touchée, ma chère Enfant, de' tout ce que vous me dites et de' tout l'intérêt que vous me témoignez dans nos tristes et malheureuses circostances! II y aurait un volume à écrire, je n'en ai ni la force ni le courage, d'ailleurs je couverais risque de' vous ennuyer et suppose même que vous pouvez être en couche, ainsi ne veux point vous fatiguer. J'ai été touchée jusqu'aux larmes et bien vivement émue devons vos offres pour moi, pour vos bonnes sœurs, pour tout ce qui nous peut être utile; j'en sens tout le prix, mais croyez que jamais sans le plus indispensable besoin nous ne serons à charge à personne et que nous nous contentons de' nos privations et médiocrité, espérant à Dieu qu'elles ne seront pas éternelles. Nos santés, ma bien chère Enfant, se soutiennent, mes nerfs souffrent beaucoup, mais c'est un miracle que ce ne soit pire et je tire ma vie en avant. L'air de' Palerme nous fait du bien, quoique j'avoue je n'en aime nullement le séjour séparé du Continent, car me voilà encore depuis le 6 mars sans aucune nouvelle de' vous autres, et nous ignorerions la déclaration de' guerre, si les gens enfuis de' Livourne ne nous en eussent assuré l'authorité (581) et la fuite des pauvres Grand-duc; ainsi cette stagnation de nouvelles est cruelle, surtout pour mon cœur maternel, outre qu'il est fatal aux affaires. Votre cher Père jouit grâce à Dieu d'une bonne santé, il s'est accomodé une très jolie maison de campagne à la chinoise, petite mais bien située, à 20 minutes éloignée de' la ville, il y loge dîne va et vient, cela l'amuse. Nous sommes tous en ville, nous avons diminués chevaux, plats de' la table, pour que votre cher Père puisse avoir cette jouissance qui le soulage sans avoir de' nouvelles dépenses, et les jeunes époux puissent sortir et leur enfant, ce qu'ils croient nécessaire à sa santé. Moi mes filles et Léopold nous restons à la maison, n’ayant pas assez de' chevaux et ne voulant faire aucune dépense; quand Léopold sera bien installé aux hommes je renverrai sortir à pied, sa santé souffrant ainsi renfermé. Les filles ont un petit jardin comme une terrasse, quai, près de' la maison, et là elles respirent Pair, leurs chambres étant de' vrais trous pour leur santé. Ma Belle-Fille s’est entièrement remise, 40 jours de' cure de' lait, les thermes minérales l’ont remise; elle a été pour quelque moments très sensible à la mort de' sa sœur, on l’a saigné et depuis alors elle sent chaque jour régulièrement et bien son enfant ce qui, comme elle n'a point eu de' capo parto (582), me fait conjecturer qu’elle peut être de' 4 à 5 mois, mais n’est jamais sûre; ce qui est certain c’est qu’elle s’est grâce à Dieu remise, a bonnes couleurs, engraisse, mais c’est une personne qui exige toujours bien de' ménagements et est très délicate. Son mari se porte très bien, n’engraisse que trop, est honnête loyal ferme, mais a un extérieur détestable et une ferme decise volonté de ne se gêner en rien, n’ayant nul amour propre à un point criminel. Leur enfant me paraît hébétée, elle a presque 6 mois, ne comprend rien, ne fixe rien, ne sourit à rien; je n’ai jamais vu un enfant si p&i concevant pour cet âge; elle n’est pas laide, quoique délicate, mais de gros veux qui ne disent rien rien; enfin un enfant très peu précoce et qui n’annonce aucune vivacité. Mes chères filles vous embrassent; la bonne Mimi prie Dieu, se mortifie pour que nos circonstances changent; l’Amélie est la plus jolie de' figure, et un tact, une finesse infinie et un excellent cœur; l’Antoinette grossit et ne grandit pas, elle est un aimable espiègle, mais pas jolie; elles font ma compagnie consolation et mon unique pensée, je désirerais bien vivement les établir, soit avec le fils de' Milan (583), soit avec le fils de' l’Electeur actuel de' Bavière (584); ma bonne Mimi me resterait, je tâcherais de' lui faire chez elle, si Naples nous revient, un sort indépendant et heureux, car elle le mérite bien. Pour ma Belle-Fille pour la consoler de' la perte de' sa sœur, et l’effet en a été d’abord et positif, je lui ai proposé faire venir les Dombasle ici (585), les placer auprès d’elle et son enfant, comme aussi la Reck (586); cela lui a fait le plus grand des plaisirs et j’avoue malgré tous les petits inconvénients, et «qu’en dira-t-on?», je vainquerais tout pour lui procurer cette consolation. Nous sommes sur un pied que je ne la gène en rien, amicale, et il n'y a eu ni j'espère aura jamais une parole entre nous, mais Îa meilleure union; je me suis protestà que je ne veux ni histoire ni tracasserie ni tripotage, ainsi je n'entends rien, et c'est ce que je veux; mes filles sont amies avec eux et n'osent jamais me raconter ce qui se fait ou y passe. Actuellement vous aurez les Grand-duc et leur famille, ici nous a débarqués tous les Ministres, Consuls étrangers avec leur famille, Seratti, Manfredini, Fossombroni, les Corsini, enfin tout le Ministère étranger et l'interne de' la Toscane. Tout ce qui arrive, tout ce que l'on entend fait horreur et pitié, tant pour la Toscane que pour tout. On dit que les armées de' votre cher mari ont rapporté des victoires tant au Rhin qu'en Italie, cela est bien vivement à désirer, car cette guerre est à mort: ou on détruira l'hydre dévorateur qui ruine tous les thrones et propriétés, ou cette hydre détruira tout et si, par malheur fausse politique égoïsme désir d'acquisitons, des paix partielles se feront, si on ne matte pas la plus grande activité bonne intelligence entre tous les Alliés, si on ne détruit pas par tous les moyens possibles tout soupçon méfiance idée d'agrandissement conquête entre les Alliés, un jouera de' finesse à l'autre, entravera l'un à l'autre les opérations, et on se perdra. Comme je vois plus que difficile, j'ose même dire impossible, de' faire goûter les vrais principes aux différents gouvernements, je désespère de' la bonne réussite et suis bien triste, mais il faut remplir son devoir jusqu'à la fin, et c'est ce que je tâcherai de' faire et comme femme et comme mère pour n'avoir aucun reproche à me faire. — Nous attendons les Russes qui nous sont par traités promis, avec la plus vive impatience; d'abord qu'ils viendront on les portera devant Naples qui est déjà strictement blocquée par l'Escadre anglaise, et les Isles d'Ischia Procida Capri Ventotene tous à nous rendus et les peuples en montrant la plus grande joie, De Naples ils viennent, malgré les rigueurs du Gouvernement, continuellement du monde qui assure de' leur fidélité attachement. Les deux Calabres sont entièrement à nous par l’activité soins et peines du brave Cardinal Ruffo qui y est le Vicaire Général. En Abruzzo un homme et âme honnête brave, que nous ne connaissons point, a racquis les deux Abruzzi, les places villes, et entre Gaëte Capoue ne laisse personne passer; il s'est battu avec les Républicains et leur a òté 8 canons et la caisse militaire; on l’appelle par surnom Fra Diavolo, les Français ont envoyé offrir promettre pour le suborner, tout a été inutile et il les embarasse. En Pouille toutes les provinces étaient aussi retournées à la fidélité, mais le fatale Comte Ruvo est allé piller brûler passer au fil de' l’épée la ville d'Andria, celle de' Trani; cela a épouvanté les autres qui ont cédé et remis l’arbre dans ces provinces; mais si la Capitale est prise tout le reste cédera et d’abord, car les peuples sont pour nous entièrement. Il n’a que quelques classes, celles qui devraient le moins l’être, avant plus à perdre. Je ne vous nommerai point les horreurs scélérats, tous ceux qui se distinguent, les Moniteurs Napolitains vous le diront; il y en a de ceux qui ont affligé mou cœur, comptant sur eux. Tel est Caracciolo de la marine que j’ai toujours distingué, qu’à Palerme encore [j’ai distingué et sur la probité duquel je comptais; Policastro chef à examiner les déprédations faites de' l’Ex-Roi, bon nombre d’évêques, notre archevêque qui par faiblesse et bêtise a imprimé deux infâmes pastorales, Carlo de' Marco, pensionnaire bene merito della Repubblica, Cantalupo ministre des finances, les militaires, enfin tous les plus bénéficés. Elle Cassano et Elle Popoli, haute (587) et que nous appelions «Leurs Altesses», vont avec les cheveux coupés quêter, monter dans toutes les maisons pour avoir des secours pour les braves soldats qui doivent battre le Tyran, enfin des horreurs! Enrico Sanchez, patriote au service de' la République, sa femme enragée Jacobine, lorsque jusqu’au jour de' mon départ elle et ses enfants étaient avec mes enfants en compagnie; enfin tout ce que l’ingratitude la plus forcenée peut faire et qui déchire le cœur et rend la vie odieuse! Tous les biens des enfants de' la famille détruits, jusqu’au Fusaro vendus, ma petite maison à St. Lucia vendue par Rocca Romana, enfin des choses incroyables et telles que je n’en reviens point. Car ils en agissent avec une sûreté comme si cela ne devait jamais finir, et j’espère à la venue des Russes et au moment du débarquement tout sera terminé. Le Peuple est tout fidèle, la noblesse officiers étudiants, le haut magistrate est restà fidèle (588), ainsi la chose sera vite faite, mais je crains les vengeances populaires, car ils l’ont juré, et je crois que beaucoup de' sang coulera. Enfin personne de' la noblesse s’est encore montré fidèle, cela fait frémir, mais n’en est pas moins vrai. — Manfredini Seratti Fossombroni Corsini, Ministres au Grand-duc, arrivés ici disent qu’en Toscane les gens sont mieux pensant, mais tout aussi moux et vils que les autres. Manfredini demande à hauts cris de' partir avec ce brick qui va porter les courriers; je ne sais ce que le Roi en décidera, ne l’avant pas voulu voir; pour moi je suis d’avis que, ne le voulant pas bien traiter, on le renvoyé où il le désire, car je ne puis oublier qu’il a élevé mes deux gendres et toute l’influence qu’il a sur eux. Avec le brick vient aussi le Chevalier de' Saxe qui, avant été mortellement blessé, vient à prendre les eaux de Baden pour se remettre et pouvoir faire campagne. — Pour moi, ma bonne chère Enfant, ma plus grande et unique consolation aurait été de venir vous voir embrasser, voir ces chérs Enfants et vivre quelque temps près de' vous pour me remettre des peines et chagrins au dessus de la force humaine, mais mon devoir me l'ordonne autrement et. je prévois presque que je n'aurai plus de' ma vie ce bonheur, si quelque mariage de' mes Enfants ne m'y conduit. Car nous devrons vivre le reste de' nos jours dans la plus stricte économie et ne pouvant rien dépenser, nous retrouvons tout pillé dévoré perdu ruiné, tous les gens à l’aumône; ils ont déjà pris 8 millions de' Ducati en monnaie comptante et 4 millions en bijoux ou argent effets, il en faut encore 4 millions selon leur ordre; joignez à cela que grâce à Dieu jusqu'à présent il n'ont pas la ressource des huiles grains, n'avant point ces provinces en leurs mains, ainsi c'est tout effectif. Tout le monde est dans la misère, les vivres commencent à manquer dans cette immense Capitale et je crains d'un jour à l'autre un massacre dans la ville inutile et que je voudrais empêcher, épargner au moment du besoin. Enfin voilà une légère esquisse! Vous parler, ma chère Enfant, de' nos inquiétudes sursauts soins serait vous affliger inutilement. Croyez que dans tous les genres, de' cœur d'âme de' sentiments, je souffre l'impossible et suis très malheureuse. Mais je remplirai mes devoirs dussai-je y succomber, et si jamais ce dont je ne me flatte plus, je vous reverrais un jour, vous serez étonnée de' la moitié du réel de nos peines. Vos sœurs sont parfaites, réellement vertueuses, et je les aime encore de' plus après nos malheurs, Dieu veuille les rendre heureuses. — Nous avons établi un courrier maritime qui chaque semaine ira à Zara pour recevoir de' vos nouvelles, daignez avec Gallo arranger que les pacquets soient confiés aux hommes qui apporteront les nôtres, au moins pour avoir des nouvelles du Continent, car voilà encore deux mois sans nouvelles! Dans la Sicile, moyennant les succès et le retour des deux Calabres, la Citadelle de' Messine avec une garnison anglaise, les secours qu'on espère et attend des Russes, la guerre déclarée par l'Empereur, les succès que l'on dit et dont je prie Dieu de' les multiplier, tout cela ensemble a tranquillisé calmé la Sicile qui, quand nous sommes venu, était dans un état à faire craindre aux plus courageux; à présent on est tranquille, mais le même esprit d'égoisme, rien donner, y règne et peu d'énergie courage, avec un caractère bien plus féroce et décidé des Napolitains. Je vis absolument dans la retraite et la seule chose qui m'a fait connaître quelques dames, c'est deux fois la semaine aller dans quelque couvent de' dames pour nous faire voir, il y en a de' seules dames 22 ici, jugez du reste. La ville est peuplée, les environs beaux, mais je ne soupire que de' retourner chez moi à Naples, à tranquillité revenue; car d’être séparée du Continent est bien triste. — Je ne vous parle point de politique, cela me peine trop. Les Anglais nous rendent des services réels et jamais se peuvent assez reconnaître en tout, les Russes promettent de' même que les Turcs et montrent bonne volonté. Sur votre cher Empereur, malgré toutes les entraves et méchants qui cherchent de' refroidir et ont très refroidi des liens que tous les sentiments du sang doivent réunir, j’espère et compte sur sa loyauté vérité, et si les communications étaient plus faciles on s’entendrait mieux. C’est ce qui aussi nous a fait mettre le courrier semanile à Zara pour se communiquer; le premier est parti le 24 de' ce mois et arrivera peut-être avant celle-ci. Adieu ma chère Enfant, si je suivais mon cœur je ne finirais jamais, mais ma faible tête s’y refuse. Adieu, puisse le Seigneur vous accorder une heureuse couche, ménagez vous bien, car de' là dépend la santé, je ne puis assez vous le prêcher. Nous sommes ici dans notre isle et le serons peut-être quand vous serez déjà sortie des couches, puisse-t-elle être heureuse et de' votre pleine consolation, voilà ce dont je prie Dieu indignement. Recommandez nous à votre cher mari, nos intérêts, ils sont communs un bien publique, nous sommes parents amis alliés, puisse le Ciel lui accorder des succès et le préserver de' trahison. On dit Mack au même lieu que le Pape à Briançon. Que je le plains! C’est contre toute bonne foi, je ne puis croire Mack un traître, mais il a perdu la tête et au lieu de' se replier sur la Calabre Sicile comme il nous l’a promis, il est allé chez Championnet, a par là mis du louche dans sa conduite et en a été la dupe; ses adjutants qui l’ont quitté en pourront mieux donner des nouvelles, hors Redlich duquel je me méfie fortement, je l’avoue, et beaucoup de monde est de' mon avis. Au reste vous saurez mieux que moi tout cela. Ce que je désirerais bien vivement c’est la continuation des heureux succès des troupes de' votre cher mari. Comptez, ma chère Enfant, que, bien que si éloignée et que des mers nous séparent, mon sentiment ne changera jamais ni diminuera; je ne suis occupée que de' vous et ils passent peu de' jours que nous ne parlions en famille de' vous et ne désirerions vous revoir avec vos chers Enfants; mais je suis trop sincère pour ne point avouer que de' ce bonheur je ne me flatte plus. Vous aurez actuellement les Grand Due avec toute leur petite famille chez vous; on dit les Enfants très aimables, et j’avoue mon cœur maternel, j’avais désiré bien de fois malgré nos embarras avoir la mère et Enfants chez nous, et nous avions dans notre imagination tout arrangé pour cela, actuellement je trouve avec la raison que c'est mieux ainsi. Manfredini part avec le même courrier pour rejoindre son maître, je l'ai trouvé maigri défait; il montre beaucoup d’empressement d’être auprès de' son maître pour lequel il témoigne et dit avoir un grand attachement. Les autres Ministres Seratti Corsini Fossombroni et tous les étrangers résidents à Florence sont ici, enfin c’est une fluctuation d’événements et malheurs continuels. Mes voeux sont pour que le Ciel bénisse les succès de votre cher mari, que nous savons, mais en confus, mais qui doivent être réels puisque les Français évacuent Naples, avant renvoyé femmes malades bagage artiglerie, vendant tout à bas prix et s’étant enfermé à St. Elme, aussi il faut qu’ils se concentrent autre part. Dieu veuille bénir Ses succès et qu’une bonne intelligence se mette entre les Puissances: j’aurais sur cela trop et trop à dire qui vous fatiguerait en couche. Recevez donc, ma bien chère Enfant, les voeux bien sincères que je fais pour votre bonheur et prospérité en politique, privé ménage, comme épouse mère Souveraine, que Dieu vous accorde tout ce que je vous désire; ménagez vous bien en couches, pensez quelquefois à nous autres rélegués dans une isle, aimez vos sœurs et frères, je vous en conjure et j'ose dire qu’ils le méritent; ces malheurs m’ont encore mieux prouvé l’excellence de' leurs caractères et je vous les recommande. Je prie Dieu de' les établir, si cela peut être pour leur bonheur, sans cela j’aime mieux les avoir avec nous que de' les rendre victimes de' mon ambition et peu heureuses; un pain qui me restera sera avec cordialité divisé entre nous, et dans tous mes malheurs l’union parfaite dans la famille, à laquelle ma Belle-Fille contribue aussi et ce qui me fait lui être si attachée, fait ma consolation. Adieu, ma bien chère Enfant, sovez toujours notre avocat auprès de' votre cher mari, pensez à nous, nous serons jamais indiscrets mais modérés; vos offres cœur m’a bien touché, aimez vos chères sœurs, c’est tout ce que je puis vous demander de plus cher à mon cœur; soyez après moi leur mère, cette assurance me donnera consolation et tranquillité. Ménagez votre santé, parlez moi surtout librement. J’embrasse vos chers Enfants et voudrais le pouvoir faire de personne. Adieu, je vous bénis embrasse, parlez moi toujours libre et sincèrement, soyez sûre que ce n’est que pour moi seule et que je suis pour la vie votre bien attachée mère et amie.

