Su Giacinto De Sivo si può dire di tutto, a seconda delle simpatie o antipatie personali. Sulla rete se ne trova un vasto campionario che va da “Giacinto De Sivo. Uno scrittore fuori dal coro” a “Uno storico a senso unico: Giacinto De Sivo”. Osannato da chi rimpiangeva il Regno perduto e bollato come storico reazionario e inattendibile dai patriottardi, dopo oltre un secondo e mezzo dalla unità d’Italia un dato è certo: almeno chi ha a cuore la storia del Regno di Napoli non può prescindere dalla conoscenza della sua opera più nota: STORIA DELLE DUE SICILIE DAL 1847 AL 1861. Ne trovate varie edizioni in formato pdf sul web. Noi avremmo voluto pubblicare questa sua opera da tempo – vedi annuncio inserito su questo sito dal 2017 – ma il linguaggio aulico del testo e la mancanza di tempo ce lo ha impedito. Non crediamo di aver fatto un lavoro definitivo, magari prima o poi lo sottoporremo a revisione per correggere eventuali errori rimasti. Per notizie inerenti la vita dell’autore vi consigliamo di leggere: Per invogliarvi alla lettura riportiamo dalla prefazione dell’autore: “Io cominciai a scrivere su queste rivoluzioni nel 1849, quando esse teneansi vinte e depresse; e già stesi n’avea sei libri; ma per non parer di percuotere i vinti e inneggiare ai vincitori, non volli publicarli; anzi scrittovi su: da stamparsi dopo la mia morte, misili in un nascondiglio alla mia villa di Maddaloni colà quasi dimenticati. Dopo undici anni, nuovi eventi sconvolsero la patria nostra; la mia casa fu in settembre 1860 invasa di Garibaldeschi; e prima il Bixio, poi l’Avezzana, poi il Carbonella delli generali, con molto seguito vi stettero tre mesi, e lasciaronla vuotata d’ogni roba. Frugando da per tutto, quelli ospiti, discoperto il nascondiglio, m’avean pur quei manoscritti presi; e leggicchiandoli con dispetto né fecero stizzosi discorsi; il che rapportato a me in carcere, ebbi pensiero, e mi venne pur fatto, che per un po’ di mancia uno dei loro li derubasse a quei derubatori. Dappoi in questo sforzato esilio me li feci venire, né mi seppi tenere dal correggerli e continuarli; e sì lavorando ad ingrate memorie ingannar la noia della solitudine, e ’l dolore della patria perduta. Qui ebbi opportunità d’aver alle mani documenti uffiziali e singolari, interrogar persone ragguardevoli per età, grado, ingegno, e probità, de' quali molti furono operatori o testimoni; li ho uditi in disparte e a confronto, ho studiato scritti di tutti i partiti, ho notato quanto ho visto con gli occhi miei; e così de' fatti e delle loro cagioni parmi essere entrato bene addentro, né aver trascurata investigazione, né fatica, né cosa di momento taciuta.” Buona lettura e tornate a trovarci |
STORIA DELLE DUE SICILIEDAL 1847 AL 1861GIACINTO DE’ SIVOVolume Primo TRIESTE - 1868 |
Solendo i popoli tornar sempre agli errori medesimi, le lezioni della storia parrebbero non riuscire a niuno ammaestramento per l’umanità; nondimeno chi studia i fatti avvenuti vi trova in azione verità eterne e imperiture; perché siccome in natura tornan le piante e gli animali stessi riprodotti dal seme primiero, così nell’ordine morale, sendo una l’indole umana, si rinnovellano l’opere ne’ tempi, benché con altri riscontri d’eventi. Il passato è quello che avverrà. La storia insegna questo vero, quando pinge la seguenza dell’esperienze involontarie che l’uman genere va facendo ne’ secoli; laonde ella esercita sua potenza nelle opinioni contemporanee e posteriori, nelle opere governative, nelle sorti delle nazioni; dà norme di principii, di modi, di leggi; e mena le genti ver la perfezione sociale.
Pertanto chi scrive storia s’alza a giudice delle nazioni e de' loro reggitori, se ne fa ministro di biasimo e di lode, s’erge quasi a interprete de' santi giudizii di Dio: balda impresa che vuol magnitudine di mente e coscienza, e animo impavido e forte. Per questo i grandi narratori stan più su de' grandi operatori; e il magno Alessandro invidiò Achille, non per Ettore ucciso, ma pel canto d'Omero. Sebbene il dire sia men del fare, pur sovente il fare nasce da circostanze e fortune che spinsero in atto il valore: laddove il dire è parto di volontà, che, innamorala del vero, lo dichiara a malgrado di tempo avverso e di vendicative passioni. Il fare è più magnifico e lucente ne’ suoi perigli; il dire è in bui perigli più gagliardo per intrinseca virtù; il fare abbisogna di speciali condizioni umane; il dire in quantunque tempo può spiegare sua forza. Senza il ratto d’Elena non saria stato Achille; ma Omero, pur non cantando l’Iliade, avria dato altro poema divino.
E perché l’arte del narrare è difficilissima sopra tutte, veggiamo pochi scritti antichi trapassare i tempi, e giungere sino a noi; eppure oggidì le difficoltà sono più assai, che la moderna storia ha più impacci. L’antica poco si discostava dai fatti d’un popolo; dove oggi i fatti s’intrecciano e diramano in tutto il mondo, sicché devi toccarli di tutti. Più semplice era il governamento antico: meno leggi, minor commercio, non torchi, non telegrafi, non vapore, non eserciti stabili, eran uomini men verbosi, meno infinti, parlavan per manifestare non per ascondere il pensiero; oggi le vertenze internazionali per numero, per tenebre di dispacci, per bugie premeditale di giornali, per insidie cavillose di ministri e parlamenti, son dure a discifrarle, a confrontarle co' falli, a smascherarle; oggi l’analisi opprime la sintesi, e lo scrittore con molto più fatica fa opera d’arte men bella che gli antichi.
Ma s’è ardua impresa far narranza del passato, arduissimo è imprendere a dir falli recenti, contemporanei, di personaggi possenti, vivi, o spenti da poco, di famiglie presenti e molle, quando le passioni generatrici dell’opere fremono e infuriano ancora, quando biasimo e lode posson parere odio o adulazione. Lodi virtù e gloria, e hai nemici i viziosi e gl'infami, che se ne sentono ripresi; vituperi un tristo, e non pur lui, ma molti che tristi sono se ne credono rinfacciati. Smascheri certi iniqui potenti, e questi che a fare scelleratezze son pronti, s’indragano a sentirsele rampognare; sveli tradimenti e codardie, e gridan calunnie; encomii i magnanimi percussori di reità, o sofferitori d’ingiusti danni, e ti taccian partigiano. Cotai pericoli son maggiori in questi tempi di sette, le quali han prestabiliti i vanti e i vituperi prima dell’opere; e più son maggiori al giudicar vincitori e perditori; quelli, non che di biasimo, neppur di moderate lodi si contentano, questi vorrian delle patite sventure accagionar altri o fortuna, e sconfessare loro falli.
Oggi a spiacere a' potenti è più periglio che prima; perché i potenti da temere non sono già i reggitori legittimi degli stati; i quali non sogliono percuoter forte, e loro punizioni portai! sovente certa celebrità che non ispiace a chi fa libri. Chi scrive male de' re legittimi trova celebratoci, ed è messo in cielo, guadagna amici, lucri, soldi; ma guai a chi deve disapprovare cotesti Bruti nuovi, cicalatori di libertà! tosto è dilla malo, proclamato mallo o asino, gli si serra l’avvenire, sottostà a multe, a prigionie, ad esilii, né di rado a pugnali e veleni. I legittimi re poco apprezzagli scrittori, poco premiano, spesso li dimenticano; gl’illegittimi alzan gli scrittori a prefetti, a ministri, a dittatori. Laonde vedi numerose falangi di libelli contro i regnanti nati, che se tutti non son Tili, neppur son Neroni, e le li pingon mostri e tiranni; ma questo offenderli per dritto e per torlo, quel dirne false lordure e velenose, non è già risicoso coraggio, ma codardia impunita, voglia di subiti guadagni, facili rinomanze e pronte salite.
Parecchie storie uscite a questi anni fur doliate a tal fine; e furono congiure, non solo contro il vero, ma contro gli stati. Narrando il passato a rovescio, congiuravano a rovesciar l'avvenire. Han dentro un veleno ch'adultera ogni fatto; il vero s’è ostile allo scopo, taciono o smozzano, se giova allungano e incorniciano. Talvolta lodano il buono, ma con isforzo, e vi gittan di sbieco astiosa bava: talvolta condannano il male, ma con iscusanze speciose; negli onesti notan difetti, ne’ malvagi innestano idee alte; e da ogni caso buono o malo cavano argomenti all’idea preconcetta. Scrittori sono artifiziosi per ingannar l’avvenire, e far coperchio al presente; han l’assunto di gloriare ogni reo fatto con isplendide parole. Quindi odi uccisioni scusale per necessità, incendii lodali per virilità di comando, fucilazioni a migliaia delle salvatrici della società, insidiosi consigli appellali sapienti, assassinii e regicidii alzati ad eroismi; poi aspirazioni di popoli le usurpazioni, fonti di ricchezze gli enormi balzelli, civiltà progrediente gl’immorali costumi, purezza di cristianesimo il negar Cristo e percuoter la Chiesa. Così storta la verità, e il vizio in nugoli di laudazioni, il leggitore si trova immerso in un mondo ell'è negazione d'ogni idea buona ch'avea da bambino succhiata col latte. Ma, la Dio mercé, mai non si giunge a ingannar pienamente la posterità. Lo scrittore di cuor vendereccio, vigliacco o vendicativo non fa opera duratura; sempre il tempo diseppellisce gl’inganni, snoda gl'imbellettati vizii, e finisce col dar giudizio giusto. A che dunque i tristi van comprando celebrazioni ipocrite di poca vita? A che ammantar di porpora l’infamia? A che lo storico vitupererà la sua penna a pro di caduchi oppressori? meglio perigliar pel vero eterno, che fruir corte onoranze per menzogne.
Oltre a questi, la storia contemporanea ha pure altri scogli. Sondo molti testimoni e operatori vivi, ciascuno s’avvisa sapere; e quel che legge, se gli è ignoto mette in dubbio, se il sa vi trova mancanza o eccesso, l'operato o il visto da lui crede di momento, e lacera lo scrittore. Ma la storia non può giudicar da ogni parziale latticello, bensì da tutti insieme; sorvola sulle minuzie, e fonda il pensiero sintetico sulla importanza complessiva. Sono inoltre i recenti fatti per vicinanza difficili a chiarire, siccome un gran monte veduto troppo da presso non bene spiega al guardo suoi contorni; però meglio saria discostarsi col tempo per saperli e giudicarli; meglio lo scrittore con gli anni si spoglierebbe delle idee plateali, e de' loro echi, per ponderar gli avvenimenti nudi, in lance d’eterna giustizia. Gli è grande difficoltà lo smettere i pregiudizii che la condizione, gl'interessi, le simpatie, e pur le trepidazioni e le speranze, facendogli cerchio all'animo, il posson muovere e annebbiare. La poesia tutta passionata ha pregio dagli affetti vivi, perché ella con finzioni manifesta e abbellisce generali verità ed ideali virtù; ma la storia può aver danno dalle passioni del narratore, perché ella è soprattutto di verità particolari e di personali opere raccontatrice.
Nulladimeno s’avrebbe per questo a rinunziare alle storie contemporanee? E se i contemporanei tacessero, potria la posterità sapere e giudicar del passato? saria buon servigio alla verità il lasciarla andar zoppa e guasta dalle impiastrale narrazioni correnti?E morti i viventi operatori e testimoni, come in altre età trovare le segrete cagioni de' fatti? Rinunzieremmo alle opere classiche di Tucidide, Senofonte, e Cesare contemporanee? e a' nostri Machiavelli e Guicciardini e a tanti altri sommi?
Né in tutto è vero dover la storia affatto svestirsi di passioni, né pur saria bello averla secca e nuda. Vedesi da' dettali di tanti ingegni ella pigliar sempre l’indole e il colore del tempo in che è scritta, né aver macchia datai sua necessaria condizione. Suo ufficio è il muover gli affetti a pro del bene e contro il male, far questo abborrire, quello amare. Buona è l’indignazione all’ingiusto, buono infamarlo. Buono difender l’innocenza percossa, e farla simpatica benché infelice. Né solo si deve dire il vero, ma dirlo con tal passione che giovi alla virtù, e dannifichi la colpa. Se così passionata non fosse, la storia non saria degna del suo scettro. Mìsero lo scrittore che noi senta, più misero il lettore che noi pregi!
Perché il passionarsi non trasmodi, v’è norma sicura, la drittezza messa da Dio nella coscienza del genere umano; quella drittezza antica che servì per quattromil'anni a giudicar gli umani eventi, cui oggi indarno l'andazzo de' tempi rinnega. Inspiriamoci nella dritta coscienza, e non erreremo; ché sedi presente spiaceremo a’ nequitosi, piaceremo a' buoni e a' posteri. Quando l’età baldanzosa non farà più nebbia agli intelletti, quando il Signore avrà affralite le mani de' tiranni, resterà il ricordo genuino delle perpetrate tristizie. Oggi è debito nostro dire il vero a chi tocca; e altri si lamenti delle opere sue, piuttosto che di chi verissimamente le narra. Che se guai incontreremo, né sarà conforto il saper di non meritarli, e ’l poterne nell’animo interno trincerare; s’è vero, come disse Marco Aurelio, che mente libera di passioni sia pari ad altissima rocca.
Io cominciai a scrivere su queste rivoluzioni nel 1849, quando esse teneansi vinte e depresse; e già stesi n’avea sei libri; ma per non parer di percuotere i vinti e inneggiare ai vincitori, non volli publicarli; anzi scrittovi su: da stamparsi dopo la mia morte, misili in un nascondiglio alla mia villa di Maddaloni colà quasi dimenticati. Dopo undici anni, nuovi eventi sconvolsero la patria nostra; la mia casa fu in settembre 1860 invasa di Garibaldeschi;e prima il Bixio, poi l’Avezzana, poi il Carbonella delli generali, con molto seguito vi stettero tre mesi, e lasciaronla vuotata d’ogni roba. Frugando da per tutto, quelli ospiti, discoperto il nascondiglio, m’avean pur quei manoscritti presi; e leggicchiandoli con dispetto né fecero stizzosi discorsi; il che rapportato a me in carcere, ebbi pensiero, e mi venne pur fatto, che per un po’ di mancia uno dei loro li derubasse a quei derubatori.
Dappoi in questo sforzato esilio me li feci venire, né mi seppi tenere dal correggerli e continuarli; e sì lavorando ad ingrate memorie ingannar la noia della solitudine, e ’l dolore della patria perduta. Qui ebbi opportunità d’aver alle mani documenti uffiziali e singolari, interrogar persone ragguardevoli per età, grado, ingegno, e probità, de' quali molti furono operatori o testimoni; li ho uditi in disparte e a confronto, ho studiato scritti di tutti i partiti, ho notato quanto ho visto con gli occhi miei; e così de' fatti e delle loro cagioni parmi essere entrato bene addentro, né aver trascurata investigazione, né fatica, né cosa di momento taciuta.
Nondimeno avrei bramato tenere ancora altri anni il mio lavoro, per pubblicarlo in meglio accomodali tempi, più terso e compiuto; ma gravi considerazioni m'han sospinto in contrario. Veggo lo strazio del vero che si va facendo da scrittori rivoluzionarii, per inghirlandare loro trionfi e calunniare i depressi, veggo il reame nostro non pure asservito ma condannalo a tutte onte da' suoi saccheggiatori; odo le scelleratezze passar per fatti mirabili, la nazione nostra sfatata, noi pinti al mondo quasi barbari e meritevoli di questa vile sorte che appellano libertà; miro con isforzate luminarie costretti i Napolitani a celebrar loro catene, e a ringraziare pubblicamente Iddio, e con la patria perduta inneggiare alta patria redenta. Che più aspettare? La causa della patria nostra è quasi per le delle fittizie cagioni in mala vista; e gli stranieri, avendo poche buone scritture per sapere i fatti napolitani, non sempre né giudicano male per malignità, ma più spesso per ignoranza del vero; onde mi sembra necessità uscire dal silenzio, e per cari là del natio loco risicar la pace e la salute della mia persona. Adunque risoluto a lanciarmi in quest’onde perigliose, dò a stampa quest’opera, ch’era falla pei figli nostri; e presto la dò, perché non paresse dubbiezza, o pusillanimità, o temenza di sfidar le testimonianze degli uomini viventi.
Un’altra spinta m’ebbi considerando i grandi mali non esser duraturi, finire un dì queste ruine, la patria aversi a ricostituire. Allora Dio non voglia si rinnovellin gli errori passati, che, sebben non gravi, pure da' nemici aggravali fur pretesto ed esca agli incendii. Scrutar quelli errori, dichiararli in giusta misura, farne dirò quasi esame di coscienza, e confessarli, sarà bene non punto minore dello smascherar le calunnie; e saria sconcio il tacerli o il coprirli, perché la verità n’esca intatta e piena, e perché lo eccesso né dell'accusa né delta difesa non deturpi la imperturbabilità del racconto.
Avvegnaché io narri le rivoluzioni dal 1846 al 1861, pur sendo esse state né spontanee né improvvise, ma partorite da remote insidie, m’è necessita toccar delle precedenti, e inoltre ricordare i principii della setta mondiale; però chi questi tralasciar volesse potria cominciar sua lettura dal secondo libro, e tenere il primo come prolegomeno dell’opera. Compenso tal lunghezza con brevità di dettato.
Contrascrivere a' nostri tanti detrattori non intendo, ché non Ib polemica, ma storia; a questa non aggiungo documenti in fine, per non aggravarne di molti volumi la mole; de' rari dò chiara notizia, de' comuni ciascuno può far cerca; dicerie lunghe lascio, delle importanti dico il succo. Scrivo semplice e piano, con ingenuità che narri il vero senza ornamenti; appellerò le cose co’ loro nomi antichi. Oggi che a turpi fatti si pongon bei nomi, son diventati santi i vizii, sicché a' buoni si fan vituperevoli le soavi parole che già significavan cose oneste e virtuose. Restituiamo noi mondi tai nomi, discostiamoli dalle iniquità; e queste guardiamole in viso nude quali sono, sinché la Provvidenza lor non dica basta!
Forse sarò dispiacevole ad altri, come a me stesso, a non poter passare tante nefandigie d'uomini che parean Catoni; dover favellar talvolta di pecunia data o presa, di disfatte, di tradimenti, di codardie, di doppiezze, d’insidie, con danno di popoli, con ruine di robe, con sangue d’innocenti, con istragi funeste, che il cuore strazieranno e agghiacceranno ad ogni anima bella. Debbo dire trame di più lustri, arti nefande di stranieri, sforzale guerre civili, saccheggi, arsioni, fucilazioni, rapine; un esercito manomesso, non da nemico ma da' suoi duci, e stremato a sorso a sorso; una flotta rubata, un regno distrutto, carceri piene di onesti, galeotti carceratori, masnadieri trionfatori; chiamarsi patriota il disertore, il patriota brigante, straniero lo indigeno, fratello Io straniero; vantala l’arte della spia, nere colpe premiate per virtù, virtù punite in tutte guise, derisa la Fede, percussala la religione, e sempre sofismi e menzogne, per far perdere sin l’idea del dritto e del vero.
Non mancano elogiatori a tanti mali; ma son come chi, nulla tenente, ha saputo nella universale ruina trovare una pietra per adagiarsi; o chi al calore immenso d’un incendio scalda sua vivanda. Costoro il cristiano commisera, lo storico maledice. Me certo diranno partigiano; ma partigiano è chi per sette con venduta penna sconvolge e mistica la verità; non chi libero difende l’umana ragione dalla tirannide del mendacio, e rivendica la ragion dell’eterno dritto universale, insozzala da serpentina bava, sbranata da leonini artigli.
Io da' legittimi governi non ebbi favori mai né alto uffizio; ebbi anzi note ingiustizie, e sin negala la mercede a mie fatiche; però uhm interesse me spinge a dispogliarli dalle calunnie. o a coprirne gli errori. Spiacerò agli uomini delle rivoluzioni, e a quei pure del dritto; perché gli uni e gli altri, sebben con misura e modo diverso, fallarono. Ma la lode e ‘l vituperio vengon da fatti. lo libero da odio e da amicizie, narrerò imparziale, con animo franco da paure e da speranze; anzi con ferma speranza di non aver paura. Che se mio malgrado erri per ignoranza o debolezza, non né vada tutta la colpa alla peccabile natura umana, ma anche alla presunzione di chi osando levarsi a giudice de' suoi tempi; ha mestieri esso stesso di giudizio o di condanna.
Roma, 1. ottobre 1863.
Queste terre dopo i Romani ebbero principati, e al 1130 la monarchia. Prima furono re Normanni, poi Svevi, Angioini. Aragonesi, Austriaci e Borboni. La feudalità surta co' Barbari, necessario freno all’anarchia, potentissima dal trecento al cinquecento, calò intristendo, e all’età dei nostri padri finì. Per quella nel reame avemmo disparità di ordini, altri percussori, altri sofferitori, moderati solo dal potere regio, quando la superiore Italia avea minori disuguaglianze di ordini, e reggimenti popolari, con gelosie di municipii, e gare cittadine, i popoli nostri, tartassati dai baroni, speravano nei monarchi, e stavan cheti e uniti. Ma quelle molte repubblichette, fatta a ritagli l’Italia, furono lungo tenzonar fratricida, cui sol dava posa il furiar dei tirannelli che le spegnevan sovente; sicché, fra le tirannie dei molti o de' pochi, il viver libero era una irrisione prima ancor che finisse l’indipendenza, la quale, perché dilaniata e strema la nazione, si perse al primo irrompere dello straniero. Quei governi a popolo eran conflitti, sperpero del presente, incertezza del dimane, tramare, esiliare, confiscare, uccidere, vendicarsi, e poi retaggio secolare d’odio e sangue. Libertà il vezzeggiar la plebe e percuoterla. la indisciplinatezza delle passioni, il cozzo di tutte volontà, dove il forte e l’astuto schiacciava il debole e il bonario, dove neppur nel Santuario era sicurezza. Si sguainavan leggi per ira, e ogni dì se ne faceva in piazza per rifarle a rovescio poco stante, e a niuna ubbidire, ma alla forza. Mostra di libertà, e servitù atroce.
Siffatta pianta di libertà mai nel napolitano mise radice. In contrario i baroni tiranni a' vassalli, spesso ribellavano a re. Questi alle prese con esso loro, avean forza dalle popolazioni; siccome queste nelle miserie ricorrevano ai monarchi; però ordine e giustizia turbati da' grandi, avean sostegno solo dal trono, onde fra popolo e re era una medesimezza d’interessi, e colleganza e fede. Le dinastie normanna, sveva e aragonese battagliaron di continuo co' baroni, e vinserli più volte con armi regnicole, ma furono esse vinte dalle, chiamate da' baroni, arme oltramontane. Solo la razza angioina, che li divise e blandi, durò più, asservì il paese, ammiserì lo stato, e preparò quei due secoli e mezzo di viceregno e ubbidienza a Spagnuoli e tedeschi, che né spensero ogni prosperità. S’è visto sempre, e sin oggi, che niuna rivoltura riuscì nel reame, se non con arme straniere.
Dal servaggio viceregnale né riscattò nel 1751 Carlo Borbone, venuto da Spagna per diritto di successione. Ei rifece il regno indipendente, e ricominciò nuovo stato, con sicurtà, industria e ricchezza. Cancellò tutte interne discordie; lini i dissidii con Roma tra sacerdozio ed imperio; fermò i diritti regii con solenne concordato; primo diè un codici: di commercio, creò la Deputazione di salute. Proteggitore delle arti attestante la reggia e i giardini di Caserta, i ponti di Maddaloni, i palagi di Portici e di Capodimonte, i diseppelliti Pompei ed Ercolano, ed in Napoli le strade del Mote e Mergellina, il Museo, l'Albergo de' poveri, i Granili, il gran teatro S. Carlo, e le fondate accademie. Ei tra noi pose fine al medio evo. Con leggi consacrò i principii del diritto comune e per non urtar dei diritti preesistenti costituiti dal tempo, lasciò anche al tempo il disseccamento della pianta feudale, quasi vizza e barcollante. Procedé non con azione diretta, ma dando vita a nuove forze sociali. Non percosse, non osteggiò, non abbassò il baronaggio; ma diè spinta agli ordini; sicché in breve quello restò minore, e nel conflitto le comunità avvantaggiate andavan sopra. Anzi i baroni onorò, se li chiamò accanto, con esca dello sfarzo li distrigò dai castelli, li svestì delle forme scherane, li fe’ spendere a corte, e guadagnar lindura, idee e civiltà. Cotali cagioni, e il subito divampare del napolitano ingegno, e la energia delle non più spregiate leggi, così ammortirono la feudalità, che già boccheggiava, quando la scoppiata rivoluzione di Francia die’ le vertigini a' popoli e a' sovrani. Questi per tema si fermarono a un tratto, né volean più dar nulla; quelli per foga corsero a furia, e tutto vollero a un colpo. Patimmo la conquista, e dieci anni di Francesi. Pertanto le leggi nuove, riversive de' feudi con un taglio riciso, non isfuggirono l’odiosità dello sforzo; dove con poco altro ei sarebber venuti meno per civiltà progrediente, per virtù naturale dell’età. Allora i baroni stati oppressori, con fatale scambio furono oppressi, e anco in parte spogliati. Spenti essi restò il trono e lo scettro che agguaglia i dritti di tutti; il che fu la libertà voluta da' Napolitani.
La consuetudine al principato, otto secoli di colleganza fra re e popolo, la gratitudine e la simpatia, fan qui della monarchia un sentimento, che s’afforza negli affetti, nelle tradizioni, negl'interessi e nel bisogno del paese. Essa è te Stato nostro conveniente. Le menti Napolitane se n’eran convinte, che nel comunal pensiero re significa giustizia, repubblica subuglio; perlocché sebbene altri di fuori speculasse con sette e cabale a porre in questo paese qualche radice, avvizzì, per mal concio terreno. A’ tempi ultimi la nobiltà, paga di entrare a corte, e d’aver giuste ricchezze e moderate leggi, fu quasi tutta pel trono; e la bassa gente era sì al trono devota che poco più l’era alla religione. Fidava nel re come pregava Dio; né sapea più. Nella mezzana classe serpeggiava meglio il veleno straniero, il sofisma, e la erudizione sbiadita, e si levava a desiderii di subite salite, e pigliar nome e uffizii, onde smesso il freno religioso, vagheggiava forme di governo dove di leggieri potesse entrare. Costoro in ogni paese aspirano a novità, e insorgono, potendo. Ma qui potean poco non essendo gente d’armatura.
Guatando il passato luccica meglio questo vero, ché in tutte commozioni popolari trovi la devozione al re. Sicilia nel dugento ammazza a suon di vespro i Francesi dominatori violenti, e grida re lo Aragonese, erede della dinastia legittima. Napoli al cinquecento si leva contro il viceré Toledo, che volea l’inquisizione, ma co' viva a Carlo V. Nel seicento insorge con Masaniello contro i balzelli e la baronia, e pur grida i viva al re. A tempo de' genitori nostri, al sentir Francesi, i popolani nudi e senz’arme, combattonli co' sassi tre dì; e poco stante al veder repubblica vengon da tutte provincie in massa con un prete in testa a schiacciarla con quella rabbia che né fe’ si tristo e famoso l’anno 1799. Quando poi Napoleone frustava mezza Europa, solo Calabria dice no sdegnosa, e sforzata ma non doma dà il sangue pel suo re lontano. Nel 1840 il popolo lasciò i settarii soli ad Antrodoco. Nel 1848 la rivoluzione mandata e attizzala dallo straniero fu spenta con arme patrie. E nel 1860 la nazione, conquisa dà oro e ferro estero, a lungo riluttò; e inerme e in ceppi ancora rilutta. Ne’ Napolitani la monarchia patria è religione.
Queste verità son dure a' novatori del paese; ma sorretti da quei di fuori non hanno scrupolo di porre in fuoco la patria, e darla a mangiare a' forestieri. Oggidì le rivoluzioni suscitate in tutti i regni hanno una, anzi unica cagione, la setta. Ancor v’ha chi crede i rivolgimenti seguiti da ottant’anni in Europa fosser per circostanze di ciascun stato, non per trame generali premeditate da un concetto. Danvi cagione il mal governo, la oppressione, i balzelli, la poca libertà, e altro; credono il governar bene, le buone leggi, e la piena libertà abolirebbero le rivolture. Dicono chimere le società segrete; Massoni, Filosofi, Illuminati, Giacobini, Carbonari, Mazziniani, Unitarii, nomi da spauracchio, le sette, anche fossero, non aver forza da sollevar nazioni; e addebitano piuttosto al caso che alla settaria possa le ruine rivoluzionarie. Altri sono che non negano un po’ di premeditazione, ma sputan sentenze: le intenzioni esser buone, le idee voler trionfo di virtù, e la società rigenerata; i mali essere insiti alle mutazioni, dopo la tempesta venire il cielo netto e bello. Però guerra civile, saccheggi, arsioni di città, uccisioni d’innocenti non li spaventano, ché tai disordini dicono menare ad ordine duraturo.
I settarii poi, se in disgrazia, negan la setta; se in fortuna né menan vanto. Ricaduti rineganla sempre. Ma v’han di essa documenti innumerevoli: confessioni, rivelazioni, catechismi stampati, riconoscimenti in legali giudizii, libelli proprii, e celebrazioni. Si riuniscono in segreto ove stan sotto, in palese ove stan sopra; si riconoscono in capo al mondo, sì sorreggono, s’aiutano, si spingono alla preda concordi; ma abbrancatala se la stracciano, si insidiano, si sbugiardano, si accusano e si pugnalano a vicenda. Vediam tai sette cambiar nome e forme; ferite risanare, percosse reagire, schiacciate rinascere, e sempre con uno intento: colpire chiesa e trono, pigliare la potestà e la roba, e surrogare alla legge del dritto quella della passione. Dicono voler libertàed uguaglianza, ma le voglion per sé; voglion sugli altri l’arbitrio e la dittatura. Falli a un modo in tutte parli, con un programma, divampati contemporanei a spartirsi la terra.
Il volgo s’annoia a pensare, e volentieri s’acconcia alle idee altrui; così pochi scaltri fanno l'opinione che si dice pubblica, e partorisce ruine. Molti negatori delle sette son come settarii, che né riescono stupidi strumenti, e imboccati né ripetono i motti in piazza; plebe essi, persuadon la plebe, che n’è tanta al mondo; e con vaghe parole seminan ree dottrine. Voglion parer saputi, e son zimbello di furbi. Servonli a bocca come eco, a dar novelle false, a infamare la potestà, e a denunziarne i fatti, a farla parere esosa e insopportabile. Dichiarato malo il governo, suscitato il desio del nuovo, e l'ansia del ribellare, la setta domanda prima giustizia, poi riforme, franchigie, costituzioni, costituenti, armi, castelli, e tutto; ma fa fare a quei sori gridatori; e se plaudisce a parziali mutazioni, il fa salendo un altro piuolo di quella scala, che mette al pieno mutamento della società. Questo vuole. Essa oggi è forte, vincitrice, ha in Italia il dominio, ma non riposa; si abbevera di vendette. ma non si sazia; va dritto sempre innanzi.
Informate e mosse le ultime rivolture dalle segrete società, non potrei di quelle far limpida storia, se di queste non notassi i nomi, gli autori, i dogmi, le leggi, l'opere, gl'incrementi ed i trionfi. Però brevemente dirò di ciascuna, e ’l loro confederarsi, e succedersi, e il divampar di tutte insieme,lo sforzato rintenebrarsi, e l’improvviso risfavillare. Gli uomini operano per le idee che hanno, un’idea moltiplicata si chiama opinione, e si fa potentissima; ond'è degli onesti ed avveduti l'addrizzarla sul giusto. Che se l’opinione sinistra prevalga, e cresca, e corra come sinora, allora le trame e le menzogne settarie indorate di parole brille appellanti alle passioni, comprimeranno la ragione, il dovere, ed il bello; cadrà allora ogni religione, quale che sia, e ogni presente ordine di stato; sacerdozio, scettro, milizia, magistratura, ricchezza, nobiltà, tutto. Sparirà anche la proprietà: non campi chiusi, non termini, non palagi, non capanne; tutto è di tutti niuno, non pur mogli e figli saran nostri, si perderà la nozione di Dio. Queste verità sovente qualche animoso predisse, non creduto abbastanza, malgrado le insidie svelate dagli esecrandi fatti visti con gli occhi, e più volle rinnovati. Or se dopo l’ultime sperienze le nazioni non s’adergono a difesa, i nati o i nipoti nostri piangeranno, e indarno.