Palerme le 28 avril 1799.

CHARLOTTE.

Le 1 may.

C’est aujourd'hui enfin que le courrier part. Voyez notre position. Naples, le peuple désire veut faire la contre-révolution, les Anglais et gens à nous tâchent de' les retenir, n’ayant encore ni troupes ni armes ni munitions, et des bien heureux Russes n’y avant aucune nouvelle. Salerne Castel-à-Mare Sorrento s'est révolté. Mais le premier a déjà été repris par les Patriotes et on y va faire des cruautés qui ensuite découragent. Voilà notre triste position: Castel-à-Mare se battait, peu de' secours étrangers, tout serait dit, mais sans force contre force cela ne va pas. Je prévois des massacres et en ai l’âme navrée, car se sont toujours les bons qui succombent. Enfin Dieu aura pitié de' nous. Je désire bien apprendre votre heureux accouchement, votre parfaite santé, avez bien soin de' vous. Parlez recommandez nous à l’amitié de votre cher mari. J’embrasse vos chers Enfants. Je recommande à votre amitié Louise et ses Enfants et suis pour la vie votre tendre mère et amie.

CHARLOTTE

3.

Mon bien cher fils et neveu, je profite de' l’occasion d’un bâtiment Triestin qui part pour vous écrire; je l’ai fait hier à votre chère femme, mon cœur m’aurait poussé à lui écrire encore aujourd’hui, mais ma raison me retient, j’ignore si elle est en couches et qu’elle est son état, et ne veux par ma lettre lui causer aucune inquiétude. Nous en avons une bien grande. L’Escadre de Brest, forte de' 30 voiles de' 20 ou 23 vaisseaux de' ligne, se retrouve dans la Méditerranée, elle a échappée à la vigilance de deux Escadres anglaises et se retrouve dans la Méditerranée. Le brave Nelson, ne pouvant supposer une pareille venue au travers de deux Escadres, une avant Brest et l’autre avant Cadix, était comme nous dans la sûretà de' cette impossibilité, et par conséquent toutes les forces sont séparées, à Naples Malthe Messine Longone Tripoli Adriatique, et nous n’avons à Palerme que deux seuls vaisseaux qui ne peuvent faire aucune défense contre un si grand nombre. Tout ceci nous tient dans les plus vives inquiétudes et peut nous perdre. Sans ressources le Roi est décidé que, si l’Escadre Ennemie s’approche vers la Sicile, de' faire une générale proclamation et d’armer tout le pays en masse et de' l’animer à accourir à la défense de' la patrie, pour tout ce que l’on peut dire de' plus vrais motifs. On travaille actuellement à la proclamation. Si les Russes qui nous appartiennent viendraient ils pourraient nous sauver; pour Naples et le blocus il faut pour le moment tout abandonner et ne penser qu’à la conservation de' la Sicile. Voici, selon ma faible idée, quel peuvent être les projets de ces scélérats: ravitailler délivrer Malthe et courir en Égypte, prendre Buonaparte et son armée, les porter en Italie pour la conserver et reconquérir, aller faire une diversion aux Turques et Russes dans la mer noire à Costantinople; ou courir sur Naples, en détruire le blocus, embarquer leurs troupes dont vous avez heureusement difficultà (589) la retraite, embarquer les Jacobins et venir faire une descente et ficher par tous les moyens ordinaire de' conquérir la Sicile. Ce projet-ci serait pour nous le plus fatal, puisqu’il serait le plus prompt à exécuter; les autres deux qui laissent quelques semaines de' temps permettront aux renforts anglais de' venir, et comme leur supériorité à force égale par mer est prouvé, ils pourront détruire ce dernier reste de' marine française, qu'une fois détruite ils n'en auront plus; mais entre temps nous sommes dans le plus positif danger. Je vous recommande mes bien chers et aimés Enfants dans tous le cas. Conserves moi votre amitié, puisse le Seigneur vous rendre heureux! J'embrasse ma bien chère fille, votre chère femme, et suis très inquiète d'être depuis le 6 de' mars sans aucune nouvelle, et croyez moi de' cœur et pour la vie votre bien attachée Belle-Mère amie et servante.

Le 14 May 1799.

CHARLOTTE.

3.

Mon bien cher fils et neveu, pardonnez que je vous importune de' nouveau, mais c'est pour vous faire mon bien sincère compliment. Hier au soir nous avons reçu une frégate de' Livourne qui nous a raconté les détails des victoires de' vos glorieuses armées, recevez en mon bien sincère compliment: Milan Bologne pris, Florence au moment de l'être, de' même Gênes, et une colonne vers Piémont, ce sont des succès si glorieux et rapides qu'ils tiennent du miraculeux. Recevez-en mes bien sincères compliments: que je voudrais moi-même vous les pouvoir présenter! Je partage bien votre gloire! Cette nouvelle est venu bien h temps pour rasseoir les esprits très agités de cette Escadre dont nous n'avons aucune nouvelle, quoique depuis onze jours elle est dans la Méditerranée. Adieu, continuez moi votre chère amitié, le vous recommande ma chère fille, et croyez moi de' loin comme de' près toujours votre bien attachée Belle-Mere Tante et amie

le 16 may 1799.

CHARLOTTE.