I Massoni, ovvero liberi muratori, antichissimi sono. Avean riti, formole, misteri, gradi, cifre, emblemi, conciliaboli, leggi, gergo, segnali ed enigmi. Dicean misteriosamente loro scopo essere la ricostruzione del tempio di Gerusalemme e il vendicar non so chi uomo morto or fa duemil’anni; ma con tai motti velavan ricostruzioni e vendette ben altre. Non appieno empia da principio, la setta mostrava morigeratezza; chiamava suo Dio il grande architetto dell'Universo, ammetteva un Dio doppio, e aver certe scuole di Teosofia a suo modo: atea non voleva parere. Allora poco operosa, né molto temuta, progrediva lenta, lavorando a spiegar geroglifici di cui diceva perduta la chiarezza. Stampò il libro delle sue costituzioni la prima volta a Londra nel 1723 un Guglielmo Hunter; il quale notava a quel tempo colà venti adunanze di Massoni, addimandate Logge; di cui ciascuna mandava un deputato alla assemblea generale a eleggere il superiore, detto in gergo il Grande Oriente. Faceva montare suo principio da re Salomone, e pur da Mosè; e aveva posto radici in tutti i regni. Eran Logge di varii riti, con più classi: garzoni, scolari, compagni, mastri, e altri uffiziali variamente denominati; né quei di una ascendevano ad altra classe, se non dopo prove di lealtà all'ordine, e così per gradi si poteva salire a' supremi misteri. Ogni classe avea segnali distinti per riconoscersi: toccamenti di mano, moti di dita, parole, sillabe, ed altro. Le ammissioni dei candidati, e le promozioni seguian nelle Logge, con forme da ciarlatani e profanazioni di cose sacre. Imprecando sul Crocifisso giuravan tre patti: segreto, ubbidienza, e vincolo d'unione. Il perché di tanto giuro non si svelava, se non a primi; a' bassi e ai profani dicevano studiar la pietra filosofale, la meccanica, l’architettura, e il modo da redimere (’umanità dalle miserie. Nulladimeno quel mistero non restò arcano alla Chiesa. Papa Clemente XII a 26 aprile 1738 scomunicava la setta, minacciava punizioni corporali; e a 14 gennajo 1739 comminava pena di morte a qualunque facesse parte di quelle Logge perniciose, sospette d'eresia e sedizione. Né cessando il danno propagatore, Benedetto XIV a 18 maggio 1751 ripubblicava le bolle precedenti e riconfermavale. Più in qua anche Pio VII, e Leone XII pregarono i monarchi di comprimere le sette. Questi anzi a' 12 marzo 1825 forte li ammonì tutelassero non solo la religione ma la incolumità loro e dei popoli, reprimendo i settarii. I re a esempio dei Papi emanaron leggi simiglianti; Vienna nel 1754, Spagna e Napoli nel 1751, Milano nel 1757, e quasi tutte le principali città in varii tempi. Anche il Turco nel 1748 ordinò s’ardessero le case ove fosser logge di Massoni. Ma in fatto poco operarono: e la setta de' lievi rigori si ridea, procedendo segreta, mascherando l’opere e i pensieri, oltre che avea suo nido e rifugio costante in quella Inghilterra che del foco struggitore d’Europa fa ripostiglio, né parche paventi. E Francia che della inglese nazione sembra rivale, e cui pur cade spesso a copiare, imitavala dubbiosa, or ridente or temente di quella Massoneria che covava in seno, e che presto,da un suo Parigino nutricata d’empietà, doveva fare in lei sue prime prove.
Francesco Arouet, nato a Parigi il 20 febbraio 1694, da un notaio del Castelletto, prese di buon ora l’assunto di combatter Dio, e fu il primo a pensar d’usare il lavorio della setta. Empio di animo, di passioni smodato, di bello ingegno, ma poco sapiente, scrisse d’ogni cosa, di niente con dottrina. Soleva dire: co' libri si fan libri, e veramente i concetti altrui con brioso stile faceva suoi, e divulgava. niuno pertanto die’ fuori più scritti, niuno più lettori ebbe. Volea parer filosofo; natura fecelo poeta; e s’ei la poesia usata avesse, com’ella vuole, nella manifestazione della bellezza, forse Francia vanterebbe lui come Corneille e Racine. Ambiziosissimo, volente celebrità ad ogni costo, mutò nome in Voltaire, che pur troppo fu celebrato. Giovine aveva scritto satire e s’era fuggito in Inghilterra, sede allora della filosofia de' Collins ed Hobbes; la quale voleva alzare la ragione umana sopra la religione, onde rigettava il mistero inconcepibile, la rivelazione e tutta la Fede cristiana. Voltaire ne fu preso, invidiò a rovescio la fama del Bossuet, invidiò Cristo e gli Apostoli, e aspirò a rinomanza uguale col diroccar l’opera divina. Concepì e die’ principio alla congiura contro il Cristianesimo, e seguitolla tutta la vita, ch'ebbe lunga. Lutero e Calvino avean fatto guerra a taluni dogmi, ei la fe’ a tutti. Stimò pregio non lo edificare, ma il distruggere; quasi avesser gloria uguale il Vandalo che spezza i monumenti, e lo artista che li creò; quasi le tenebre abbian pregio come la luce; quasi il mestier del sedurre al male pareggi la virtù del trarre a bene. Apostolo voleva essere, disfacendo l’opera degli Apostoli; e favellando di ragione e di virtù, iroso combatteva la religione delle virtù eminenti. Gloriando il vizio, che è più facile a persuadere, con oscene scritture stuzzicava brutali passioni, e aveva plausi. I suoi scolari dicevanlo semidio.
Fra questi è primo un potentissimo dell’età. Federico II di Prussia, re protestante in terra protestante, vide lo scopo acattolico del Voltaire, e piacquegli quel cervello. Non sospettò avesse a dar frutti amari a' troni. Scrittore anch’esso, stampava: errore popolare il Dio incarnato, favola il Cristianesimo, fanatismo la religione, pascolo di menti frivole e paurose però lodava il Voltaire d’esserne il flagello, l’aizzava, il consigliava. In ricambio questi appellava lui Salomone del Nord. Lo esempio di tal re di corona, potente guerriero e vantato dotto, rattenne le mani punitrici degli altri monarchi, affievolì gli anatemi della Chiesa, e die’ impunità a' Filosofi congiunti a' Massoni.
Terzo a quei due fu un trovatello, nato d’amori incestuosi di monaca apostata, detto Giovanni Le Rond, dal nome dell’oratorio sulla cui soglia fu trovato la notte seguente al 17 novembre 1717. Cresciuto dalla carità della Chiesa, pagò il benefizio col farsene percussore. il mondo conobbelo d’Alembert, ché anche esso mutò nome come il maestro; lui per odio a Dio pareggiò, superò per malizie ed insidie; ma la setta dicevalo il Sardo! Si scelse cooperatore il Diderot, uomo d’intelletto dubbio, or ateo, or materialista, or deista, ora scettico, empio sempre; il quale filosofando conchiudeva tra lui e il cane esser sola varietà di vestito.
Cosiffatti quattro uomini congiurarono contro tutte le religioni; ma Cristo chiamaron per antonomasia L'Infame. Abbattete l'infame era il motto. Voltaire tenzonatore, sconfitto cento volte, altrettante con viso da vincitore tornava all’assalto; Alembert astuto, fuggente la pugna, feriva nascosto; Federico di natura doppio, re ed empio, or coperto ora aperto, poneva nella congiura uno scettro; e Diderot, esecutore senza rimorso, era coltello ove il volgessero. Secondi a dovizia trovarono. Condorcet, Turgot, Brienne, Lamoignon, La Metrie, La Harpe, Bayle, Raynal, Damilaville, Elvezio ed altri. Federico dava danari, premii, onori, ed asilo; prestava i torchi prussiani, agevolava lo spaccio de' libri clandestini, comprava, incoraggiava; scrittore egli, irrigava di lodi gli scrittori empi, e in altri sovrani instillava suo veleno. Così creavano, divulgavano, sforzavano l’opinione; niuna cosa era dotta se non empia, niuna bella se non oscena, niuna virtuosa se non passionata. Essi pochi s’atteggiarono a genere umano; calunniarono il passato, manodussero l'avvenire, l’ateismo facean parere civiltà nuova. Congiura fu: mutamento di nomi, favella enigmatica, soccorso vicendevole, mistero, unione, pervicacia, tristizia, tutto ebbe di setta. Cominciò a mezzo il secolo passato.
Sapendo contro Cristo non bastar forza, misero ingegno a guadagnar gli animi e le menti, con rivoluzione d’idee, lenta, insidiosa, che facesse via all'incredulità in tutti gli ordini sociali, e pur negli eserciti e nelle torli; perché, dicea Federico, minar l'edifizio sordamente vai farlo cadere da sé. D’Alembert concepì l’enciclopedia, come mezzo a spargere l’ateismo nel mondo. Annunziolla con magnifico discorso, dove i pensieri del Bacone e d’altri ingegni travestendo, faceva suoi; e mostrando di grandissima utilità all'umana sapienza quell'opera, seppela far parere stupenda. Disserlo dizionario universale di tutte cognizioni, e scienze ed arti umane, da valere come compiuta biblioteca. Portavanla in cielo i congiuratale trombe della fama predicaronla da Battro a Tile. V’avevano a scrivere i più eminenti pensatori: scienziati, artisti, economisti, teologi, prelati ed altri, i cui nomi davano a ragione guarantigia di bene. Ma i compilatori sepper fare: ad ogni articolo religioso metteano accanto il veleno dell’incredulità; talvolta parean difendere la fede, e vi pingean lucenti gli assalti; talvolta fiacca la difesa, gagliarda l’offesa, più spesso l’offesa era nella mala difesa; sempre fra rosee labbra il dente. Con ipocrito cipiglio sparnazzarono quanto in ogni tempo s’era inventato contro il cristianesimo. L’enciclopedia fu immenso magazzino di sofismi, e calunnie, vestite magnificamente come prostitute, per allettare la comune; fu render la dottrina volgare per darla fiacca a tutti, fu adusar gli animi al dubbio e alla negazione, e mandare alle venture generazioni in poca scienza il latte di presuntuosa ignoranza. I Massoni presentendo il cader degli altari trar con essi i troni, s’unirono a' Filosofi, e con migliaia di braccia abitaron la barca. Miriadi di scrittorelli uscirono a laudare, Voltaire isquillava sue trombe, Federico raccomandava e pagava, la moda che in Francia è tiranna, e sbranca pur fuori, tutte cose furono da alzar quel dizionario a quasi unico studio del tempo. Esso svoltava la idee secolari di pietà, di morale e di credenza; seducea giovani e donne, grandi e bassi, dalle reggie a' tugurii, dalle città alle cascine; mestava un ribollio, un furor di passioni da prorompere in iscoppio satanico, sin allora inaudito fra' fasti della malvagità.
Il Montesquieu nel suo Spirito delle leggi, uscito nel 748, avea dichiarato: ogni uomo essere libero, doversi da sé governare; schiavi i popoli retti da principi, star nel popolo la potestà legislativa; questa usarsi per rappresentanti. Tai principii tratti dalla costituzione inglese, indicati a base di dritto pubblico, aggiunsero il politico al fermento filosofico e sociale; gran pretesto al progredire. Sovr’essi più edificò il Rosseau Ginevrino; e nel 1752 die’ fuori il suo Contratto sociale, con progredimento d’idee; perocché da quei principii traeva: il popolo esser solo legislatore di se, solo sovrano, infallibile nelle sue leggi, superiore ad esse; i re esser magistrati provvisorii e revocabili; meglio non averne; volersi assemblee popolari, sovrane, legislatrici; e conchiudeva la religione di Cristo contrariar lo spirito sociale. E scrisse pure: malfattore quel primo che, chiuso un pezzo di terra, disse è mio!
Adunque tre uomini furono i motori primi delle rivolture moderne, l’un dall'altro diversissimi. Empio il primo, avria voluto monarchia, se questa permessogli il congiurar contro Dio, gli avesse data libertà di bestemmiare ne’ libri; il secondo, nato nobile, voleva rappresentanze aristocratiche; e il terzo, fìgliuol d’artigiano, predicava democrazia e comunella. Ma senza Voltaire gli altri non facevano; ché pochi avrebber osato assalire i re cristiani. Congiunti i seguaci di tutti e tre a' Massoni, presero insieme a persuadere al mondo Dio esser fola, e tiranni i monarchi. Brevemente sclamavano in cattedra: Gli uomini uguali e liberi figli della natura, donno seguire il lume della ragione: la religione sottomette la ragione ai misteri, fa gli uomini ciechi e schiavi; lo stato fatto di ordini diversi dissagguaglia gli uomini dalla natura agguagliati; si distruggano questi ordini, si gitta l’impero religioso, e l'umanità sarà redenta a libertà e uguaglianza. Cotai pensieri seminati fruttificarono, e, mutate sembianze e parole, li vediamo sfuriar superbissimi ai tempi nostri.
In pochi lustri la congiura le larga rete, e seguaci innumerevoli, all'esca d’onori accademici, di celebrazioni letterarie, di cariche lucrose, e pur di carezze principesche. Con mansuetudini di sorrisi, e baciamani, ed astuzie eran riusciti a entrare in ogni parte. Nelle reggie, nelle case grandi, negli eserciti, ne’ governi sedean settarii. Precettori, ai, cattedratici, balii, duci, imperavano in magistratura, in amministrazione, nei consigli dei re. I re anzi andavan primi. Tutto era novazione, tutto parve intento a far della terra eliso. I Luigi XV e XVI di Francia, Giuseppe imperatore. Leopoldo di Toscana, e Ferdinando IV di Napoli ciecamente correano innanzi, e si fecero iniziatori di quei mutamenti civili e religiosi, cotanto allora celebrati, che detter poi sui cardini della società, che tanti secoli avea riposato in pace. L’ira cominciò contro i religiosi, e più contro loro robe; ché, temuti pel pio insegnamento pubblico, e per possa di scienza e ricchezza, s’avevan a scacciare e a spogliare. Prima i Gesuiti, siccome soldati di Roma, poi gli altri. Delitto il sapere, la possidenza, la virtù; massimo delitto il vestir clericale.
Nel nostro regno l’opere del Giannone. precedute alle volteriane teorie, a queste avean dato facile passata. Lo avversar le cose di chiesa fu andazzo e vanto, ogni passo contro Roma parve una vittoria. Cotesta guerra iniziò e proseguì il filosofo Tanucci, toscano, surto a un botto ministro e capo della reggenza al minore Ferdinando IV, dopo che in ottobre 1759 il genitore Carlo III, reduce a Spagna, il lasciava re indipendente. Il Tanucci iniziò la guerra al sacerdozio, lanciò lo stato sulla via sdruscevole da metter capo al 1799; e dall’altra trascurò la educazione del giovanetto principe, sì da tenerlo indietro al secolo, che tanto camminava baldanzoso. Ferdinando a 12 gennaio 1767 era dichiarato maggiorenne, ma trovava già conficcate le basi dell'avvenire, e se ed altri incapace a mutarle al dritto. Diceva il Tanucci: Principini, ville, e casini, cioè i principini non ad arme né a governo avere a pensare, ma a darsi bel tempo; e i moderni che dicono i re dover regnare non governare. han mutato le parole, non il senso.
Non è tanta maraviglia che i monarchi volonterosi d’accontentare i popoli, circondati e consigliati da stolti o traditori, cadessero nelle reti, ma l’è più veder la nobiltà, così numerosa e balda nell'Europa feudale, entrar nell’insigne stoltezza di reputar buone e belle le idee novatrici, che niente meno accennavano che a struggerla, spogliarla e darla al boia. Potenti, ricchi, rispettati, i nobili potevan rintuzzar la congiura, e invece per vezzo o imitazione, o voglia di parer saputi, congiurarono anch’essi. Addottrinati dall’Enciclopedia, educai da dottoricchi forniti dal d'Alembert, sputanti sentenze contro la religione ed i re, non s’accorsero che dopo i privilegi reali cadrebbero i privilegi di casta, posero il pondo de' loro gradi riveriti a pro del nemico sociale, e con l'esempio concorsero ad abbacchiare i re, e a storcere le popolazioni.
I bassi eran più facili a corrompere, che l’uomo bisognoso e ignaro, se ode non esister Dio né inferno, la roba esser comunale, esso uguale al ricco e al signore, non dover ubbidire, esser anzi sovrano, potere aver capriccio d’ogni vietata cosa, ei si cala presto a persuadersi. Nondimeno la religione e i sacerdoti mantenerli in gran parte. Nel napolitano poco furon guasti, molto in Francia, massime a Parigi, dove la setta avea le braccia nella plebe. La borghesia da per tutto fu la peggio infatuata. I Francesi sempre solleciti dell’onor nazionale, allora ciechi, incaponiti alle assemblee del Rosseau, vollero quello stesso che già i nemici di Francia volevano. Perocché quando Germania, Inghilterra, Spagna, e Olanda, confederate per la guerra di successione al trono di Spagna, tementi della potenza francese, stipularono il trattato dell'Hava a 16 gennajo 1691, pattuirono non posar l'arme se non fossero ristabiliti gli stati Generali in Francia, con l’antica libertà e privilegi che infrenavano i suoi re. Cotale libertà volevano in Francia i nemici di Francia per finir di temerla, ma Luigi XIV trionfò di quei patti, e morendo lasciò forte lo scettro e potente la nazione. I filosofi che sottomettono lo scibile a' sistemi, celebrarono le assemblee come sociale perfezione, ne invogliavan tutti, l'Inghilterra soffiò in quei spiriti, e die’ a novatori aiuto, appunto per abbattere la prosperità della sua rivale, e vendicarsi dell’America aiutata da' Borboni. Il nemico appaga le passioni dell’avversario per rovinarlo. E i liberali trionfali bruttaron di patiboli la Francia, e con quella libertà resero impossibile la libertà. Frutti delle lezioni de' Montesquieu e Rosseau.
Ogni ordine di persone, strascinato come da torrente, lavorò alla macchina abbattitrice di tutti, che la cupidigia pigliò gli intelletti, e fe’ vedere utilità dov’era danno. Utile solo è il giusto; seguendo giustizia s’ha utilità; ma sovente visiera di giustizia maschera sconvenevoli brame. S’acciecarono governanti e governati. I sovrani si credettero quel rumorio riescir contro i preti e i baroni; pensavano che affievolito il braccio baronale e clericale, guadagnerebbero forza, e indipendenza da Roma; però lasciavan fare, e proseguivan con leggi i cupi disegni delle sette. Cosi re e regine di corona stipendiare filosofi d’empietà, tenerli a corte, onorarli, averli maestri e consiglieri; re e regine entrare in logge massoniche, parteciparne gl’infimi gradi, sottomettersi a' ciarlatani riti. Dall’altra i nobili per ignavia e lascivia obbliata l'avita virtù, vaghi sol di tresche amorose, plaudivano a quel filosofar facile, che dicea la religione ostacolo a' piaceri; né sospettavan che le sette accennanti aironi s'avessero a rovesciar su di loro, speravano anzi che franti gli scettri raccoglierebbe!n essi. In contrario le popolazioni, più salde nella fede, ravvolte in tante reti e vischi, poco quella filosofia intendevano, ma sentivano volersi men severi ordini di stato, e franchezza di vita; vi s’acconciavano, e spinte spingevano, intronate il capo di libertà. Né i re, né i nobili, né i popoli vedean più là dell’offa lor menata negli occhi; l’un credeva minacciato l’altro, e si stava pago; non sospettanti aver tutt'insieme a esser percossi. Larghezza di coscienza, larghezza di leggi, larghezza di costumi non più rigidezza di virtù tutte blandizie e carezze e speranze facean larga, lubrica, infiorata la via del precipizio. L’egoismo fu danno di tutti. Soltanto la Chiesa, che sta sul vero e sul giusto universale ed immutabile, vide e manifestò il periglio, ma sola fu. Sin dal principio il clero svelò in mille modi la congiura, la combatté con prediche e libri insigni, confutò le dottrine false, prolungò la lotta, ritardò il progresso dell'empietà, e avrebbe meritato di vincere, ma il Signore volea permettere il breve trionfo del male, perche la deformità ne sfavillasse. Il clero profetò la rivoluzione, profetò la distruzione de' templi, e l’abolizione di Dio, profetò il regicidio, e la persecuzione; e quando tali atroci empietà si perpetrarono al cospetto del sole, seppe imperterrito sotto i pugnali e sulle scale de' patiboli confessare la verità della Fede, rinnovare i martirii de' primi secoli della chiesa.
La gran rivoluzione fu affrettata da un Bavarese, il cui nome dovrebbe andar primo dopo Satanasso. Adamo Weishaupt fondò la setta degliIlluminati, madre e modello organatore di tutte quelle de' tempi nostri. Funesto conoscitore del male, fabro insigne d’artifizii, ipocrita stupendo, indoratore d’ogni vizio, prepara sotterra una rivoluzione d’idee immensa, che sa dover divampare in lontano avvenire; eppur pertinace ne tesse le brune fila, nemico della luce copre la verità, ateo senza rimorso bestemmia sorridente. Da natura ebbe inattitudine al bene, intelligenza del fosco, mente organata ad ampie congiure. Nacque nel 1748; diconlo discepolo de' Gesuiti, poi d’un Irlandese detto Kolmer, e condiscepolo di Pietro Balsamo siciliano, famoso ciarlatano dettosi conte Cagliostro che insegnava magia e massoneria egiziana. Sappiamo da lettere di lui messe a stampa, che fu incestuoso e infanticida. Serrava in petto vulcani di passioni coperte con neve d’ipocrisia, né altri mai meglio improntò il linguaggio della virtù. Addottrinato nell’ateismo de' filosofi e nel liberalismo de' Massoni, ambo con incestuoso connubio congiunse, ideò un modo da guadagnare il genere umano e imporgli il suo volere, cioè minare insieme religione, governo e proprietà. Sendogli indifferente ogni delitto, vi si mette con perseveranza e dissimulazione da superare o evitare qualunque ostacolo; si fa centro d’un circolo d’adepti sparsi in ogni città, per infiltrarli in tutti li ordini. Si fa chiamare Spartaco: questi a capo di gladiatori s’era ribellato a' padroni del mondo, ei capo si fa di gladiatori morali contro la società. Al 1772 professore di dritto canonico nell’università d’Inglostadt, medita su’ modi d’abolir tutti i dritti, e con magistrale autorità guadagna gli allievi. Vede gli ordini religiosi dipender da un capo, tenere in tutta la terra una schiera militante ad uno scopo per la gloria di Dio; ed ei l’imita creando altro ordine, pure ubbidiente ad un capo, ma con opposto scopo; da fare in segreto quello che i monaci fanno aperto.
La sua congrega chiamò Perfettibili, poi Illuminati; voci non nuove fra' misteri e le sette. Agli scolari die’ nomi simbolici; pochi fe’ Areopagiti, grado eminente, egli capo. L’inaugurò a 1. maggio 1776. Ma ei temeva il patibolo, onde studiò con lenta avvedutezza tal organamento di congiura, che lavorando contro i culti e le potestà, paresse favorevole ad ambo; e tenesse in sé tai precauzioni da valere in caso di svelamento a a salvar lui, e ad assicurare il buon successo. Codice fu di astuzie, artifizii, agguati e seduzioni a' giovani, cosicché irretiti dalla prima età salisser per gradi da candidati a iniziati, e su su sino a capi. Ogni grado scuola di prove, ogni promozione un maggiore svelamento, sino a quel dei misteri ultimi. Comincia con fosche parole promettenti morale soda, educazione, culto e politica nuova, e via via disnebbiando giunge con le prove e gli anni a morale oscena, a religione senza Dio, a politica senza legge. L’essenza del suo insegnare era: «Libertà e uguaglianza esser diritti cui l’uomo in sua perfezione primitiva ebbe da natura, la prima lesione al dritto d’uguaglianza fu la proprietà, la prima lesione al dritto di libertà fu il social governo, la libertà e i governi appoggiarsi a leggi religiose e civili, dunque a ristabilir l’uomo ne’ suoi pristini dritti vuoisi abbattere religione, leggi, e società.» Ma a ciò non s’arrivava a un botto. Ei primo tende ai giovanetti sue reti con arte serpentina, poi molto scrutatili li sceglie, li fa venire a sé senza invitarli, con mano invisibile né dispone i pensieri e le voglie, e li guida a un fine, sicché ciascuno è braccio d’un tutto che ignora, e lavora ad un edilizio di cui non sa le parti e lo scopo. Scrisse: «L’arte di far la rivoluzione infallibile è lo illuminare i popoli; illuminarli è pigliar cauti l'opinione, e farla vogliosa di mutamenti premeditati. L’opinione si fa con gli sforzi delle società segrete; i cui adepti, avocando insieme e sparpagliati, l’uno l’altro afforzando, moveran lamenti popolari a una via, in guisa che tutta la terra venga abitata da una gente, la cui maggioranza tenda a voler uno scopo. Allora schiacciate quelli che non poteste persuadere, e s'è vinto.»
Avendo per fare l’opinione bisogno di generazioni, ei con sue leggi studiò a guadagnar senza rischio i giovani, e a guidarli. Divise la setta in due grandi classi, delle preparazioni, e dei misteri; tutte e due con suddivisioni e gradazioni, secondo il progredimento degli allievi. La prima classe ha quattro gradi: novizio, minervale, illuminato minore,illuminato maggiore. Poi gradi intermedii, presi dalla Massoneria,cioè quelli di Cavaliere scozzese, per averne facilità d’entrar nelle logge de' Massoni. La classe dei misteri ha due gradi: uno dei piccoli misteri, pur suddiviso in preti e principi, e l’altro de' grandi anche in due, de' maghi, e dell’uomo-re. Di quest’ultimo grado compensi il consiglio supremo degli Areopagiti. Inoltre in tutte queste classi e gradi v’è l'importantissimo uffizio,comune a tutti gli adepti, quello dell'insinuante o ingaggiatore. Ciascuno deve trovare e persuadere almeno uno o due de' quali diventa natural superiore; ciascuno noterà in apposito taccuino quanto avrà osservato intorno a qualsivoglia persona, amica, o nemica, su loro passioni, pregiudizii, legami, desiderii, tendenze, capacità e agiatezza; e né farà ogni mese rapporto a' superiori; perché l’ordine sappia su quali uomini in ogni parte di mondo possa contare o temere, e sui modi del guadagnarli o torseli davanti, L'insinuante ha per precetto aversi a contrafare e occultare l’animo, per iscendere nell’altrui con men periglio e più frutto. Sceglier il più fra giovanetti, formarli. educarli, a preferenza i potenti, i nobili, i ricchi; poi medici, curiali, pittori, librai, maestri di scuola; e prima i belli, ché han più attrattive e meglio piacciono al popolo; piuttosto protestanti che cattolici, perché quelli, come disse Federico II. vanno più presto; cercarli sopratutto fra uffiziali di Principi, ne’ Ministeri e ne’ consigli, massime se avesser patito ingiustizie, perché più di leggieri si fanno illuminare. Trovato l’uomo, l'ordine, dopo segrete informazioni, ne approva la scelta, ne dona già al primo fratello il carico d’illuminarlo, ma ad altro cui stima più atto, secondo dell’intelligenza, età o grado del candidato, quegli solo allora ha facoltà di gittargli la rete. Weishaupt in pochi lustri si mise in pugno mezza Germania, il governo Bavaro entrato in sospetto esiliò lui, e perseguitò la setta, ond’ei riparò a Gotha, il cui Duca, suo adepto, fecelo consiglierò aulico; si potè aperto lavorare. Stampò nel 1781 la storia delle persecuzioni degl’illuminati in Baviera, e nel 1788 la descrizione dell'ordine dell'Illuminati. Morì poi a Gotha nel 1822.
Ei sin dal 1782 pensata aggregar Francia al suo ordine; ma si tenne, temendo la natura francese per fretta gli guastasse acerba l'opera. Primo Mirabeau, iniziato all'illuminismo a Brunswik, ne portò i gradi a Parigi nella sua loggia detta de' Filateti, cioè amanti della verità. A quel tempo Filippo Duca d'Orleans, Grande Oriente, capo della Massoneria francese, avea già 282 città con logge, dove era pur penetrato il Cagliostro. E il re cinto di ministri settarii, e con la corte piena di settarii maschi e femmine, guardava quelle adunanze come feste: musiche, danze, canti, drammi, versi, cene, guardie e sentinelle di soldati pel buon ordine, ma mentre i grandi di Francia ballavano, trincavano, e s'accecavano di fastose lascivie, là stesso in più recondite stanze si cospirava a rapir loro la potestà, le robe, e le teste.
L’illuminismo nel 1787 mandò deputati a Parigi sotto specie di studiarvi i prodigi del Mesmer, in voga allora per altro settario favore, il Mirabeau presentolli al comitato degli amici riuniti; dove, detto Germania già ubbidire all’ordine loro, depositarono lo statuto del Weishaupt. Venne in gran parte accolto; e ne fu ingrossato il codice massonico; onde cominciarono a entrar nelle logge soldati, artigiani e sin facchini e proletarii. Sorsero comitati in ogni città, tutti aventi il motto dal Grande Oriente; né solo in Francia, ma in tutta Europa protetti da personaggi alti, da ambasciatori esteri e loro familiari e concubine. La rete meccanica dell'illuminismo affrettò la propagazione, sicché l'Europa era già vinta dalle idee francesi prima che ne vedesse gli eserciti. In breve i congiuratori sentendo lor forza, non istetter sulle mosse, e stabilirono il 14 luglio 1789 per sollevarsi in Francia. Vedesti in un dì milioni di furie, con stesse grida, stessi atti, in orgia orrenda, sforzar prigioni, bruciar castelli e case, sgominar soldati impotenti o immobili, e stilettare e trucidare. Il Mirabeau convoca tutti i capi delle logge nella chiesa dei frati Giacobini; questa diventa centro della rivoluzione, ed ecco Massoni e illuminati appellarsi Giacobini.
Là tutte le logge, tutte varie sette, tutte caste: filosofi, enciclopedisti, mesmeriani, economisti, falsi religiosi, falsi soldati, aristocrazia, democrazia, studenti, borghesia, artigiani, ogni sistema, ogni formola eran là d’accordo per la distruzione de' culti e de' re. Si guatarono, e si riconobbero. Solo al grembiale era succeduto il berretto rosso. Sono uniti contro i re e Dio, ma discordi ne’ modi: uno vuole il Dio del filosofismo, altri non né vuol nessuno; il La Fayette brama il re doge sotto la sovranità del popolo, e sclama l'insurrezione santissimo dovere: Filippo d’Orleans vuol esser re esso; il Brissot grida magistratura democratica; il Mirabeau s’acconcia a tutto, purché retto da lui; i Condorcet. Babeuf e compagni vogliono l’uomo-re del Weishaupt, non inferiore che a sé solo, cioè la negazione della società.
Tutte le trame di mezzo secolo vengono a luce in quella Babelle. Subiti effetti. Prima contro Dio: sospesi, poi aboliti i voti religiosi, spogliato il clero, profanati i sacri vasi, rubati, venduti gli ori e gli argenti delle chiese, fuse le campane per moneta, inventata la religion civile, per fare il popolo sovrano in chiesa come sovrano nella reggia; abolita la domenica, abolita con editto la religione cristiana, scacciati con decreto trentamila religiosi, cerchi a morte, percossi, sterminati i sacerdoti; apoteosi ai filosofi; e nostra donna di Parigi, peggio che moschea profanata da baccanali, vede fra incensi e cantici osceni sull’altare del Signore danzar nuda la prostituta, detta la Dea ragione!
Poi contro il trono. Dalla chiesa de' Giacobini passano alla tribuna della cavallerizza: una prima costituzione toglie metà di potestà e di amici al re; poi altra, e poi altra che al re lascia il titolo solo. E il re prigioniero firma. La seconda assemblea nazionale sospende anco il titolo, lui manda alle torri del tempio; e un comitato di essa detto dei Girondini lavora nascoso alla repubblica. Ultimamente dichiarati Luigi XVI decaduto; e la terza assemblea lo mena al patibolo. Questo re, il più buono degli uomini, era immolato, sol perché re, alle prestabilite vendette massoniche, alle teorie del Weishaupt, all'ingordigie di tutti.
Poi contro la proprietà. La rivoluzione famelica di roba e di sangue passeggia immane e spietata; cadono le teste de' grandi e de' ricchi, ancora che massoni; perseguitati, ammazzati, carcerati; s’ardono palagi e castelli, s’infrangono gli stemmi, si vendono le terre. Distrutta l’aristocrazia del sangue, si strugge l'aristocrazia mercantile; dopo l'uguaglianza dei dritti vuoisi uguaglianza reale, legge agraria, comunella. Qui la discordia biglia i vincitori: i settarii, benché tutti abbottinati, si rintuzzano, si calunniano, si accusano, si smascherano, si uccidono, e si cacciano al palco ’un l’altro.
Poi contro l’uman genere. Le conquiste della rivoluzione armata paion prodigi. Soldati improvvisati, senz’arme, senza scienza, pigliar fortezze e regni, annientare eserciti veterani, render vana l'arte guerresca; e qualunque pugna, o vincitori o vinti, lor dar paesi, dove prima occorrevan dieci battaglie. Ma i libri del Voltaire, e il codice del Weishaupt sparsi pel mondo prima delle armi, avean prese tutte contrade. Ogni sovrano circondato da adepti, ogni ministero, ogni municipio, ogni esercito era infetto; e s’aprivano al nemico liberatore i consigli de' re, i disegni di guerra, le porte delle cittadelle. I generali giacobini accolti a braccia aperte da' vinti, diventavan forti là dove ogni altro saria stato fiacco. La setta mondiale arse i puntelli alle preparate mine, e fe’ mancar la terra a' governi combattenti. Ogni settario tradì la patria, ogni Giacobino fu eroe.
Le innnmerate vittorie germaniche densi agl'Illuminati. Cadono il Belgio e l'Olanda con tante formidabili fortezze, per forza dei comitati ubbidienti a Parigi. Lo stesso in Ispagna: un Raddeleon vende Figueras, non è ben pagato, si lamenta, e gli mozzano a Parigi il capo. Avvelenano il generale Riccardo che si ricorda l’onor castigliano. I miracoli di guerra nel Milanese, e le facili corse nel Romano e nel Napolitano chi non sa? I Giacobini strombazzati invincibili, celebrati, inghirlandati, trovano gli eserciti disfatti pria che tocchi, e governi rivoluzionarii surti a un tratto di sotterra a dar moneta e braccia.