35

Ma bien chère Enfant, le bâtiment avant retardé de' quelques jours et même changé, car le premier patron a voulu aller charger du sel et par conséquent longtemps sauter par mer, j'ai pris une autre occasion aimant de' vous donner de' mes nouvelles et de' ne vous point faire éprouver la dure privation d’être tant de' temps sans nouvelles. Voilà depuis le 6 de' mars que je ne sais rien de' vous et cela dans le moment où je vous sais au moment d'accoucher ou l’étant déjà; Dieu veuille vous préserver de' tout malheur et vous faire remettre selon les voeux de' mon cœur en parfaite santé. Ici nous sommes tous bien. Ma toux d'estomac humeur me tourmente, mais ce sont les approches de' la vieillesse et il faut la souffrir. Les autres sont tous bien portants et de' bien bons enfants. Je fais ma vie retirée à l'ordinaire. Le palais à Palerme est bien situé, bon air et mieux distribué de' celui de' Naples, mais murs encore blancs, il faudra penser un peu à me ranger, l'espoir de' retourner à Naples ne pouvant être si prochain, d'ailleurs l'infâme conduite de' la plupart de' gens de' ma connaissance me révolte et me rend peu désireuse de' les revoir, ainsi il faut se faire une raison. C'est à ce manque de' communication et nouvelles que je ne puis m'adapter! La ville beaucoup moins grande de' Naples est toute aussi peuplée, il y a une promenade publique à la marine, la grande rue qui traverse en croix la ville, le Cassero appelée, plus large et propre de' Tolede, théâtre académie, tous les instituts publics, de' seuls couvents de dames noblesse 22, vous pouvez juger du reste. Les campagnes sont belles, mais sans arbres, des champs entiers à l'entour de' Palerme des fichi d'Indie que l'on aime ici. La noblesse est nombreuse. Voilà un petit détail de' notre séjour. Votre cher Père s'est arrangé deux petites maisons de' campagne, très jolies, mais petites, et a des amusements rustiques, des vaches animaux, et se dissipe par mer; j'ai l'âme trop affectée pour pouvoir jouir de' rien. Mon fils a aussi une maison de' campagne rustique, des bestiaux et y va presque chaque jour, même son emplacement est plus beau. Ma Belle-Fille sort tous les jours, son enfant aussi, pour moi et mes trois filles et garçon nous restons à la maison et ne sortons que deux ou trois fois par mois, par économie de' chevaux carrosse, et alors nous les louons, Mes enfants ont un jardin grand comme une galerie sur un bastion de' la maison, et là comme des prisonniers il sortent des trous de' leurs chambres et respirent l'air; le soir chacun chez soi se couche de bonne heure. Il y a un théâtre, m&ia je n'y ai été que deux fois, le jour du Roi et le dernier du Carnaval et cela me suffit; mes pauvres enfants font une vie bien triste, mais ils en sont contentes et ne pensent qu'à m'éviter toute peine, j'en suis bien contente, désirerais vivement de' les voir établis et vous les recommande plus que moi-méme, les aimant infiniment plus. Léopold est aussi un charmant enfant et qui promet beaucoup. Ma Belle-Fille va beaucoup mieux, mais il y a un dérangement dans elle, ———————————————————

———————————————(590): le chirurgien l’a examiné et dit qu'il est impossible qu'elle soit enceinte de' 4 à 5 mois, comme le mouvement, qu'elle annonçait, régulier de' l'enfant l'indiquait. Actuellement elle dit qu'elle ne sent plus rien et je ne sais que croire si elle est ou non enceinte et de' quel temps; elle n'a plus de' toux, mais de' temps à temps elle crache un peu de' sang, mais le cache à tout le monde, et ce ne sont que les Baselli qui reçoivent ses mouchoirs et les cachent de' même. Au reste c'est la meilleure créature du monde et nous vivons ensemble en parfaite union et paix. Nous venons de' recevoir par une frégate anglaise venue de' Livourne les heureuses nouvelles des armées de' l'Empereur, votre cher mari: Milan repris, Florence près de l’être, enfin un concours de' très grandes victoires et bonheurs, cela est venu bien à propos pour nous consoler et encourager. Enfin, ma bien chère Enfant, notre privation de nouvelles de' votre chère santé bien-être depuis le 6 de' mars est une chose cruelle, j'espère d'un jour à l'autre en avoir et regarde du côte de' Messine si on ne voit rien. Je ne vous parle point de Naples, la règle des coquins les plus ennemis détracteurs et les plus bénéficés et il y en a de' toutes les couleurs. Adieu, ma bien chère Enfant, puisse le ciel vous bénir, accorder tous les bonheurs, j'embrasse votre cher mari enfants, ménagez bien votre santé et croyez moi pour la vie votre tendre mère et amie

Palerme le 16 may 1799.

CHARLOTTE

36

Ma bien chère Enfant, vous devez trop connaître mon cœur et ma tendresse pour vous, pour juger de' la consolation que j'ai éprouvé en apprennent dimanche 27 de' ce mois à déjeuner avec vos sœurs et bellesœur la nouvelle de' votre heureux accouchement d'un garçon bien portant (591) et que vous et votre cher petit se portaient au gré de' vos et nos souhaits. C’est le premier moment de' petite consolation que j’ai éprouvé depuis longtemps, vous auriez été touchée de' voir le plaisir de' toute la famille, de' tous nos gens et de' tous les Siciliens; car je leur dois cette justice, ils partagent ma cruelle situation. Comme le premier mauvais jour de' couches était passé, j’espère à Dieu que les autres auront suivi avec le même bonheur et que vous et votre chère famille jouissiez tous d’une parfaite santé. Votre cher Père expédira un courrier en peu de' jours, mais comme les chances de' mer sont douteuses je profite de' ce bâtiment; qui sait s’il n’arrivera pas plus tòt du courrier. Je Dénis donc Dieu de' cet heureux événement comme de' tous les heureux succès de votre cher mari et de' ses glorieuses victoires, et je prie Dieu qu’il les lui continue sans interruption. — Nos affaires sont toujours les mêmes, les Provinces sont presque toutes à nous, il n’y a que la Capitale qui encore se soutient dans sa scélératesse. Nous sommes très affectés de' ne plus recevoir le corps Russes qui par traité nous était concédé et pour lequel provisions tout était fait; cela change nos plans système et nous embarasse cruellement, mais nous confions dans le Dieu de' Miséricorde et Justice qu’il nous aidera, voyant notre vérité droiture et loyauté. Nous cachons au public cette mauvaise nouvelle, car si ils savaient que le corps de' Herman à nous par traité destiné, et pour lequel magasins vivres logements tout était préparé, si ils savaient qu’ils ont pris une autre route et destination ils seraient furieux et parleraient hautement. Moi j’en soupire secrètement, le Roi votre cher Père en est très fâché, mais malgré cela nous espérons en Dieu de' sortir de' ce mauvais pas où trop de' zèle et bonne foi nous a jeté; mais ceci sera une forte leçon pour nous, enfants et petits-enfants! François sent avec la force et feu d’un jeune homme, il se porte bien, de même que sa femme qui avance dans sa grossesse; comme elle n’a point eue de' capo parto on ne peut faire de' juste jugement du temps, je la crois de' 4 mois. Son enfant est très délicat, peu avancé, mais assez jolie; vos sœurs et frère sont mon unique compagnie consolation tendresse et, je dois dire, bien bons enfants. Je dois vous prier conjurer, comme dernier acte d’amitié reconnaissance, de penser à établir vos sœurs le mieux que possible, elles le méritent, il n’y a aucune Archiduchesse ni sœur, cousine d’aucune couleur, qui pourrait empêcher qu’on ne pense à eux, et cela une fois fait selon la probabilité de' les rendre heureuses; sans cela j’aime mieux les retenir avec moi et me sacrifier. Leur établissement pourrait encore me procurer peut-être de' vous revoir un moment, et eux établies je pourrais suivre le plan que mes chagrins, les ingratitudes inouïes que j’ai éprouvé, m’ont décidé à suivre. Ainsi établir mes filles serait mon bonheur; deux sont nubiles formées et excellentes personnes, la 3me va se former, mais est moins solide et a encore besoin d’être guidée, mais un cœur excellent. Je vous recommande donc le point qui me tient infiniment à cœur, je vous embrasse bénis, de' même que toute votre chère famille et le bien venu jeune Joseph, et vous assure de' l'inviolable tendresse de' votre bien attachée mère et amie

le 29 mai 1799.

CHARLOTTE.

37

Ma bien chère Enfant, je profite de' chaque occasion pour vous donner de mes nouvelles et suis bien peinée de' passer de' mois sans en recevoir des vôtres. Comme je vous ai écrit Naples est à nous, mais St. Elme est aux Français, l'Oeuf et Neuf aux Patriotes après toutes les proclamations, pardon; l'obstination de' ces scélérats surpasse tout et le dommage qu'il cause est incalculable. Naples «est en feu et sang, Royalistes patriotes ont un acharnement que rien ne peut faire cesser et que des troupes réglées auraient évité. L'amiral Nelson nous fait le plaisir d'y courir et d'y mettre ordre en intimant la rédition et les y obligeant, il peut le faire, la Méditerranée avant été renforcée de' 18 vaisseaux. J'espère donc dans peu vous donner l'avis que la ruinée ville de Naples est dans nos mains. Adieu, j'espère que les succès de' votre cher mari continuent, que vos chères enfants se portent bien. Dieu vous préserve à jamais de' nos malheurs et douleurs et surtout d’éprouver tant d'ingratitudes, et croyez moi pour la vie votre tendre mère et amie

Le 19 (592) juin 1799.

CHARLOTTE.

38

Ma bien chère Enfant, un bâtiment allant à Trieste et ne voulant manquer aucune occasion de' vous donner de' mes nouvelles, je vous écris celleci, comptant bientôt par un Courrier le refaire de nouveau. J'ai reçu votre lettre du 18 avril, du 19 et 25 mai, du 7 et 11 juin, ceci vous prouve la confusion des postes et combien notre situation, surtout dans les temps actuels, est une vraie relégation. Je vous dois mille rémercîments pour le joli écran, il m'a fait grand plaisir et est admiré d'un chacun qui le voit pour l'invention et la galanterie du tableau, je vous en fais donc de' nouveau mes remercîments, et c'est avec le plus vif intérêt que j'attends vos chers portraits à tous, ils me seront dans mon exil de' grande consolation; je vous remercie aussi du portrait que vous me faites de Louise et de' sa petite famille; je continue mes remercîments pour toutes les assurances d'amitié et d'intérêt qu’au nom de' votre cher mari vous voulez bien me donner. Nos affaires sont très avancées; c'était déjà 6 mois que la République durait chez nous, elle n'a fait que trop de' partisans et m'a rendu malheureuse pour la vie, n'ayant plus à qui fier; de' tous ceux que nous connaissions, hommes femmes gens dé service, tout le monde a trahi, et ce n'est absolument que le seul bas peuple qui est restà fidèle. Nous avons repris les Provinces et Naples, hors Gaëta Capoue Pescara et le Château St. Elme que actuellement on assiège. Le Cardinal Ruffo entre peur faiblesse a signé une indigne capitulation entre,lui et nos rebelles sujets, l'amiral Nelson a tout nié; le Peuple est furieux contre la noblesse et Jacobins, enfin un désordre massacre sac feu, mille malheurs des guerres civiles et de' parti se retrouvent à Naples, enfin nous avions chaque jour des bateaux de' plainte. Tout ceci a fait résoudre votre excellent Père à y aller de' personne, il porte 1400 hommes d'infanterie et 600 de' cavalerie, il y est allé tout d'un coup, en 24 heures la chose a été exécutée et résolue. Vous pouvez juger ce que cela m'a coûté. Jamais nous n'avons été si éloignés, et par la mer qui nous sépare l D'ailleurs combien et combien de' craintes agitent mon malheureux cœur et âme! Il est décidé à aller à Procida et se faire voir à bord de' l'amiral Nelson, mais à ne point descendre à terre, mais établies les règles et points de' sa volonté retourner au sein de' Sa famille où il est si aimé. J'espère que sera (593) présence fera un enthousiasme, car il est très aimé, et que cela produira du bien, mais je n'en suis pas moins dans des mortelles transes, ma santé s’en ressent. Mes chers Enfants se portent bien, ma Belle-Fille engraisse, a bonne mine: mais sa grossesse avance lentement, on ne peut faire aucun compte, car depuis qu'elle est accouchée au mois de' novembre elle n’a plus rien vu. — Je vous recommande vivement vos sœurs, mon unique désir est de' les voir établies, celui de' mon frère Ferdinand dépend entièrement de' vous autres et de' l’établissement que vous leur ferez. Si l'Italie retourne ce qu'elle a été Modène et appartenance sera à lui. Enfin je vous recommande vos sœurs, elles sont de' méritantes attachées jeunes personnes.

Adieu, mille et mille compliments à votre cher mari, j'embrasse vos, chers enfants et me console que vous êtez si bien remise. Dieu veuille que l'expédition de' votre cher Père réussisse heureuse pour la gloire et bonheur, et que je le puisse bientôt revoir au milieu de' nous, et croyez moi pour la vie votre attachée tendre mère et amie le 4 juillet 1799.

CHARLOTTE

J'espère que l'inoculation de' l'aimable Caroline sera bien passé et croyez moi à vous dévouée pour la vie.

39

Ma bien chère Enfant, je profite d'une occasion de' mer comptant toujours sur le Courrier que l'on doit envoyer qui ira en droiture et sera bien plus vite; la séparation où je me retrouve avec votre cher Père, lui étant à Naples et moi à Palerme, fait un désordre dans notre correspondance; malgré cela je risque celle-ci pour vous annoncer la reçue de' vos chères lettres du 15. 22. 29. juin, 2. et 6. juillet. Je ne veux point renouveler votre douleur en vous parlant de la perte de' votre chère Caroline (594), ce sont des douleurs trop vives fortes, chaque moment, chaque istant on sent le manque, la douleur se renouvelle et il n'y a que la suite du temps qui calme en partie cette vive douleur. De penser qu'ils sont heureux, qu'ils sont éloignés de' toutes les misères humaines, cela est si vrai que la perte d'Albert, qui était un très aimable enfant, je l'ai moins senti des autres, parce-que dans le comble du malheur dont personne ne peut avoir idée, dans l'affreuse situation ou nous étions, je bénissai Dieu de' le voir dans son sein, je ne puis penser sans frémir à ces temps, mais grâce à Dieu ils sont passés. Je ne veux donc point renouveler votre douleur en vous parlant de' cette chère Enfant, elle est plus heureuse que nous ne pouvons jamais la rendre, c'est une raison, mais point suffisante au cœur d’une mère, le seul temps adoucit l'aigu de' ces douleurs, je l'ai éprouvé dix fois et puis en parler d'expérience. J'espère que votre chère santé n'en souffrira point et que, si votre soupçon continue, votre accouchement sera aussi heureux comme la grossesse, tel que vous pouvez le désirer et que le Ciel vous conserve toute votre chère petite famille. — Vous saurez que la grossesse de' ma Belle-Fille s'est dissipée après 6 ou 7 mois, enfin étant accouchée le 5 novembre elle n'a' eu q'une apparence de' capo parto et puis 7 à 8 moins rien, elle disait sentir l'enfant, a pris les gens polir in second enfant, arrangé les chambres, saignée de' la main deux fois, je ne l'ai jamais cru, maie elle disait tant que j'ai dit: peut-être je me trompe; elle voulait faire mettre par tout le Royaume les prières publiques, heureusement je m'y suis opposée; quand, il y a 8 jours, sans douleurs ni rien ses règles sont venus, j'ai fait appeler le chirurgien, tout le monde criait à la fausse couche, le chirurgien Sicilien — — — — — — — dit: mais il n'y a rien, pas même d'un mois alors; les autres l'avouent aussi qu'on l'avait soupçonné, mais point dit pour ne pas lui faire de' la peine, et ainsi finit la grossesse sans pertes ni rien, peu de' jours à son ordinaire, et elle se porte à merveille. Je crois que, misérable on peut dire mourante comme elle était, la nature ne pouvait faire ses fonctions, actuellement qu'elle est remise tout a repris son cours naturel. Sa petite est gentille, mais très très délicate, je la vois mais ne me mêle en rien physique ni moralement, laissant à la mère l'entière direction.

Vous savez déjà que votre cher Père est parti le 3 de' ce mois pour la Rade de' Naples. Le 13 juin le Cardinal avec les Calabrais et tout ce qu'il a pu ramasser, quelques soldats matelots Russes, mais centaines, est entré à Naples, les Rebelles se sont défendu pas à pas, on a pris d’abord le Château du Carme, les autres ont été pendant plus de' 8 jours, le Château Noeuf et l'Oeuf, assiégés, enfin ils ont capitulé. St. Elme a fait un siège d'un mois, des Russes Anglais, 2000 hommes de troupes à nous, enfin il l'a fallu bombarder, faire des approches, tout enfin. Pendant un mois cela a duré, entre temps les Calabrais, bons pour se battre, mais en désordre pillant ravageant tout, on a tant hurlé pleuré que l'âme de' votre cher Père a été émue et il est allé à Naples, a passé deux jours à Procida et actuellement se retrouve à bord du Foudroyant, vaisseau de' l'Amiral Nelson, mais j'espère à chaque moment le voir retourner et j'en compte les moments. L'acclamation fête joie démonstrations du Peuple en le revoyant sont incroyables et ne peuvent s'exprimer, tous les étrangers même ont fondu en larmes, il m'a beaucoup coûté de' ne point l'accompagner, mais j'en ai compris la nécessité et devoir; mais depuis son départ mon corps est à Palerme, mais toutes mes pensées facultés sont à bord du Foudroyant. Il y a déjà plus de' 4000 personnes arrêtées, les horreurs que la noblesse a commis est incroyable (595), et tous sont entre les plus ou moins coupables, Religieux Pagliette Étudiants Médecins, tous ceux qui ont été les plus beneficés, enfin c'est un événement qui rend malheureux pour la vie. Pour les pertes il ne faut pas même en parler, toutes les maisons jardins, pas un clou ni un arbre, jusqu’aux chaînes de' fer pour lier les murs ont été emporté cassé volé, tous les établissements publics, toute la fameuse galerie de' Capo di Monte emportée, toutes les statues tableaux pièces, muséum planche de' l’Ercolanum, chevaux, établissements pécuniaires de' mes Enfants, tout, c’était une fureur, une rage, plus encore de' nos ingrat sujets que des Français qui souvent les corrigeaient et leur disaient: Êtez vous donc des tigres? Couper la tête aux statues du Roi, percer de' coups nos portraits, mettre les pieds dessus, proférer toutes les horreurs, couper la tête avec un sabre en public à la statue du Roi d’Espagne, beau-père, homme estimé en Europe pour sa probité, mort tant de' temps, imprimés, des volumes et volumes d’exécration, danse demi nue au pied de' l’arbre qui (596) Mme Cassano Mme Popoli avec leurs filles quêtant pour la République, portant par les rues le terrain sur les épaules pour faire les batteries contre les tyrans, notre épithète; le vieux Torella, S Angela fesant les sbirres, attachant liant garrottant les soupçonnés Royalistes; Policastro écrivait ma vie et recherchait les dilapidations de' l'Ex-Re, enfin des atrocités inouïes. Actuellement ils se disent tous innocents, demandent voir le Roi, et hors les généraux et gens pris dans les châteaux l’arme à la main et qui ne le peuvent nier, tout le reste nie et se dit bon; mais pour moi je les connais, et c’est pour la vie, ils ne m’attraperont plus. Je pourrais écrire un livre et ne dirais point la centième partie des horreurs dans toutes les classes commises; le peuple uniquement a été fidèle, aussi une 60 et plus ont été fusillé par l’infâme République comme Royalistes. Tout ceci me rend bien malheureuse: vivre toute notre vie sur une isle, séparée du Continent pendant plusieures semaines en hiver, n’avoir aucune nouvelle même à cause de' la mer, cela est cruel, pensée de' revoir les endroits gens qui nous ont si infâmement déchiré, la nature répugne de' vivre au milieu d’eux; les affaires qui sont dans une dilapidation affreuse l’exigent enfin, cela me rend bien malheureuse. Capone et Gaëte résistent encore, le premier est assiégé en formes et je crois ne peut guères retarder, Gaëte est bombardé et viendra bientôt. Entre temps nous avons tous les châteaux forteresses à réédifier, l’armée à former et fournir de' tout, artiglerie tentes fusils munitions tout à été donné aux Français, une marine à recréer, j'avoue les bras tombent, et d’avoir à faire avec des gens pareils! L’archevêque de' Naples a commis des horreurs, les Chanoines Évêques Curés Religieux Noblesse, tout enfin, le seul peuple excepté, tout le reste a été horrible. Caracciolo a été pendu sur la Minervé, quelle horreur, Cet homme était dans nos chambrée, voyait nos larmes misère et douleurs à Palerme, admis dans notre interne! La Frendl (597) mariée, veuve de' Filangieri, une enragée avec les fils et parents de' son mari, enfin des horreurs dont je ne finirais jamais! Ainsi la situation future est terrible et je n’ose m’y fixer, si le devoir m’oblige à quitter la Sicile et aller à Naples aux 40 heures et dans ma chambre, porte et bourse fermée à tout le monde hors bas peuple auquel on peut faire le bien; mais point y vivre, et qu’il faut tenir en ordre respect, car se sentant leur audace et licence est devenu bien grande, c’est pourquoi l’envoi des Russes est un bien réel. Je suis infiniment obligée à votre cher mari de' nous les procurer et nous les attendons avec une impatience sans égal, j’en seps la nécessité extréme, mais ne puis rien dire de' plus positif du quoi et comment; car comme votre cher Père est depuis le 3 de' ce mois à Naples (598) avec les Ministres, il ordonne expédie de' là et je risquerais de' ne pas bien dire. Nous sommes entre temps tristement à Palerme, avant fait tous les trideum et dévotions églises, et Palerme Sicile heureusement a encore de' la Religion; le 15 on a chanté le Tedeum public pour la prise de' St. Elme et le même jour étant arrivé un Officier Anglais avec les drapeaux que le Roi m’envoyait, les tricolors français ont été mis à la Cathédrale et dans une autre église, les tricolors rebelles des Napolitains ont été traînés dans la fange et brûlés dans un endroit populaire par la main du bourreau. En Sicile tout le monde est tranquille, sans un soldat canon ni radeau, tout étant à Naples; on attend, mais par sentiment avec une impatience infinie, le retour du Roi, on prépare fêtes feu illuminations pour montrer son attachement, je l’attends comme le Messie et ne regarde soupire que vers la mer. Car outre la consolation de' le revoir, de' le voir éloigné de' tout dangers dont je tremble toujours, c’est d’être ensemble tous et de' n’être plus avec la crainte de' la famille maladie, du Royaume entier sans le moindre moyen de' défense, enfin je prie Dieu qu’il revienne du plutôt, et à ce qu’il m’écrit Capone tombé, je l’espère. Pour moi je n’ai qu’un triste avenir; revenir à Naples, voir le monde, les lieux, tant d'endroits où on m’a déchiré, cette idée me tué; rester ici est dangereux, impossible pour le bien des affaires et du Continent tenir les relations. Ainsi ma position est peineuse, pourvu que je puisse établir mes Enfants, voilà tout ce que je désire, la tempête éprouvée me le faisant plus fortement souhaiter; un Gouverneur civile et militaire en Sicile auquel on pourrait faire un gros apanage serait une très-agréable situation pour un cadet à donner une fille à moi, le fils de Ferdinand une autre, et la 3me Dieu pourvoirait. Pour Léopold on tâchera de' lui faire un riche apanage de' biens de' Naples et Sicile qui lui donnent une existence agréable et abondante, ceci forme l'objet de' mes voeux; je ne dis pas à Léopold le gouvernement de' la Sicile étant trop peiné et puis trop dangereux par ses droits et par l'amour qu'on lui porterait, ce qui n'est pas le même cas d'un cadet d'une autre maison. Enfin je me remets à Dieu, mais ne vis n'existe que dans le bonheur de' mes Enfants. Je suis bien charmée de tout ce que d'avantageux vous me dites de' Louise et de' ses Enfants, elle est généralement très aimée des Toscans, qui méritent éloge s'étant très bien conduit, les Aretins surtout s'étant distingué. Avec quelle jouissance et bonheur j'aurais vu ces deux chères familles jouer ensemble, mais je ne suis pas née pour le bonheur. Adieu ma bien chère Enfant, remettez vous à la volonté de' Dieu et par votre résignation faites vous un mérite d'un malheur où il n'y a pas de' remède. Que Dieu vous conserve vos autres chers Enfants! Vous pouvez croire avec quelle impatience j'attends de' vos nouvelles après ce malheur de' savoir de' votre chère santé. Je vous fais bien mes compliments pour les glorieux et prodigieux succès de' vos armées, que Dieu les continue à bénir et que l'hvdre puisse être entièrement détruite. Adieu ma chère Enfant, conservez nous l'amitié de' votre cher mari, pensez à moi, je vous embrasse bénis et suis pour la vie votre tendre mère et amie

le 29 juillet 1799.