Caduti i Giacobini l'un sopra l'altro, su tutti salì Napoleone, che raccolse l’eredità della rivoluzione, e credè seppellirla. Fe’ l’imperio, cioè negazione di rappresentanze democratiche, e comando di spada, rialzò gli altari, ma per sé, fe’ conquiste, ma a' suoi, e volendo della religione e dei troni far monopolio, die’ la scalata al Quirinale, carcerò il Papa-Re, e il tenne più anni in Francia. Die’ morso e freno alle sette, sostegno e roba ai settarii, quelle attutì, questi saziò; ché tutti massoni e giacobini erano stati i compagni di quel vincitore di battaglie, surti ricchi, e grandi. Il concetto settario svolse a suo modo, abolì il dominio temporale di S. Pietro, compresse i dritti di Santa Chiesa, perseguito cardinali. Avea fautori Filosofi ed Ugonotti, e rise delle scomuniche. Quando Dio piegò gli occhi caddero quei trionfi, quelle cose, quelli uomini, ma non i principii, non l’esempio delle maravigliose esaltazioni, e l’illuminismo e la massoneria vinti e discreditati andaron raccogliendo al buio gl’infranti pezzi del perduto scettro, per ricominciare insidie da capo. Visto l'ateismo esoso al mondo, si rincappellaron con falsa religione, e nuovi nomi.
La Carboneria è pur frutto oltramontano. I profughi di Napoli del 1799 ne portarono i semi di Germania e di Svizzera, quando per le tornate arme francesi rimpatriarono nel 1806. Sin dal principio del secolo v’era una setta detta Unitaria, e altra nomata de' Raggi, ambe fuse nella Carboneria; la quale restata per la forza napoleonica ignorata e latente, sembra avesse qualche incremento in Calabria nel 1808. Il primo a farne motto in una loggia Massonica a Capua fu nel 1810 un Massone uffiziale francese; il quale, dimostrato necessario riformare la società, propose la Carboneria, cui disse antica, e istituita da re Errico di Francia (né indicò quale) che n’avea fatto ordine cavalleresco. Essa fu come riforma adottata e propagata. Per non urlar nei sensi religiosi del napolitano paese, i Carbonari si facean santoni, si gridavan cattolici, aver virtù teologali, vantavan protettore S. Teobaldo, eremita francese del mille, che fuggito in Germania avea campato in boschi facendo carbone. Adottaron parole sacre; lasciar compassi e squadre massoniche, presero l’accetta, il chiodo, e altri emblemi, significanti la passione di Cristo e lavorazione di carbone. Però dal venderlo appellaron vendite le logge, e dove s’eran chiamati fratelli, si disser cugini.
Ma usavan l'arti stesse delle sette madri, ordini, gradi, segnali simiglianti, benché più speditivi; i gradi di Rosa-Croce e di Cavaliere scozzese eran come ne’ Massoni e Illuminati. La Carboneria fu Massoneria-Illuminata acconcia all’Italia, applicazione di forme generali a un popolo speciale. Laonde prese aria di nazionalità; si mise a punzecchiare il nobile sentimento dell'indipendenza; scrutò l’indole, le aspirazioni, i pretesi bisogni degli Italiani scontenti, lavorò a commuovervi gli spiriti indigeni, e a fare agognare utilità pratiche e vicine e vitali al paese. Nondimeno non celan ne’ loro statuti esser rappresentanti della rivoluzione francese, approvare i principii dell’89, e il terrorismo. Nelle istruzioni agli adepti lodava l’età dell’oro quando s'ubbidiva alle sole leggi di natura, e la terra non avea padroni particolari. Dicevano: il coprirsi di pelli le membra fu il primo traviamento dell'umanità. Lamentavano l’essersi scelti capi alle genti, e dettate leggi umane, ed elette guardie armate; queste cose avere surrogato il dispotismo all'uguaglianza primitiva. L'Italia doversi purgare. I nostri padri stabilirono la Carboneria nel rifugio de' boschi, per armarsi nascosi e aguzzar le scuri e i pugnali a sterminio degli oppressori. Essi giurarono sulle croce di abbatterli in un sol di, e ristabilire la santa filosofia del Redentore. Lo stesso giuriamo noi ché n’è tempo. Era lor disegno di fare in Italia una repubblica di forme e idee pagane, detta Ausonia, e un Papa patriarca a soldo; e scacciarne non lo straniero soltanto, ma i re, i preti, nobili e i possidenti. Giuravan col coltello, firmavan col sangue, si assoggettavano, caso tradissero il segreto, a morir di pugnale. Gli statuti stampati minacciano siffatta pena agl'inobbedienti, alzan tribunali segreti per giudicar tai rei, e far eseguire le condanne, e dichiarano non salvarli la fuga; ché una mano invisibile li percuoterà, sino dentro il tabernacolo di Cristo.
Sebbene repubblicani, pigliavan tutte imprese. Nell’anno 1811 certi Francesi e Tedeschi proposero a Giovacchino Murat d’accogliere nel regno la Carboneria, vantandogliela sostegno al conquistato trono; e come il ministro di polizia Maghella, Genovese e Massone, molto la raccomandò, ebbero il permesso. Però favorita dalla potestà regnatrice, la nuova setta, sendo mezzo di lucro e d’impieghi, si dilatò in tutte provincie apertamente; donde passò all'alta Italia e in Ispagna. — Subito divenner grossi e forti. Poi visto nel 1814 Gioacchino con l’esercito sul Po, e in male condizioni, stimaron quello il momento di fargliela, e si ribellarono in Abruzzo; dove presto domati vennero in persecuzione. Seguirono carcerazioni e supplizii. Dicono che allora la setta per vendetta mandasse emissarii ai Borboni in Sicilia, e anche danari; e accolta bene dal re, e meglio dall’inglese Bentink, facesse sperare di scrollare il dominio francese. Ma l’anno dopo, calando più la fortuna di Gioacchino, questi mostrando pentimento d’averla perseguitata, richiesela d’amicizia; ed essa anche a lui stese le braccia. Prometteva cosi ai due rivali il trono stesso, per far repubblica; e, vuota di fede come di forza, non attenne a nessuno.
Restaurato Ferdinando, e rimasti pei patti di Casalanza tutti i Carbonari in uffizio, sperarono aver favori dal re; ma ei li riprovò, e proibì le vendite. Quindi ira. Esonerandosene i timidi, v’ebbero ad aggregare i più audaci e facinorosi, e cominciarono a far paura. Non eran puniti, perché chi punirli dovea era pur carbonaro. Ogni magistratura, ogni municipio, ogni reggimento di milizia avea sue vendite. L’esercito che male era composto, fu tutto infetto; i capi richiesti o richiedenti v’entravano, e perché venuti dopo de' soldati, erano ultimi, e da meno che gl’infimi. Chi sdegnava entrarvi era minacciato. Così la milizia divenne anarchia, senza disciplina, senza ubbidienza. I Carbonari allora prepossenti facevan soprusi e vendette di sangue; spesso da' giudizii escivano assoluti; carcerati per debiti, eran liberati a forza dai cugini, pigliavano, bastonavano, gridavano a volontà, pompeggiavan professioni pubbliche, e si facean benedire da' loro preti. Diventati assai, come udirono i carbonari di Spagna aver proclamata la Costituzione, fecero nelle due Sicilie la rivoluzione del 1820; e in Piemonte, ascritto Carlo Alberto allora principe, ne imitarono. Ma le sette, buone a dissolvere, non valgono all’opera, però le migliaia di soldati e legionari non guardarono il muso ai Tedeschi nella stretta d’Antrodoco; e il Pepe carbonaro generale, fuggendo il primo, vituperò questa patria e quella Italia che diceva voler liberare. Così i Carbonari, difesa lo foro costituzione con le calcagna, misero in faccia ai Napolitani una marca di viltà, che per lunghi anni ne rese i Pulcinelli d’Europa. Il nome Carbonaro fu ludibrio.
Giuseppe Mazzini nato a 28 giugno 1805 a Genova da un medico, era curiale senza clienti, quando carbonaro si die’ al cospirare, onde nel 1850 fu scacciato di patria. Dopo lo abbattimento che la rivoluzione patì quell’anno in Italia, alquanti sbanditi s’unirono in Marsiglia a ruminar più gagliarde riscosse. Mazzini, il Bianchi Piemontese, e il Santi da Rimini con altri, vista la Carboneria dispregiata, e andar lenta, rifondaronla nel 1831, col nome federazione della Giovine Italia. Gli statuti dicevano avere scopo la riforma politica Italiana, mezzo l'unione de' federati in tutta la penisola e isole; armi proprie, corrispondenza e unità di pensieri, la rivoluzione scoppiar generale, non far transazione col nemico, spegnere gli avversi e i traditori, ogni federato giurare darsi anima e corpo all'impresa, spegnere col braccio e infamar con la voce i tiranni e la tirannide politica e morale, cittadina e straniera, combattere l’ineguaglianza, e cercare ogni via da far salire gli adepti della società a governar le cose pubbliche. Ciascuno avesse pugnale, fucile, e cinquanta colpi; pagasse uno scudo all’entrata, e uno mensuale. niuno accogliersi ch’avesse più di quarant'anni; niuno poter trovare più di due federati, niuno scrivere il nome dei compagni, ciascuno aspettar le notizie dal suo propagatore, a questo pagar la tassa, a questo far rapporti. Fu come si vede riforma della Carboneria, sempre co' modi dell’illuminismo. L’anno appresso aggiunsero un giornale pur detto Giovine Italia, per muovere la rivoluzione radicale. Il codice di questa setta ha parte civile e penale, con rubriche di sangue. Nel penale all'articolo primo è scritto: tendersi alla distruzione di tutti i governi della penisola per far una repubblica. Al terzo e seguenti: «I membri che non ubbidiranno agli ordini della società segreta, e quei che ne sveleranno i misteri saran pugnalati senza remissione. Il tribunale segreto pronunzierà la sentenza, designando uno o due adepti per la immediata esecuzione. L’adepto che ricuserà eseguire la sentenza sarà morto come spergiuro. Se la vittima giungesse a fuggire, sarà perseguite tata incessantemente in ogni luogo, e verrà colpita da mano invisibile, fosse in grembo alla madre, o nel tabernacolo di Cristo. Ciascun tribunale segreto sarà competente non solo a giudicare i socii colpevoli, ma anche a far morire qualsivoglia persona designasse a morte.» Con tali tristizie costoro dicono sublimare la patria.
Nel 1846 il Mazzini profetò: «Nei grandi paesi la rigenerazione si fa col popolo; nel nostro si farà co' principi. Bisogna farli lavorar per noi. Il Papa andrà nelle riforme per principii e per necessità, il re Sardo per desio della corona d’Italia; il gran Duca Toscano per inclinazione, il re di Napoli per forza. Gli altri principelli avranno a pensare ad altro che a riforme. Ottenute le costituzioni, s’avrà dritto di chiedere e domandare alto, e al bisogno sollevarsi. Valetevi delle minime concessioni per unir masse, anche col pretesto di ringraziare: feste, canti, radunanze, e fitte corrispondenze fra uomini di tutte opinioni bastano a maturare le idee, a dare al popolo il sentimento della sua forza, e a renderlo esigente.» E appresso: «Il concorso dei grandi è indispensabile; perché con plebe sola nascerebbe la diffidenza. Condotta dai grandi, questi le saran passaporto. Un signore lo si guadagna per vanità, lasciategli la prima parte, sinché vorrà camminar con voi. Pochi vorranno giungere alla meta; ma è importante che la meta della rivoluzione lor sia ignota.» La storia mostra come tal programma fu ed è eseguito di punto in punto.
Luigi Filippo re de Francesi. stato Giacobino, intendendosi di sette, slacciò via questi congiuratori nel 1833, si dice con l’occasione d'un Italiano pugnalato in un caffè di Parigi, per ordine del Mazzini. Ricovrati a Ginevra, subito tentarono una ribellione generale in Italia, ma scoperti in Piemonte, il loro re Carlo Alberto, benché carbonaro, non die’ quartiere. Trentadue ebber sentenza di morte, undici soli fucilati, alcuno s’uccise di sua mano in carcere, molti alla galera, molti condannati in contumacia. Fra questi il Mazzini, e il poi famoso abate Vincenzo Gioberti, allora cappellano di esso Carlo Alberto. La congiurazione aveva un pie’ nel reame nostro, onde in Abruzzo seguirono arresti di cinquantadue persone, con Luigi Dragonetti, stato deputato al parlamento del 1820; ma per difetto di prove o per favore dell’amico ministro Del Carretto tosto uscì libero; puniti anzi gli accusatori.
La Giovine Italia ritentò nel 1834 i suoi colpi. Unirono uomini di tutte nazioni nel Ginevrino, e in numero di dugento invasero il Piemonte con alla testa il Ramorino, quello che poi nel 49 fucilarono per tradimento. Egli entri) col Mazzini al 1 febbraio in Savoia; proclamò repubblica dall’Alpi al Faro, e l’unità, ma pochi dì appresso, non seguito da nessuno, abbandonato da' Polacchi, minacciato dalle milizie Sarde accorrenti, riparò a Ginevra. Condannarono in contumacia alla forca lui e Giuseppe Garibaldi, allora marinaio di terza classe al regio servizio. Incontanente i congiuratori, fatti per lo smacco più audaci, convennero a Berna con fuorusciti di tutta Europa, e a 15 aprile di quell'anno ampliarono la società, e stabilirono: «Associazione repubblicana di tre federazioni, Giovine Italia, Giovine Polonia, e Giovine Germania; lega difensiva ed offensiva, solidarietà di pensieri e d’opere, lavorate concordi, dritto di soccorso, tutti fratelli, uno il simbolo, esso determinato, esser comune ad ogni adepto, tutti riconoscersi a quel motto; la riunione di più nazionali congreghe costituire la Giovine Europa, potere ogni altro popolo aderire a quest’atto.» Fu guerra dichiarata alla società. Sardegna, Napoli, Germania, Austria, Prussia e Russia obbligaron la Svizzera a sfrattare quei faziosi; ed eglino in Inghilterra.
Colà sicuri costituirono setta mondiale, mossa da un pensiero direttore, per rivoltare tutte nazioni ad un tempo. Di là tengon la mano nei circoli segreti posti nelle più popolose città, mandan loro catechismi e comandamenti, e imperati sugli animi e sulle braccia. Gli schiavi loro, che neppure osano da sé pensare a quel che fanno, si appellano liberali. Il catechismo della Giovine Italia è noto per le stampe. Vi stan fusi i principii de' Massoni e i modi degl'Illuminati, ma con minor velo e meno circospezioni; perocché il seme fruttificato in due generazioni, fa che oggi si congiuri aperto. Sono membri della gran setta uomini potentissimi di Europa. Essa fa guerra a tutti gli Stati costituiti, assoluti e costituzionali, repubbliche aristocratiche o democratiche, essa manda esercito dovunque n'è mestieri: accorre in Isvizzera, in Polonia, in Ungheria, nel Belgio, in Alemagna, in Francia, in Grecia, in Ispagna, in Italia, in America, in qualunque luogo s’alza bandiera di rivolta, e son soldi da pigliare e potestà da rapire. Vincitori, sfuriano e procedon dritto alla meta, abbattimento di religione e dritto: vinti, trovan nomea nei loro giornali, pastura nelle borse de' gonzi, s'atteggiano i vittime di tirannia, e han sicuri asili, talvolta in Francia e nel Belgio, più spesso in Isvizzera, e sempre in Inghilterra, donde ricominciali da capo.
Tesson lavorio lento di generale corruzione. Accorrono ad essi uomini perduti e varii. Avvocati, medici, artisti senza scienza, indebitati, avventurieri, assassini, ciarlatani, gente che niente risica, e molto può guadagnare pe' mali altrui, uniti dal comune odio alle cose sacre e giuste, assetati di vendette, di oro e di potestà. Locuste che aspettano il vento per accorrere a divorare un paese. Han seguenze di stolti ricchi, e di stolti nobili o ambiziosi. Han protettore sempre uno stato nemico di quello che accorrono a liberare. Proclamano libertà, uguaglianza, età dell’oro, di fatto fan guerra all’oro e alla libertà altrui.
Dopo la battuta del 1818, ove s’era smascherata troppo, la setta stimò fare un’altra mutazione, e più semplicemente i suoi si appellarono,Unitarii. Il catechismo né fu trovato in molti esemplari dal magistrato napolitano, quando nel 1849 se ne fe’ processo. Ei dice: La gran società dell'Unità Italiana, è la stessa che la Carboneria e la Giovine Italia, instituta per liberar l'Italia dalla tirannide de' Principi e degli stranieri, e farla unita e indipendente. Ha circoli con ciascuno un presidente, un consiglio d’Unitarii, un maestro e un questore: gli altri si chiamano Uniti o Ascritti. Sono circoli di cinque maniere: il gran consiglio; e consigli generali, e provinciali, distrettuali e comunali. Il Gran consiglio è composto di Grandi Unitarii, donde emanano ordini, cui gli altri ubbidiscon ciechi. Cura della setta fu unire a sé i militari e onorarli, e muoverli a stabilir circoli nei reggimenti, e corrispondere con quelli dei paesi ove han guarnigione. La persona pria di unirsi è messa a prova: poi giura segretezza e ubbidienza sul vangelo, sul crocifisso, sul pugnale, ode minacce di morte ove violasse il giuro, e riceve il mollo, il segno e la medaglia. Questa setta rannodando le sperperate fila delle precedente, si fe’ in brevi anni un governo sotterraneo combattente alla sorda con la potestà sovrana in ogni parte, e per qualunque minimo obbietto; e quando nel 1860 ha vinto con forza straniera, essa ha preso in un attimo il potere, e sublimato i suoi agenti a pubblici uffiziali. Queste cose eran note; ma la imbecillità o la tristizia di chi usava la potestà regia lasciò fare.
Il Mazzini mette innanzi la divisa: Dio e Popolo, né dice che Dio che popolo intenda. S’è visto da' fatti intender popolo la massa de' suoi settarii, e Dio la sua dittatura. Divisa trionfale è: Non Re, non Papi, popolo e repubblica, libertà politica e religiosa. La comunella non si dice, ma si fa. Libertà intendono non ubbidire a nessuno legittimo superiore, il che è l’opposto della vera libertà, che è il non ubbidire a chi non ha dritto e in cosa non dritta; ma van dicendo schiavo il figlio ubbidiente al padre, e il voglion liberare dalla potestà paterna, per farlo invece ubbidire a sé stranieri, che si cacciano in casa altrui a tiranneggiare la famiglia. Noi ubbiditi alla legge siam liberi; calpestandola, siam servi di passioni brutali e di furbi usurpatori.
Adunque Carboneria e Giovine Italia, figlie di Giacobini e Illuminati mettono pretesto al congiurare l’unità d’Italia: dico pretesto, perché le loro costituzioni sin da' primi Massoni, e per dipendenze con la Giovine Europa, dichiarano voler la libertà e l’uguaglianza de' primi uomini, il che non è unire ma dissolvere. Oggi stesso unificando l’Italia, tendono a dissolvere Germania e America. Se l’Italia potesse essere una, già sarebbela da migliaia d’anni; ma nol fu mai, non con gli Etrusci, né co' Romani, che tennerla serva. I Barbari che affogarono questi popoli nel sangue ben potean farla una, come fecero una Francia e una Spagna; il tentarono i Goti senza effetto, e anco i Longobardi s’ebbero a dividere. Carlo magno volevate, ma la sua potenza s’arrestò sul Volturno, ed ebbe a far pace con Arechi Longobardo Beneventano, che raffermò l'autonomia di queste contrade che fanno il reame, perlocché, acconciato il pensiero alla natura, Carte riconobbe il dominio papale, e miselo in mezzo all’alta e bassa Italia. Noi tredici secoli restammo gli stessi, solo mutando i principi nei re, e scacciando i Bizantini. L’Italia superiore ebbe mutazione e tagliuzzamenti infiniti. Ora quello che non fecero Etrusci, Romani, Goti, Longobardi, e Carlomagno, in tempi più opportuni e ne’ principii delle nazioni, e con forze prepossenti, dicon di farlo le sette segrete dopo tanti secoli, sconfessando la storia, la natura, e gl’interessi del paese.
Speciosa idea è l’Italia una, idea da muovere i giovani; ché certo far la patria grande, potente, e rispettata, saria onesta e bella impresa. E dove ella potesse esser unita sarebbe fortissima, per l’indole de' suoi abitanti fervidi e ingegnosi; persi le naturali ricchezze, per te stare in mezzo al mare, fra Asia, Africa ed Europa, e per la coscienza dell'aulica e moderna grandezza; ma questi beni che faina invidiata e agognata, essi appunto sono che le vietarono, e sempre le vieteranno, d’essere uno stato. L’indole altera degl’Italiani li fa di spiriti municipali, perché ciascuno si sente grande, vuole il primato, e sdegna dipendenza; la forma della penisola lunga e sottile, dove ogni parte basta a sé, né ha mestieri d’altri, fa ciascuna regione paga del suo e indifferente del vicino; e le molte secolari autonomie surte, cresciute e compiute, rendono l’Italia per questo maravigliosa nella sua divisione. Ciascuna parte ha vita e storia sua, costumanze, dialetto, passioni, bisogni e interessi distinti, monumenti, nomi, ricordi, rinomanze speciali; ciascuna stata indipendente e separata tanti secoli, ebbe leggi, guerre, trionfi ed arti sue. Uccidere codeste persone sociali, per farne una mole mostruosa di parti eterogenee e discordi, è mina appunto della sua grandezza. L’Italia che vide tanti secoli i suoi figli accoltellarsi, Bianchi o Neri, Guelfi o Ghibellini, gelosi l’un dell’altro, diversi di razze e d’interessi, diventar una! La fittizia e sforzata unità farebbela schiava d’una fazione, e però cento fiate più debole e infelice; sarebbe risuscitare Guelfi e Ghibellini, veleni e pugnali, ferali conviti e crudi esilii, nefandi sacchi, e arsioni atrocissime di città e di campagne. E già si sono risuscitati.
Ma eravam noi sì bassi da meritar con tali mine la redenzione? I mali del medio evo già l’età civile leniva; scomparse le furiose e turbolenti repubblichette, la comune patria ridotta in pochi principali, gloriosa per arti, paga per mitezza di leggi, maestra di sapienza, prosperosa di commercio, ricca, lieta, pacifica, l’Italia era fra le nazioni venerata e rispettata. Era ancora regina delle genti, non con arme mortifere, ma con l’impero dell’eterno vero e la parola di Dio. Il papato con le cattoliche braccia stringevate in un amplesso con l’unità della religione sollevava l'italiano pensiero su tutte le genti. La piena pace menavala innanzi; le spente rivalità, già né affratellavano i figli; e i telegrafi e le strade ferrate né avvicinavan le regioni; i suoi tanti porti, le emulazioni de' governi, e la restituita feracità di sue terre le moltiplicavan ricchezze. E chi nel buio futuro strapperà al Signore i segreti della sua provvidenza? chi dispererà della ventura grandezza di questa Italia creata a grandezza? Chi passando innanzi ai divini ordinamenti vorrà con ree arti divagarla dal sentiero ordinato da Dio? chi con rivoluzioni la ferma a mezzo, anzi la respinge dal vero progredimento che preparata a sovrani destini? Le cospirazioni bruttano questa patria, e con empietà e misfatti la fan maledire. Progredendo col dritto si avanza nella civiltà: le rivolture sono rovesciamento di dritti, indietreggiamento e barbarie. L’Italia oggi non può esser una, se pur fosse buono e opportuno l'averla; rea cosa è il por mano a impossibili imprese; più reo farne reiterali esperimenti, con distruzioni e fiumi di sangue.
Ai Napolitani l'unità è anche più ruinosa. Messi ih punta al paese, divengono ultimi, dov’erano primi; retti a prefetture, con leggi forestiere da uomini ignoti, smunti, privi di re e di corte, costretti a correr lontano per giustizia, à pagare i debiti altrui, a tasse non più viste, e dare i loro figli in esercitò alieno, per guerre aliene, per compressione di se stessi. Napoli scancellar la sua storia, ubbidire ad altri, abolire il suo trono, rovesciar la sua prosperità, nuotare nelle guerre civili e dinastiche, dilaniarsi, impoverirsi, rinnegar la patria e la Fede! Per Napoli l’unità italiana è suicidio: però i settarii napolitani cento volte più rei de' loro confratelli, lasceranno nome esecrando alla posterità.
Ma l’Italia, siccome la Polonia, la Germania e la Grecia sono pretesti alle sette. Movono del pari Francia e Spagna state sempre une. Ma là è quà, con queste ed altre lustre, vogliono abbattere la potestà umana e divina. Questo fine è il dogma de' loro comuni catechismi. Però come possono addentano la proprietà, percuotono il clero, e combattono il Papa ch’è grandezza italiana e mondiale. Il loro anti-papa è il Grande Oriente de' Massoni; vogliono la rivoluzione delle idee, della morale e delle leggi; e per farla non vogliono religione. Qua, perché Italia ha più stati, gridano Italia una; se fosse una griderebbero Italia divisa. E perche il popolo li respinge, e li fa impotenti a ogni conato, eglino, mentre sclamano fuori lo straniero, chiamano gli stranieri a far cotesta loro Italia.
Costoro per amor di setta bene sperano in Francia e Inghilterra, male se per amor di patria; perocché l’Italia non ha nemici naturali più terribili di queste due nazioni. Intendo la Francia del 89 e l’Inghilterra d’Errico VIII, sendo le patrie degli Stuardi e di Carlo Magno ricche di generosi cuori propugnatori di virtù. Ma i Volteriani e i Protestanti, messo ogni bene nell'utilità materiale, sono logici nemici di quell’Italia che sopra la materia mette il giusto.
Quanto a' Francesi, come potenza Europea, non potrebbero desiderare una Italia forte per unità d’armi e di stato. Francia ha sue frontiere naturali all'Alpi, a' Pirenei, e al Reno, né può oltrepassarle senza sfidare il mondo; però non può piacerle la gagliardia de' suoi vicini. Una forte Spagna le die’ molti secoli pena; una forte Italia la rovinerebbe; ché resterebbe serrata fra tre grosse nazioni, Spagna, Germania, e Italia, come in tanaglia. Per questo in ogni tempo si sforza a mettere un piè qua dentro; e da sei secoli scendono Francesi dall'Alpe o dal mare, gridando libertà; e portando conquiste, con Carlo d'Angiò, con Carlo VIII, e co' Napoleoni; per questo la loro discesa commosse sempre l'Europa. E già v'han messo le tende; prima in Corsica, ora a Nizza. Inoltre non può Francia vedere in noi una prosperità di pace tale da redimerne dalle cose francesi. Essa ha con noi una rivalità certa: noi, primi ritrovatori della moderna civiltà, ponemmo un nome italiano in ogni gran trovato moderno; italiana è la poesia, la pittura, l'architettura, la statuaria, la musica, la scherma, la bussola, l’astronomia, l’America, la religione, la storia del mondo; e i Francesi aspirano a dare alla terra nomi francesi.
Quanto agl’Inglesi, un’Italia grossa più deve spiacere, ch'essa porrebbe in mezzo al Mediterraneo un’armata forte e rivale, proteggitrice di commercio prosperoso che ruina il loro. Inghilterra vive de' suoi prodotti di mano, e come ha caro il vitto, caro produce; né può ne’ mercati stare al paragone; essa dunque per vendere deve impedire la produzione altrui; e ha necessità di metter foco al continente, onde fra' guai non lavori, e compri da lei. Di ciò meglio parlerò appresso. Il fatto mostra che al 1813, sendo vincitrice, volle in Francia franchighie liberali per tenerla fiacca, e prepararla a nuove convulsioni; essa in Ispagna, in Grecia, in America, in Portogallo come può soffia. Della troppo progredita prosperità italiana ebbe ombra, e pensò al rimedio; della molto avanzata propaganda cattolica nel suo seno si spaventò, e risolse reagire; quindi die’ protezione, asilo e danari ai settarii italiani, siccome strumenti a turbarne la pace industriosa, e a scrollare i governi che n’eran forza materiale, e il Papa che n’era forza morale. S’è vista l’Inghilterra che tartassava tutti gli stati italiani dar braccio alla setta proclamatrice dell’unità. Chi non vuol liberi i fievoli, vorrebbe forte e libero il tutto? I suoi vascelli per lunghi lustri ne fan guardia alle coste, intenti a spiare ogni nuovo legnetto che gittiamo in mare, a far suo pro d’ogni nostra produzione, a imporre per sé sopra qual si sia scoglio utilità commerciali. Nel 1831 surse presso Sciacca in Sicilia un’isoletta vulcanica, cui re Ferdinando pose la bandiera, e fu nominata Ferdinandea. Sebbene in mare siciliano essa era siciliana, pure Londra facea da' suoi curiali dichiarare avervi dritto, ma il mare per nostra ventura in dicembre se la ringoiò; se no, avremmo visto a forza il vessillo brittanno a un miglio dalle nostre coste. Poi per parecchi anni lo ammiragliato inglese mandò vascelli a studiare quell'acque, sperando risorgesse dal fondo qualche po’ di arena. E tuttodì dove ne vede pone segnali.
Di Malta presa a Napoli e all’Italia non parlo. Da cotesti Inglesi i libertini sperano veder aitata l’Italia una. Ma appunto perché eravamo troppo prosperati eglino fecero lanciare la rivoluzione con cotesto motto fatale di opera impossibile, per farne diserti, fievoli, e bisognosi di loro.
Adunque i settarii rivoltando la nostra patria col braccio straniero bene fecer per sé, ché se ne sono arricchiti; ma fecer malissimo all'Italia, che l’han subissata, e fatta così dallo straniero dipendente, ch’oggi un caporale francese e un pilota inglese la van comandando dall’un capo all’altro.
In mezzo secolo più volte percossa la setta non si disanimò. Come i libri della Sibilla che scemati di numero crescean di prezzo, essa ad ogni abbattimento crebbe audacia. Mutati i nomi, vieppiù sempre stese sue braccia contorte. Molto i Carbonari osarono nel 1820; più osò nel 1848 la Giovine Italia; più assai han fatto nel 1860 gli unitarii. Si appellali liberali, perché servire no, comandare vogliono; abborrono i re per farsi dittatori; vantano la democrazia, ma non l’uguaglianza, il loro sovrastare agognano; onde ne verrebbe un’aristocrazia abbietta, la tirannia de' bassi e dei peggiori. Coi nomi mutarono pur mezzi. Discreditato era il filosofismo del Voltaire, e la coscienza universale riprovava la irreligione; però pigliarono più cauti altra via. Si maneggiavano a seconda del secolo che parea tornato in grembo alla Fede; e volsero atti e parole alle cose sante; ma avean lasciato l’ateismo e presa la bacchettoneria. I liberali parvero passionati di Cristo e della Bibbia, sentivano messe cantate, si facevan la comunione, e crocioni in ginocchio; così i Principi li credean santi, e se li mettevan vicino, dove calunniavano, spiavano, ed insultavano i buoni. La poesia parea tutta sacra: inni a' patriarchi. agli apostoli, a' santi, alla Passione, alla Vergine; si risuscitava l’idea guelfa, e si alzava il Papa a' cieli. Le arti si inspiravan lì; tutto era odor di santità. Pigliato questo vezzo, anche dopo sfavillati i rei fatti, non mancaron di coprirli di parole religiose. Gli impiccati dissero martiri, profeta il Mazzini, redentore il Garibaldi, sacro dritto la rivolta, santa la causa, crociati i militi; e i motti: Dio lo vuole, Dio e Popolo.
E dalla religione tolsero il mistero e la Fede; ché com’essa vogliono misteriosamente per fede esser creduti. Ma la religione che sta sul sommo vero e su Dio, di natura increata, non sarebbe da noi creati compresa senza fede; laddove la giustizia dell'opere politiche può e deve esser compresa da tutte persone. Ma con tante ipocrite arti, benché molti irretissero, pur non giunsero a un nostro contadino o marinaio; però li accusano di barbarie. Con fede vera il nostro popolo risponde nei fatti: ogni barca che lancia a mare ha il nome d’un santo; ogni voto è alla Madonna, ogni sentimento è Dio e li De.
Come eran bigotti così eran falsi letterati. Fatta seguenza ne’ giovani, spingevano a studii fallaci. Gemevano i torchi per opere scritte a disegno, cui tosto strombazzavano eccellenti. Sovente udivi celebrare a un tratto nomi nuovi di scrittori, e cogliere allori per mediocri e brevi lavori, in questa terra dove già fur tanto obbliati in vita gli autori della Gerusalemme e della Scienza Nuova. Era loro legge severissima il non lodare scrittori non settarii: se mediocri li laceravano, se buoni li punivan di silenzio. Sola dispensiera di fama la setta; tirannide nuova agl’ingegni. Prima s’inventò una poesia scoraggiante, disperata, malinconica; alle lamentazioni del Byron e del Leopardi tutti facean ritornello; e udivi cantar di suicidii e di tombe giovanetti paffuti, passanti la vita in botteghe da caffè e in cene ubbriachesche. Così la letteratura d’oltremonte detta romantica ne invase, lugubre e insanguinata, che acconciava gli animi ad ire e ferocità; tutto dovea esser romantico per aver lode; le menti discostate dal bello e dall’onesto, si intrattenevan nel brutto e nel vizio; e né andava guasta la gaia indole italiana, già sempre autrice di grandi opere di intelletto. Dimenticati gli ameni e forti studii, le fantasie voltavano alla Scandinavia, e al medio evo; e n’evocavano immagini sepolcrali, e streghe e vampiri e spettri, fecondi di strani e foschi pensamenti. Né poi dal medio evo pigliavan tutto: le forme repubblicane sì, non la pietà cristiana e la fiducia in Dio; quasi che quella eroica età di mezzo, mescolanza di spiriti religiosi e avventati, generosi e vendicativi, municipali e liberali, talentosi e creduli, potesse scissa servir di modello nel male, sconosciuta nel bene. Malizia fu porre innanzi inimitabili tempi, e una società uscita dal caos, perché i giovani al facile sfuriar delle passioni avvezzati, anelasser commovimenti.