CHARLOTTE.

Dans ce moment vient la nouvelle de' la prise de' Livourne, Dieu soit béni!

Je vous charge d'embrasser vos chers Enfants en mon nom.

(sopra un altro foglio)

Le 31 juillet.

Ma bien chère Enfant, le bâtiment à cause du temps n'étant point encore parti, je joins encore ces deux lignes. Capoue Gaëte ont capitulé, nous avons acquise une belle artiglerie française, le Royaume de' Naples

est délivré des Français — Livourne est pris, la Toscane délivrée.— Les deux flottes Galli Spen (599) se sont querellé et entré à Cadix où Keith les va blocquer: voilà toutes de' bonnes nouvelles, on a chanté un public tedeum, tout le monde. Dilez, je vous prie, ces bonnes nouvelles à votre cher mari, à la bonne Louise, dans peu de' jours j’espère de revoir votre cher Père. Adieu ma chère Enfant, comptez sur l'éternelle tendresse de' votre bien attachée Mère et amie

CHARLOTTE.

40

Rada di Napoli 3 Agosto 1799.

Caro Francesco. Sono debbitore di più repliche alle Vostre lettere. Le combinazioni e difficoltà continuate per il passaggio dei corrieri mi hanno trattenuto dal rispondere alle Vostre dei 18 Aprile, 17 Maggio e 2 Luglio; le prime due mi giunsero molto attrassate. Potete figurarvi la mia consolazione per il felice parto di Vostra Moglie, e per tutto quanto puoi recarvi piacere e soddisfazione. Lo stesso sentimento mi ha fatto prender giusta parte all’afflizione recatavi dalla perdita della Vostra Figlia Carolina. Lo stato in cui mi dite che fu trovata può servirvi, se pure in questi casi è ammissibile, di motivo di diminuire la pena per tale per sempre dolorosa perdita, potendo esser sicuro del tenero e costante interesse che costantemente mi muoverà per tutto ciò che concerne Voi e la cara Vostra Famiglia.

Il successo delle Vostre armi ha da per tutto portato, grazie alla Provvidenza, la general influenza in favore della buona causa. Né ho goduto anche io da parte mia, e profittando delle circostanze ho fatto attaccar Napoli, ed indi mi sono portato per mare con altre forze per coadjuvare alle operazioni, avendo voluto i Francesi e ribelli resistere nei Castelli e Piazze. Reso però St. Elmo dopo alcuni giorni di assedio, indi Capua, vengo di ottener lo stesso di Gaeta; ed imbarcato il residuo di 6 mila e centinaja di Francesi che tuttavia si erano qui fortificati nell’idea di permanervi ostinatamente, mi trovo il Regno intieramente libbero. Ho fatto marciare alcune Truppe nello Stato Romano ove hanno promosso l’insurgenze, mi accingo ad ultimarvi ciocché manca ancora al ristabilimento dell’ordine, per scacciare dal Castel St Angelo, da Civitavecchia e da Ancona i Francesi che ci restano, con alcuni pochi nel Perugino. Vi farò partecipare, Caro Genero, ciocché puoi ulteriormente concernervi, affrettando io intanto il ritorno del buon ordine in questo Regno e Capitale, per esser indi utile alla Causa Generale a cui è legata la mia come quella di ogni altro Governo. Godo sentirvi in buona salute e spero il soggiorno di Baden voglia esservi proficuo. Grazie a Dio, tanto io qui che la mia Famiglia in Palermo stiamo bene. Conservatevi, continuatemi la Vostra stima ed amicizia, e gradite i miei voti per i Vostri particolari successi, come il costante attaccamento, col quale teneramente abbracciandovi sono il Vostro Affezionatissimo Suocero

FERDINANDO B.

41

Mon bien cher fils et neveu, j’ai été pendant près de' 40 jours séparéé du cours des affaires, courriers, et ai par là point pu profiter de' vous écrire, je le fais actuellement par le courrier qui va partir, ne le pouvant faire qu’imparfaitement, mon cœur avant tant de' choses à vous dire et l’état de' ma santà et nerfs s’opposant à un long travail. J’ai été longtemps assez bien à Palerme vus égards les nerfs; mais actuellement ma tête est si en mauvais état que je suis incapable de' la moindre application, et cela me rend bien triste. Pardon que je vous importune de' ces détails, mais c’est pour vous expliquer ma brièveté et mon peu d’ensemble quand mon cœur aurait tant à vous dire. J’ai prise la part la plus vive et sensible à la perte que vous avez faite de' votre chère fille; qui est mère apprécie les douleurs, j’en ai encore faite l’expérience sur le vaisseau perdant un petit garçon charmant, mais j’étais alors si horriblement malheureuse que j’aurais désiré que les ondes nous eussent tous engloutis. Je bénis Dieu que vos santés soient bonnes, et vous fais mon bien sincère compliment pour les brillants succès de vos armées qui en peu de' mois ont balayé l’Italie, et en attirant toutes les forces ennemis à se défendre, ont facilité aux fidèles sujets du Roi à lui reconquérir son Royaume contre la classe nombreuse de' ses rebelles sujets. Le Roi en est grâce à Dieu le maître; mais les désordres confusions bruits sont continuels, ce sont partis contre partis, on est bien éloigné d’avoir de' la tranquillité et je crois que nous ne l’aurons jamais plus de' notre vie; cela rend bien triste des cœurs comme les nôtres. Les Russes, si souvent promis, dernièrement encore par vous annoncés, ne se retrouvent point à Ferrare où on les 'nous annonçait et nous ignorons où ils se retrouvent; ils seraient pourtant si nécessaires pour remettre la tranquillité et contribuer au bien général. Avec nos gens on forme en toute hâte notre armée de troupes régulières qui, comme voue savez, a été entièrement dissoute: le peuple est fidèle et très attaché, les autres classes le sont moins, tout ce qui tient aux coupables est mauvais. Nous avons 8[m arrêtés, prouvés enragés Jacobins, et plus que tant libres en ville; la corruption a été incroyable et duré depuis longtemps, on fait f impossible pour vite remettre Tordre et la tranquillité, mais la secousse a été violente. Toute ma chère famille se porte bien, votre sœur est engraissée, bonne couleur, la bonté même, mais point enceinte; dans tous mes malheurs peines et douleurs qui m’ont tué et pour la vie ruiné, l’union en famille lait mon unique consolation; elle est grâce à Dieu parfaite et amicale entre nous tous. Je désirerais bien vous pouvoir présenter mes chères Enfants et embrasèer les vôtres qu’on me dit bien aimables. Nous vivons ici très entre nous par goût; les Siciliens ont donnés des fêtes superbes et en tout genre, feu d’artifice illumination bal souper cantade pomenades publiques mariages processions, enfin de' toute espèce, très beau et en grand ordre, les particuliers se piquent à qui peut faire de' plus pour montrer leur dévouement et fidélité; mais j’avoue, mon âme est trop affectée et je devrais, pour vivre quelques années encore mieux, être quelque mois sans rien voir entendre ni apprendre, ce qui est impossible étant sur les lieux mêmes, Adieu mon bien cher fils, puisse le Ciel bénir couronner vos succès, puissiez vous par là obtenir une stable tranquillité à l’Europe, enfin puissiez vous être heureux, être vers nous fils neveu allié et ainsi sincère et attaché, et croyez moi pour la vie votre attachée et reconnaissante Belle-Mère Tante Amie et Servante

Le 30 août 1799.

CHARLOTTE.

NOTE

(1)L'editore italiano, essendo riuscito a procurarsi un ritratto indubbiamente autentico del Cardinal Ruffo, ha stimato opportuno di rilevare da questo l'immagine che trovasi in testa al volume.

(Nota del trad.)

(2) Nelson, Dispatches and Lettera III p. 170: «La plus belle armée d’Europe.» Il Nelson era stato, secondo ch'egli scriveva il 13 di novembre 1798 al conte Spencer, chiamato a San Germano dalle Loro Maestà «to concert with General Mack and General Acton the commencement of the war.» Circa i trattati e gli avvenimenti che condussero alla campagna romana dei napoletani, vedasi la compiuta e luminosa esposizione in Rastadter Congross, II p. III — 150.

(3) Molto rettamente dice il Coppi, Annali l'p. 93, dell’esercito del Mack: «Perciocché essendo per la maggior parte composto di truppe che non avevano mai guerreggiato, si provarono subito difficoltà grandi nelle comunicazioni, nel trasporto delle munizioni, ed anche maggiori nell’osservanza degli ordini e nelle azioni con l’inimico.» Circa gli stranieri nell’esercito stesso v. Rodino, Racconti Arch. Stor. per le Prov. nap. 1881, fase. 2, p. 281.

(4) Si confronti domini, Hist. crit. et mil., Parigi 18191824, XI, 41, con Franchetti, Storia d’Italia dopo il 1789 p. 362. Circa il tempo della marcia che il Mack fissò pel 24 v. Hüffer, op. cit. II p. 151 annot. Lo scritto dello Championnet al Mack del 5 Glaciale (25 di novembre) e la risposta del Mack v. in Colletta, Proclami e sanzioni della Repubblica napoletana, Napoli, Stamperia dell’Iride 1863, p. 130.

(5) Sui particolari dell'occupazione di Terracina v. Rodino p. 279-81.

(6) Storia segreta del trattato di pace di Rast., l'2, par. App. p. 1215: «Bien loin de vouloir ressusciter la guerre contre aucune puissance, il n'y a que le désir.. de' rendre à la religion l'hommage qui lui est dû, qui ait pu nous porter à cette entreprise... Nous exhortons... les généraux et commandants de' toute armée étrangère d’évacuer surlechamp avec leur troupes tout le territoire romain, sans prendre aucune part ultérieure aux destinées de' cet état dont le sort à raison du voisinage et pour les motifs les plus légitimes intéresse spécialement notre puissance royale.»

(7) Nel maggio o giù di H la regina raccomandava al cardinale Fabrizio Ruffo (Maresca, Carteggio della regina M. C. col card. F. R. ecc.. Archivio Napol. 1880, XX p. 559) un «Salvatore Morrone romano... ajutante del povero Valentino fucilato.» Il Valentino fu nominato dal re generale della milizia cittadina e cavaliere costantiniano; v. Rodino, p. 285 «segg.

(8) Rodinò, p. 28284, e le ann. di B. Maresca, p. 260 segg.

(9) Il Coppi, V p. 90, erra dunque dicendo: «mentre ancora era in Roma. Dall'altra parte anco il Colletta, III 37, ha torto affermando che i! proclama ha la data di Roma ma in realtà fu scritto più tardi a Caserta; poiché Ferdinando non vi andò prima del 13, e la regina scriveva già l’11 a Vienna: «On a ordonné la levée en masse dans les province» d’Abruzzo» ecc.