Pertanto miriadi di scrittori. Talun cominciava con miti e brevi operette commendate, che non avendo reità correvan senza sospetto; e poi che avea preso nome di moderato e imparziale, si lanciava pian piano con vaghe forme d’arte a incarnarle idee preconcette. Subito l'opera laudatasi ma, raccomandata, letta,ammirala, si lacca largo e seguaci. A poco a poco scambiavansi i nomi alla virtù ed al vizio, questo innalzato, quella depressa; l’amor sozzo dicevan carità, l’orgoglio castità, liberale il ribelle, coraggio civile la sfrontatezza. Ogni fatto presente si dileggiava, niuna cosa buona era buona, ogni eccellenza patria merlava dispregio, ogni opera di governo era vecchia e stracca e malfatta: volevasi civiltà, progresso, scienza, grandezza italiana. Né tai cose definivano: bastava fomentar desiderii di ignoto, ammirazioni di costituzioni straniere, non curanza del nostro, che si fosse; uno spasimar cose vaghe, ideali, indeterminate, una fidanza in mutamenti immancabili e vicini. Fingendo il passato, la letteratura colorava l’avvenire con lusinghe di speranza, con pompa d’eloquenza, e vezzi di poesia; onde i lettori abbagliati da tanta promissione di beni, né ripetevano i concetti, e senza saperlo eran braccio di sette.
I governi italiani di ciò non s’avvedevano, e facevan ponte al nemico. Fu misera cecità che la censura preventrice de' libri e de' teatri, combattesse grettamente parole e motti, quando lasciava correre quella letteratura falsa, che come è dannosa all'arte del bello, così minacciava la quiete sociale. Storie, romanzi, versi, drammi bruttavano torchi e scene, che senza il favor settario s’avrebbero avuto fiamme e fischi; e invece permessi e plauditi, navigavano a vele gonfie al naufragio della cosa pubblica. Né d'Italia solo; venivan di Francia e di Germania, pria celebrati, torrenti di commedie, novelle, scene e quadri e leggende e romanzi corrompitori del gusto, e seminatori di principii di comunella, cui dicevan sociali, con bella parola; ma che al nerbo della società fean guerra. Né tampoco adesso cotesta straniera letteratura ha finito d'invader l'Italia; né ancora l'Italia doma da arme straniere ha smesso il basso vezzo d'esser di straniere lettere imitatrice, dove fu reina e maestra. Quest'altro danno avemmo dalle sette, che proclamanti libertà tendono ad asservire questa patria, anche nella manifestazione di quel l’ingegno che Dio ne largiva.
Con estrana letteratura anche estrana filosofia. Abbandonata era quella del Galilei e le’ nostri grandi che alla ragione avean reso il seggio della verità. Kant Prussiano, adepto del Weishaupt, in sullo scorcio del passato secolo risuscitava il razionalismo, e il lanciava nel trascendente e nelle astrattezze; ma comi facea le viste di favorire il concetto cattolico, e la incomprensibilità spirituale de' suoi simboli e misteri, così da prima si fe’ piazza; e fondò una scuola che travarcate l'Alpi e il Reno invase Francia, e giunse nella terra di»’Vico e de' Tommasi. Vaga, astrusa, inintelligibile, riformata da molti, veniva d'oltremonte in grossi volumi, con sistemi rinnovati ogni anno, fondati sopra formolo e parole, che quanto men comprese più lodate, adusavano gl'intelletti alle tenebre, a esser seguito ed eco a maestroni foschi, a non veder chiaro mai, e alarsi con imparacchiale formolo universali sentenziatori d’ogni cosa. A forza d’inventar formolo in filosofia che annullano la ragione, s’è venuto a inventar formule in politica che a suon di paroloni assassinano le nazioni: Fraternità, Uguaglianza, Unità. —Giusto mezzo. — Chiesa libera in libero stato. — L’impero è la pace. — Re galantuomo, logica inesorabile di fatti, fatti compiuti, non interventi, ecc. E perche niuno quella nebulosa filosofia intendeva, ti sentivi dire: L'idea esser simbolo d'intelligenza, nulla valer la forma che accenna, la materia; e non pertanto questa idea spirituale cui niuno avea dritto di comprendere, s’avventava poi contro la Fede e gli Stati e le ricchezze. Il Kant dal fondo de' suoi bui aveva eruttato questo chiaro: L'uomo non deve cercare in altro mondo lo scopo e il destino umano. Gli uomini passano, resta la specie, e questa sola è immortale. La società perfetta dev'essere una con federazione generale di tutti i popoli, che sarà libertà, uguaglianza, e pace perpetua. Costoro col pretesto di pace eterna a' venturi fan guerra da cannibali a' viventi; e abbiam visto informate di questo spirito qui fra noi le proclamazioni bellicose di Vittorio e di Garibaldi.
Che siffatta filosofia e quella letteratura fosser opera di setta niuno dubita, sondo uno stento e un affanno a studiarle, per imparare il nulla e sentire il brutto. Vedemmo infatti chi d’ambe era studioso appalesarsi progressivo in questi progressi del 1848 e 1860; echi era retrogrado gridato in lettere e filosofie s’ebbe pur taccia di codino in politica, quando i preparati inganni furon maturi.
Gridano progresso. Progresso è avanzamento continuo di beni materiali e morali all'avvoltante dell'età. E certo ogni governo debb'essere progressivo, perché progressiva è l’indole umana. Bambino, fanciullo, giovine, uomo, vecchio, per tai passaggi cammina la persona; e nel morale ha imbecillità, ragione, istruzione, esperienza e saviezza. L’umanità prima ebbe solitudine di famiglia, poi linguaggio, società, tribunali, altari e re. Cominciò con vizii, rapine, vendette, superstizioni, tirannidi, schiavitù, e l’imperio della forza fu detta gloria; poi venne lo studio della legge naturale; e le arti belle, massime la poesia, segnarono il principiò dell'incivilimento; seguitò la morale, il compì la religione di Cristo. Meno truci passioni, l'amor del prossimo, la luce e la verità, le scienze, e le invenzioni dell'ago magnetico, della stampa, e della polvere, del vapore e dell'elettricità han fatto dell'umanità una famiglia. Anche le passioni acerbe progredirono a bene: il dominio di Roma preparava l’universalità del Cristianesimo; l'accentrarsi della potestà die’ forza ed armonia al governo; la guerra più grossa fu più rara e men sanguinosa; il cannone con la velocità de' danni diminuì i disagi di campagne lunghe; lo stesso assolutismo fe’ più sicuri e liberali i sovrani; le arti progredirono, la vita è più agiata, la tirannia principesca è quasi ignota; il principato divenuto civile è fonte di prosperità. Eppure l'umanità può e deve ancora progredire. Ma tre condizioni d'avanzamento ha il progredire: legale, conservatore, definito. Legale, perché non sorga l'arbitrio; conservatore, perché non distrugga gli ordini compositori dello Stato; definito, perché finito è l'uomo, né può aspirare a beni infiniti in terra. Felice Italia se non avesse avuto sette; i suoi Principi, senza tema, l’avrebbero menata a prosperità, progrediente al vero bene nazionale. Per contrario i novatori vogliono sublimare lo arbitrio loro sopra la legalità; vogliono schiacciare uno o più o tutti gli ordini esistenti; distruggere aristocrazia, monarchia, religione, o scomporne o scemarne l’equilibrio e le proporzioni, e promettono poi dal caos una seguenza infinita di beni; quasi l’uomo potesse diventar angiolo, mentre il fanno ribelle a Dio. Così Eva per progredire a divinità indietreggiò alla morte.
Pria volean progresso civile, poi appagamento di bisogni sociali, poi costituzioni, poi federazioni, ora siamo all’unità ch’è distruggitrice d’ogni dritto altrui; domani vorranno repubblica, e poi? Vantatori di progresso, spingendo incessanti in tutti i versi governanti e governati, ciechi sconoscono la meta, e se ne allontanano, gridano civiltà, e arrovesciano il secolo al medio evo, proclamano dritti di popolo, e schiacciano quelli di ciascuno, e tornano indietro a quel della forza sulla ragione, lodano la ragione ed operano con delirio, e camminando sempre a sproposito non procedono, retrocedono. Per progresso intendono il progredire della rivoluzione, non quello della civiltà.
Loro grande alleato è il lusso. Quando l'uomo avea pochi bisogni con poco era felice. Il Romano con solo la toga era vestito, e il resto del giorno spendeva speculando sull’arti belle, o in fatti egregi. Oggi ammiriamo le virtù pagane, e quella sconosciamo che nella parsimonia li faceva grandi. Noi per vestire abbiamo mestiere di cento arnesi, e di mille e più per la casa; né già d’opere d'arti, ma di luccicanti minuzie, che agli occhi non all’animo fan piacere. Il vestimento, il mangiare, il gioco, il fumare ne piglia tutta la vita. La maravigliosa necessità delle inezie che circondari la donna non conto. Ciascuno sospira il possedimento di tali vanità, che al savio son giocarelli da bimbo; ciascuno si fa tutta la vita bambino, si affatica a cumularne, e guarda in altri con invidia cotesto sommo di felicità. Quindi brame inappagate, sforzi per conseguirle; vane aspirazioni, dispetti, odii e dolori. Siamo a tale che la parsimonia è considerata ridicola; e molti si sforzano d'arricchire più per far pompa che per godere delle ricchezze.
Quando questa foga di cose dorate piglia i popoli, non è possibile che restin virtuosi. Non costume, non giustizia, non fede, non quiete. Mal curando il bene sodo, si va appresso a folla di beni futili; né si può badare alla moralità dei modi a conseguirli. Ciascuno a stendervi le mani, a uscir dal grado nativo, e a lanciarsi innanzi sempre, ché più cammina e consegue, e più via e più cose da conseguire si vede avanti. Allora nessun governo legittimo è buono, perche affrenatore di brame immoderate; e quando anche un governo rivoluzionario abbian fatto, neppure il fanno riposare, ché tosto si scatenano contro di esso, e con più ragione, le passioni stesse che l’aiutarono a salire, perché non è lo stare che appaghi, ma il mutare e l'agitarsi; oltre di che a' sazii subentrano i digiuni incessantemente. In questa grande ansia irrequieta è moltissima gente. Corrotta, corrompe, balorda, imbalordisce, sospinta, sospinge, si lancia ad ogni reo partito, sconfessa la morale e la religione, e incensa cavalli, drappi, trance e cortine d’oro. Grida patria, e sdegna vestir di tela tessuta in patria, grida Italia, e parla francese, e tien gli occhi a' figurini di Parigi e di Londra; grida indipendenza, e plaude all’arme straniere, né altro loda che cose estranee, e cinguetta e mangia e danza alla forestiera. Così ignorando le leggi patrie sospiriam costituzioni all’inglese; vogliam diventare grande nazione, e disprezziamo noi stessi.
Di tutte le classi la media è la più sprofondata nel lusso, o che il possa o no. Ha prurito di parer grande, il fa come può con le carrozze, le porcellane e le assise; e della moda sente frenetica necessità. E peggio che questa classe media ingrossa ogni dì. V’entra il nobile scaduto, per le mancate sostanze e i cresciuti bisogni, e come non potendo essere vuol parere, si lancia di leggieri nelle rivoluzioni, dove spera subiti guadagni. Aristocratici nell'ossa, contraffanno democrazia per farsene sgabello, ignoranti parlan di progresso, prepotenti vantano uguaglianza, infanciulliti con fievoli pensieri in bazzecole, trinciano politica e legislazione, e bassi sollecitatori di ciondoli e nastri, fanno i Bruti per diventare Antonii. Antonio fu appunto nobile scaduto.
Entrano in più nella mediana classe gli artigiani arricchiti, i contadini ch’han posata la marra, i fratelli o i nipoti di preti, i figli degli uscieri e bidelli, e altri cosiffatti che vogliono salire. Per far vista di saputi questi soventi son servi di setta. Ogni dì la buona classe degli operai e de' contadini scema, e s’ingrossa il numero di chi senza far niente vuol vivere alla grande. Pertanto lo stato medio, dove son pur molti virtuosi, e ornamento della patria, va sempre crescendo, con elementi guasti che scendon di su o salgono di giù, irrequieti, bisognosi, vanitosi, ed audaci. Questi in tempi di pace sono insigni per cortigianerie, inchini ad arti basse, in tempi di subugli alzan le cervici, e parlan come Scipioni e Camilli, per vivere da Sardanapali a spese della nazione.
Il lusso avversa la natura, perché fa bello il raro. Esso nutrica la sete insaziabile dell’oro, l’ingordigia dell’averlo, e la immoralità su’ modi a conseguirlo; esso abbarbica il vizio, toglie via la vergogna e la probità, fomenta libidini, e fa l’animo servo; esso fa eludere le leggi, beffar la virtù modesta, trionfar la tristizia. Il lusso ha oppressa l’umanità. Più rari i matrimonii, più frequente il concubinato, difficile l'amicizia, la fede un miracolo, divisioni nelle famiglie e nello Stato, non v’è pietà, né carità; e per esso manca poi il tozzo di pane a migliaia d’infelici che d’inedia finiscono nelle città più popolose.
Per cagion del lusso le arti belle non han più capolavori; e l’ingegno umano volto alla soddisfazione di futili bisogni par ch’abbia perduta la favilla creatrice. Gli antichi savii proscrivevano il lusso co' costumi e con leggi; i moderni il fomentano, e né fan lodi insigni. Scrittori di economia il predicano fonte di civiltà, e né han persuaso il mondo. Oggi uno Stato si ruina senza rimorso. Siam diventati corrotti, come i Romani del basso Impero, cui il Signore per purificare mandò il ferro e il fuoco de' Barbari. Ma, si risponde, oggi in Iscizia non sono più barbari. Se non ve n’ha Scizia, ve n’ha in mezzo a noi. I nostri barbari sono le sette che movono i comunisti e i proletarii; e questi se non si rimedia subisseranno la nostra snervata civiltà.
La setta è potenza mondiale. Ha re, senati, magistrati, eserciti, tasse, navigli, bargelli, finanze e condottieri. Ha codici, fa sentenze e le esegue in ogni paese. Ha sudditi su tutta la terra, e né ha ubbidienza cieca, combatte con la fama, con la stampa, col pugnale, e col cannone. Sudditi ha di tutte condizioni e stati, d’ambo i sessi, monaci e preti, re e imperatori. Domina nelle famiglie, nelle città, nelle reggie, ne’ tribunali, sulla terra e sul mare. Oggi ha sedia in Londra. Di là il Mazzini, il Kossuth, il Ledru-Rollin governano le rivoluzioni, mandano sicarii a ferire i re della terra e i ribelli alla loro potestà. La storia narrerà quanti alti personaggi facesser colpire. Otto attentati in sette anni sull’imperatore Napoleone se non lo spensero, pur seppero con Bulimie bombe dell’Orsini ricordargli la mole de' suoi doveri. E ch'egli ubbidisse con la guerra d’Italia del 59 è voce che sin nelle camere legislative di Francia risuonò. In questo tempo è la gran lotta finale fra la setta e la società, e chi sa se col secolo sarà compiuta? Essa confida nel trionfo: procede sempre, né mai si dà vinta, né mai perde terreno, percossa, si rannicchia, si fa piccina, si finge oppressa, piange, invoca pietà, e con sotterraneo lavorio prepara la riscossa, e più prolifica e si spande. Ripercossa, aspetta un’altra generazione; è misera, lusinghiera, cortegiana, servite, accattona, pinzochera, e spigolistra, abborre il sangue e la pena di morte, invoca la civiltà e la religione, la giustizia, la legge, e l’umanità; mostra pentimento, fa elegie e canti epitalamii in lode di re e principi, inneggia a' Santi ed a Dio, si confessa, giura, protesta fede, e arriva a farsi credere la parte migliore della società.
Frattanto tiene conciliaboli nelle vie, ne’ caffè, nelle feste da ballo, nelle reggie e nelle chiese; fa testimonianze false, e raccomanda e difende, salva e sostenta i suoi, calunnia gl’avversarii, li abbassa, li rende poveri e odiati, li divide, li combatte ad uno, e li stiletta; frattanto si fa maestra alla gioventù, la corrompe, promette l’età dell’oro, e guadagna seguaci. A modo di talpa mina il terreno sociale; e quando crede maturo il tempo abbrucia i puntelli, e con gran fracasso fa crollare i fondamenti della società. Trionfa allora, gì Ita le maschere, passeggia con le spade sanguinose fra monti di cadaveri, bandisce il regno della ragione, proclama il dritto nuovo, canta sue glorie, vuota di malfattori le carceri, e le popola d'onesti; implacabile vendicatrice colpisce spietata, saccheggia, arde, stupra, fucila senza giudizii; e tali nefandezze appella sentenze di pubblica opinione. Senza più ritegno, balla sugli altari del Signore, guerreggia frati e suore, carcera vescovi e cardinali, vilipende e maledice il Papa, vuol Roma e il Campidoglio, nega la divinità di Cristo, e predica sin nelle chiese contro la Vergine Madre. Allora tutto è suo. Delle reggie fa osterie, i templi fa stalla, delle città fa bordelli; mutila i monumenti, rapina il tesoro pubblico, le casse ecclesiastiche, i luoghi pii; vende i beni demaniali e clericali, fa debiti a milioni di milioni, e attenta alla privata proprietà con tasse interminabili e gravosissime. Quella è la invasione de' Barbari, e peggio; ché i Barbari fra tante ruine distrussero gli avanzi del gentilesimo, e sublimarono la Cristianità; ma i Barbari presenti, abbattono anzi il cristianesimo e la fede, per estollere l'ateismo ed il nulla. Da' Barbari del settentrione emerse la società nuova; ma questi Barbari che abbiamo in tutte le zone, nel mezzo delle città nostre, sono sterili e distruggitori; quelli nel sangue affogarono la corruzione pagana, questi col sangue vogliono abolir Cristo, e intronizzare la corruzione universale; quelli abbatterono gl’idoli, questi assalgono Dio. Ma v’è la Provvidenza.
Sovrani i più odiati dalla setta sono i Borboni, ché il nome loro è congiunto a quanto fe’ di più eccelso l’europea famiglia, dalla prima crociala sino all’ultima impresa d’Algieri. Eglino furono spada del mondo cristiano, la legge, la ragione, sono egida della proprietà, diga alle ambizioni, propugnatori naturali della Fede, quindi a nemici tienli chi agogna vietate altezze, e rovesciamenti di culti e troni. I Borboni significano il dritto eterno, le sette inventano il dritto nuovo. Però in sul primo scocco del debaccare dicollarono il buon Luigi XVI, appunto perché buono.
Ma lo sfuriar violentissimo, poi che più anni non sazio, per lo abborrimento universale cadde, ebbe a cedere il seggio al Bonaparte, che fu prima metamorfosi della rivoluzione. Questi per ragion di stato rialzò gli altari voluti dalla umana coscienza; ma sendo egli stesso espressione di filosofi ed Ugonotti, presto ebbe a seguitare il concetto settario interrotto, onde prese Roma, esautorò il Papa, né abolì il dominio temporale, die’ la scalata al Quirinale, e più anni tenne prigione Pio VII e i cardinali sparpagliati in Castelli francesi. Ei si rideva della scomunica; perché diceva essa non toglier l’arme dì mano a' suoi soldati. Eppure alla sua forza sterminata reagirono le forze sociali e la stanchezza dello ingiusto; il Papa a Fontainebleau fu più che in Vaticano tremendo alla colpa, la religione guadagnò voti e simpatie; e coi ghiacci del 1812 cadder l’arme di mano a' soldati Napoleonici, nelle bianche lande di Russia.
Quella fu fermata della rivoluzione; il colosso restò solo; e come la nazione francese udì gli alleati a Parigi gridò da tutte parti viva i Russi, viva i Borboni, abbatté le aquile, e rialzò i gigli. Egli abdicò, ottenne la sovranità della piccola Elba; ma presto a 26 febbraio 1815 voto a ripigliar l’imperio: e die’ alla storia delle ambizioni quei cento giorni che dicono gloriosissimi, ma che riallagarono di umano sangue l'Europa, e lui menarono a S. Elena. Spariti i Bonaparti, seguirono trentatré anni di pace.
Ma prima di narrare le ripigliate rivoluzioni, debbo dire qualcosa dei dieci anni di francese dominazione nel Napolitano. Rientrarono i Francesi a' primi di febbraio 1806 nel regno, e al 14 in Napoli; dove l’ingresso trionfale lor preparato da' perdonati liberali plaudenti allo straniero andò guasto dalla pioggia. Così dopo 54 anni vedemmo la pioggia guastar l'ingresso d’altro straniero plaudito dalla setta stessa. Appena giunti fecero carcerazioni innumerevoli. Il dì seguente entrò Giuseppe fratello di Napoleone; e proclamò i Borboni aver cessato di regnare. Di poi fatto esso re, a 30 marzo entrò da re nella città; e il popolo restò muto. Prima opera reale fu pigliar d’assalto Maratea, e darle il sacco, e bruttarla di sangue e supplizii. Al general Rodio che solo aveva osato fare qualche resistenza ai conquistatori fecero in un dì due sentenze; con la prima dichiarato prigioniero di guerra e assoluto, con la seconda qual brigante condannato: la dimane lo fucilarono alle spalle. Ai traditori si dettero premii, gradi, e onoranze. Fu inventato il ministero di polizia; ministro il Giacobino Saliceti, fatto di liberale sgherro, quindi spie, carceri, morti, esilii senza giudizio, persecuzioni di borboniani incessanti ed efferate.
I popoli alzaron bandiera di gigli. Soccorseli l’inglese generale Steward con seimila Anglo-Napolitani; il quale disceso in Calabria, ruppe su’ campi di Maida il francese Regnier. E benché senza valersi della vittoria poco stante si ritraesse, pur die’ animo a' Calabresi, che in quella giornata avean valorosamente combattuto. Allora gli stranieri conquistatori posero nome di briganti a' difensori del proprio paese e del patrio re. Cominciò guerra atrocissima. Punizioni terribili; giudizii sul tamburo, prigionie ingiuste, uccisioni nefande; non bastando mannaie, archibugi e capestri, usavan lapidazioni e pali. Il Colletta (carbonaro) nota aver visto uno a Monteleone appeso al muro e lapidato, e un altro, per ordine di colonnello venuto di Turchia, conficcato al palo. Mancando le prigioni al numero de' carcerati, fingevan tramutarli, e per ira trucidavanli, o mandavanli a Campiano, a Fenestrelle e ad altre parti di Francia.
Qualunque propugnatore del suo paese era reo, e talvolta pur punito chi di tal delitto era innocente. Crearono la guerra civile; fecero bande paesane e mandaronle a forza contro i paesani Briganti. Dopo le Calabrie, la Basilicata, i Principati e Molise formicolavano di Borboniani; fra Diavolo movea Terra di Lavoro, un Piccioli gli Abruzzi. Le isole in mano agl’Inglesi.
Gaeta con memorando assedio durò sino a 18 luglio, difesa da' Napolitani, duce il principe Philipstadt. Quindi il vincitore Massena volse onnipossente con l’esercito in Calabria; ma accolto con archibugiate, die’ il sacco a Lamia, e Farse, con entro vecchi, fanciulli e infermi. Ad Amantea il colonnello borbonico Mirabella con tre soli cannoni vecchi ributtò due assalti diurno e notturno del generale Verdier; il quale ritrattosene, vi tornò a dicembre con più forze, pur anco respinto. Dopo quaranta giorni la fame, resa la difesa impossibile, fe’ capitolare i difensori, con patto di ritrarsi in Sicilia. Cotrone difendendosi forte, finito il pane non aperse le porte; ma il presidio sfondata a forza la linea francese si fece il varco a mare, a' vascelli inglesi. Più era il rigore, più i briganti. Proclamarono amnistie; ma dove quei disgraziati si presentavano, ne facevan macello, e il Colletta afferma aver visti molti cadaveri di presentati nella valle di Morano.
In questo furor di sforzata guerra civile i dominatori tutte cose cordini mutavano. Leggi amministrative e municipali trapiantate di Francia, liberali per forma, dispotiche in fatto; guardie civiche e provinciali; abolirono, e dissi il come, la feudalità e i fedecommessi, rifecero il catasto. Subito i balzelli che prima eran molti ma lievi, fecer pochi ma gravi: spogliarono i possessori degli antichi arrendamenti, e misero la tassa diretta fondiaria, calcolata sul quinto della rendita de' fondi; poi tasse indirette sulle merci e sul consumo; e quella sul sale gravosissima vollero obbligatoria, cioè testatico di cinque rotola a persona all’anno. Inventarono il Gran Libro del debito pubblico. Le Finanze, le percezioni, gli appalti, le forniture, date tutte a Francesi pubblicani. Disciolsero ordini religiosi; abolirono conventi ricchi, lasciarono i poveri, venderono le robe, venderon demanii e fecer moneta, interessando molti alla causa loro. Per questa ragione stessa moltiplicarono impieghi e soldi, che pesando sulla nazione complicarono la macchina governativa. Stabilirono pubbliche case di giuoco, con tassa che die’ al fisco 240 mila ducati all’anno, con uffiziali a guidarle, dove si rovinaron giovanetti e dame, e si corruppe il costume. Anche case di prostituzioni miser su, con tasse fisse, come di merci. In dicembre uscì il decreto Napoleonico del blocco continentale, che per osteggiare l'Inghilterra abolì il commercio; legge non più vista che parve delirio, ed era tirannide furibonda. Coteste ed altre moltissime mutazioni, lodale da' novatori, riuscivan poco gradite a' popoli avvezzi al mite. Un bene furono innovi codici delle leggi.
Nel 1807 l’odio, cresciuto molto, scoppiò in congiure; suscitavanle le vendette de' conquistatori; talvolta eglino stessi le inventavano o ingrandivano, per paura, per rabbia, per vanto. Declamatori virulenti contro le severità de' nostri re, iniquissimi furon essi: caddero in dieci anni quarantamila per supplizii d’ogni sorta; decapitarono il duca Filomarino, impiccarono il marchese colonnello Palmieri; carcerarono principi, e gran numero dame, frati, e preti. Si vider monache giudicate da tribunali. Prima i beni de' fuoriesciti sequestrarono, poi confiscarono. Quindi rabbiose vendette. A 30 gennaio 1808 saltò per mina in aria il palazzo Serracapriola a Chiaia, per uccidere l’odiato ministro Saliceti; ci fra le macerie andò salvo; onde nuovi patiboli e nuovi strazii. Dipoi Napoleone che combattendo gli Spagnuoli, per illuderli si tacca liberale, die’ uno statuto detto di Baiona, conceditore di cerio libertà costituzionali; il quale fu anche a Napoli promesso, non posto in alto mai. In Ispagna combattevan pe' Francesi alquante schiere napolitano, laudati molto. Servi, noi, davamo il sangue per l’altrui servitù.
A 2 luglio 1808 Giuseppe fe’ l’editto d’esser passato a re di Spagna; e al 15 Napoleone mandò successore il cognato Gioacchino Murat. Questi entrò in Napoli il 6 settembre, né fu spietato come Giuseppe; ma assicuralo per vittorie francesi, potè mostrarsi generoso. Nondimeno la controrivoluzione brigantesca ingagliardiva in Calabria, e anche in Abruzzo. Per combatterla davano un braccio i Francesi occupatori dello stato papale, e mandavan bande paesane raccolte nelle Romagne; perlocché Pio VII con dichiarazione del agosto di quell’anno il proibì; la quale fu pretesto al generali! Miollis, comandante in Roma, a infierire contro il Papa.
Gioacchino presto fe’ un esercito alla francese, ma per avervi partigiani curò poco la disciplina. Compì lo scioglimento de' conventi, fe’ una schiera di cacciatrici dame; i beni de' monaci finì di vendere, o regalò in premio di civetterie a cotali dame; mandò reggimenti di soldati in Roma, che giunservi in fretta quella nera notte del 6 luglio 1809 per coadiuvare alla grande impresa del pigliar d’assalto il Quirinale, e carcerare Pio settimo e i cardinali. Poscia indragato contro i briganti, fe’ tre leggi atroci: confiscazioni a' combattenti per Ferdinando; inviti a disertare, promesse di premii, minacce di morte se cadesser prigioni; e liste di banditi. Nessuno disertò; e infierì la polizia. Nella state i Briganti respinsero i Francesi a Campotenese, su’ monti di Laurenzano, e a S. Gregorio. La reggia in Napoli scintillava di ori e gemme; le provincie eran di sangue lorde.
Sul finir del 1810 andò in Calabria il generale Manhes; de' cui misfatti inorridisce l’umanità. Questi nato a 4 novembre 1777 ad Aurillac del Bandai, ambiziosissimo, che volea fama, buona o rea a ogni costo, stato Giacobino, aiutante di campo di Gioacchino, ora scelto dal Saliceti ebbe potestà dittatoria. Visto caduto indardo in più anni il fiore de' Francesi in quella guerra parteggiata, inventò nuovissimo supplizio di nazione. Spinse tutta la Calabria contro i Calabresi. Mise soldati in città per isforzar cittadini a combatter briganti. Liste di banditi, ordini a' popoli d’ucciderli, armar tutti e a forza, sospinger padri, figli e fratelli, contro fratelli, figli, e padri, mogli contro mariti, amici contro amici; togliere le greggi a' campi, la coltura alle terre, divieto di portar cibi fuor di città, inesorabile morte a qualunque si negasse; gendarmi e soldati, non a perseguitar briganti, ma a obbligar la pacifica gente a quelle atrocità; morti, busse, sangue, lagrime da per tutto; contadini, vecchi, femminelle, fanciulli fucilati per un briciol di pane in tasca; sciolti i legami sociali e naturali, non parentela, non amistà, non sesso, non rimembranze d’affetto tener più; spie, denunzie, vendette, tradimenti, menzogne, accuse, tutto lecito a salvar sé, pera il mondo. Poi supplizii subitanei, torture, membra mozze; padri co' figli trucidati; padri sforzati a veder prima di morire la morte de' figli; mogli premiate a contanti d’aver uccisi i mariti; giustiziate nutrici di bamboli di briganti, città disertate tutte, popolazioni intere condannate a morir ne’ boschi, a esser rigettate fuori, pena la morte, da ogni abituro; preti in massa chiusi in fortezza; il Manhes pronunziare interdetti, abolire in pena i sacramenti, e sbianco il battesimo. Tante ruine di popolazioni per sorreggere il trono a stranieri! E così predicarono estirpato il brigantaggio! Cotesto Manhes si bravo contro le pacifiche popolazioni, fuggì dal Liri, quando ebbe a combattere i Tedeschi invasori.
Soldati Napoletani fur mandati alla guerra di Russia, e vi perirono a migliaia. Dopo il rovescio di fortuna, Gioacchino abbandonò il cognato che l’aveva fatto re. Acremente né fu ripreso, e più acremente rispose. Allora i Carbonari per far pro di quell’ira gli proposero la corona d’Italia, col consueto pretesto del farla una; presentavangli la penisola a quel tempo vuota di Francesi e di Tedeschi, Bonaparte percosso non far timore, dargli addosso meritar premio dai sovrani alleati, potersi aver l’Inghilterra amica e soccorrevole; e di leggieri persuasero quel leggiero cervello. Corser pratiche con gl’Inglesi; il Bentink aderiva, e prometteva venticinquemila soldati brittanni per aiutarlo all’impresa. Ma per nuove carezze Napoleoniche richiamato lui al campo a Dresda, il disegno cadde.
Ricominciarono i rigori contro i carbonari. Uno di questi detto Capobianco, nel 1815, invitato a mensa da un generale Jannelli, uscendo di tavola è da esso carcerato, e la dimane giudicato in poche ore e decollalo a Cosenza. Gioacchino volteggia di nuovo; si collega con Austria a 11 gennaio 1811: trenta mila Napolitani congiunti ai Tedeschi scaccerebbero i Francesi d’Italia; egli avrebbe incremento di paese sul Romano, e pace con Ferdinando di Sicilia. A’ 26 firma armestizio con l’Inghilterra, cessa il blocco continentale e s’apre il commercio. Incomincia la campagna, ma Gioacchino Ira l'ingratitudine e il desio di regno fa guerra irresoluta, piglia Ancona, gl'Inglesi sospettati di lui, egli degl’Inlgesi. In quelle sue dubbiezze Pio VII torna trionfatore sulle braccia de' popoli da Fontainebleau a Roma, e i carbonari si sollevano in Abruzzo contro lui, corso a far l’Italia per loro instigazione. Vistosi inviso ad amici e nemici, tenta riconciliarsi col cognato, e né prega Eugenio viceré, ma questi il rifiuta, e anzi accusalo agli alleati. La ruina di Napoleone rese inutile quella guerra.
Gioacchino tornato in Napoli, smaccato, re nuovo fra re antichi che s’andavan ripristinando, studiò farsi benevolo ai soggetti: moderò i tributi, per gratificare Albione allargò il commercio, abolì la dogana del cabotaggio, fe’ libera l’uscita de' grani, tolse dazii, ordinò che soli Napolitani, non più Francesi avessero uffizii. Questi che con lui avean tradito Francia restar senza patria e senza soldo: però reclamazioni e accuse, cui rimediarono battezzandoli cittadini, quindi burla, e sdegno a' nostrani. Volle crescer l’esercito, e designò fare un reggimento di Napolitani reduci da Sicilia, ma nol trovò a fare.