(10) Secondo una voce il re sarebbe fuggito con gli abiti del duca di Ascoli; Andrea Cacciatore, Esame della Storia di P. Colletta, Napoli 1850, I p. 15, lo nega risolutamente. Né s’intende che bisogno ci fosse di travestimento, dacché tutta la strada fra Roma e Caserta era libera dai francesi.

(11) Il Coppi, V p. 91, chiama Walterre (Walter?) il comandante di Sant’Angelo, e a p. 96 Walville il commissario francese, i quali nomi mi sembrano tutti e due scorrettamente scritti.

(12) Non conosco il testo della capitolazione. Sembra che in questa fosse compresa la guarnigione napoletana di Civitavecchia, che il 15 di dicembre s’imbarcò per Napoli. Su tal breve sventurata campagna v. maggiori particolari presso Vivenot, Rastadter Congress. LXXIXCXVI; sulla prigionia del Mack in Francia e sul suo riscatto v. Potselt, Annali 1800, I p. 137150. II Mack sul cattivo successo della sua impresa osserva: che per chiunque consideri la fedeltà e bravura degli ufficiali come l'anima d’un esercito la spiegazione «sta nella certezza pur troppo confermata, che gli ufficiali per un sesto eran traditori, per quattro sesti vili, e per un sesto solamente uomini d onore. I traditori al primo vedere il nemico gridavano: fuggi, fuggi, siamo traditi!; i vili scappavano, e i pochi onesti erano infelici vittime degli uni e degli altri. Confr. le relazioni mandate dal conte Esterhàzv a Vienna a dì 818 di dicembre; il cinico ragguaglio già menzionato del Rodino sul combattimento presso Civita Castellana; e il racconto del D’Avala, Vite, p. 244, secondo il quale, nella ritirata dopo la battaglia di Popoli, Leopoldo de' Renzis, uno dei patriotti e colonnello del II reggimento Cacciatori, esclamava: «Ora è cessato il dovere di soldato e ricomincia quello di cittadino.»

(13) Art. IV: «Une flotte de' vaisseaux de' guerre qui aura une supériorité décidée sur celle de' l'ennemi pour pourvoir par ce moyen à la sureté des États de' S. M. Sicilienne.» Martens, Recueil, VIII p. 309.

(14) Pubblica proposta del direttor generale di polizia Guidobaldi sottoscritta da Carlo Manieri segretario di polizia... Già il dì 8 scriveva rEsUrhàzv a Vienna: «Con tutti questi avvenimenti di guerra si trovano qui ancora rinviato francese e il ministro cisalpino con Tarme repubblicana appiccata alle case loro.»

(15) Nelson 11 di dicembre a Spencer, Disp. Ili p. 195: «None from this house have seen her these three days, but her letters to lady Hamilton paint the anguish of her soul.»

(16) Húffer, II p. 241 seg.

(17) Memorie storiche sulla vita del Cardinal Fabrizio Ruffo scritte dall’ab. Domenico Sacchinelli, Napoli, Carlo Cataneo 1836, p. 68 seg. «Fu veramente un tiro della Provvidenza che quella spiaggia restasse aperta per la grande impresa del Cardinal F. R., della quale vado a esporre tutti i fatti e circostanze. Quaeque ipse miserrima vidi..»

(18) P. Colletta, III p. 37, cerca di spiegare in che maniera gli stessi napoletani, che poco prima si eran fatti sul campo di battaglia mettere in fuga, adesso in armi contro lo stesso nemico si sollevavano.

(19) La regina all’imperatrice il 13 di dicembre: «Mack se tue, meurt de peine, il est un héros, mais ne commande que des traîtres et des lâches, avez, si il survit, toujours considération pour ce héros, car le malheureux a sacrifié pour nous ce qui est le plus précieux, l’honneur et réputation.»

(20) Esterhàzy il 18 di dicembre: «S. M. la regina, nel caso che il nemico e’ approssimi con forze preponderanti alla città di residenza, si ritirerà probabilmente in Sicilia; ma S. M. il re cercherà con la sua presenza di confortare l’esercito o col buon esempio rianimarlo.» La qual cosa potrà essere stato desiderio e quindi opinione manifestata dalle leali persone che circondavano Ferdinando; ma da lui non era da sperare un simil partito, né senza dubbio avrebbe voluto saperne la regina, che tanto aveva tremato per la vita del marito mentr’egli era in Roma.

(21) Palumbo, Carteggio di Maria Carolina (Napoli, Nicola Jovene, 1877) LXII p. 188, LXIII p. 188 seg. «Pardonnez notre importunité pour les caisses, mais c’est notre nécessaire pour nous habiller, moi et mes enfants, dimanche qu’il faut voir du monde.» Ivi LXXVI p. 211: «Custode... a enlevé tous les papiers, archives dans la maison méme de' Makan, et sans le coquin de' Medici nous aurions d’alors sous les trahisons et coupé le fil aux horreurs, mais il en avertit le secrétaire» etc. V. anche Nelson, Dispatches III p. 210 seg. Lady Hamilton... every night received the jewels of the Royal Family etc. etc., to the amount, I am confident, of full two millions five hundred thousand pounds sterlings.» Lo stesso St. Vincent il 28 di dicembre, p. 212 seg.: «...and here it is my duty to tell your Lordship the obligations which the whole Royal Family as well as myself are under on this trying occasion to her Ladyship... Lady Hamilton provided her own beds, linen etc. and became thell slave, for except one man, no person belonging to Royalty assisted the Royal Family.» Confr. A. Reumont, Maria Carolina e i suoi tempi, Firenze M. Cellini e C. 1878, p. 50 seg.

(22) La regina Carolina a Lady Hamilton dal 17 al 21 di dicembre; si cor. fr. Palombo p. 3133 (traduz. italiana), LX p. 186 e LXII p. 188 nel testo originale, con Pettigrew, Memoirs of the life of Nelson etc. London Leone 1819, I p. 174177 (traduz. inglese). Il 21 la regina scriveva: «Je suis dans l'étourdissement et désespoir, comme ceci change entièrement notre état, vie et situation, ce qui formait mes idées et celles de' ma famille pour la vie, je ne sais où j'ai la tête.» Poi senza data: «Comptez que rien rien ne fera vaciller nos principes et que, si ce pays est poltron, nous serons honnête et vrai toujours.»

(23) Vedi la corrispondenza dell’Acton col Nelson intorno agli apparecchi della fuga presso Pettigrew I p. 181183, dove al di 21 di dicembre fra le altre cose è detto: «Count Thurn shall attend at the Victoire past seven;» per Victoire s’intendeva tutto il lungomare della Vittoria presso Chiaja e il palazzo reale. — Debbo con sommo rincrescimento confessare che non m’è riuscito raccogliere più particolari ragguagli sul detto conte assai noto e famoso nella storia della marina napoletana tra la fine del passato e i principj del presente secolo; senza dubbio ei prendeva origine dal ramo svizzero di quella famiglia di conti dell’Impero.

(24) Nel d'Ayala, Vite degl’Italiani ecc. Torino, Roma, Firenze, frat. Bocca 1883. p. 131, si legge che il Caracciolo «nacque all’alba del 18 di gennaio 1752»; recte 1732, perché nel 1799 si parla di lui come d un vecchio di settant'anni.

(25) Clarke e M’Arthur, Vita del Nelson, Londra 1809, I. Il Nelson, allora capitano, sul principio non ¡sperava troppo dall’ajuto delle forze aapoletane. Noi ci aspettiamo» egli scriveva il 19 di gennajo 1795 al duca di Clarence, che alcune delle navi di linea e fregate napoletane si uniscano a noi; non mi posso figurare che noi siamo per cavarne grande utilità; they ars not seamen and cannot keep the sea beyond a passage, p. 198. Il 3 di marzo salpò da Tolone il Martin con la fiotta francese, e il 7 gli riuscì di prendere, nel golfo di S. Fiorenzo presso la costa nord ovest della Corsica, una nave di linea inglese a vela, il Berwick 74; il 13 e il 14 tra Savona e Capo Mele le due armate s’azzuffarono, e il Nelson col suo Agamennone sostenne solo una gloriosa battaglia contro il «Ca ira» e una fregata francese, che dopo aver sofferto gravi perdite dovettero ritirarsi alle isole Hyères. Il Tancredi si trovava già allora fra le navi dell’Hotham. Il Nelson rammenta questa nave di linea napoletana il 12 di marzo quando essa già era in linea di battaglia: The Tancredi a Nèapolitain 74, e il 14: The Tancredi lay on the Britannia' s lee quarter, ivi p. 201, 204. Poi il 24 di aprile (p. 208) dice che un altro Neapolitain 74 si è unito all’armata e, secondo le idee patriottiche ed altiere del Nelson, fu accolto e salutato dall’armata inglese con giubilo ed entusiasmo sconvenienti: «The junction of a single Neapolitan Ship of the Line has this morning been to the English Fleet absolutely matter for exultation; so much neglected and forgotten are we at home,» cosi egli scrive lo stesso giorno a William Suckling Esq. Nelson, Dispatches II, p. 33. Il 4 di maggio e’ prende atto (Clarke e M'Arthur 1 p. 209) che il re di Napoli ha mandato ancora una nave da guerra da 74 cannoni. Del Tancredi non fa menzione più oltre, e le osservazioni che fa sulle forze napoletane unite alle sue non son tali che queste debbano menarne vanto. Così il 15 di dicembre (p. 231) quando poteva adeguatamente giudicare cosuoi proprj occhi: «La piccola squadra napoletana è giunta or ora, ma la stagione è quasi troppo inoltrata da poter giovare con la sua opera. Del resto se si voglion mostrare, troverò da impiegarli, ma dubito della loro inclinazione.» Nell’autunno del 1795 il Nelson aveva la squadra napoletana sotto il suo comando immediato, e il 1° di ottobre egli scrive al comandante di quella (p. 235): Lo zelo che gli ufficiali del re di Napoli hanno sempre mostrato mi fa sperare che essi troveranno presto una occasione ecc.»; ma già il 1° di dicembre (p. 236) sentiamo il lamento: «Io vorrei che le galee napoletane fossero a VadoBay, ma esse stanno 'sempre presso il Molo di Savona.» A capo della marina napoletana' stava allora il capitano Forteguerri, sul quale il Nelson nell'aprile 1796 (p. 278) osservava con sarcasmo: «egli s’immagina d’esser pari a qualunque ufficiale in Europa, — fancies hinnelf equal to any Officer in Europe.» —

(26) Crescevi, 25 di dicembre E; confr. con G. M. Arrighi, Rivoluzioni d'Italia, Napoli 1813, III p. 176.

(27) Confr. lo scritto a Lady Hamilton presso Palumbo, LXI p. 187, nell’originale, e presso Pettigrey I p. 176 e seg., nella traduzione inglese; presso entrambi senza data, ma da doversi certamente riferire agli ultimi giorni o alle ultime ore della dimora in Napoli: «des tumultes populaires, les gens tués sont un indice sur qu’il n’y a plus de... (that subordination is at an end» Pett.) Cela va augmenter chaque jour» etc. K poi: «Les Émigrés tués, des paroles très séditieuses du peuple, enfin tout annonce (il Pai. legge erroneamente assome) une affreuse catastrophe...».

(28) Palumbo, Carteggio, p. 34, parla di biglietti litografati: «in litografia vedevasi;» ma l’invenzione del Senefelder fu fatta nell'anno 1799 e solo un par d'anni dopo praticamente applicata.