Sendo Napoleone all’Elba confinato, tosto con messi e con lacci di parentela si rappiastrarono e riconfederarono. Gioacchino sciente de' disegni nuovi di lui, quand’egli a 26 febbraio 1815 con mille soldati voto in Francia, scrisse a ingannar gli alleati esser loro fedele, ma come udì il cognato trionfare, tosto a' 15 marzo lor dichiarò la guerra. Il 22 uscì con 30 mila soldati per via di Roma e per le Marche, fe’ proclami per sollevare Italia tutta, ebbe sonetti e canti. Fugò il Papa, superò uno scontro sul Panaro, prese Ferrara, e volse in Toscana; poi indietro tradito da' suoi duci è vinto a Tolentino da' Tedeschi, e perseguitato rientra nel regno.
Pensò in quelli estremi guadagnar la nazione, dando costituzione con data finta del 30 marzo, pubblicata il 18 maggio: due camere, stampa libera, magistrati inamovibili. Ma i Carbonari che poco innanzi bramavanla per combattere il poter regio, erano impossenti allora contro i vincitori; e la nazione che voleva quiete, stette prima a guardare, poi gridò Borboni. Ei fuggì a S. Leucio, indi a Napoli, e, per Pozzuoli ad Ischia, cheto s’imbarcò per Francia.
I tempi di questi Giuseppe e Gioacchino, tenuti da Napoleone re dì nome, prefetti di fatto, stretti per non più visto assolutismo, lordi di supplizii, lagrimosi per esilii, confische e blocchi continentali, tristi per brigantaggio, per infelici guerre, per vite spente in conflitti lontani per gare altrui, vergognosi per due invasioni di stranieri, tristissimi per costumi corrotti, sfogate vendette e percossa religione, son pur laudati da certi che si vantan liberali e patrioti. I Carbonari che cospiraron contro quel governo straniero, e il lasciaron con vergogna cadere, finser di lodarlo e sospirarlo, quando avevano a cospirare contro il governo legittimo. Dappoi, per preparar cospirazioni nuove, avendo a infamare i Borboni, presero a esaltare i Napoleonidi. Mail popolo che sente i suoi interessi giudicò giusto, e la storia, che narra fatti, lamenta i travagli di que’ dieci tribolali anni.
Gioacchino prima di partire avea mandato da Napoli i generali Carrascosa e Colletta a trattar col nemico; e costoro a 20 maggio convennero co' generali Bianchi e Neipperg cedere Capua e Napoli co' castelli, garantirsi il debito pubblico, confermarsi i militari ne’ gradi e soldi. Questa convenzione, fatta a tre miglia da Capua in una casina Lanza, dissesi di Casalanza. Il Principe Leopoldo Borbone entrò il 22 in Napoli, plauditissimo; in mentre Carolina Murat stata regina, rifugiata su vascello inglese, nel porto udiva le feste della sua cacciata, e per via le salve di cannone a re Ferdinando che entrava.
Questi scendeva a Baia il 4 giugno, festeggiato da tutto il reame; accoglieva benigno ogni maniera di persone, e insieme generali e uffiziali Muratimi e Siciliani, che si spregiavano a vicenda. Mise agli 11 di quel mese la prima pietra del tempio a S. Francesco di Paola avanti la reggia, per voto nell'esilio. Il Papa e gli altri Principi spodestati ritornarono senza guerra a loro sedi; e l’Italia e l’Europa ricomposte riposarono. A Vienna, col trattato del 9 giugno di quell’anno 1815, i sovrani fermaron le basi dell’avvenire. Ferdinando nostro vi aderì; al 12 fermò alleanza con Austria, e a 26 settembre si unì alla santa alleanza. Fu statuito il regno uno, delle Due Sicilie; Ferdinando però di quarto s’appellasse primo. Per patto Austria difenderebbe il regno co' suoi eserciti; e noi per le guerre austriache daremmo venticinque mila uomini, poi ridotti a dodicimila per nuova convenzione del 4 febbraio 1819; patto per parte nostra non più eseguito. I Tedeschi lasciarono il regno nel 1817; e il re l’anno dopo fe’ il concordato con Roma, che mise fine legale alle garose ecclesiastiche quistioni, cominciate dal Tanucci mezzo secolo innanzi.
Ma quel trattato di Vienna del 1815 non restituì tutte cose all’antico; riconobbe valide e sublimò a dritto alquante opere della rivoluzione. A parlar d’Italia sola, restarono spenti due legittimi antichi stati benemeriti della Cristianità; Genova cadde immolata all’ambizione Sabauda, data per afforzare il Piemonte a guardar le alpi dal Francese; e Venezia, già venduta a Campoformio nel 1797 dal general Bonaparte, restò all’Austria in cambio delle cedute Fiandre. Malta, pur dall’arme di Francia tolta a' Cavalieri, rimase in man d’Inglesi. Italia pagò le spese delle guerre rivoluzionarie. E mentre Piemonte ingrossava, il nostro reame scemava; ché né si tolsero i presidii di Toscana, possessi secolari. Così il trattato del 15, non tutto riparatore, modificò l’Italia con riconoscimenti di schiacciati dritti, lasciò un lembo dell’opera rivoluzionaria, e fu pretesto e seme di futuri guai. Un altro seme ne restò in Francia con la costituzione. E fu curioso che ai Francesi vinti si die’ questa libertà che i vincitori non volevan per sé. L’Inghilterra volle lasciar vivo nella sua rivale il fuoco per nuovi incendii: la stampa libera, e la rappresentanza.
Ma Gioacchino Murat, quanto prode di braccio fievole di mente, pensò lieve gli fosse il ripigliare il trono; e in Corsica reclutò gente per sorprendere il reame; se non che spiato da un Carabelli Corso già da esso beneficato, il governo napolitano era sull’avviso. Egli raccolti 250 uomini mosse da Aiaccio, ebbe tempesta, e con solo diciotto persone l’8 settembre 1816 sbarcò a Pizzo di Calabria. Era giorno di festa, molta gente in piazza; al Viva Murat, niuno risponde, ond’ei volge a Monteleone; ma inseguito con archibugiate da' popolani, tenta rifuggire a mare. Chiama la sua barca; e il pilota, Maltese, fatto da esso capitano e barone, per rubargli i danari lo abbandona. È raggiunto, schiaffeggiato, e menato in castello. Ito colà il generale Vito Nunziante, è tenuto con onore, ma sentenziato da sette giudici, tra' quali tre e il procurator della legge stati suoi uffiziali, carchi d’onoranze e gradi, ebbe applicata una sua stessa legge, e sofferse la fucilazione a 15 ottobre. Nato in Cahors, surto dalla polvere, trionfato in molti campi di battaglia, regnato sette anni, caduto in inglorioso cimento per man di plebe, tornò nella polvere; esempio solenne di fortuna.
Gaeta, difesa bene dal Begani, aperse per capitolazione le porte.
Il reame in peggio e in meglio era tutto mutato. Più forti ordini, più vigorose leggi, più tasse, più impieghi, meno costumi, meno religione, meno obbedienza, più licenza e più servitù. Dell’esercito disertati i soldati, rimasti uffiziali e generali molti, baldanzosi, inquieti, indisciplinati. Nel popolo più fiacco il prestigio regio, disilluso per fallacia di libertà, guasto e irritalo per troppe blandizie o troppe percosse, odiatore di re stranieri, desideroso di quiete e di pagar poco. Gl’impiegati amanti del soldo, calcolo la fedeltà, tinti di setta per ansia di far fortuna. Il clero bramoso di reintegrazioni, dolente di restar dispogliato. I baroni stati il più liberali, schiacciati dalla libertà, non avendo a chi reclamare, impoveriti e incapaci di risorgere. E la plebe, dico la mischianza del peggio di tutti gl’ordini sociali, speranzosa di pescar nel torbido, intenta a rimestare e a fomentar odii e passioni. Non facile assunto era il ripigliar le redini dello Stato, serbando il nuovo, e contentando il vecchio. E avvenne che i vecchi,visto trionfare il principio legittimo in astratto, rimaser trionfando vinti.
Imperocché Ferdinando a 20 e 21 maggio di quell’anno 1815 proclamò fra l’altre: assicurare libertà individuale e civile, sacra la proprietà, irrevocabili le vendite seguite di beni dello Stato, guarentito il debito pubblico, serbale le pensioni, i gradi, gli onori, l'antica e nuova nobiltà, ogni Napolitano accessibile ad impieghi militari e civili; amnistia piena, nessuna molestia per anteriori opinioni, né scritti, né detti, né fatti precedenti investigarsi, né avanti alle leggi, né avanti al paterno cuore del re, tutti sudditi uguali, velo impenetrabile; eterna oblivione sul passato. E tenne parola.
Pertanto poco fu mutato degli ordini e degli uomini messi dagli occupatori; e fu necessità fatale l’aversi a governare con elementi e persone contrarie all’essere del governo. Mutato il re, restava il decennio. Solo si poteva modificare o migliorare; e si fece. Il codice Napoleone, mutato nome, si tenne; escluso il divorzio, fatte indissolubili le nozze, esaltata la patria potestà, moderate le leggi di successione, aggiunta la volontaria carcerazione per ragion civile, abolite le confische, diversificate le pene, e poco altro. La legge del 12 dicembre 1816 die’ altro avviamento all’amministrazione; questi e le finanze migliorarono per minor corruzione e maggior credito. Si riapersero i conventi, si risollevò la religione e il costume. La coscrizione, scambiato il nome in leva, restò; restò la guardia provinciale o civica; restò la tassa fondiaria e il catasto, restarono le leggi eversive della feudalità. A’ fuorusciti si restituirono i confiscati beni, dove si trovarono; a' dazii indiretti si pose modo; abolito quello sulle patenti che molto sulle industrie e su’ mestieri gravava. Si fondò la cassa di sconto, gran soccorso a' commercianti.
Il più difficile, riordinar l’esercito, non si potè ben conseguire. Pel trattato di Casalanza gli uffiziali del Murat riconosciuti nei gradi, andar fusi con gli altri venuti di Sicilia; questi per serbata fede, quelli per guerre fatte co' Napoleoni baldanzosi; gli uni a dispregio appellavan gli altri Fedelini; gli altri dicevanli in ricambio Murattisti si guardavan biechi. Il re per affetto i suoi, per prudenza i contrarii carezzava. Si tentò la fusione, l’obblio del passato, si volea farla finita, e stringere in un amplesso e chi lo straniero, e chi il re napolitano avea servito. Ma l'ire sendo fresche, le male contentezze crebbero nella mescolanza. Nessuna mercede o ricompensa toccò a chi tante persecuzioni e danni di sangue e di roba avea patito per la causa del dritto, uffiziali vecchi e fedeli restarono inferiori di grado a chi già fu subordinato, soggetti a esser comandati da chi s’era elevato combattendo contro il re. Duro sembrava, e duro era; perché in Sicilia non era stata opportunità di promozioni, e in Napoli i re nuovi per gratificarsi i loro avean promosso alla grande. Cosi riuscita la colpa di costoro premiata, fu malo esempio, e parve più larga via a salir alto l’oppugnare che difendere il trono. Molti già fidi si calarono a utilitarii pensieri; de' Murattisti i più usciti di setta non mutavan natura, però chi si vedeva mal della sua fedeltà rimertato, e chi si credea scaduto per la mutazion del vessillo, pari per opposte scontentezze, stavan di mala voglia. A tutti pesava il tedesco Nugent. Il Sovrano die’ a' reduci di Sicilia una medaglia a ricordo dell’onorato esilio; la quale, benché largita a usanza di milizie di tutte nazioni, divenne pregio degli uni, irrisione e dispetto degli altri. Dissero il governo aver voluto disunire per meglio conoscere i suoi. A rimediare si creò l'ordine militare di S. Giorgio detto della riunione, fregiati i meritevoli d’ambo le parti; lieve espediente. I due eserciti nondimeno, se non di animi, si fusero d’arme e vestiti.
La carboneria soffiò in queste ceneri, si valse di tai disgusti; diramò sue braccia fra generali e soldati, prese subito vigore, e aperto lavorò a mutazione. Era allora ministro di polizia il principe di Canosa, uomo d’ingegno e di cuore, ma facile a cadere in mali consigli e in male amicizie. Ei pensò dover combatter la setta con controsetta; e favorì i Calderari, altra società mezzo segreta surta a pro del governo. Errore fu, che tentò l'impossibile, nobilitar l’indole delle segrete società, tratte sempre da loro natura a ribellione. Quindi si mise di tristi attorno; i suoi nemici, che molti e anche in corte n’avea, il denigrarono; e il re si calò nel 1816 a torgli la sedia. Egli volle esulare. Prese il sommo della potestà il Medici suo emulo, che chiuse l’occhio su’ carbonari; i quali ebbri del trionfo crebbero di numero e di baldanza.
Mentre la setta lavorava il reame rimarginava sue piaghe. Quei cinque anni furon notevoli fra noi per rara prosperità. Blando, carezzevole, indulgente il governo; ricchezza, annona, giustizia, feste, pace, obblio del passato, leggi larghe, facile amministrazione, rinsanguinar di finanze e di forze, non tasse nuove, diminuzioni delle vecchie, non patiboli, non ceppi all’ingegno e al commercio, sicuro il paese, si vivea secondo l'età bene e lietamente. Ma quelle facilità appunto davan modo a' congiuratori di operar libero. La setta mondiale squadernando le dottrine del Montesquieu già magnificando nelle menti le costituzioni. Non debbo dire se cotai forma governativa sia per sé buona o mala, a seconda de' popoli, de' tempi e de' modi; ma cotesti liberali sen’han fatto un tipo unico di governo che vogliono imporre a forza a tutti i popoli. Di sì grossolano errore che fa versar tanto sangue al secol nostro la savia antichità avrebbe riso; e sarà nei posteri uno smacco alla superbia dottrinale di questa età presuntuosa. Se non che tal modello di governo parlamentare,da darsi ai taciturni ed a’ loquaci, a' freddi e a' caldi, a' calcolatori e agl'immaginosi, non è già per quelli stessi richiedenti voto di benefizio, ma d’insidia. La setta che aspira a repubblica sociale, chiedi pel meno costituzioni per primo scalino, e farsi un terreno inviolabile, donde combattere la potestà, e aver modo di mangiar gli erarii e far debiti agli Stati. Con esse pongono loro adepti al governo, si fanno un parlamento loro, i deputati contrarii comprano con ciondoli ed uffizii, lascian cianciar vanamente di franchigie i pochi non venali; fan decidere ogni cosa dalla vendereccia maggioranza; e con liberalesche forme si fan tiranni.
La Carboneria pertanto, preso modo e succo affatto democratico, aveva guadagnato il più dell’esercito, operatori i generali più alti, massime quelli messi dal re a comandanti territoriali nelle provincie, con infausto consiglio; i quali potendo più de' presidi, facevan dualità nel governo della cosa pubblica, e operatori di male, erano insieme ribelli e sostenitori della regia potestà. Questi comandanti nel quinquennio favorivon la setta; dal 21 al 47 non se n’ebbero, e fu lunga pace; si rifecero nel 18, e prepararono in gran parte il 1860. Era allora comandante territoriale di Capitanata ed Avellino Guglielmo Pepe. Repubblicano nel 99, servì Murat, e cospirò contro esso; giurò a Ferdinando, e fu ritenuto Tenente Generale, ebbe la Gran Croce di S. Giorgio, e cospirando ancora fu precipua cagione dell’insozzar di Carboneria, e indisciplinar la milizia. Gli animi eran qui preparati, quando la rivoluzione di Cadice riconosciuta da' monarchi nelle Spagne avacciò il movimento. I carbonari nelle vendite s'agitarono, predicarono virtù lo spergiuro, statuirono il da fare.
La congiura avea in più parti d’Italia preparate le mine, ma primi a scoppiare fummo noi. Sull’alba del 2 luglio 1820 due sottotenenti Morelli e Silvati con 127 soldati del reggimento Borbone cavalleria disertavan da Nola insieme a un Minichini prete, e venti paesani carbonari; si fermarono a Mercogliano, poi, ingrossati, a Monteforte. Il colonnello De Concilii comandante d’Avellino finse accorrere per combatterli, e s’unì ad essi; e mentre i Carbonari soldati disertavano alla rivoluzione, s’inviava a debellarli da Napoli il generale Carrascosa senza soldati. In quella il Pepe col più della guarnigione di Napoli si solleva; una deputazione corre al re, e lo sforza con bruschi modi a dar fra due ore la costituzione stessa di quei dì proclamata in Ispagna. Scelta questa tumultuariamente, non perché l’avessero in pregio, ma per foga e fretta, o per mostrar l'armonia delle due rivolte; ell’era per sédifettosa, e impossibile in regno doppio, per Napoli e Sicilia, diversi ed avversi, e a popoli restii a mutazioni. A 6 luglio la proclamarono. S’elessero Murattini a ministri; alle regie bandiere s’unirono i tre colori della setta, turchino, nero, e rosso. Poi il Pepe co' Morelli e Silvati, e il prete Minichini, seguiti dall’esercito rivoluzionario, fece il 9 entrata trionfale e scenica in Napoli, i Carbonari plaudendosi da sé, Viva i Carbonari. Il re giurò il quindici; la stampa cominciò sua sfuriata.
Come arrivar le novelle a Palermo, i congiurati si levarono anch’essi a gridare costituzione di Spagna, a 15 luglio; ma subito per rivalità aggiunsero Indipendenza; né mancò chi sclamasse: Viva Robespierre! Fu fatale in queste e in tutte le rivolture sicule, il trovarvisi luogotenente qualche inetto. V’era un Naselli, che per vana paura die’ i castelli alla marmaglia, la quale inorgoglita infuriò; latrocinii, uccisioni, e vendette; abbatté le statue reali e gli stemmi, saccheggiò la reggia, devastò i giardini, arse e spogliò case, e a' due principi Cattolica e Jaci troncò le leste, e, strascinando i cadaveri, le portò sopra lance a ludibrio. I rivoluzionarii di Napoli disapprovaron quelli eccessi, e più l’indipendenza che accennava a divisione; e mandarono a domare i Palermitani novemila fanti e 500 cavalli col generale Florestano Pepe (fratello di Guglielmo). Partì questi sui principii di settembre, vinse in più scontri; fermò a 5 ottobre la pace; e rioccupati la città e i forti, ripose il governo regio, durata l'anarchia ottanta giorni.
Al 1. ottobre s’apriva in Napoli il parlamento, presente il re, nella chiesa dello Spirito Santo. Ne’ dì seguenti sin da' primi discorsi si parlò di Costituente, il che ricordando quella regicida di Francia, spaventò Ferdinando, e gli mise in cuore il primo desio del partire. Già unica regnatrice era la Carboneria, governo nel governo, i suoi agenti seduti in tutti uffizii, ubbidivano ad essa; al re s’era lasciata la parte del segnar decreti per la sua rovina. In quella s’agitava la setta mondiale, i suoi adepti in tutti i paesi alzavano il capo, e pareva imminente un nuovo 89 europeo; perlocché i monarchi, congregati a Troppau, statuirono fiaccar le rivoluzioni, e Napoli prima. Qui il gloriato Guglielmo Pepe, irto di plausi e pugnali carbonareschi, gridava guerra, guerra! e fe’ rigettare altresì la offerta mediazione di Francia. Alle provincie mutaro nomi: Daunia, Irpinia, Sannio, Lucania, e simiglianti ricordi di tempi eroici e repubblicani. La Carboneria fra que’ trionfi inebbriata, dimenticò sue astuzie, e ammise, anzi sforzò ogni gente a entrar nelle sue fila; anco femmine carbonaresse fece, dette Giardiniere. Solo in Napoli eran 95 vendite, ed una avea ventottomila soci, il più ascritti per fuggir molestia. Allora incapace di freno, palesò nuda sue tristizie; ché le sette pria di scoppiare parlano libertà, sfolgorano tirannia dopo il trionfo. A un tratto snervata la forza sociale, comandanti moltissimi e i peggiori, con l'anarchia l’audacia e le rapine, diminuite l’entrate, cresciuti i bisogni, mancato il credito, vuotate le casse pubbliche. Il banco, ripigliandosi ciascuno i suoi capitali, non pagò più, e vi si scoperse mezzo milione mancante; scemarono di molto i fondi pubblici, per finanze stremate, per discredito, vacillamento e incapacità di nuovi reggitori. Ritrassero dalla Cassa di sconto un milione di ducati; venderono ducati cinquantamila di rendita sul Gran Libro, e misero in vendita altresì i beni dello Stato, restati salvi per la fortunosa disfatta. Da ultimo ordinarono un prestito interno; davan carte per danari, e a forza; divenne tassa obbligatoria.
Opportune al re, deciso d’allontanarsi, vennero lettere de' sovrani europei che invitavanlo a Laybach; però né die’ parte con messaggio al parlamento il 7 dicembre. Seguirono tumulti parlamentari; si gridò o Costituzione di Spagna o Morte, e nelle camere e in piazza, co' pugnali alti. La dimane il Borrelli deputato perorò per la partenza del re, e s’ottenne. Ferdinando parti il 14 di quel mese sul Vendicatore vascello inglese, lo stesso che avea tenuto prigioniero Napoleone. Napoli fra spessi delitti, ne vide uno orribile. Una notte in gennaio 1821 i Carbonari assalgon la casa del Giampietro stato direttore di polizia; e, piangente invano la moglie e nove figli che gli abbraccian le ginocchia, strascinante sull’uscio, e sotto gli occhi de' suoi cari, gli dan quarantadue colpi col pugnale che da una in altra mano si passavano. Sul cadavere misero il cartello: numero uno. I magistrati non punirono nessuno; molti tementi di peggio fuggirono; lo spavento colse ogni persona onesta.
Il re per vecchiezza stanco, desideroso di pace, avrebbe voluto a Laybach sostenere il fatto di luglio, e né scrisse al figlio Francesco rimasto suo vicario nel regno, ma trovò i sovrani determinati a cassare quel riprincipiamento di rivoluzioni, minacciante la sicurezza degli altri stati. Ciò nunziò egli al figliuolo vicario; ciò riprotestarono gli stranieri ambasciatori aggiungendo che Tedeschi, e Russi in riserva, marcerebbero sul reame. Subito il parlamento, le vendite, la piazza gridarono guerra; e il Pepe beatissimo già col pensiero trionfava. Rifatto il ministero, ministro di guerra il Colletta, stabilirono guerra difensiva, aspettare nello stato il nemico, far due eserciti, uno verso Ceprano, altro in Abruzzo, poi fortezze, trincieramenti, teste di ponti su fiumi e altre difese. V’avean 60 mila soldati, e 140 mila urbani, militi e legionarii. Correvan questi a sclami, non per zelo di pugna, ma dalla Carboneria con fiere minacce sospinti.
S’appressavano quarantatremila Tedeschi comandati dal Frimont. Il Pepe già ne' suoi giornali promessa vittoria certa, avea pur fatto stampare che sconfiggerebbe il nemico il 7 marzo a Rieti; però a non mancar di parola, quel mattino, senza aspettar tutto l’esercito, scese dalle gole d’Androdogo con una schiera, e assali Rieti, donde i tedeschi uscirono in tre colonne. Alla prima l’esercito di Carbonari si sgominò e sparve, e con esso il Pepe. Costui avrebbe potuto fermarsi per via, e co' reggimenti ordinati ripigliar la guerra; ma non lasciò di camminare un’ora, e giunse prima di tutti i fuggenti a Napoli; dove dimandò ed ottenne un secondo esercito; se non che udito i Tedeschi vicini fuggì in America, per serbarsi a un’altra volta.
Il parlamento, a un tratto di guerriero fatto pacifico, scrisse un indirizzo al re, dichiarandosi innocente della rivoluzione; di poi al 9 ventisei deputati soli, scrissero a proposta del Poerio un atto di protesta per la violazione del dritto delle genti. I tedeschi entrarono in Napoli a 25 marzo 1821. Il popolo fu lieto di guadagnar la pace. Ma dopo pochi dì i Carbonari di Messina, forti della complicità del generale Rossaroll comandante il presidio, si sollevarono, abbatterono le statue del re e gli stemmi, e mandarono per tutta Sicilia e in Calabria chiedendo aiuti, che punto non ebbero. Allora i messinesi s’unirono e armarono, prima sotto colore di mantener l’ordine, poi per dare addosso ai ribelli. Questi fuggirono. Il Rossaroll riparò in Ispagna, indi in Grecia, dove morì. La rivoluzione carbonaresca costò al paese ottanta milioni di ducati di debiti e la invasione straniera, pagata poi sei anni. Il nome Carbonaro nelle popolari menti suonò e suona infame e vile, pei baldanzosi delitti, e per le vergognose fughe, cui la nazione con pratico senno su di esso rigettò l'onta. Però la setta non osò più ripigliar l’irriso nome; e dappoi midollo in Giovine Italia; che non più degli uomini che l'aveano assaporata, ma in giovani ignari mise speranze di riscosse.
Quell’anno stesso, sebbene con ritardo, giunsero a rivoltare il Piemonte, mentre era compresso Napoli. Colà il ministro di guerra Santarosa, e Carlo Alberto di Savoia, principe di Carignano capo del ramo secondogenito della casa regnante, cospirarono. Il re abdicò a favor del fratello Carlo Felice, Duca di Genova; e perché assente, surse reggente il cospiratore Carlo Alberto. Questi tentennò alquanto, poi proclamò la convenuta costituzione di Spagna. Le società segrete nominaronlo presidente de' Federati; il cui disegno era allora di far trina l’Italia, cioè settentrione, mezzogiorno e centro. Egli aspirava al settentrione. Il Santarosa e i Carbonari tementi le decisioni di Laybach, misero truppe alla frontiera; ma combattuti dagli assolutisti di dentro, e da Tedeschi di fuori, vinti a Novara, ritornò l’ordine primiero.
Per siffatte ripressioni i rivoluzionarii odiano a morte l’Austria; non per cacciar fuori lo straniero, come strillano, ché né chiamati di tutte nazioni; ma per cacciare il proteggitore della quiete.
Cominciarono nel reame punizioni di ribelli. Il ministro Canosa ritornato alla sedia abolì ogni segno settario, minacciando la frusta. Trovatone addosso a un tale Angeletti, il fe’ vergheggiare, poi in berlina il mandò per Toledo, col nastro settario al collo, e 'l berretto tricolore in testa, e la scritta Carbonaro. I liberali sclamarono alla barbarie, e l’era; ma avean lodato il palo usato nel liberalesco decennio. Quella frustata alla medio evo bastò a seppellire la Carboneria. Venner carcerati i rei principali, sette o otto generali, fra' quali l’ex ministro Colletta, che inventò poi la storia per vendetta, pochi deputati e consiglieri di Stato, fra questi il Poerio, il Bozzelli, e alquanti magistrati. Costoro patirono esilio o perdita d’uffizio. Presto con editto del 30 maggio il sovrano decretò l’amnistia, salvo pe' militari iti a Monteforte. De’ quali si fe’ nel 1822 il giudizio, durato più mesi con pubblici dibattimenti. Vidersi molti Carbonari mutar veste, e farsi accusatori e testimoni de' compagni; moltissimi lodavansi d’aver disertato dalla guerra, e tradita la nazione: vergogne difenditrici di vergogne. Fur condannati trenta a morte, e tredici a galera; numero lieve fra tanti celebrati rei; ma la sentenza fu eseguita solo sul Morelli e sul Silvati, primi ad alzar bandiera; gli altri ebbero minorata la pena e poi appresso libertà. Fra' graziati fu il colonnello Tupputi, stato nel 1860 tanto acerrimo nemico a' Borboni, che gli avean lasciato il capo sul collo. In contumacia ebber condanna di morte il Carrascosa e il Pepe.
Disciolto andò l'esercito; ogni uffiziale sottoposto a scrutinio, riconfermato nel grado, o dimesso, secondo l'opere; molti perdettero i posti; e si lamentavan che distrutta restasse la convenzione di Casalanza; come se valesse per le colpe posteriori, e un governo potesse dannarsi al suicidio col lasciar l'arme alle mani de' suoi uffiziali nemici. È da notare che i felloni Morelli e Silvati fuggiti con cinquecento ne' monti, avean tentata la guerra brigantesca, riuscita inane per isbandamento de compagni, e odio delle popolazioni; donde si vede che dopo il 1800, il 1815 e il 1820, benché rimutati i governi, il reame non ebbe brigantaggio politico; per contrario ebbe lo nel tempo repubblicano del 99, nel decennio, e dopo il 1860, cioè sempre dopo le cacciate de' Borboni; perché il popolo è con questi, non con le sette, né con lo straniero; e combatte come può con armi rusticane contro gli usurpatori.
Nello stesso anno 1824, dopo molte consultazioni, si stabilì con legge che Napoli e Sicilia, ancora che regno uno, s’amministrassero separati: tasse, tesoro, magistrati, spese, tutto diviso; ciascuna parte avesse impiegati conterranei, ciascuna una consulta. Ciò, atto per ridar autonomia e indipendenza all’isola, antico desiderio siculo, fu tosto colà censurato e lamentato; disserta legge alimentatrice di divisione e discordie fra popoli italiani, fonte di debolezza e servitù comune. Quando poi Ferdinando li per compiacerli ordinò la promiscuità, censuraron peggio, e piagnucolaron tanto che prepararono il 1848.
Rimasto stremato l’erario, e avendosi a pagare i Tedeschi, si chiesero denari al Rothschild banchiere ebreo; il quale, spinto di segreto dal Metternich ministro d’Austria, offerseli, a patto che ministro di finanze fosse il Medici. Questi da Firenze ov’era fuggito patteggiò, e volle casso il Canosa suo nemico. Il re si negava, ma insistendo il Tedesco Roller che volea la moneta, bisognò acconciarsi. Così l’ebreo rimetteva in seggio il Medici; e il Canosa di nuovo volontario esulava. Re Ferdinando nella notte del 3 al 4 gennaio 1825 fini. Trovaronlo morto al mattino, nato al 12 gennaio 1752; vissuto anni settantasei, regnati sessantacinque.
Il suo figliuolo primogenito Francesco succede al trono. Viste più rivoluzioni, patito l'esilio, sapeva come le sette lavoravano, e stette sull’avviso, onde seguitò, né altro poteva, i modi precedenti. Ma a sgravar lo stato dalla spesa de' Tedeschi, viaggiò, a mezzo aprile, per conferire con l'imperatore d'Austria a Milano, vi giunse un mese dopo, e ottenne scemasser tosto di diecimila, il resto partisse per l'anno seguente. Invece convenne con la Svizzera d'avere a soldo quattro reggimenti, ciascuno di 1452 uomini, per trent'anni. La prima spesa fu un milione e 792 mila ducati, l'annua cinquecentosessantaseimila. Così costaron meno de' Tedeschi, e furon fidi e prodi lungo tempo. Quelli nel 1826 sgombrarono la Sicilia, rimasti soli diecimila in Napoli, partiti in febbraio seguente.
I Carbonari intanto voller dar segni di vita agitando loro congreghe; ma scoperti nel 1826 in Napoli e a Catania, e giudicati, due ebber sentenza di morte, altri di ferri, e il re li graziò. Anche a 16 agosto seguirmi molte permutazioni di pene ai condannati del 21, quasi grazie piene. Ma nel 1828, come fu in Francia mutamento di ministero con personaggi creduti liberali, qui nel regno subito se ne prese opportunità di ribellare. Prima fecero iniziare un movimento da pochi uomini ignoti, ma presto scoperti e carcerati, surse un Galloni, che corse al Vallo del Cilento a unirsi a tre fratelli Capozzoli di Monteforte, proprietarii falliti, profughi pe' monti. Costoro a 28 giugno sorpresero il piccolo forte Palinuro, e fatta più gente volsero a Camarota con bandiere di tre colori, gridando la costituzione francese. Ne’ dì seguenti corsero altri paeselli, seguiti da tristi, mal visti dalle popolazioni sulle quali commettevan già vendette atroci. Il governo vi mandò truppe, e con piena potestà Francesco Saverio Del Carretto. Questi era stato capo dello stato maggiore del Pepe nel 1820, e dei più caldi carbonari, però dimesso con gli altri; nondimeno avea trovato modo d'aver piena grazia nel 1822, e montare a colonnello, e poscia a brigadiere. Ei mostravasi allora tutto regio, ma non restava di tener di nascoso la mano stretta a principali liberali già suoi confratelli, cui dava a bevere egli agognasse il potere per fare poi la rivoluzione sicura e incruenta, quindi essere inopportuno ogni precoce sollevamento. Dall’altra per mostrar fedeltà al re svelava le trame che gli riusciva sapere, e corse volenteroso contro i faziosi del Cilento; anzi per lavar la colpa antica, operò con nera asprezza; che scomparsi per fuga i ribelli, spietatamente distrusse la terra di Bosco, ove quelli erano sfati bene accolli, e le’ molte carcerazioni. I Capozzoli fuggiti in Romagna, poi in Toscana e in Corsica, vollero ritentar la fortuna riedendo a' monti natii, con isperanza di brigantaggio; ma scoperti e presi in conflitto subiron condanna di morte. Il Gallotti campato in Francia, là preso e consegnato, dannato nel capo, ebbe grazia; e qualche anno dopo libero uscì dal regno. Altri giudizii seguirono, ed altre pene; e alternate severità e indulgenze, si quietò. Di quelle ire regie operate da un liberale, non si fe’ molto rumore; perché allora i liberali che si dicean moderati, persuasi di segreto dal Del Carretto essere stato inopportuno il movimento, lui lodavano di avveduto, e intendevano a fargli nome per dargli altezza e potestà.
Seguì nell'anno stesso un disgradevole fatto. Avevamo da aprile 1816 un trattato con la reggenza di Tripoli; morto Ferdinando, il Bey dichiarò il trattato spento con la persona del re, e per rinnovarlo chiese centomila colonnati; ciò rifiutammo, e pareva sopita la controversia, quando il Bey reiterò l'inchiesta, e die’ un perentorio di due mesi per lo adempimento. Pertanto Francesco mandò all'agosto il capitano Sozii Carafa con quattordici legni, per mettere il senno in capo al barbaro: tre fregate da 41, un brigantino da 20, quattro cannoniere, altrettante bombardiere latine, e due bastimenti ospitalieri. Il Sozii, dopo varie pratiche di composizione, cominciò il bombardamento di Tripoli il 22 alla lontana, disse per cagion del vento e delle maree. Solo la fregata Isabella e il brigantino col capitano De Cosa s'avanzarono contro la batteria tripolina; e ’l tenente di vascello Roberti con le cannoniere e le bombardiere teneva a bada le cannoniere avverse, e bombardava da lungi il palazzo del Bey, attento a non colpire, com’era ordinato, il quartiere degli Ebrei. Con sì fiacca guerra il Sozii stette altri tre dì a braveggiare con colpi che per distanza andavan perduti; sinché consumate le munizioni si ritrasse con vergogna a porti di Sicilia. Seguirono prede di legni mercantili d'ambo le parti, e il danno nostro fu maggiore. Il Sozii accusò il De Cosa, che solo avea combattuto, d'essersi messo nella corrente e cacciato sotto i cannoni di Tripoli, onde aveva avuto danni; perlocché surse un consiglio di guerra a giudicar tutti; il quale con nuovo criterio né dichiarò la colpabilità, ma nessuno condannò. Fu ricorso all’alta corte militare; ma il re, udita la verità de' fatti, troncò il giudizio; e invece mise a quarta classe i giudici del consiglio di guerra e il Sozii Carafa; pur perdonati dappoi. Indulgenze ite in costumanza, madri di guai futuri. Da ultimo a 28 ottobre facemmo pace col Bey, pagando ottanta mila colonnati: insigne vergogna.
La bontà d’animo di Francesco piegò a fievolezza. Ebbe un familiare favorito, che ne vendeva le grazie, e in pochi anni arricchì. Altro errore fu nel 1826 la formazione di due reggimenti siciliani prezzolati; a' quali nel 1831 furono aggiunti parecchi galeotti graziati, che riuscirono lunga piaga. Fu maggior piaga il vendere i gradi d'uffiziali quasi privilegio a soli Siciliani. La setta uscì a comprare, e vedesti capitani e tenenti bambini di culla; i quali, presa anzianità, arrivarmi giovani a stare innanzi a' vecchi, e a' gradi alti. Il più dier triste prove. Di questi furono il Flores, il Cataldo, Alessandro Nunziante, i due Pianelli, il Ghio ed altri ingratissimi, famosi per tradimenti nel 1860.
Dall’altra Francesco fe’ buone leggi amministrative, ravvivò le civili istituzioni e fu versato in agricoltura. Istituì nel 1828 l’ordine cavalleresco di Francesco I, per compenso di inerito civile; ordine sventuratissimo ito sovente al demerito. Egli fece il gran palazzo delle Finanze, nel quale gli ufficii di tutti i ministeri pria sparpagliati ebber posto. Il suolo è di 215 mila palmi quadrati, l'edilizio ha 816 stanze e 10 corridoi. Ebbe due mogli: da Maria Clementina d'Austria nacquegli Carolina Ferdinanda, sposata poi al Duca di Berry principe di Francia, poi assassinalo da ignota mano scendendo da un teatro a Parigi, da Isabella di Spagna fu fatto padre di sei maschi e sei femmine. Temendo che per ozio prevaricasse l'indole giovanile, le’ decreto a' 7 aprile 1829, ordinante il sovrano esercitasse sulle persone della real famiglia la potestà necessaria a serbare lo splendore del trono, perciò ogni persona reale avesse bisogno di regio assenso per contrae nozze, qualunque età s’avesse; in mancanza il matrimonio non producesse effetto civile. Lo stesso assenso volersi per ipotecare o vendere loro beni immobili. Decreto profetico, per quello che avvenne poi. Maritata la figlia Cristina col re Ferdinando VII di Spagna, egli stesso ve la condusse. Spesevi 692 mila ducati. Ripassando per Parigi, Luigi Filippo suo cognato, che intendeva a fellonia, diegli uno splendido festino, invitatavi fuor dell'usanza di Corte la borghesia. È una bella festa, disse Francesco. Si, Sire, rispose il ministro Salvandj: è una festa napoletana, cioè che si balla su' vulcani. In Ispagna era morto il nostro ministro Medici. Egli il re sul finir di luglio 1830 ritornò con mala salute, che lo spense a 8 novembre. Era nato a 19 agosto 1777.
Il vulcano era scoppiato: la rappresentanza e la stampa libera in Francia avean partorito la rivoluzione di luglio 1830; altra per noi semenza di guai. Luigi Filippo d'Orleans, figlio dell’altro Orleans che votò la morte di Luigi XVI, nascendo nel 1775 era stato tenuto al sacro fonte dal Delfino, che fu questo misero sovrano. Educato a maniera teatrale da una donna, dico la filosofessa madama Gentis, si fe’ Giacobino, mutò il nome Borbone in Uguaglianza, combatté per la repubblica, poi contro, fuggì, viaggiò ramingo in America, e ritornò legittimista in Europa. Per campar la vita in Isvizzera avea fatto il maestro di scuola. Indi giurò fedeltà al re pretendente; e ne fu favorito a sposare a Palermo Amalia figlia del nostro Ferdinando IV; eppure nel 1812 cospirò con gl’Inglesi contro il suocero, per farsi reggente di Sicilia. Ritornò in Francia al 1814, accolto bene dal restaurato Luigi XVIII, che gli pagò i molti debiti, e gli fe’ restituire i beni. Carlo X gli riconcesse il titolo d’altezza reale, fe’ sanzionar con legge la fatta restituzione delle facoltà paterne, gli die’ sedici milioni d’indennità pel patito esilio e contribuì a fargli avere lo immenso retaggio del Duca di Borbone Condè (morto, come si disse, assassinalo). A tanti benefizii l’Orleanese mostravasi riconoscente, ed era ossequioso, e parea fido; nondimeno in casa sua accoglieva i malcontenti di tutti i partiti, s’infingeva protettore d’artisti, uomo di progresso e di civiltà; poscia scoppiata la rivoluzione di luglio, come Carlo fu fatto abdicare, ei prese per broglio di rappresentanti, appellato voto di nazione, il trono del suo benefattore, e quella corona di Francia cui il padre suo per via di regicidio s’era avvicinato. Luigi Filippo re, non perché di casa Borbone era men re, rivoluzionario; la sua esaltazione fu un ritorno verso il 1789, e un mezzano trionfo di que’ principii; le sette si riagitarono in tutta Europa, e più in Italia si sperarono rifare le scene passate. Allora fu udito proclamare la prima volta quel nuovo motto che legò poi le mani al dritto, il non intervento, un comitato italico a Parigi lavorò fra' capi della rivoluzione; e s’udì in ottobre 1851 il ministro Sebastiani dichiarar dalla tribuna: «La santa alleanza essersi fondata sul principio dell’intervento distruttore dell’indipendenza degli stati minori; dovrebbe la Francia far rispettare il principio contrario, e assicurerebbe la libertà e l'indipendenza di tutti.» Saria giusto il vietar lo intervenire in casa altrui, se anche si vietasse lo intervenire alla setta mondiale; la quale raccogliendo i faziosi di tutto il mondo né fa massa per turbar la pace d'ogni pacifico Stato, e attenta alla libertà e indipendenza de' popoli. Si proibisce agli stati legittimi d’intervenire, e si permette allo stato sotterraneo nemico latente di tutti. Il non intervento è diventato un dritto proibitivo, e lo intervento un dritto privato della setta.
Per allora Luigi Filippo facendo sfogare quelli umori in ciarle, attendeva a regnar sicuro. Ma la fortuna del suo esaltamento né fu tristo esempio, ché turbò i pensieri di qualche principe secondogenito della casa di Napoli, e seni a fomentare le rivoluzioni nostre. Si sollevarono i Paesi Bassi; la Polonia ne prese opportunità per riacquistare la sua nazionalità perduta, e molto pugnò pria d’esser vinta, in Piemonte si vider conati per rifar la costituzione del 1820, i Carbonari s’accerchiarono attorno a Francesco di Modena, e qui e a Parma ebbero a correr Tedeschi; e furori moti a Ferrara, a Bologna ed Ancona, in senso unitario. In questi fe’ le prime prove Luigi Napoleone, che insieme al suo maggior fratello combatté: vinto, fu ricoverato dal Mastai vescovo d’Imola, poi papa Pio IX. A Forlì gli morì il fratello; ei fuggi in Francia con la madre, bene accolto; ma, pur là congiurando, scampò in Londra.
Ferdinando II, nato a Palermo a 12 gennaio 1810, succedeva a Francesco all’età di vent'anni, in quei difficili momenti, quando anche nel regno s’agitavan gli spiriti a esempio di quella Francia che vuol esser modello agl’imitatori del rumoroso. I Carbonari non osavan mostrarsi; per contrario protestavano innocenza, secondo l’usanza de' tristi percossi. Re Francesco aveva già fatte perdonanze assai; parecchi avea riposti in uffizio, ma da' tempi costretto a esser lento a graziare; tale che molti ancora si trovavano in esilio, o senza impiego, che anelavan mutazioni. Ferdinando benché giovine e nuovo al regnare, sia consiglio sia generosità, andò incontro al pericolo, con politica nuova. Lo stesso dì che ascese al trono fe’ una proclamazione splendidissima, promettente non resterebbe vana nelle sue mani la potestà trasmessagli da Dio; studierebbe i bisogni de' sudditi e dello stato, guarirebbe le piaghe del reame. Ebbe lodi da ogni maniera di persone; gli uomini da bene speravan finisser le concitazioni, i settarii già si credevan sicuri d’afferrar la potestà. A 18 dicembre e a 11 gennaio 1831 concesse quasi general perdono per colpe di stato. A’ traviati spezzò o abbreviò i ceppi; ritornarono i profughi in patria, quasi tutti riebbero gl’impieghi antichi e maggiori, giurarono fedeltà eterna; e predicando sé innocenti, dicevano quella non perdonanza essere stata ma tarda giustizia. Gli si misero attorno, e tenean per fermo d’abbindolarlo, e fargli scintillar l’idee d’indipendenza italiana, e guadagnarlo alla loro bandiera. Ma il giovine Principe, dato il pane in bocca a' traviati, non voleva andar oltre; volea contentar gli uomini senza conceder le cose.
In prima lavorò all'esercito. Questo, come dissi, uno di nome, doppio di fatto, per quei di Sicilia e quei del Murat, divisi, emuli, diffidenti, dopo i fatti del 20 scaduto nella opinione, poco valea. Guasta la disciplina dalla Carboneria, benché riammodernato nel 1821, pur era rimasto ibrido; più fu ibrido per le grazie che vi riposer carbonari pentiti. Ferdinando sin dal 29 maggio 1827, fattone capitano da re Francesco, sendo vago d’armi, v’avea speso sue cure; re vi applicò più alla libera. Nonpertanto quella sua fantasia di parer liberale il tirò alquanto a favor de' Murattini; i quali per aver fatte le guerre Napoleoniche si gridavan da più, e gittavano a terra i contrarii; sicché fe’ male veder vecchi soldati, per colpa d’aver seguito in tutte fortune i gigli, messi a riposo, quasi non buoni. La prima pietra fu scagliata contro il corpo de' Cacciatori reali; bellissimo per persone, per lede provata, già scorta del sovrano nelle grandi cacce; che andò disciolto, e spartito in tutto l’esercito; messone il comandante, generale de Sivo, soldato fedele del 1799 e di Sicilia, caro a' due ultimi re, in gagliarda età, a seconda classe, in pena di non aver macchia. Salirono alto per contrario quei del Murat, e del 1820, molti dei quali tentennaron poi nel 1848, e tradirono aperto nel 1860. Allora il favorir costoro, e il disgradare i fedeli non parve gran danno; perché tempi corser di pace, e perché contentati i settarii, restò un pò disertata la setta; ma lasciò una persuasione che meglio co' Borboni si guadagni a mutare che a restar fido. Per contrario gli apostati che dalla presa politica del re avean pro, laudavanlo oltre misura, e sospingevano sempre a far più. Con l’andar degli anni quei di Sicilia, fuorché pochi, scomparvero; il tempo e la morte sopir molti rancori. Salvo questo, Ferdinando rifece l’esercito per armi, vesti, ordinanze, studii, e disciplina. A 26 settembre 1834 die’ nuova e buona legge su la leva militare. Fe’ le ordinanze di piazza, l’ufficio topografico, il Genio militare idraulico e di terra, il corpo d’artiglieri litorali, reggimenti di lancieri, battaglioni cacciatori, una riserva all’esercito, fonderie di cannoni, polveriere, armerie, arsenali, collegi militari, ginnasii; e a 30 settembre 1842 fondò a Pietrarsa un ampio opificio per arti meccaniche e pirotecniche, da far macchine a vapore, e d’ogni maniera; che fu primo in Italia. L’artiglieria, arma dove più valgono i nostri, chiamò a nuova vita. Ed egli con simulacri di guerra, e istruzioni e marce su’ campi l’esercito addestrava; sicché questo per numero ed ordini guerreschi sali in fama. Costava men di otto milioni di ducati all’anno. E appunto quando fu buono, la setta, viste sue. speranze nel re deluse, cominciò adirne male. Si prese a proverbiare l’amor di Ferdinando per le arme; e lui mettevano in satire o in burle, chi per dispetto o invidia, chi per stoltezza.
La marina napolitana che già molto valse al tempo delle crociate, e che sotto gli Aragonesi un dì col principe d’Altamura fugò i Veneziani. Era niente, quando Carlo III cominciò a crearla. Molto vi spese Ferdinando I, ed era bella quando nel 1799 là flotta per non lasciarla a' Francesi fu arsa. Si comincio a rifare nel 1816; ma Ferdinando li veramente la portò molto più innanzi. Costruivamo i legni a vela in casa, quelli a vapore prima si compravano, poi uscirono anche da' nostri cantieri. Nel 1847 avevamo il Vesuvio, costruito a Castellamare nel 1824, vascello da ottanta, due fregate a vela da 60, e tre da 44. Di navi a vapore s’eran comprate nel 1843 la fregata Ruggiero, e il brigantino Peloro, nel 44 le fregate Guiscardo, Roberto, e Archimede; e le corvette Stromboli, Palinuro, e Miseno; nel 46 le fregate Carlo III, il Sannita, e i brigantini Lilibeo e Maria Teresa. S'era varata a 24 ottobre 43 l'Ercole, fregata a vapore fatta da noi a Castellamare; dove dopo il 1848 costruimmo altri legni. E in gran numero corvette, barche cannoniere, bombardiere e navi da trasporlo.
Eppure in proporzione spendevamo meno che altri Stati per questa armata. Nel 1847 l’esito fu fissato a ducati 2,528,283. Nel 1833 si era migliorata la scuola nautica di Procida. Nel 35, abolita l’accademia di marina, se ne creò un corpo più ampio; poi nel 38 se ne fero due collegi per aspiranti Guardie marine, e per alunni marinai o piloti; nel 43 fu aggiunta la scuola per alunni militari; e l’anno dopo altro decreto menò il collegio a maggiore ampiezza. Nel 1838 si ordinò il pilotaggio; nel 40 l’ascrizione marittima, il corpo di cannonieri marinari; e nel 45 quello de' macchinisti. Si ampliò e migliorò la Darsena, e i cantieri, massime a Castellamare; e nel 1836 era surto accanto alla reggia il porto militare. Il bacino da raddobbo l’avemmo nel 1852. E queste e altre buone cose che qui mai non s’eran viste la setta le faceva colpe. I nostri marinai per mestiere e fede erano ottimi, gli uffiziali marini eran per arte buoni, la fede andò con la fortuna. Da fanciulli eran guasti di pensieri negli stessi reali collegi da maestri settarii, come poi fu manifesto.
Molto si provvide alla marina mercantile. Avevamo scuole nautiche a Meta, Carollo, Castellamare, Procida, Gaeta, Bari e Reggio; e in Sicilia il collegio nautico a Palermo, e scuole a Messina, a Trapani, Siracusa, Giarre, Riposto e Catania. Con decreto del 1852 i piloti delle scuole nautiche di Palermo, Messina e Trapani, erano ammessi a concorrere ai posti superiori della marina regia, e l’anno seguente si permise agli alunni delle scuole di Siracusa, Giarre, e Riposto concorressero a terzi piloti su’ regii legni. Nel 1846 si abolì il dritto pe' documenti degli alti di riconoscimento de' padroni di navigli. Nel 1837 si crebbe al trenta per cento il premio ai legni siciliani in diminuzione di dazio sulle merci recate dall’Indie, e del venti a quelle del Baltico. Queste ed altre molte facilitazioni, che tralascio per brevità, feron progredire la nostra marina mercantile. Nel 1825 aveva legni 5008, di tonnellate 107,958; e nel 1855 era già di legni 8988, di tonnellate 215,006, cioè doppia; nel 25 non avevamo piroscafi, nel 55 n’avevamo sedici, di 5859 tonnellate. Il commercio in trent'anni prosperò tanto che nel 56 erano solo in Napoli già 25 compagnie con in circolazione venti milioni e più di ducati. Questa prosperità marinesca insolita al nostro paese, né rendeva indipendenti dal commercio straniero: ecco il rangolo dell'Inghilterra.
Ferdinando non vago di sollazzi giovanili, mise tutto l’animo allo Stato. Era nella Tesoreria per le trascorse peripezie un debito che dicevan galleggiante, sommato nel 1830 a ducati 4,345,254; ogni anno quasi un altro milione di disavanzo l’accrescea. Subito equilibrò le spese all'entrate. Cominciò scemando la sua lista civile per ducati 570 mila l’anno, moderò a metà il grosso stipendio a' ministri di stato; le spese di guerra e marina in su’ principii diminuì di ducati 340 mila annui; riformò parecchi abusi, abolì lo doppie cariche, tolse il troppo delle pensioni e de' soprassoldi; e risparmiò sulle spese della amministrazione pubblica altri annui ducati 551,667, di guisa che in breve sparì il vuoto, od ebbe pur modo da sminuir le imposte. Messe nel vantato decennio francese, cresciute pe' guai delle rivoluzioni, si toglievan da Ferdinando, maledetto, perché i settarii niente maledicono più quanto il buon governo.
Abolite le riserve per cacce reali, né ridie’ le terre all'agricoltura benché pochi anni dopo, visto lo errore dell'eccesso, alcune ritornasse a riserva. A 10 gennaio 1832 vietò i dritti di portolania in Napoli. Nel 1833 tolse la metà del dazio gravoso alla gente minuta sulla macinatura de' grani, messo nel 1826, scemandosi di ducati 526,500; e a 15 agosto 1837 levò il resto, che dava ducati 625,546 d’entrata. Nel 1832 finì un dazio sulla carne, nel seguente anno quello di dritto di rivela su vini; nel 1845 fu sminuita la tariffa doganale, e soppressa la soprattassa di consumazione; e l’anno appresso si moderarono i dazii su oltre centodieci categorie di prodotti stranieri, e su’ dritti di bollo alle mercanzie forestiere. Nel 1842 fur vietati quelli d’esportazione sopra molti nostri prodotti, come sale e zolfo, e nel 1846 scemò quello d’esportazione dell’olio d’ulivo e della morchia. Mentre gli economisti stampavan libri, qui senza pompa vedevi fatti, il guadagnar molto e il pagar poco prosperava il commercio e l’industria.
Diminuite l’entrate, pur si scemavano i debiti, e s’accrescevan le spese per ragguardevoli opere pubbliche. A 1 agosto 1841 ora finito di pagare il debito di 15 milioni di ducati contratto in Londra nel 1824 col banco Rotschild per pagare i Tedeschi, si estingueva noi il debito di ducati 2,528,000 verso gli Americani, e si soddisfava un debito di 1,850,000 ducati preso dalla Cassa di Ammortizzazione. Le spese per la marina variavano pe' legni nuovi che come ho detto s’andavan facendo: nel 1841 erano state di ducati 1,882,000; nel 1843 montarono a 5,628,760. Dopo la quistione degli zolfi con l'Inghilterra, pagammo mezzo milione per indennità alla compagnia Taix e ad altri Inglesi. Le strade di ferro di Capua e Nola, le bonificazioni delle terre attorno al Volturno, si fecero con danari dello stato. E mentre scemavano balzelli e crescevano spese, pur nel 1841 avevamo in cassa ducati 2,200,000, e 5,200,000 nel 1843, di avanzo disponibile. Questi miracoli eran figli di buona economia e pubblica agiatezza.
Accusavano Ferdinando di avarizia, ma non avaro, economo era delle cose dello stato, del suo facea risparmio per non usar lo altrui. L’economia che in Sovrano è virtù, in Ferdinando apponevano a colpa. Ei fe’ di molti risparmi nella reggia per provvedere a' suoi figli secondogeniti, e con maggioraschi stabilire loro case, senza gravar lo Stato. Non però tralasciò le magnificenze dare, ché a sue spese rifece la reggia di Napoli guasta da incendio, profusovi più che due milioni di ducati, ed anche del suo menò a fine e decorò gl’allri palazzi a Palermo, a Capodimonte, a Caserta, a Quisisana, e i quartieri di Caserta. Ne’ viaggi all’estero e pel regno e in Sicilia spendeva egli, e trattava da Sovrano i Principi esteri che il visitassero, siccome da imperatore tenne Nicolò di Russia nel 1843, né volle che di cotesti viaggi e ospitalità si gravasse lo Stato, come era antica usanza. Limosino sempre largiva, e di sua borsa, e, per notar solo l’anno precedente alla rivoluzione, casa reale pagò dal 1. novembre 1846 a tutto ottobre 47 per assegni e soccorsi ducati 75,892, come stà ne’ registri. Inoltre l’anno stesso in due aggirate pel regno spese altri ducati 29,048, iti anche in largizioni. Ciò poteva cavare dalla lista civile, già sminuita, supplendo sua parsimonia. I sovrani prodighi non son poi benefattori de' miseri. Prodighi furono Eliogabolo e Caligola pessimi, e furono economi Tito e Traiano, delizia dell’umanità.
Viaggiava: e del bene, ove ne trovava, facea tesoro. Quasi ogni anno visitava le provincie e Sicilia, né indarno. Frugale, laborioso, sollecito, niente a cacce, né a corse o a feste avea pensiero; tutto al governo. Niuno negherà essere splendido il suo primo decennio. Pace, quiete e sicurezza, libertà civile, prosperità molta. Brevemente si costruirono strade, edilizii comunali, lazzaretti, case di bagni minerali, prigioni col sistema penitenziario, scuole per sordimuti, ospizii ed asili per indigenti e orfanelli e reietti e folli, porti a Catania, a Marsala, a Mazzara, e moli a Terranova e a Girgenti; s’istituirono consigli edilizii, monti pecuniarii e frumentarii, compagnie di Pompieri, opificii, nuove accademie, nuove cattedre, all'università, nuovi collegi, nuovi licei. Si bonificavan terre paludose, si davano alla coltura terre boscose, e 800 mila moggia del Tavoliere di Puglia; si facevan ponti di ferro e di fabbrica su’ fiumi, fanali a gas, fari alla Fresnel, ed ogni novella invenzione qui primamente in Italia era attuata. Si stipulava trattati di commercio, si creavan guardie civiche per Napoli e per le provincie, e guardie d’onore a cavallo. Que’ dieci anni fur benedetti anche ne’ campi. Ubertose messi, mercati grassi, miti prezzi, comune l’agiatezza; un movimento d’industria, un crescer di popolazione, un incremento di tutte cose buone; sicché non credo il reame avesse tempi più gai e lieti di quelli. Questi beni fur turbati solo dal colera e dalla setta.
Per le fresche grazie, per l’unanime plaudire al re, non v'era pretesto a sedizione; ma la Giovine Italia che appunto il buon Sovrano temeva, prima tentò farlo suo, poi lavorò sempre a percuoterlo. Le congiure italiche e dello stato papale del 1831, avevano qualche ramificazione nel regno, e abbindolato il ministro di Polizia Intonti! Questi molti anni avea tenuto quel carico come retrogrado; ora non so se per paura o malizia, visto il campo apparecchiato alle rivoluzioni, e gittate in carrozza al re suppliche e indirizzi per franchigie, supponendo il re pei suoi primi atti, e per l’aversi messo liberali accanto, esser pieghevole a cose nuove, un mattino gli favellò d’aspirazioni di popoli, e gli consigliò mutasse i ministri come troppo all’antica, chiamasse uomini liberali moderati (proponeva il Ricciardi, ministro del Murat, e il Filangieri e il Fortunato, anche del decennio) instituisse un consiglio di stato, a mo’ di senato, ed altre riforme, quelle appunto chieste e richieste dappoi dalle sette.
Ferdinando vide in tal preambolo il veleno; rispose proponesselo in consiglio di ministri. Questi dissero il disegno essere principio di rivoluzione; né, per cominciarla, si dimetterebbero. La sera, che fu il 14 febbraio, l’Intonti preso da gendarmi in casa, fu condotto al confine, e mandato a Vienna, sotto colore di messaggio. E finiron lì le aspirazioni de' popoli. Il Filangieri ed il Fortunato si tennero qualche di ascosi. Dopo due giorni surse ministro di polizia il generale del Carretto, comandante de' Gendarmi. il quale non era stato estraneo a quella trama; perché sendo egli vecchio carbonaro, e co' carbonari più astuti in lega, sapendone i segreti fea doppio giuoco: quelli pascea di speranze future, e il re teneva sicurato con isvelamento di loro mene. Così Ferdinando certo ch’ei tutti avesseli sotto la mano, lui fe’ ministro. Ma ci non potendo allora accontentar la setta, prese ad accontentare i settarii; moltissimi ne allocò con buoni soldi, molti creò spie di polizia, a tutti fea buon viso, e dava promesse vaghe e lontane. Allora fu una scissione nel campo liberalesco; 1 più scaltri stretti al Del Carretto e pasciuti volevano aspettare, gli altri magri e impazienti non istavano alle mosse; talché sovente quelli accusavan questi, e li spiavano, e plaudivano alle ripressioni.
Noterò quanti conati inani di rivolta seguissero da' primi anni del regno di Ferdinando sino al 1847, acciò si veda non le popolazioni ma trame premeditate di pochi averle tentate. A Messina a 17 giugno 1851 s’erano arrestate per cospirazione ventidue persone, tosto per grazia in agosto liberati. Ed ecco a 1 settembre trenta uomini, unitisi fuori Palermo nel fosso di S. Erasmo, entrano in città chiamando il popolo all’armi; disarmano i doganieri, sparano colpi di moschetto; e come nessun li seguita, uccidono per rabbia tre cittadini, e molti feriscono. Affrontati da milizie fuggono. Pochi dì dopo presi quasi tutti, undici condannati nel capo, il resto ha pene minori. Seguì la congiura detta di frate Angelo Peluso, laico francescano, cuciniere del convento alla Sanità, che sol portava lettere a' capi. Fra questi erano un ex capitano Nirico antico consettario di Del Carretto e suo amicissimo; il quale aspettando la rivoluzione piena per le mani dell’amico volea trattenere gli scoppi parziali, e fea del tutto il ministro consapevole. Nondimeno i più avventati voller tentar la sorte. Un capitano del genio Domenico Morici calabrese, dimesso nel 1821. e per grazia reintegrato, un tenente Filippo Agresti, e D. Michele Porcaro d’Ariano a 17 agosto 1852 si volsero ad Ariano, ove credean trovare migliaia di sollevati, e trovarono i Gendarmi che li arrestarono. Lo stesso di frate Angelo, gittata tonica e cordiglio, andò su’ monti di Taurano presso Nola, e tingendo cercare tesori unì gente fra' quali un Arsoli e un Vitale suoi correi. Recava una proclamazione per costituzione con in fine: Viva-Ferdinando il grande! Ma come si manifestò venne da tutti abbandonato. Stette molto tempo ascoso; e fu trovato sotto fallare del convento della Sanità in Napoli: così egli e altri pur presi, venner giudicati in Terra di Lavoro. Scrissero poesie al cuor generoso del re. Il 9 settembre 1833 ebber condanna di morte l’Arsoli, il Vitale, il frate e il Morici; altri ventisette a pene minori, tutte d’un grado diminuite per grazia. I veri capi il ministro tenneli coperti; il suo amico Nirico mandò in Sicilia, ove poi nel 1837 di colera si morì. In questo anno 1833 fu lavorato a stringer le fila della cospirazione per tutta Italia; e ad assicurar le linee e i modi di corrispondenza, partì da Napoli, con pagatogli il viaggio, appositamente Francesco Paolo-Bozzelli.
Ne’ primi di giugno mancava più grave misfatto. Francesco Angellotti tenente, e Cesare Rossaroll e Vito Romano sergenti de' cavalleggieri della Guardia, persone beneficate, e altri congiurarono d’uccidere il re sul campo quando passava a rassegna quel reggimento. Dovean tutti insieme scaricar loro pistole su Ferdinando; gridar subito re Carlo secondogenito, principe di Capua, con la costituzione di Francia; sperando l’esercito li secondasse. Cercando adepti, si confidarono a un sergente Paolillo, uscito dal disciolto corpo de' cacciatori reali, il quale preso d’orrore li disvelò. Ferdinando dispregiò il rischio, chiamò a posta il reggimento al campo, tennelo egli stesso in faticoso istruzioni tutto il dì; e mostrata così col fatto l’impotenza de' congiurati, permise dappoi fossero sostenuti pel giudizio. Allora il Rossaroll e il Romano prima s’ubbriacarono, poi tentarono uccidersi l’uno l'altro; questi morì, quello benché la palla il passasse fuor fuora, visse. Giudicati dall'alta corte militare, il Rossaroll e l’Angellotti venner condotti a pie’ del palco a 14 dicembre, ma noi salirono, ch'ebbero grazia per 25 anni di ferri. Il primo e gli altri uscir poi liberi; l’Angellotti, tramata nel 39 altra congiura nell’ergastolo di Procida, sforzando le guardie cadde ucciso.
La setta fremente della fallita impresa, macchinò in quello stesso anno 1833, per far sollevare a 10 agosto a un tempo Capua, Salerno, ed Aquila, e pel 12 le Puglie e le Calabrie. Misuravano alla grandezza delle speranze la parvità delle forze. Prima ne parlarono i giornali francesi; e il governo fu sull’avviso. Il re stesso andò a tramutare la guarnigione di Capua, e si recò con soldatesche a far campagne d’istruzione a Salerno. Il Del Carretto carcerò certi congiuratori, qualcuno stato già suo compagno, e poscia sua spia; però senz’altro male li mandò fuor de' confini fra' quali Pietro Leopardi, Giuseppe Mauro, Adamo Petrarca, e Geremia Mazza.
La parvità ai queste congiure mostra a che depressione fossero le sette allora nel regno; ma Ferdinando presto s’avvide come esse per tempo e blandizie non restano, e che non il mal governo de' regnatori, ma i regnatori combattono. Pertanto modificò sua politica paruta liberale, e stette riguardato. I liberali che prima avean posto in lui grandi speranze, e tanto l’avean celebrato quando egli a Parigi s’era scoperto il capo avanti la statua di Napoleone a piazza Vendome, cominciarono a storcere il muso, poi a biasimarlo, e in ultimo a strombettarlo tiranno. Vedi umani pensieri! Ferdinando Borbone salutare colui ch'avea decretata la ruina de' Borboni; e liberali encomiarlo d'aver ossequiato un tanto despota. Ma questo era despota figliato dalla libertà. Poi il re disse aver salutato il guerriero; e i faziosi sparsero ch’ei non il guerriero ma il tiranno in lui riverisse.
Si stava tranquilli quando avemmo il colera-morbus. Questa peste comparve la prima volta a Bengala nel 1817; si dilatò nell'Indie e in Asia; e visitò l’Europa in Russia nel 1830. Di là in Polonia, in Ungheria, in Germania e in Inghilterra. A Parigi nel 1831; nel 1835 in Ispagna, in America e in Africa. Venne in luglio 1835 per Nizza e Cuneo in Italia; l'ebber Torino, Genova, Livorno, Venezia e Roma. Dasezzo, malgrado le governative severità, l'avemmo in Napoli la prima fiata a 2 ottobre 1836. Nella sola città morirono in tre mesi persone 5287 di colera, certo non molti in tanta popolazione. Ma con questa lugubre opportunità, il governo che molto operò in sollievo, mise in atto le leggi di tumulazione e inumazione ne’ campisanti, dove per vieti pregiudizii tutti schifavan la fossa. E così togliemmo il lezzo dei cadaveri dalle chiese in città.
Ma il morbo che parea fugato ripullulò più fiero alla metà d’aprile 1837 in Napoli. Ne’ primi di giugno entrò a Palermo, dove pel calore e per intemperanza d’igiene intristì oltre misura. Al 10 morironvi 1805 persone, e in quattro mesi ventiquattromila! Messina non fu tocca. Catania ebbe 5560 morti. In tutta l’isola il colera mieté 69250 vite. In Napoli furono 10400, e cessò sul cader di settembre; fini a Palermo a 19 novembre, e a Catania a 27 dicembre. Non ostante tali morte e l’altre del 1831, sendo cresciuta la prosperità, crebbe la popolazione. Questa nel 1825 era di 6,800,000; nel 56 sommò a 9,089,001; e più fu nel 60.