(29) Palumbo LXI p. 187: «Vanni le malheureux s’est tué d’un coup de' pistolet ce matin, combien je me le reproche!» La lettera non ha data, ma secondo ogni verosimiglianza è del 21, poiché vi è impresso lo stesso terrore che apparisce nella lettera dello stesso giorno all’imperator Francesco. Il luogo più notevole che indica il 21 dice: «Le concert avec notre libération se fait, j'y compte et m’abandonnant à lui avec 10 innocentes personnes de' la famille» etc. V. anche più su p. 257. Allo storico P. Colletta, VI 8, è accaduta la disgrazia di scambiare la seconda fuga della real famiglia in Sicilia con la prima, e di far morire il Vanni il 14 di febbrajo 1806 invece che il 21 di dicembre 1798. E questa per me una ragione di più per tener ferma l'osservazione fatta nella mia opera «Maria Carolina» Vienna Braumuller 1873 p. 219 (dove in quanto alla data io stavo col Colletta non conoscendo disgraziatamente il Pettigrew e non essendo stato ancora pubblicato il lavoro del Palumbo), cioè che la lettera attribuita in tal congiuntura all’infelice Vanni debba essere un ornamento retorico del Tacito Livio napoletano. Il Cuoco per il primo menzionò la pretesa lettera osservando che gli altri inquisitori di stato non fecero se non riderne, e «ne rise la stessa Carolina». V. anche Arrighi, III p. 107. Sarebbe anche da ricordare che, secondo il d'Agata, Vite p. 302, nel 1834 morì un certo de' Maria dopo aver confessato ch'egli stesso aveva ucciso il Vanni e inventata la lettera.... La regina era costretta a usare discrezione nell'accogliere le persone del suo seguito, oltre che dalla quantità delle domande, anche dal motivo che molte altre persone, segnatamente del ceto commerciale, dovettero essere ricevute, il che ebbe per effetto una funesta confusione sulle navi; v. la descrizione del capitano W. H. Smith presso il Pettigrew, I p. 177 e seg.

(30) Palumbo, p. 187 con una «Note des personnes à embarquer»: Vincenzo Morra, Emanuele de' Dominicis, Fra. Baldassarre, Gioacchino Diaz, Abbé Labdam, e altri più o meno appartenenti alla corte. Una lista apparentemente compiuta è riportata dallo stesso p. 3740, ma essa va confrontata con quella del Pettigrew I p. 183185, e in parecchi luoghi completata e corretta. Così manca, per esempio, presso il Palumbo niente meno che il principe ereditario con la principessa e il figlio; al seguito delle principesse è notato un abate Labalam, che lo stesso scrittore a p. 187 scrive correttamente Labdam, e il Pettigrew a p. 184 Labdan; e simili.

(31) La vita precedente delle due principesse fu in quei tempi e dagli storici posteriori in modi assai diversi giudicata. Dalle calunnie di avere nella loro gioventù vissuto col fratello delfino e col padre e avutone figli e via discorrendo, le difende risoluto il conte Mercy d'Argenteau; Arneth et Geffroy Marie Antoniette II. 178, 186. Ma lo stesso Geffroy, ivi I. p. XV, le rappresenta sotto l’aspetto meno vantaggioso, dicendo che non erano punto amate alla corte di Luigi XV; che la maggiore, Adelaide, non voleva bene a suo padre; che s’ erano ambedue mostrate false coltro la giovane e innocente delfina; che avean cercato di soverchiarla nel dominio e nell’influenza; che, non essendo in questo riuscite poiché la giovine principessa, da sua madre e dal Mercv appoggiata, avea scosso l’indegno giogo, le due pettegole beghine s’erano con dissimulata malignità e con segreti intrighi rivolte contro Antonietta ecc. Per contrario il Z)urozoir nella Biog. univ. (Michaud) Nouv. ed. XLIII p. 186 espone la cosa nel modo seguente: Maria Antonietta avea da principio mostrato molta tenerezza verso le zie, che le aveano anche calorosamente corrisposto; il che per altro eccitò la gelosia e diffidenza dell’Abate Vermond, i cui sforzi furono da allora in poi intesi ad allontanar da loro la delfina... Molto favorevolmente parla di esse Imbert de Saint’Amand: Les femmes de' la Cour de' Louis XV (Paris E. Dentu 1876. p. 317 segg.: Marie Leszinska et ses fllles) e: Les dernières années de Louis XV (ivi p. 87: La Dauphiné et la famille royale), ma lascia tuttavia intendere che non ostante i loro costumi esemplari non fossero esenti da parecchie debolezze.

(32) Dispatches, III p. 208, 212: «Le navi da guerra napoletane si tengano in disparte della flottiglia portoghese-britannica; quelle provviste di alberi di ricambio faccian vela per la Sicilia; le altre, a) in caso che i francesi entrino in Napoli, b) in caso che il popolo si ribelli al legittimo governo, siano arse; dopo di che il Niza venga a Palermo, lasciando solo una nave o due in crociera innanzi al golfo, perché navi inglesi non vi entrino.»

(33) Nelson al generale Stuart 7 di gennajo, Dispatches III p. 227: «Poor Mack carne on board the Vanguard on the 23. My heart bled for him, he is worn to a shadow.»

(34) Altri parla di venti contrarj che impedirono alla squadra di salpare. Secondo il Crescevi, 25 di dicembre D, sola cagione del ritardo fu la chiamata del Mack, il quale per altro, come rileviamo dalla corrispondenza del Nelson, si recò sulla Vanguardia nelle ore antimeridiane del 23, mentre la partenza non avvenne prima della sera. A ogni modo il luogo presso il Cresceri è degno di nota: «Li suddetti bastimenti si trattennero in rada tutto il sabato (22) e la domenica sino all’imbrunire... Non si sapeva capire donde procedesse un tale ritardo; ma poi si venne in chiaro che Sua Maestà, prima di far alzare le ancore, desiderava di abboccarsi col generale Mack, il quale domenica a tale effetto si portò a Napoli dal suo quartiere generale che ora sta a Capua, per dove fece ritorno appena terminata la sua conferenza. Dopo di questo il re non avendo cambiato di proposito, il pubblico giudicò che il generale gli abbia messo in dubbio se gli riuscirà di potere rintuzzare i francesi...»

(35) P. Collctta, 111 37, come al solito, senza riferir la data.

(36) Cuoco, Saggio storico I p. 129 (io cito, quando non avverto altrimenti, la prima edizione di Milano del 1801); P. Colletta III 41.

(37) Crescevi, 25 di dicembre E: «Per le molte pattuglie che di giorno e di notte vanno alla ronda, e per altre sagge provvidenze del capitan generale Pignatelli, non è di poi seguito alcun altro eccesso sino al dì d'oggi; ma per questo i buoni non stanno tranquilli e trovano tuttavia assai pericoloso e tristissimo il soggiorno presentaneo di questa desolata città.»

(38) V. la mia «Maria Carolina» p. 62.... «Il ¿tait aussi imbecille de corpi que d'esprit» diceva la duchessa di Torella nata Saliceti a Alfredo Reaumont, quando entrambi dimoravano nel 184849 presso la corte pontificia a Gaeta.

(39) Memoria degli avvenimenti popolari seguiti in Napoli in gennajo 1799, stampata il 4(Q) giorno della Repubblica Napoletana, l'anno 7° della libertà, il che vuol dire a dì 27 di gennajo 1799, del quale scritto non conosco se non i copiosi estratti presso Sacchinelli.

(40) Crescevi a Vienna I(o) gennajo 1799 B: «Fra le altre cose giorni sono si gettarono a mare una grande quantità di polvere e delle palle da cannone, s’incendiarono le barche cannoniere, e si mandarono a picco degli altri bastimenti...» È noto che si è finora creduto, e se n’è fatto grave argomento di accusa contro la regina, che quella distruzione accadesse per ordine di lei, anzi che ella, alla vista delle fiamme che salivano al cielo e delle navi che sprofondavano nel mare, singolarmente si dilettasse. Secondo il Cuoco I. p. 132 il commodoro conte Thurn, secondo altri l’ufficiale di marina Sterlick avrebbe recato in atto l’ordine di Carolina.

(41) Crescevi C: «Si calmerebbero tutti i timori se si convenisse d’un armistizio che ieri l’altro si determinò di ricercare coll’occasione di una conferenza che si tenne dal Vicario Pignatelli col generale Mack, portatosi qua espressamente da Capua.»

(42) Jomini XI p. 68. Il giorno del fatto presso Popoli non è notato; ma dev’essere accaduto verso i 20 di dicembre, perché il Lemoine partì da Popoli per Sulmona il 24 (Petromasi, storia della spedizione del Card. Ruffo. p. 92 segg.) ed ivi aspettò cinque giorni il Duhesme. Il general francese caduto id battaglia si chiamava Point.

(43) Colletta, III 38: «Erano napoletani gli artiglieri del fortino, e napoletano il loro capo, giovane che trattava in quella guerra le prime armi, alzato dal generale Mack da tenente a capitano, in premio più del successo che del valore.» Era lo storico stesso che raccoglieva i suoi primi allori militari; v. Franchetti, p. 351.

(44) Jomini, XI p. 66. Diversamente racconta il Coppi, VI p. 29, l'effetto che in favore dei napoletani avrebbe prodotto la cavalleria, se avesse assalito di fianco i francesi.

(45) Arrighi, IH p. 173, dove fra le altre cose si legge: «I contadini del territorio di Gaeta infierirono contro gli aderenti al nemico, e mandarono a morte quel vescovo e quel governatore sospettati come tali.» Vedi al contrario Maresca p. 556, dove la regina circa i patriotti che s'agitavano nelle Calabrie scrive «dicendo avere presso di sé il vescovo di Gaeta che tradì in quella piazza.» 11 vescovo dunque campò dal furor popolare.

(46) Secondo l'Arrighi, III p. 187, la stessa sorte era destinata alle navi reali che si trovavano a Castellammare; il comandante di quel cantiere Frane, de Simone aveva avuto i relativi ordini, ma gli fu impedito di eseguirli dall'energico intervento di alcuni patriottici cittadini... P. Colletta, III 41, indica il conte di Thurn come autore di quell'opera di distruzione, la quale per verità, come vediamo dalla corrispondenza del Nelson, fu condotta dall'ammiraglio portoghese Niza e dal capitano inglese Campbell, che, non avendo nessuna fiducia nelle attitudini del Pignatelli e del Mack, temerono che la flotta potesse esser lasciata cadere nelle mani de' francesi.

(47) Mar. lcnst Recueil, VII 335.

(48) Memoria ecc., Sacchinelli, p. 55.

(49) Arrighi, III 199201. Fra i comandanti dei quattro castelli erano tre Caracciolo: Niccola di Roccaromana«fratello di Lucio, a S. Elmo, Fabio di Forino al Carmine, Gio. Batt. di Vietri al Nuovo, Luigi Muscettola della casa principesca dei Luperano al castello dell’Uovo.

(50) Pepe, Memorie (Paris, Baudry 1847) I p. 23; v. anche la mia «Maria Carolina» p. 22.

(51) La regina a Lady Hamilton presso Pettigrew, I p. 202; dove son da correggere soltanto i nomi proprj Igurlo e Giardella, e dev’esserci errore di data, perché il 19 di gennajo si poteva difficilmente sapere a Palermo quello eh era in Napoli avvenuto il 17. Palumbo, p. 59, più giustamente nota la data generale «gennajo 1799.»

(52) Colletta, III 39: «Quelle furono veramente le prime congiure, colpevoli quando miri al disegno di rovinare il governo, necessarie quando pensi che solamente tra quelle rovine vedevano vita e libertà, nascosti nel giorno, profughi dalle case nella notte, menavano vita incerta e miserabile..

(53) «Il fatto era che il principe Rospigliosi da Firenze aveva prevenuto il Filomarino, suo parente, di averlo per urbanità raccomandato a Championnet;» Coppi, VII p. 37.

(54) Jomint, XI p. 78.

(55) V. il conto dei membri presso Arrighi III p. 205; fra essi Giuseppe Albanese, Domenico Bisceglia; secondo altri, anco Domenico Cirillo.