Mentre la mano del Signore si gravava così su’ paesi nostri, la setta aggiunse sue rabbie. Corso il motto, in molte parti d’Italia s’andò a' fatti. Dirò del regno. In Penne città d’Abruzzo ultra, a 25 luglio 37 sparsero voce d’una fontana attossicata; poi alquanti ribelli disarmano i pochi soldati. alzano vessilli a tre colori, e grida costituzionali. Non riusciti a movere i paesi circostanti, in due dì finì lutto. La commissione militare a 19 settembre né dannò quattro a morte, altri a' ferri. A Spizziri in Calabria Citra un Luigi Stumpo e un Luigi Belmonte, prete, divulgarono anche di una fontana con veleno; presi, venner dannati a morte il 24 agosto. Nella stessa provincia a S. Sisto fer lo stesso un Carmine Scarpelli e un Luigi Clausi; e assoldati mascalzoni preser l’arme la notte dopo il 22 luglio, movendo ver Cosenza, ma per via scorati dalla loro pochezza si sparsero. Diciassette ebber pena del capo.
A Palermo, nel furor del colera, un vecchio col figliuolo rifugiò in una campagna detta le Grazie, e infermò del male. I villani instigati a crederlo avvelenatore, miser le mani addosso a lui e al fanciullo, e a 9 luglio ambo malconci e semivivi abbruciarono. L’11 trucidarono entro la città altro infelice, otto la notte nel villaggio Abate, e i giorni appresso altri diciassette. Poi dieci a Bagheria, 30 a Capace, 27 a Carini, 12 a Corleone, 32 a Marineo (fra' quali il parroco ed il giudice), 67 a Misilmeli, 11 a Pizzi, e 10 a Termini. A tai misfatti scguitavan vendette, furti, saccheggi e anarchia. A Siracusa si sollevarono a 18 luglio, e uccisero sei persone, con l’ispettore di polizia Vico, e il Vaccaro funzionante intendente. Nella terra di Floridia ammazzarono il presidente Ricciardi della Corte criminale, e sfuriati i giorni dopo fecer peggio: in tutto furono quaranta assassinii a Siracusa, tredici a Fioridia, e otto a Canicattì. Quando ecco a 21 luglio certo curiale Adorno stampa un manifesto dicente il colera venir da arsenico vagante per aria, e doversi accoppare i propagatori, poi si mette a capo i faziosi, e scorre la città, mentre i pochi soldati traggonsi in castello. In Catania già similmente sollevata, come giunsero i manifesti dell'Adorno, ristamparonli, rinfocolarono la plebe, manomisero i poliziotti. arrestarono l’intendente ed altri uffiziali, e crearono una Giunta di sicurezza. Al 30 disarmarono una compagnia di linea, ruppero gli stemmi e i ritratti regi, alzarono bandiera gialla (colore surto nel 1820 a Palermo) e proclamarono l’indipendenza. Con una proclamazione dissero: Ferdinando per non perdere la Sicilia volerla disertare di abitanti; il colera non essere asiatico ma borbonico. Aderirono Motta, Paterno, Biancavilla. Nondimeno a 3 agosto gli stessi Catanesi col marchese di S. Giuliano, scacciati i faziosi, riposero il governo regio. E anche a Messina. dove non era il morbo, si suscitò subuglio, aizzando la plebe a far calca, e respinger tumultuosamente dal porto due navi vegnenti da Napoli e da Palermo.
Il governo per ripristinar l'ordine, e punire i trucidatori di tanti innocenti, mandò con alter-ego il ministro Del Carretto, il quale operò con la sua consueta asprezza. Carcerate 750 persone, giudicate ebber condanna di morte 125. In punizione a Siracusa tolsesi l’intendenza e il tribunale, trasferiti a Noto. Poi a 16 maggio 1858 il re concesse perdono pieno a tutti gl’imputati di colpa di Stato ih Sicilia, salvo pochi capi da giudicarsi. In seguito ridie’ a Siracusa i soli tribunali.
Si quietò sino al 1841, quando s’udì una fazione ad Aquila. Colà eran capi di congiura il sindaco Ciampella, un Lazzaro di Fossa, e un Moscone da Ocre, mossi dal marchese Luigi Dragonetti, amico vecchio del ministro di polizia sin dal 1820: uomo ricco, stato spesso congiuratore. Erano spinti da speranza che l'8 settembre due reggimenti s’avessero a ribellare in Napoli con l’occasione della parata a Piedigrotta, e il resto delle milizie secondasse; inoltre sicuri che poca guarnigione quel dì restasse ad Aquila, appunto perché iti alla parata, credendo il reame ribellasse tutto, fermarono sollevarsi quel giorno. Uniti a prezzo un cento uomini, sulle ore cinque pomeridiane corrono per Aquila armati; sorprendono in istrada il comandante colonnello Tanfani che accorreva al castello; subito l'uccidono, e dopo morto traforante di stilettate, lui e un gendarme. Poi vanno a guadagnare e opprimere i soldati; ma questi risposto con ischioppettate, ne stufano quattro, fugano il resto. Alla dimane i congiuratori, divulgata voce di subugli in Napoli, ritornarono in più numero; e indi a poco di ora si disciolsero per tema. Il governo imprigionò 152 persone col Dragonetti; poi compiuto il giudizio a 20 aprile 1842, il più col Dragonetti uscir liberi; altri ebber pena di ferri; otto soli dannati a morte, ma il re fe’ grazia, fuorché a tre. Il Ciampella, il Lazzaro e il Moscone, capi palesi, fuggiti a tempo, ebber sentenza in contumacia. Il Dragonetti ed altri s’allontanarono dal regno.
Si buccinò che in quel garbuglio avesse le mani il ministro: il quale non potendo rattener più i suoi vecchi e segreti amici, permettesse facesser quel saggio di rivoluzione, che, riuscito, avria calato a costituzione re Ferdinando; mancato, avrebbe rinsavito i cervelli. I capi fuggiti, il presto liberato. Ma né restaron vittime il Tanfani che già da più mesi strepitava, non udito, pel fermento che si mestava nel paese, e l’intendente conte Ferdinando Gaetani, uomo bonario, accusato di trascuratezza, e traslocato a Molise.
La Giovine Italia sollevò di nuovo le Romagne nel 1843; e correva attorno un medico (poi famoso) Luigi Carlo Farini di Russi presso Faenza, per ispingere i comitati di tutte quelle città a tumultuare. Un Zambeccari venne a Napoli, e s’aggirò nel Vallo. Volean si movesse prima il regno, ma non trovaron chi li udisse; e la polizia avvisata da' complici li scoperse in luglio e lor troncò i passi. Nondimeno si mossero ad Imola e a Bologna, dove entrò con una masnada quel Ribotti piemontese che poi vedemmo in Sicilia e in Calabria. In quella re Ferdinando offerse al Papa soccorso di truppe a sue spese; ma Gregorio che si sentiva forte non n’ebbe bisogno, e in breve scacciò quelli avventurieri. De’ fatti del 1844 dirò appresso.
La Giovine Italia visto in niuna guisa poter guadagnare Ferdinando di Napoli, mentre tentava farlo uccidere, e lavorava ad infamarlo, prese altra via. Carte Alberto di Savoia carbonaro e rivoluzionario nel 1821, vinto s’era fuggito a Firenze, ben ricettato dal Gran Duca; dappoi nel 1895 in prova di pentimento era ito soldato coll’esercito borbonico di Francia a spegnare le Cortes in Ispagna; dove condottosi bene ebbe da quei bizzarri Francesi le spallette di granatiere. L’Austria gli mandò l'ordine di Maria Teresa; Luigi XVIII Borbone ottennegli il perdono del suo re Carlo Felice. Morto questi senza prole, salì appunto esso Carlo Alberto, primo della linea Carignano, al trono di Piemonte; perlocché i liberali in esso già collega alzarono le speranze; ma egli scorto la Costituzione aver cacciato allora di Francia Carlo X, stette duro; anzi nel 1834 represse la sollevazione tentata in Savoia dal rivoluzionario Ramorino; e fucilò quanti ebbe alle mani ribelli. Non ruppe i trattati con Austria, confermoli anche con altro, che in caso di guerra con Francia, davagli il capitanato d’un esercito Austro-Sardo; dove avria dovuto stargli ubbidiente il generale Radetzkv duce de' Tedeschi nel Milanese. Nulladimeno non ismentì suo passato. In principio ebbe a coprir l’ambizione, rattenuto dalla dritta politica europea, o dall'indole conservatrice de' sudditi suoi; ma non la ruppe co' vecchi compagni di congiura; se li chiamò attorno, e lor die’ soldi e potestà. A questo Ilio di favore appoggiata, la setta in poco di tempo schierò tutti settarii di costa al trono bardo; i quali con l'esca d’onoranze e paghe e favori crebbero, e seppero instillar pensieri nuovi in quel buon popolo Piemontese. Egli tenne politica subdola: vagheggiava Lombardia, odiava Austria, le volea male, e le si profferiva amico, né invocava consigli, né ubbidiva a' cenni; giustiziava ribelli, sbandiva cospiratori, imparentava con Tedeschi. Dall’altra scacciava di corte i vecchi fedeli, accoglieva giovani libertini, motteggiava arcivescovi, udiva ridendo le calunnie a’ religiosi, gongolava al sentirsi lodare quella sua politica nuova; amico di tutti, misleale con tutti; con l’Austria e con la setta, co' Principi e co' popoli, co' Volteriani e con la Chiesa. Pertanto egli solo tra' prenci a Italia era incensato in prosa e in rima, e speranze grandi riceveva e dava. Quella stirpe Savoiarda surta a poco a poco, nelle peripezie de' secoli, di piccola contea a un regno preso a bocconi su’ vicini, avida sempre, le tradizioni di famiglia talvolta sopiva, non mai smetteva. Alberto cui le aspirazioni settarie fean tralucere il destro di pigliarsi tutta Italia, sel vagheggiava; siccome la setta aspirava a far l’Italia socialista col suo braccio regio. Qual de' due fallasse dirà il tempo; credo tutti e due, se un po’ di giustizia deve tornare in terra.
La propaganda rivoluzionaria designò il Savoiardo a redentore futuro. Lui sangue italiano, lui riformatore, lui sovrano di regno sedente tra Tedeschi e Francesi, stato tanta età argine a quei stranieri, lui meritevole di monarchia nazionale, lui solo degno d’amore e fiducia celebravano. Gli altri principi, mancipii dell’Austria; il re di Napoli, Borbone, sangue forestiero, despota e tiranno, doversi spegnere; del suo esercito, di sue utili riforme, della prosperità e incivilimento napolitano non s’aveva a far motto. E per deprimere il re si deprimea la nazione. Uomini, arti, lettere, scienze nostre s’avevano a ignorare o a beffare o a sfatare: libri napolitani, nomi napolitani, fatti napolitani, leggi napolitane, tutto in fondo; Napoli la China d’Italia dicevano.
Ferdinando avea schifata quella politica Sarda, perché ingiusta, fallace e rapinatrice; e perché (il lasciò scritto di sua mano) avria posto il paese in falsa via, scemata l'indipendenza politica e commerciale, dono di Carlo III, ch'avea sollevata la nostra nazionalità. Cosi sfuggito egli all’amo dell'ambizione, era però sempre alla prese con l’idra settaria, rinfocolata da soldi forestieri.
La rivoluzione sperando nel NON INTERVENTO, si sforzava a conseguire un qualunque trionfo, certa poi d’esser lasciata fare. Dal 1830 al 1846 oltre i casi del reame, molti moti nella penisola seguirono. Parma, Modena, Bologna, Roma ebbero grossi tumulti nel 1851, tosto domi; ma è da ricordare in esse aver parteggiato Luigi Bonaparte ora imperatore e ’l fratello, figli di quello che fece il re in Olanda. Questa casa Bonaparte, sondo esule e ospitata in terre papaline, vi teneva desto il fuoco, acciò qualche dì svampasse, da farla risalire. Il pacifico Papa perdonava a' colpevoli, salvo ch'a pochi, come il Mamiani, lo Sterbini, e un altro Bonaparte, poi rinfelloniti con rinomo nelle rivolture seguenti. Luigi Bonaparte col movere Italia aspirava a Francia. Ito da Londra in Isvizzera, fe’ il capitano d’artiglieria a Berna; e colà, sendo già ligato alla setta mondiale, ebbe opportunità di stringersi Eradicali Elvezii. Scrisse un opuscolo dimostrante la salute di Francia stare in repubblica, con un Bonaparte presidente. A 30 ottobre 1856, fu scoperta a Vendome certa congiura repubblicana fra' soldati; e ’l giorno stesso egli Luigi che da qualche dì stava ascoso entro Strasburgo, col favore d’un Parquin comandante di Gendarmi, e d’un Vaudrey colonnello d’artiglieria, si fe’ gridare imperatore; se non che il generale Voisol, dopo un’ora di rumore, compressa la sedizione, imprigionò i rei. Egli patì violenze sulla persona, lacere le vesti, strappate le insegne. Luigi Filippo perdonò a lui e a' complici; e il mandò a 15 novembre libero sulla sua parola d’onore in America. Tal perdonanza fu esaltata cima di sapienza civile. Intanto i pensieri napoleonici sospinti dalle sette si facevan piazza; e nel 1840 s’andò sino a S. Elena a pigliar pomposamente le ceneri del gran guerriero, che meglio per la pace del mondo v’avrebbero dormito. Luigi se ne valse; tornò d’America a Londra, ove avea grandi fautori; usò del perdono tramando con opuscoli e giornali a pigliar gli animi Francesi; e come gli parve entrò in Francia quell'anno 1840. Sbarcò di notte tra il 5 e ’l 6 agosto sulla spiaggia di Boulogne, con sessanta persone in divise militari di generali, colonnelli e uffiziali; entrò in città, sparse proclamazioni e si presentò a' soldati. Visto non far frutto, retrocesse; inseguito, tentò salvarsi in barca; ma dopo alquanti colpi di fuoco fu preso. Il re fece lui e i suoi giudicare dalla Corte de' Pari; errore che in quella fantasiosa Francia mise in vista il Pretendente. A 6 ottobre condannato a prigionia perpetua, fu serrato nel forte Ham, donde seppe fuggire a 25 maggio 1846.
Più tardi fur sollevazioni a Livorno per opera del Guerrazzi romanzatore; poi in Romagna, ove le milizie papali domaron presto Faenza, Forlì e Rimini. Ciò die’ opportunità al piemontese Massimo d’Azeglio, novelliere e pittore, a scrivere un libretto che facea veder vicina e sicura la rivoluzione. Tutto il pontificato di Gregorio XVI fu un battagliare con la setta; ond'ei si morì a 1 giugno 1846 con fama tra' ribelli consolidata di retrogrado papa. L’interregno fu supremo momento: da mille bande sorgevano accuse alle leggi romanesche, e alto domandavan riforme; per bene no, |w>r dar principio ài baccano. Ma né dirò appresso.
Ferdinando avea preso per donna a 21 novembre 1832 Maria Cristina di Savoia, figlia di re Vittorio Emanuele I, bella di persona, più di animo; la quale per virtù e beneficenze meritò l'affetto de' Napolitani. Ella al quarto anno partorì questo Francesco, sventurato fra quanti nacquero al trono; ché vista la luce a 16 gennaio 1836, dopo quindici giorni perdè la genitrice, preludio a lui ed al paese di future avversità. Cristina visse dal 14 novembre 1812 a 31 gennaio 1836. Pianserla tutti; e con lagrime sincere, che aggrandì dopo morte fan prova certa di loro virtù. Il vedovo re per isvagarsi viaggiò a Parigi, poi a Vienna, e vi concluse altre nozze con Maria Teresa d’Austria figliuola di quell’arciduca Carlo che fronteggiò Napoleone. Sposò a Trento il 9 gennaio 1857. Ecco le sette a sfringuellare: dopo la Savoiarda la Tedesca; Ferdinando diserta la causa d’Italia, s’allea all'Austria, se ne fa servo, risospinge il regno nelle trame de' Metternich e de' Gesuiti. Pochi giorni appresso per infausto accidente arse la reggia di Napoli, ma risurse più sontuosa; demolita la brutta contigua casa de' viceré, fattane piazza e giardino, e ornata magnificamente la grande marmorea scala. Già pochi anni prima s’era compiuto il palazzo di Capodimonte.
Carlo principe di Capua secondogenito di Francesco I, bello della persona e cavaliero, non facea buon viso alla prima politica del fratello. né al vedergli attorno uomini del 1820 e Murattini; però tenevanlo in uggia, appellavanlo aristocratico, Canosino, sanguinario; ma veramente era principe generoso e di cuore. La congiura dell'Angellotti ch'aveva accennato a far lui re, era stata insidia per dividere i fratelli, cui supponevan facili a divisione. Accadde ci s’accendesse fieramente d’una dama irlandese, Penelope Smith, un po’ parente dell’inglese Lord Palmerston. Ferdinando fece ogni potere a dissuadetelo; poi chiese s’allontanasse la donzella al Temple ministro inglese, il quale sendo fratello del Palmerston e parente di lei, disse nol poter fare. Ma Carlo la notte seguente al 21 gennaio 1836 fuggì con essa, presa per più segreta la via di Pozzuoli, disusata da più secoli. Seppelo il re, e voleva segnalare a confini non passasse, ma o consiglio altrui o moderazione d’animo, si tenne a scrivergli dì sua mano, e mandogli dietro un uffiziale. Carlo al vederlo, pensando il dovesse sostenere, cavò le pistole, indarno dalla Penelope tremebonda trattenuto; quindi letta la lettera che il consigliava restare, come amore non vuol consigli, rispose risponderebbe, e andò via. Ferdinando poscia, udendo com’egli imbertonito pareva accecato a sposarla, fe’ decreto a' 12 marzo richiamantesi all’atto sovrano di re Francesco del 7 aprile 1829, a quello più antico di Carlo III, e al dritto di sovrano e capo di sua famiglia, ordinava: niuno del real sangue poter senza permesso uscir dal regno, o che le rendite d'ogni sorta ne sarian sequestrate, e, dopo sei mesi di permanenza fuori, devolute alla corona; nessun matrimonio di persona reale, mancante di regio beneplacito, considerarsi legittimo, né capace di produrre effetti politici e civili, anzi portar di dritto la decadenza de' beni, e devolverli alla corona. Gliel fe’ notificare in Inghilterra, e fu scritto a tutti i nostri agenti consolari ponessero impedimenti alle nozze, ovunque si compiessero. Difatto il principe non fu accolto quando si presentò alla corte inglese; laonde per gli ostacoli più incaponito, s’appigliò a strano partito. V’ha in Iscozia a Greetna-Green un maniscalco che vanta alla sua stirpe certo privilegio di poter sulla sua incudine sposare qualsivogliano persone; rito pagano che gli dà provventi su tutti i matrimoni clandestini di que’ luoghi. La passione spinse il cattolico Carlo Borbone a sposare sulla incudine. Poi iroso da avere altrove la benedizione nuziale. In seguito molte volte tentò di persuadere Ferdinando a revocare il decreto; e benché vi mettesse la regina madre, non riuscì. Gli si permise tornar con la moglie, ma non principessa, il che non sopportando costei, si stelle esule volontario tutta la vita. Visse anzi in bisogno, ché il fratello, sebbene non usasse il rigore del decreto, né devolvesse alla corona i suoi beni, pur tenneli sequestrati (fuorché la contea di Mascali), e le rendite a frutto a pro di lui sul Gran Libro. Ma egli riceveva soccorsi da mani ignote; cioè da chi voleva tener viva una favilla in casa Borbone, pe' futuri casi. Molti credono questa essere stata una cagione del pertinace sdegno del Palmerston con Ferdinando.
Ciò parve presto vero. Avevam sin dal 1816 un trattato con Londra ov’era stipulato che le vicendevoli relazioni commerciali fossero a paro delle nazioni più favorite. L’industria dello zolfo da più anni era scaduta in Sicilia, per troppa avidità, per cattivi metodi del cavarlo, per contratti gravosi con mercanti stranieri, il più inglesi; onde molte reclamazioni eran giunte al trono. Nel 1834 una compagnia estera propose voler comprare tutti gli zolfi dell’isola a prezzi men bassi de' correnti; ma perché stabiliva monopolio fu negato. Nel 1836 i francesi Tayx ed Ayard fecero offerta migliore; mandata per esame ad apposita commissione, la maggioranza avviso pel sì, la Consulta sicula l'approvò; nulladimeno il ministro dell’interno ottenne più grassi patti; fra gli altri lo accrescere del doppio il prezzo del minerale a pro de' proprietarii, e dello Stato, che n’avria riscosso 400 mila ducati all’anno. Di questo i mercanti inglesi avevano avuto sentore, onde prima s’erano affrettati a comprar molto zolfo, e vi fecer guadagno; poi il loro governo si volse al nostro ministro principe di Cassero, protestando contro il designato contralto co' Francesi, cui diceva riuscirebbe a privativa, ed escluderebbe i sudditi brittanni. Il Cassero sentiva il dritto del re a fare il padrone in casa sua; nondimeno il consigliava a desistere dal contratto, per non farsi nemica quella nazione corriva all'interesse, possente in mare, e alleata naturale del nostro paese tutto dal mare circuito. Il persuase, ed assicurò l'Inglese che nulla si farebbe. Ma il ministro Santangelo e il generale Filangieri, fautori (non si sa bene perché) della compagnia francese, dissero al re la pretensione brittanna essere un attentare all’indipendenza del reame; e sì il misero su che sepper farlo calare. Ferdinando inverti i ducati 100 mila al dazio del macino, gravoso a quelle popolazioni che abolì. Il contratto si fece senza saputa del Cassero, il quale dolente d'esser venuto manco di parola si dimise; anzi caduto in sospetto di parteggiar per l’Inglese, stette qualche anno confinato a Foggia.
Incontanente la Gran Brettagna sfolgorò una protesta minacciosa;e i suoi mercanti che già molto avean come ho detto guadagnato, sia sulla derrata comprata a basso prezzo, sia sul bisogno de' proprietarii delle miniere,si lamentarono d’aver perduto, e dissero monopolio il contratto,quando questo pra un dare giusto valore alla merce, cui fissatone il prezzo era permesso comprare a chicchessia. Dissero il perduto essere assai, e volerlo da noi, quasi non si potesse da noi por dazii sulla roba nostra, e fidarli a cui si voglia. Il Palmerston consultò suoi giureconsulti, e benché pur quelli gli desser torto, si chiamò al citato patto del 1816, e disse lo aver fittato il dazio su’ zolfi essere contravvenzione al trattato. E perche anche a lui parean fiacche le ragioni, le afforzò con armata, la quale postasi avanti Napoli minacciò centomila bombe. Il re sul primo botto schierò truppe sulle coste a vietare sbarchi, mise in punto i fortini, accese i fornelli, e fu una notte che parve si venisse alle mani. Intramessosi mediatore il ministro di Francia, i vascelli si discostarono alquanto; e tosto un legno francese intervenne, che per Luigi Filippo pose fine alla controversia. Si disfece il contratto, perché così volle Londra, e si pagò il danno a' Francesi, che così volle Parigi. Inoltre perdemmo gli speranzati ducati 400 mila annui, e il re che già si trovava aver abolito per essi il macino, nol volle ripristinare.
Il Cassero col cadere salì a fama di prudente e previdente ministro. L’Inghilterra era così forte ch’ei non era da badare a un po’ di nuovo provvento innanzi al benefizio d’averla amica. Il Filangieri e il Santangelo autori del mal consiglio non patiron nulla; dove il Cassero non fu più richiamato in seggio, pel gran torto d’avere avuto ragione. Ciò fe’ l’altro danno che il re non volle più uomini di cuore al ministero d’affari esteri. Cedendo alla forza, colpito nella regale indipendenza, non dissimulò l’indignazione, però i rancori del Palmerston s’accrebbero, il quale cadde e risurse più volte, sempre a Napoli nemico. Terribile alleato delle macchinazioni in casa altrui, non lasciò più d’insidiare la nostra pace.
Questa briga pe' zolfi, segna un’epoca fatale al regno. Cominciò guerra sorda e lenta; incoraggiati i felloni, nudriti i malcontenti, la proiezione risollevava le sette, si ritessevano le reti. In ogni fatto il governo napolitano trovava opposizioni, ogni qualunque atto aveva censura, una opinione fittizia il percuoteva sempre; e il condannava a essere infallibile. Si compievano i primi dieci anni liberi e felici del regnar di Ferdinando. Quelli succeduti sino al 1848 ebbero diversità di governo. Il doversi difendere, l’avere a prevenire i colpi nemici, il continuo stare all’erta fean men larga la potestà, più rattenuto e severo il braccio regio. E sendo ignoto ove fosse il nemico, il sospetto doveva gravar su molti; e chi era sospettato diventava nemico. Sorsero cosi a poco a poco umori nuovi. Sopra ogni minimo ette si fabbricava un castello; la fazione senza dar nell’occhio stendeva le branche, e aggavignava scontenti e ambiziosi.
Sendosi molto per lunghi anni lavorato a calunniare il nostro paese, noi stessi a forza di sentire a dir male di noi, n’eravam quasi persuasi. Ma vediamo un po’ s’è vero. Si deve considerare questo reame aver prima avuto guerre civili tre secoli, poi due di viceregno, considerare quanto passionati vi nascan gli uomini, quali v’abbian consuetudini tenaci e tradizioni e pregiudizii, come sia fatta la regione, come v’abbondan vulcani, e tremuoti, e bufere, e caldo e freddo, e bene e male, e come tutte innovazioni vi van fatte con riguardo e avvedutezza. Giudicar Napoli sullo stampo di Parigi e Londra è vezzo di stolti. Molti sacciuti credono esser civiltà e progresso quello che vedono in Francia e in Inghilterra, e quanto dissomiglia dicon barbarie. Veggono oltremonti poche città lustrate, s’appagano, e voglion giudicare pur dell’Italia galoppando. Ma questa da quindici secoli sortita, ha cento città, tutte costumanze diverse, dialetti, pensieri varii; e noi Napolitani, stati separati sempre, abbiam singolarissime usanze, sembianze greche e latine originali, e modi di vita tenaci, che paion talvolta incivili allo straniero che in fretta giudica dalla scorza. Ma la civiltà vera è dell’animo, non del vestito. Abbiamo panni men lucenti addosso, ma con più morale e religione. Alquanti del popolo sono scalzi e mal vestiti, ma vanno alla predica, si confessano, aman la famiglia, non bestemmiano, vivon con poco, e allegri cantano; brevi nell’ire, ubbidienti, pazienti, entusiastici e generosi. Marinai e contadini son tipi di bontà. Le feste han forme di baccanali, ma informate di pensiero cristiano, caste le donne, morigerati i garzoni, frequenti le nozze, la piccola industria molto comune. Se togli le grandi città, dove sempre per ragione degli esteri è più corruzione, le provincie han costumi patriarcali, vestimenta pittoresche, avanzo di tempi greci ed etrusci, gioie semplici, poche voglie e di facile contentatura. Questo popolo è felice con poco, ed è una strana filantropia quel volerlo dissonnar dalla quiete sua, per suscitargli desiderii da restare inappagati. Sono i desiderii inappagati che fan furente questo secolo, e germinano in mezzo a tante dorature quei delitti orribili, e quei tanti morti di fame che cadon per le vie a Londra. I ladri, i malversatori, gl’incestuosi, gli atei, le infanticide, le bagasce e i bagascioni che a migliaia bruttati quei lucenti paesi, sono qui rare eccezioni; e sol talvolta ne trovi nelle grosse città, quasi frutto di quel progresso che a tutta forza né van recando.
È una verità che i Borboni han fatto il possibile per non far entrar nel paese cotesta civiltà; quindi retrogradi e tiranni. Combattevano anzi a frenare quel tanto cui non si poteva vietar l'entrata, promovevan le missioni, le feste religiose, i Liguoristi, i Gesuiti, le rette scuole, l’abbondanza, il buon prezzo delle cose, e questo era oscurantismo; impedivano i giuochi rovinosi, i concubinati, la camorra, i postriboli, ed era tirannia; ponevano i calzoni alle immodeste ballerine, vietavano i drammi osceni, le pitture lascive, le statue invereconde, non permettevano la propaganda socialista ai giornali, le filosoficherie alemanne alla stampa, e le resie protestanti a' novatori; e questo era dispotismo, opposizione al progresso, negazione di Dio; perche per la setta Dio sta ne’ sensi sbrigliati.
Anche in quanto alle cose materiali, considerato lo stato abbietto del regno a' tempi de' viceré, è maraviglia lo incremento de' beni surto in un secolo. Benché il meglio fosse interrotto dalle peripezie rivoluzionarie, se paragoni dov'eran altre nazioni centotrent'anni addietro, e dove eravam noi allora quasi servi, e dove di presente giungemmo, ogni persona equa dovrà convenire il regno aver fatto molto maggior cammino che nessun altro; ché eravamo ultimi, poi non fummo secondi a nessuno. Nel 1669 il reame, giusta la enumerazione, avea 2,718,550 abitanti, nel 1751 quando venne Carlo III era di 5,011,562, nel 1775 fu contata 4,500,000; al ritorno de' Borboni nel 1815, era di 5,060,000. Al 1836 era già 6,081,995, scemò poi pel colera, salì nel 1841 a 6,177,589. A questa aggiungendo la Sicilia, si trovò insieme nel 1846 di 8,425,516. E in dieci anni crebbe, ch’era nel 1856 di abitanti 9,117,050. La popolazione va con l'agiatezza. Questo regno sotto i viceré non avea strade, ma viottoli infossati, si viaggiava fra boschi e paludi co' masnadieri alle coste, anche nelle città, a sera s’aveva a uscire con torce e servi, non s’ubbidivan leggi, il baronaggio selvatico teneva le terre; i barbereschi ne rapiano i figli sin dentro Napoli, commercio passivo, non esercito, non armataci regno era smunto di danari e d’uomini, per viaggiar su’ galeoni in Ispagna. Ritornati i re e la indipendenza, tutte provincie e distretti ebbero strade, il baronaggio si fe’ civile ed innocuo, ogni cosa progredì rapidissima. Il primo battello a vapore in Italia fu napolitano. Le strade di ferro col vapore, inventate verso il 1820, erano ignote in Italia, quando a 19 giugno 1836 fu conceduta al Bayard la via ferrata da Napoli a Castellammare. Nel 1842 cominciò a spese del tesoro quella per Capua tosto compiuta, e poi l’altra per Nola e Sarno e Sanseverino. Nel 1837 avemmo il gas, nel 1852 il telegrafo elettrico, primi in Italia. In breve questo regno salì da profondo letargo a vivo progredimento: popolazione quasi addoppiala, entrate pubbliche quintuplicate, sicurezza piena in terra e in mare, viete tradizioni finite, sterpato baronaggio, svelle boscaglie, asciugati pantani, arginati fiumi e costiere, legislazione rifatta, armata due volte creata, esercito non più avuto, profonda pace, decuplicato commercio, decuplicati i valori, vie innumerevoli, monumenti maravigliosi, arti e scienze risfavillanti, e soprattutto la indipendenza vera da tutti stranieri, sono opere e benefizii della restituita monarchia.
É pur da convenire tai beni doversi in gran parte a Ferdinando II, ed egli andava sovente con suo danno al diritto avanzamento del paese. La napolitana scuola di scherma celebre al mondo, era sempre stata in fiore, ma partoriva faciltà dì duelli; onde il re per debito di coscienza decretò a 21 luglio 1838 severe pene contro cotesto avanzo del medio evo; il che spiacque a' cavalieri. Fu tacciato di tiranno. Ei fe’ templi molti, compì quello di S. Francesco di Paola, ricostruì S. Carlo all’arena, e quelli di S. Michele, S. Francesco d’Assisi e Annunziata a Gaeta; di minori né elevò moltissimi. Fu accusato di bigotto. Creò istituti religiosi, in altri accrebbe le dotazioni; fe’ le strade al santuario di Montevergine e ad altri non tollerò culti scismatici od eretici; fe’ un gran collegio di propaganda Fede, donde uscivan padri a convertire infedeli, fe’ dichiarare feste di precetto i giorni della visitazione della Vergine e dell'apparizione di S. Michele. E si gridò retrogrado.
Certo pur qui erano errori, ché pur qui uomini governavano; ma come i falli del governo s’esageravano a disegno, sarà carità patria lo andarli rinvergando severamente, e veder quali veramente si fossero.
Il più degli uomini ch'avean la potestà prima del 1848 erari già noti per pensieri e atti liberali, messi da Ferdinando al governo, perché né eran gridati capaci. Il Santangelo, il Del Carretto, il Ferri, il Fortunato, il Niccolini, il duca di Laurenzano, allora ministri, fur già liberalissimi; e qualcuno già condannato a morte per reità di stato, e graziato. Il Filangieri, il Begani, il Mayo, il Roccaromana, il Moliterno, l’Ischitella e tanti altri avean servito i Francesi, e i più alti in magistratura e nel governo eran uomini di quei tempi. Ma come i meno che stanno alla legalità sono i liberali, molti di questi arrivati al comandare, sia disegno, sia passione, avean troppo del dispotico. Gli altri ministri e direttori men liberali eran più bonarii, ma per modesta natura subivan pressione da' colleghi. Il paese era scontento de' ministri, e più di quei due primi, cui accusavan anche di peculato, non so se a ragione. L’accusa dell'arbitrio meritavano; il quale scendendo ne’ minori dava in peggio, e indignava. Buoni ordinamenti, guasti per via, riescivan male; e dove volevano scansare un guaio incappavan nell’opposto.