(56) P. Colletta, III 43, secondo la cui narrazione si potrebbe credere che l’arrivo dei nobili napoletani al campo dello Championnet (dove l’autore mette in bocca del Moli terno un discorso a uso Tito Livio) fosse accaduto innanzi il 15, la uccisione dei fratelli Filomarino nel giorno 15 e l’entrata del Moliterno in iscena la notte del dì medesimo. È anco più strano che il Colletta rechi la battaglia di Capua, alla quale prese pure parte in persona, ai giorni che la corte era presente, e quindi prima del 23 di dicembre; poiché quella successe dopo la fuga della corte, il 3 di gennajo. Ma anco presso gli altri scrittori le date di questi fatti sono mal certe; la fine dei fratelli Filomarino è messa al 18, al 19, al 20. Io tengo, per le cose principali, dall’accuratissimo Franchetti, p. 334. Quanto ai terribili anacronismi di B. N. (Bernardo Nardini) Memoircs, v. la mia Maria Carolina, p. 23. È sommamente da deplorare del resto che i dispacci a Vienna del Cresceri dal 15 ai 19 di gennajo non si trovino, e siano probabilmente perduti; mancano quelli dal N. 3 al 7. Il Crescer! è ne' suoi ragguagli diffuso, i suoi periodi spesso sterminati non sono certamente di Cicerone; ma l’esposizione è esatta e meritevole di fede e, specialmente per chiarire le disposizioni degli animi giorno per giorno, preziosissima.

(57) Memoria ecc. presso Sacchinelli p. 6062; confr. con Arrighi III p. 263. Secondo altri, i certosini di S. Martino dovettero dare i loro paramenti di chiesa, per formare con pezzi di essi la bandiera tricolore.... Fra i patriotti che seppero introdursi nel castello si trovava, secondo il D'Ayala, Vite p. 289, la esaltata poetessa Eleonora Fonseca Pimentel vestita da uomo.

(58) P. Colletta, III p. 45, reca l'attacco dello Championnet al 20; il 21 fa avanzare il Duhesme al largo delle Pigne e incendiare il palazzo Solimena; pel 22 non sa poi raccontar nulla di positivo — così passò il giorno 21 e con poca guerra il seguente» — e nel [III 46, va diritto al 23.

(59) Jomini, XI p. 80 segg.

(60) Memoria presso il Sacchinelli, p. 73: «È certo che senza di esse i francesi non entravano né così presto né tanto felicemente, e noi saremmo stati massacrati dalla plebe se i francesi tardavano un sol giorno o retrocedevano.» Intorno alla zuffa del 22 mandò il Cresceri ragguagli a Vienna, Dispacci del 26, B. Sul palazzo della legazione caddero palle la sera del 22.

(61) Proclami e sanzioni della Repubblica napoletana. Edizione fatta per cura di Carlo Colletta. Napoli 1813; p. 1 segg.

(62) Goethe, Filippo Hackert, XX (edizione del 1840) p. 220: «Mai forse da uomini onesti non è stato desiderato un nemico, quanto in questo momento i francesi.»

(63) Goethe, op. cit. p. 219.

(64) «In sì deplorabili circostanze ritrovandosi questo misero Paese, furono riguardati come Angeli discesi dal Cielo li Francesi delle suddette due prime colonne» — intende quella che il 22 occupò il largo delle Pigne, e l’altra che era stata accampata fuori Porta Capuana — «li quali, mentre il Popolaccio, essendo precorsa una voce che gli era lecito di farlo, stava inteso a dare il sacco al Palazzo Reale, entrarono in Napoli la mattina del dì 23, giornata del mese che, secondo il linguaggio de' nostri padri, potrebbe dirsi climaterica per questo Regno, ai 23 di novembre essendosi mosso l’Esercito del Re dall'accampamento di S. Germano, e ai 23 di dicembre avendo egli fatto vela per Palermo.» Cresce ri 20 gennajo E.

(65) Ved. questi proclami che aveano insieme, secondo il vecchio stile, la data del 23 di gennajo, e secondo il nuovo quella del «4 piovoso Anno VII della Repubblica francese» in Colletta, Proclami p. 24, e poi 135 segg. — Per lo scritto al cardinale arcivescovo ved. (Trama) Cenno storico sul cardinale Capece-Zurlo, Napoli 1860 p. 38 segg.

(66) Pqk, Memorie I, p. 27.

(67) Colletta, Proclami, p. 136: «11 cittadino Moliterno, generale in capo dell'armata napoletana, ai militari dell'esercito del tiranno,» 30 di gennajo; p. 22 Decreto del Comitato di Polizia generale» del governo provvisorio alla «Camera de' Conti nazionali,»i cui membri erano al tempo stesso invitati «a non vestire, né far vestire da Ministri, Avvocati e Procuratori gli abiti alla spagnuola che già erano loro distintivo, ma a disporre che ciascuno vesta a suo modo senza cingere spada né altro simile ornato;» lo stesso dì 2 di febbrajo alla «Corte nazionale» con l’ordine «ascrivere i lor Decreti, Ordini e Decisioni nella lingua italiana, togliere da essi tutte le formóle adottate dall’antico abusivo regime, adoptando all’opposto le formolo repubblicane, cioè: LIBERTÀ EGUAGLIANZA.»

(68) Pepe, I, p. 2831. Di fronte a questi fatti non intendo come il Cuoco, J, p. 140, potesse scrivere sopra il suo § XV: «Perché Napoli dopo la fuga del re non si organizzò a repubblica?.

(69) C. Colletta, Proclami p. 48: la furia vomitata dal Settentrione, la quale accendendo le torce del fanatismo, organizzando un’armata di spie» ecc.; «quella novella Aletto;» — le orgie della novella Messalina.» Nell'Art. Il della legge sono riferiti i nomi dei 25 eletti. Una serie di successivi decreti del 29 e 30 di gennajo determinò la composizione dei comitati, la giurisdizione e l’ordinamento interno di essi; p. 14, 18, 21. Un’ordinanza del 30 (p. 21) dispose che tutti gli ufficiali pubblici rimanessero al loro posto, eccetto quelli che erano nominativamente designati... In una lettera dell’8 di febbrajo a Fabrizio Ruffo la regina qualifica alcune fra le principali figure della nuova scena repubblicana, Mario Pagano, il «padre Caputo,» l’avvocato Fasulo, Flavio Pirelli e Mattia Zarillo nel seguente modo notevole: Ognuno di questi meriterebbe un commentario. Il primo è l'uomo pernicioso, Caputo e Fasulo sono Cassano e Medici mascherati in altri nomi; Flavio Pirelli è per animare mostrando sentimenti di riconoscenza, e Zarillo è un ridicolo maldicente degno di Bonelli di Roma; questa è la mia sciocca opinione.»

(70) Ivi p. 8 col nome di tutti e venti; primo presidente fu Vincenzo Bruno.

(71) «(La municipalità provvisoria) prenderà cura e vendetta di tutte le produzioni sediziose, incendiario e pregiudiciali allo spirito e alla morale repubblicana, o infamanti e calunniose contro gli onesti cittadini.» C. Colletta, p. 51.

(72) Il piovoso (31 di gennajo) e 21 piovoso (10 di febbrajo), firmato Laubert-Jullien e «approvato dal Generale in capo» C. Colletta p. 12, segg. P, Colletta IV, 5, racconta che una deputazione cittadina andò dallo Championnet per lamentarsi di così dura gravezza, e che l’Abbamonti e Gabriele Manthoné, già capitano d'artiglieria, ebbero in tal congiuntura l’ufficio di oratori; il primo fu interrotto dal generale con la dura esclamazione di Brenno: Vae victis; il secondo prese allora la parola dando del tu allo Championnet: Tu. cittadino generale, hai presto scordato che non siamo, tu vincitore, noi vinti» ecc. Naturalmente il discorso, se pure fu profferito in realtà come lo storico lo riferisce, non ebbe nessun effetto. Quanto, del resto, l’imposizione riuscisse grave a ciascun cittadino, si scorge da ciò, che per esempio a Filippo Hackert toccò pagare per lui solo non meno di 1200 ducali napoletani; Goethe p. 221 segg.

(73) Goethe, p. 220-225. In un luogo è detto di Giorgio e Filippo Hackert: E così furono i due fratelli accusati presso la corte d essere giacobini, mentre in Napoli li volevano imprigionare come realisti. Nello stesso caso si trovavano allora tutte le persone ragionevoli e moderate.»

(74) Il decreto del Faypoult, in data del 3, ma non completo; e quello dello Championnet, in data del 6 di febbrajo 1799, v. presso C. Colletta, p. 24-29.

(75) Editti del Municipio provvisorio, in data del 29 di gennajo, del Comitato di finanza del governo provvisorio (presidente Ippolito Porciani) in data del 6 di febbrajo; Proclami e Sanzioni p. 17, 48. Anche il debito dello Stato fu posto dal governo provvisorio sotto la protezione universale della nazione, e il Comitato di finanza ebbe incarico di far proposte per diminuirlo. Confr. Cuoco, II, p. 183 segg.

(76) C. Colletta, Proclami, p. 26, 57-59.

(77) Proclami p. 49.

(78) Ivi p. 58, in data del 31 di gennajo.

(79) Ivi p. 5961, con l’indicazione dei nomi di tutto il personale delle quattro compagnie; p. 64 segg. decreto del 12 di febbrajo, in 20 articoli, per l’ordinamento di esse.

(80) Proclami, p. 63 senza data: «L’amor della gloria è ingenito alle anime generose. Coloro che muojono per la patria vivono eternamente, come gli eroi che perirono alle Termopili. Accorrete dunque solleciti coraggiosamente a formare questo corpo che sarà permanente. Avremo insieme il piacere di sostenere la Repubblica napoletana, che la gran Nazione, dopo averla liberata, ha giurato proteggere.»

(81) Ivi p. 27, del 5 di febbrajo.

(82) Legge concernente la divisione del Territorio continentale della Repubblica Napoletana, p. 3246.

(83) Confr. il giudizio dell'«Antiquario renano» 1, 2. p. 184; i fatti dello Championnet in Napoli, ivi p. 190197, sono stati presi da P. Colletta, per lo più con le stesse parole.

(84) A tal classe di sfatatori apparteneva appunto il Cuoco che scrive, II, p. 70: «Si vollero inalzare delle persone da nulla; si vide municipe di Napoli Pagliuchella e capo di brigata Michele il Pazzo:così Caligola fece console il suo cavallo; si rese vile la carica, ed il popolo, invece di applaudire alla popolarità del governo, rise della sua insulsaggine.» Confr. all’incontro la qualificazione del d’Avelia nelle Vite degl’italiani: ecc. del d'Ayala p. 41-44.

(85) P. Colletta, IV 6, riferisce parecchi altri di tali discorsi.

(86) Proclami del Dufresse in data del 27 di gennajo p. Il segg., 1° di febbrajo p. 50, 2 p. 59; dello Championnet in data del 6 p. 61 segg., un duro decreto in XVI articoli. Poi in data del 7 p. 63 anche di lui: «Il 6»1 dato che turberà la vostra quiete sarà punito di morte;» ma anche il napoletano che offendesse un soldato francese sarà «archibugiato subito.» Del Dufresse senza data p. 63 segg. «Regolamento pel buon ordine dei teatri:» gli ufficiali doveano condursi a modo, non dar noja al pubblico, né disturbare lo spettacolo con eccessivi segni di applauso o disapprovazione.

(87) Maria Carolina a Maria Teresa 22 di febbrajo; confr. Palumbo LXVIII, p. 192: «Les français à Naples sont à peine 6,000, que chaque nuit le peuple en tue en les laissant entrer chez les femmes et là les massacrant, que de' cette façon ils en ont déjà tué plus de' 450 français, que la mer ensuite rejette.» Basterà dall'ultimo numero togliere lo zero?

(88) Proclami 31 di gennajo p. 48 segg. (del municipio: Bruno presidente, Moltedo segretario) e 5 di febbrajo p. 52, 7 p. 30 (governo provvisorio: Laubert presidente, Jullien segretario generale.