Inoltre i ministri, potenti e dispotici, non concordi, procedean disgiunti, né tutti a un fine, ma ciascun da sé, per fine suo imperando, facevano un governar vario e zoppo, in contrasto con la legge scritta. Nelle personali vanità e rivalità di ciascuno mestava la setta; e i ministri aggiunti senza portafogli, furono ambizioni ad ambizioni, rivalità a rivalità, maggior diffidenza, più battaglia, minor nesso, più disparità di concetti, di protezioni, d’indirizzi e di opere. Alle male usanze non ponean rimedio, le imbiancavan di fuori; ond’era venuto il vezzo di tenere alla forma e all’apparenza, non alla sostanza. Non guardavano l’avvenire, non le vicende contemporanee, non il progredir delle scienze e ’l sollevarsi dell’europea famiglia; quasi il regno fosse solo al mondo, volean tenere i pensieri in un torpore impossibile. Risollevando i pensieri se ne sarebber fatta una forza; comprimendoli, se ne crearono una leva contraria. Poi la boria e l’albagia (comunal vizio di tutti i nostri governanti di qualunque governo) li faceva odiare; e più che stettero a lungo a posto, perché il re dal mutarli era svogliato. Adunque con buone leggi si pativa per mala esecuzione di leggi, con uomini d’ingegno, si lavorava a celar l’ingegno; e per appagare gl’interessi parziali de' pochi si obbliava l’interesse universale. Ferdinando molte cose buone vedea fare, le minuzie male non vedeva, o non credeva punire, ma esse facean molti malcontenti. I re non pare vogliano intendere i più grandi nemici loro essere quei loro ministri che ne fanno esosa la potestà.
Ottimo governo è dove ottimi comandano. Ma spesso l’impudenza del vizio piglia le sembianze della virtù ch’è modesta, si fa importuno innanzi, e conquista i magistrati, allora i cattivi imperano, sovrastano a' buoni, e li sforzano a esser come loro. La dominazione francese, per guadagnar partigiani avea creati molti uffizii, e inventata quella che dicesi burocrazia; la dinastia ritornata per iscansar rancori, lasciò stare. Ora l’avere impiego è diventata mania; e ne voglion tutti, più per comandare che per ubbidire, più pel soldo che per la fatica. Molti senza cuore e senza scienza, iti innanzi col tempo e co' favori, eran meri gaudenti, e destata invidia furo esempio e modello, quindi le cariche diventar patrimonio de' più importuni, e surse l’usanza del darle a chi più sollecitava. E chi pensava al merito che tace? Onesto vizio, sinché non vi si porrà modo contrasterà ogni perfezione al nostro paese, perché sempre sederanno al governo i peggiori, qualunque sia la forma del governo, come si vide con le rivoluzioni, le quali operando per grida e schiamazzi, misero in magistrato uomini più tristi de' precedenti.
I soldi inoltre a quali eran grossi, a quali eran lievi, per sostentar più gente si dividean talvolta a due, talvolta senza soldo uno aspettava più anni la vacanza; il perché si sospiravan rivolte per salir più presto, molti servendo senza niente, sostituivanvi industria illecita, che fer vendere in piazza il giusto e l’ingiusto. Così il regno era affogato da suoi uffiziali; che surti per privilegi e favori, favori e privilegi tenevan per giustizia, si sorreggevan l’un l’altro, né al dovere ma alle apparenze tenevano. In dritto avevam tutti a chinarci alla legge, in fatto assai se ne emancipavano, con molta indignazione della gente e conseguitava che nelle menti popolari l’ubbidire alla legge parca soma cui solo il volgo fosse soggetto. Ciò fu arma alle sette.
La polizia, inventata in Francia, surta potentissima al tempo di Napoleone, fu trapiantata nel regno dal Giacobino Saliceti. Restata con la restaurazione come tant’altre cose, parve a' liberali che l’avevano inventata, molto grave quando s’usò contro di loro. Ella è fatta per prevenire i reati, e per tutelar la quiete; onde non ha codice, e che che si faccia avrà sempre l’arbitrario. Io non so se un governo possa far senza di lei, oggidì che una setta mondiale ha altra polizia sotterranea che mina la società. La polizia è controsetta necessaria, veleno contro veleno.
Nonpertanto al tempo della restaurazione si pensò con le»istituzioni del 22 gennaio 1817 a designare sin dove ella si potesse stendere; ma presto andarono obliate, ed essa diventò, piuttosto che prevenlrice, punilrice; il che non giova già, ma dannifìca lo Stato, nessuno contenta, molti disturba e a tutti è molesta. Perché faccia il menmale, e il più bene che possa, né trasmodi per potenza, e giovi per vigoria, vorrebbesi non farla star sola, né senza contrapposti, cioè collegarla all'amministrazione, e contrapporla alla gendarmeria. Lo amministratore non può senza aver danno sfuriar la polizia; e questa dalla gendarmeria sopravvegliata non può sfuriare. I Gendarmi braccio della legge, interposti in tutte faccende civili e penali, stan nella coscienza intima d’ogni fatto governativo, onde naturalmente sono alla polizia di aiuto e freno. Ma fra noi la polizia aveva ministero distinto dall’amministrazione, e operava a suo grado, spesso quella inceppando; e per doppio errore sedici anni vi fu ministro il capo de' Gendarmi; quindi mancaron due cose, il freno e la sorveglianza alla polizia, così fatta non guardiana del governo, ma ella stessa governo. L’uomo poteva esser fornito di cuore e di mente, ma sempre è male il porsi in necessità d’aver uopo d’un uomo grande, di che avara è la natura. Francesco Saverio Del Carretto, stato come dissi carbonaro, giunto a ministro fu più assoluto del re, e per doppio potere strapotente, né moderatore di sua forza, la quale col mutar delle vicende avrebbe anche al trono fatto ombra. Né veggo in che giovasse, perché in sedici anni avemmo molti conati di ribellioni non prevenute ma punite, che pur miser capo al 1848, cui niuna previdenza vietò. Il Del Carretto non avendo mai lasciato di tener la mano nelle società segrete, con la setta guardava la setta, e anziché tutelar la potestà, pesava sulla maggioranza de' cittadini nelle civili bisogne; sicché fu odiato, non da' settarii, ma dalla popolazione. Nondimeno egli, sicuro de' settarii, giurava sicurezza alla vigilia dello scoppio; ma quel giuoco era durato troppo a lungo; i rivoluzionarii vista infamata la polizia ed esosa a ogni persona, voltarono a sé la opinione universale, e vinserla senza urto.
Ella era invisa pe' Gendarmi: ve n’era di buoni e mali come da per tutto, ma i mali eran troppi; il più baldanzosi, dispotici, venali avean soprattutto nelle provincie organati abusi e furti, con faccia quasi legale, eran di peso più ai realisti che ai liberali, da' quali spessissimo avean mance. Inoltre alquanti s’erano col segreto consenso del ministro inscritti nella setta, per ispiarla; dove invece ne restavan guadagnati e infetti, onta e danno al governo. Più odiata era la polizia per quei suoi bassi adepti, detti uomini di fiducia, cui il popolo corrompendo a dileggio appellava feroci. Questi avean soldo misero, e talvolta nulla, e avendo a mangiare e tener casa e mogli e figli, si davano a ogni reo mestiere, a stender la mano in tutte guise; e per estorquer danari eran feroci. Il Del Carretto pensandosi d’alzar questi sitibondi, dicevali magistrati armati; il che significò farli oltre misura più potenti e odiati. In breve la polizia surse superiore a tutte leggi, e molesta non a' tristi ma a' buoni, e quando era al sommo della potenza e che cieca debaccava, si trovò la rivoluzione fatta.
Nicola Parisio ministro di giustizia fu uomo dotto, onorato, fido, e tutta la vita modello d’onesto magistrato, ma si faceva pigliar la mano a' colleghi. Elevò la magistratura a buona condizione, ma per non negarsi ai potenti si calava talvolta a premiar diversi e forse ignoti servigi con uffizii giudiziarii; quindi in quel fiore andò un po’ di crusca. Per perdonanze e per brogli erano in magistratura iti parecchi Massoni e Carbonari, i quali non aveano smesse le arti e le passioni settarie: però nei giudizii si ricordavano le avversioni passate, e sovente n’andavan minate negl’interessi famiglie fedeli al trono. Né di rado udivi qualche sentenza dura, cui poi il ministro di polizia squadronava sopra, quasi rigiudicando i giudicati. Sconci mali, sconci rimedii. Non cosi il vecchio Ferdinando I; il quale udito d’un’ingiusta sentenza contro un De Rosa di Foggia, rispettò il giudicato, ma dannando sé d’aver creati magistrati iniqui, pagò del suo il danno, e quei mali giudici dimise. Al soldatesco rigiudicare del ministro Del Carretto, i curiali pigliavano il destro di storcere il muso, e lamentarsi, e diffamare la sovrana potestà. Certo la congiura avea grande seguito e forza ne’ tribunali, dove in nome del re, sovente si giudicava senza imparzialità, e si gravava i buoni e s’inceppava l’industria.
Peggio ne’ circondarli, dove sedevan giudici giovanetti usciti di scuola, con lievi soldi e molta potestà. Per legge cumulavan la magistratura e la polizia, per abuso vi s’aggiungeva qualche branca d’amministrazione, onde il triplice potere in animi giovanili, ov’è natura la baldanza, li guastava. Gl'intendenti per isfuggire responsabilità, lor fidavan tutte faccende, e né chiedean ragguagli e consigli, onde i giudici s’eran resi i veri regolatori delle comunali e politiche bisogne: in mentre mal pagati, e spesso carchi di famiglie, pativan necessità d’ogni ben di Dio. Anche onestissimi, ancora che contenti di viver misero, non osavan poi contrastare al voler de' ricchi e de' potenti, che potean farli traslocare, o abbassare o promuovere, sicché erano in perenne lotta fra il bisogno e il dovere, fra la passione e la legge, fra l’orgoglio e la paura. Delle cancellerie e degli uscieri non parlo, de' quali in ogni paese è mercato.
Intorno alla giustizia penale, sendo a dritto il nostro codice celebrato come forse il più perfetto in Europa, esso solo era di guarantigia all'innocenza. Forse avea difetto contrario: cioè il reo talvolta sfuggiva alla pena. Noto è come la setta da più anni reclamava da' codici l’abolizione della pena di morte, per poter lanciare più baldi isuoi adepti alle cospirazioni. Essa inoltre infamò sempre re Ferdinando tassandolo crudele. Questo re che avea cominciato con l'amnistia, usò anzi molto parcamente le punizioni capitali, e per aver modo da far grazie prescriveva a 18 novembre 1835 a' suoi procuratori generali che prima delle esecuzioni di condanne di morte facessero al ministero sapere certe circostanze (e le indicava) capaci a indurre il sovrano a clemenza. E a 11 gennaio 39 nuove ingiunzioni reiterava per l’obbietto. Noterò le condanne e le esecuzioni capitali in Sicilia per colpo politiche e comuni che tolgo dalla statistica, di soli nove anni precedenti alla rivoluzione. Nel 1838 fur 42 condanne di morte, e due sole esecuzioni, perché ladri, nel 39 ventisette, tutte graziate; nel 40 diciotto, eseguite tre sole, perché furti e assassini! atroci; nel 41 sedici, e l’anno dopo ventitré, tutte con grazia; nel 43 quindici, eseguite tre, perché ladro, assassino, e uccisore di coniuge; nel 44 otto, pur cinque eseguite, per uccisione di coniuge ed altri premeditati misfatti; nel 45 nessuna esecuzione, benché 14 condanne; nel 46 condannati dodici, eseguiti tre, per delitti atroci. Del 47 non ho notizia per la sopravvenuta rivoluzione, e per la seconda amnistia del 1848. Si vede che in nove anni di 175 condanne di morte solo sedici ebbero effetto. E tacciavan Ferdinando sanguinario quelli uomini ch’han poi trionfando versato il sangue a torrenti.
Ferdinando, benché signore di piccolo stato, volle forte del diritto essere indipendente da ogni altra sovranità. Non piegò né a consigli insidiosi né a minacce, e tenne salda la maestà del suo trono. Largo agli stranieri nel regno, fu difenditore de' suoi allo straniero. Erano i nostri re stati primi in Europa ad abolire l’albinaggio nome barbaro di barbaro dritto, che ponea fra le regalie il pigliarsi l’eredità de' forestieri morti in regno. Federico II nel 1220 l’aboliva; papa Onorario III commendava l’abolizione per la cristianità; e co' secoli vietaronle anche gli altri popoli. Carlo III cominciò a fermar patti con altre nazioni per assicurare a vicenda i dritti de' sudditi. Nel 1742 convenne col Turco, nel 1748 con Danimarca e Norvegia, nel 1755 co' Paesi bassi; la libertà de' mari fu riconosciuta dal dritto europeo. Ferdinando II più de' predecessori fe’ trattati commerciali; nel 1833 con Tunisi, l’anno dopo col Marocco, nel 45 e 48 con Francia, anche nel 45 con l’Inghilterra, con Russia e con America, nel 46 con Austria, Danimarca e Sardegna, nel 47 con Prussia, Stati alemanni, Belgio ed Olanda, nel 1851 col Turco, nel 55 con Toscana, l’anno seguente col Papa, e nel 57 con la repubblica Argentina. Pertanto rispettati in ogni parte di mondo, godevam dritti civili da per tutto, e la nostra bandiera scorrea riverita pe' mari. Due decreti del 4 e 29 dicembre 1855 stabilirono per esami l’alunnato diplomatico e il consolare. Salì il commercio.
Il re a 28 maggio 1833 protestò contro il governo stabilito da sua sorella vedova Costina in Ispagna, in dispregio della legge salica che escludea le donne dal trono, e fe’ salvo i dritti per sé e la sua discendenza come sangue di Filippo V; però ruppe le relazioni con quella corte. Né prima del 1847 riconobbe la regina Isabella. Non men fermo contegno tenne coi Barbareschi. Nel 1833 il Bey di Tunisi insultava il commercio Sardo, e talvolta si fea lecito vergheggiare Napolitani; richiesto di soddisfazione, avea risposto burbanzoso. Ferdinando mandò in maggio a Tunisi una flotta cui s’unì quella sarda più numerosa. Comandava i nostri Marino Caracciolo. Ebbe pronta soddisfazione; e il Bey mandò a Napoli un legato, che accolto in solenne udienza a 22 luglio fe’ le scuse; perlocché né segui il trattato del 17 novembre. L’anno dopo il Marocco, conculcando il trattato del 1782, mandò vascelli corseggiando per le nostre costiere onde inviammo sulle spiagge sue un’armata comandata dallo Staiti. In breve si venne a patti; conclusa a 25 giugno la convenzione a Gibilterra, che fermata quella dell’82 aggiunse patti nuovi. Più tardi a 14 febbraio 1838 aderimmo alla lega di Francia e Inghilterra contro la tratta de' Negri.
Questo ministero dopo la dimissione del Cassero ebbe uomini mediocri; ministro vero il re.
Le finanze prosperavano. Fatte molte ordinanze e decreti a pro del commercio e de' mercatanti; ben provveduto alla nostra ottima istituzione dei banchi, surte casse soccorsali nelle provincie e in Sicilia e in Napoli stesso; migliorato il regolamento delle pignorazioni, scematone d’un terzo l’usura, migliorata la borsa de' cambii, fatto semplice il servizio della Tesoreria, riordinate le poste: e le amministrazioni dei lotti e del registro unite in una.
Altri balzelli non avevamo che la fondiaria, dazii indiretti, registro e bollo, poste e lotti, foreste e cacce, ritenute fiscali, e privative di tabacchi, carte da giuoco, e polvere da sparo, li massimo era nella fondiaria, messa già da' Francesi sul quinto della rendita, rimasta col provvisorio catasto in somma determinata, e non ricomposta, benché i fondi fosser cresciuti molto in valore e in entrata. Cotali imposte eran lievi paragonate a quelle d’altre nazioni. Nel Piemonte pagavan tasse enormi su’ luoghi destinati a industria, su’ mobili delle case, sulle eredità, su’ corpi morali, su’ giuochi, sulle permissioni, su’ liquori, sulle professioni, sui fitti, su finestre, su carri e carrozze, e altre, tutte a noi sconosciute affatto. Né vendevamo noi i beni demaniali come in Piemonte. Ragguagliate le tasse per capi e per lire, si contavano tredici lire di gravezze per ogni contribuente napolitano, e trenta lire per ogni contribuente sardo.
Fra noi i debiti per la rivoluzione del 1820 che accrebber l’esito annuale d’altri quattro milioni, non avean fatto crescere i balzelli, perché il governo assoluto trovò nell’ordine e nell’economia la maniera di equilibrare le spese all'entrate. Non aggravò né la proprietà né i cittadini, ma vigilò bene sulla partizione del danaro pubblico, sul render più fruttiferi i beni dello stato, e sul diminuire le spese. Ma volendo a ogni costo risultati questi tre difficili problemi, e stringer da ogni banda le mani, non potè evitare i vizii contrarii, cioè ritardamenti, grettezze, e spilorcerie. Le Finanze parvero un mercante ebreo. S’affittavano i redditi sempre stirando più gli ostagli, il che spingeva i fittaiuoli a stringere i subordinati e questi gli artigiani. La troppa economia sullo spendere dava opere imperfette; il ritenersi decimi e doppii decimi su’ già lievi soldi e sulle indennità degli uffiziali, rendeali bisognosi e disperati. Pare vari Tantali sitibondi fra l’acque. Ciò per non gravar di nuovi dazii la popolazione, e intanto questa era gravata da estorsioni illecite, sulle quali s’aveva a chiuder l'occhio: danno materiale e morale.
A forza di stringere s’ebbero alquanti milioni di risparmii fatti da quel buono marchese d’Andrea, che morì in marzo 1841. Il nuovo ministro Ferri pensò invertirli a pagare parte del debito pubblico, lodevole intendimento; ma con questo pretese ottener anche minorazione d’interesse. Un decreto del 1 febbraio 1844 ordinò che ogni sei mesi trarrebbersi a sorte certo numero di creditori per pagarli, i quali ove non volessero il denaro dovrebbero contentarsi d’avere il quattro invece del cinque per cento d’interesse. Or come che di fatto s’estraevan più numeri che non avevam danari, avvenne che solo i piccoli creditori s’accontentavano di perdere l’un per cento, dove i grossi chiedevamo il capitale, e non l’avendo seguitavano ad avere il cinque. Ciò fe’ bisbiglio, e uscì molto contante dalla piazza, che spatriò co' creditori stranieri.
Altresì dannoso al commercio gridarono l’altro fatto della Cassa di Sconto. Questa dava danari a' mercatanti al tre e mezzo per cento, sollievo grande agl’industriosi; ma per fallimento d’un Amelia, fu disposto non si desser denari che ai ricchissimi, però chi avea bisogno non potè aver prestanze, e chi non avea bisogno le pigliava al tre e mezzo per darle a' bisognosi all’otto e al dieci, monopolio turpe col danaro pubblico a danno del pubblico. Molti fallirono, e la cassa benché non patisse altre truffe, guadagnò meno di prima. Le Finanze abbisognavan d'un ingegno che senza quelle grettezze le menasse a bene.
Il concordato del 1818 con la S. Sede avea come ho detto messo fine a secolari controversie, Ferdinando a 26 marzo 1834 fe’ altra convenzione di ecclesiastica disciplina, pubblicata a 10 settembre 1839, aggiunta al concordalo. Dappoi volle cresciute le diocesi, perché meglio su’ preti, su’ giovani, sulla morale e su’ costumi si vegliasse, e nel 1844 fecersi nuove diocesi a Noto, a Trapani, e a Siracusa, ch’ebbero dotazioni e fondi pe’ seminarii. All’arcivescovo di Palermo, perché meglio potesse soccorrere i poverelli, crebbe d’altri tremila ducati l’entrata, e quel di Lipari che n’avea poca, esentò del terzo disponibile, cioè da una riserva di uso alla regia potestà. Sul continente dopo il 18 pur crebbero le diocesi.
Il clero dovrebbe fra' Cristiani esser l’ordine migliore, siccome morigeratore naturale del popolo. Né in vero il reame mancò mai di sacerdoti insigni. Ricordiamo Santi gloriosi, e quel grande che fu Tommaso d’Aquino; e ne’ tempi presenti vedemmo a 26 maggio 1859 accorrere i re co' reali a Roma per la santificazione di cinque, de' quali tre eran nostri: Alfonso de' Liguori, Francesco di Geronimo, e Giovan Giuseppe della Croce. Molti preti abbiamo ornamenti della religione e delle lettere, e massime in Napoli ve n’ha moltissimi che sono esempio d’evangeliche virtù, operosi e fervidi per la gloria del Signore. Men numero di buoni è nelle provincie, sia ozio, sia libertà 0 lontananza da' superiori. Troppi, e soverchi al culto, parecchi son trafficanti, e impiastrati in cose terrene sdrucciolano di leggieri nei vizii. Ogni villano che giunga a metter casa, vuole un prete, e manda il figliuolo al seminario, donde talora torna con più malizia che teologia. I vescovi son facili a consacrarli, che come han detto messa non studiano più, si divagan nel mondo, abbandonan l’altare e danno scandalo, e peggio che spesso per non divulgarne le colpe, restanti impuniti, ovvero punisconli con traslocazioni e promozioni per torli dal peccato, e vanno a farne altrove. Di tai preti molti son ligi alla setta, per ispeme di correr fortuna, per incontinenza, per spretarsi e pigliar moglie. Ma più ve n’ha in Sicilia, a cagione del tribunale detto della monarchia.
Questo stabilito colà sin da’ tempi di Ruggiero, per concessione di Urbano II, esercitava in nome del re la legazione apostolica; e benché ciò spesso andasse poi controvertito fra la corte e Roma, pur sempre rimase, e più a tempo de' viceré. Avea quattro privilegi: la legazione, la nomina a dignità ecclesiastica, lo appello, e la translazione de' vescovi, ma con l’ultimo concordato dal 1819 pubblicato nel 1821, si convenne all’articolo 22 libero essere lo appello a Roma per cause ecclesiastiche, ove il volessero le parti. Or sia per tai privilegi, sia pel placito reale introdotto di fatto nelle attribuzioni regie, il clero siciliano fu tutto sottomesso alla potestà civile. I vescovi erano appellati e giudicati da' tribunali,rappresentatori del principe, non del capo della chiesa, onde per ogni caso d’amministrazione ecclesiastica, i preti appellavano a quelli, e ottenevan lo annullamento degli ordini de' superiori, quindi inobbedienza, rilasciamento di costumi, abbandono della cosa sacra. Ciò impacciava anche gli ordini regolari, e spesso i frati, e con quel tribunale e col regio ministero, maneggiavansi da sfuggire l'azione delle regole e del regime religioso. Anzi i cattivi monaci eran più de' cattivi preti infelloniti, ché protetti dalle autorità secolari si ride van de' superiori, e indarno i generali degli ordini cercavan con sante visite cernere il vero, perché sovente la potestà civile, per intrigo, allontanava da' visitabili conventi quei religiosi probi che avrebber disvelato i vizii del luogo. Trionfava l’impunità, l’ozio, l’ignoranza; e preparava seme alla rivoluzione. Né i vescovi potean reclamare ai sinodi provinciali, che a ordinar questi si volea l'approvazione del governo; né rimedio era l'appellare a Roma dalle sentenze del tribunale; giacché si teneva in fatto illegale l'appello; né mai il Papa potè dal nostro governo ottenere spiegazioni giuridiche sulle procedure siciliane. Il ministero esaminava la convenevolezza de' decreti di Roma, e negava o concedeva il placito a grado suo.
Il clero dell’isola avea dunque molto del mondano, dava i voti sacri più per godere i benefizii (frutto della pietà degli avi) che per vocazione; i seminarii non eran tutti conformi alle prescrizioni del concilio di Trento, néper le cagioni dette si potea da' vescovi rimediare. È una trista verità che a rivoluzione molti preti e frati pervertì.
Cardine d’ogni governamento è l’amministrazione civile, siccome quella che provvede alla buona vita sociale. V’era la legge di eccezione del dicembre 1816, acconcia piuttosto a idee francesi che a tradizioni patrie però avea qualche perfezione ideale e molte pratiche inopportunità. In governo assoluto ella dava certe rappresentanze, ond’eran quasi mera forma: rappresentanze municipali, distrettuali e provinciali, poco utili. I decurionati ne’ paeselli eran d’ignoranti o cavillosi, e riuscivano a dar ritardo o opposizione agli affari. Molti l’altre due rappresentanze lodavano, e accusavano la potestà di non bene contentarle, e smodavan nella lode e nelle accuse; perocché i consigli provinciali e distrettuali, dagl’intendenti fatti e disfatti, avevano libertà di parola illusoria a giudicar gli atti di quei governatori: né molto potean sapere e voler fare in quei quindici giorni ch’andavano assembrati nell’anno. Era una chiacchierata. Dall’altra non è vero il governo non li udisse, ché tutte loro proposte giuste venivano accolte; rigettavansi quelle contrarie alla legge ed inopportune. L’amministrazione era sorretta da' consigli d’intendenza; e dov’eran buoni consiglieri ella andava bene, ma i buoni eran rari. Volea la legge fossero possidenti della provincia; ma per favore se ne mandavan di fuori, che non possedean nulla, né sapean le condizioni e i bisogni del paese.
Nondimeno quella legge avea molte parti buone; e si vede che, non ostante suoi difetti, pure in quarantaquattro anni che durò molto ha prodotto i beni patrimoniali de' comuni in terraferma avean più che triplicali i redditi annuali. Nel 1820 davan ducati 1,795,660; nel 1831 già salivano a ducati 1,862,255; nel 1843 ascesero a 2,501,204; e nel 1857 sommarono a ducati 5,604,455; né già eran cresciuti i fondi, ma cresciuto il buono stato e la tutela. Pertanto s’eran di molto scemati i dazii comunali: qualche grano a rotolo sulla carne, qualche grano sulla neve e sul pesce, raro e lievissimo sul macinato a qualche comune che il chiedeva; le privative de' commestibili sol ne’ paeselli piccolissimi, per assicurare l'annona. E tai lievi balzelli non riscuotevansi a pro dello stato, ma pei comuni stessi e per le provincie. Con essi in quarantanni si è fatto che mai di simile nel passato. Strade, mulini, ponti, camposanti, chiese, fonti, acquedotti, case municipali, prigioni circondariali, ospizii, banchine, arginazioni, fari, porti, e altro; tutto con denaro comunale, senza vendere beni stabili. Pochi villaggi mancavan di tali cose, e s'andavan facendo senza debiti. Dal 31 al 47 s’eressero nel regno ventidue nuovi ospedali, trentaquattro monti di pegno, ventidue monti di maritaggi, diciassette conservatorii, ed altre case d’asilo, e più centinaia di monti frumentarii. Certo pur v’eran lamentanze; e alcuno vorria l’ottimo. Ma l’ottimo è nemico del buono e del mediocre, che son l’umano retaggio.
Veramente il male non era ne’ provvedimenti, ma nell'esecuzione. La legge per l'opere pubbliche non permetteva che incanti e metodi di economia, eppur s’era intruso il vezzo de' metodi d'ordine o di gare economiche, con che si davan gli appalti a designate persone. Quando si procedea per incanti, si dettavan condizioni dure, sicché fuggiva l’intraprenditore onesto, e vi speculavan pochi, favoriti o litigiosi, che trova van modo da non eseguire quelle condizioni, e arricchivano. Con metodi di economie, sovente non si faceva economia, per frode o ignavia de' decurioni preposti alla sopravveglianza. Sicché molte opere andavan male, e pativan ruberie. Gli architetti in ogni parte erari come bruchi su’ comuni; e sol badavano a far progetti e disegni, ch'eran lor pagati, onde si videe talora spesi i fondi in progetti, e l'opere ineseguite. Molti paeselli eran dolenti d(v)aver a contribuire grosse rate alla provincia, dove si spendeva a imbellare i capoluoghi, mentre essi mancavan del necessario. Sulle pingui beneficenze correan lagnanze,ché sovente beneficavano più gli amministratori che i poverelli. Ma questi ed altri consimili mali eran partoriti da indulgenza governativa; sovente gli stessi prevaricatori gridavano alla tirannia, e preparavano la rivoluzione per rubar meglio.
Il maggior fatto del governo fu lo accentrare al ministero ogni faccenda comunale; usanza cominciata dalla dominazione tancese, dappoi esagerata da tutti i ministri sopravvenuti, rimasto vizio radicale. Il ministro Santangelo, uomo d’ingegno, cadde nel fatto ch'ei si credea buono a lutto; per tirare a sé tutte attribuzioni, sopraccaricò la legge con prescrizioni nuove, e die’ si lungo giro alle faccende, che passando per molte mani riuscivan di leggieri a mercato. Molti bassi uffiziali, massime nelle intendenze, con lievi soldi o senza, sforzati dal bisogno, spesso la giustizia, talvolta l'ingiustizia vendevano, e gli uffiziali municipali con quel contatto né anche né uscivan netti, ché vuol esser grande quella virtù che fra turpezze non si macula. Lo accentramento amministrativo dopo il 1848 seguitò più cieco, però meglio né parlerò appresso.
Contro l'istruzione pubblica si levavan premeditati lamenti. Ma nel fatto il governo intendeva a rendere là istruzione acconcia agli ordini dello stato e a' bisogni della vita e dell'industria. Avevamo in tutti i comuni scuole primarie elementari per maschi e femmine, in molte città scuole nautiche, di arti e mestieri, di mutuo insegnamento, pei ciechi e sordimuti; educandati insigni per dame, per donzelle civili,per figlie di soldati, monasteri per educande, suore francesi con istituti d’istruzioni in tutto provincia, accademie di scienze, d'arti belle, d'antichità, d’economia, d’incoraggiamento a' prodotti, licei, collegi, seminarii, convitti, reclusorii, scuole private, non mancava nulla, e fors’era troppo. Il dazio su’ libri, già alto, scemava di due terzi a 12 settembre 1839, e anche più a 18 giugno 1842. L’università di Napoli, già fondata da Federico II, dove insegnò S. Tommaso, aveva incremento di nuove cattedre; nuove università provinciali si creavano. Si compravan macchine per fisica, si preparavan gabinetti patologici e zoologici, di autonomia e d'ortopedia: avevamo scuole anatomiche e cliniche, osservatoci astronomici e metereologici, scuole mediche e veterinarie, di farmacologia, d’ostetricia e flebotomia;orti botanici, società economiche con orti sperimentali in aiuto dell'agricoltura e dell'industria. Le arti del disegno, delle pietre dure, delle incisioni in rame, in legno e in acciaio, quella delle medaglie, la scenografia, l’architettura, la statuaria avevano accademie, e apposite scuole. Gli scavi d'Ercolano e Pompei ridavano al mondo la sepolta civiltà romana;e lo studio dei papiri l’antica filosofia. Si facevano e si premiavano esposizioni annuali di arti e prodotti. Avevamo a Roma giovani pensionati per tutte arti, il re e i pubblici stabilimenti compravano per incoraggiamento opere d’artisti. Il museo di Napoli, dono in gran parte de' Borboni, ha pochi uguali. Dell’arte musicale salita fra noi al sommo dell'eccellenza non parlo. Nel grande archivio del regno s’eran riuniti tutti i diplomi, pergamene ed atti pubblici, prima ascosi quà e là in edificii e paesi diversi,opera stupenda. Teatri, ginnasii, biblioteche insigni v’eran molte, e chi avea voglia di studiare non avea carestia di nulla. Di fatto furono e sono in Napoli uomini sommi di lettere, di scienza e di artici quali parecchi ed oltramontani agguagliano, e a moltissimi van sopra.
Nondimeno la setta costruttrice di fama letteraria, lavorava ad alzare i suoi con tutte astuzie, e guadagnava sempre terreno a cacciarne in ogni sedia che vacasse. Dirò un fatto: concorrevano al posto vacante di socio all'accademia delle scienze tre personaggi: il Bozzelli, il Winspeare e lo insigne filosofo Galluppi, e il governo preferì il primo, perché assordato da sollecitazioni ascose e palesi.
La setta con crudele pertinacia s’è sforzata sempre a disconoscere l'altezza del napolitano incivilimento, e a deprimere l'opere nostre. Napoli dove tutti venivano ad ammirare e ad imparare, s’aveva a giudicare sui lazzari, dei nostri ingegni si dovea tacere, o lamentarne sognate compressioni. Poi s’è vista la rivoluzione, che noi tacciava d’ignoranza, mostrar la nullità sua in tutte opere di scienza e di governo, e i rivoluzionarii napolitani, ch'eran gli ultimi e i più sconosciuti nel paese, mostrarsi a Torino da più di quei loro colleghi. A Torino non andò nessuno insigne nostro uomo, ché tutti sdegnosi dalla patita conquista, pagarono l'amor vero della patria con dimissioni, carcerazioni ed esigli.
Ma studiamo anche qui gli errori del governo. Eran saliti a' primi uffizii molti ignoranti di scienze e di lettere, che tementi il confronto della dottrina avversavano i sapienti, e denigravanli quasi elementi di ribellioni. Fu un pensiero storto il credere i veri dotti capaci di rivoluzioni, perché anzi questi veggono i perigli e stanno, dove gl’ignoranti chiudon gli occhi e dan dentro, e si fan facili strumenti de' furbi. Parecchi guardati biechi si fecer settarii, che impiegati sarebbero stati cheti, tenuti contrarii, contrariarono il governo; e taluno cospirò che mai pensato se lo avrebbe. Gli studii vogliono ozii; e saran sempre amici di chi lor darà modo di vivere studiando. Ma in generale lo studio delle lettere fra noi era sterile, perché il più degli uffizii cadevano in uomini senza mente; e avemmo il male che questi non valevano, e i valenti avversati avversavano.
Pur la censura de' libri e de' teatri era poco avveduta. Si dava adito a una letteratura straniera, falsa, corrompitrice del bello e del costume, proprio invenzione settaria, e intanto si facevan guerre alle parole, e si proibiva alle scene ogni motto di religione e di politica, quasi soli selvaggi s’avessero a porre in drammi. Ei si doveva colpire la falsa religione e la mala politica, non tutte cose e detti politici e religiosi; onde il governo perdè l’aiuto delle lettere, e noiò e disgustò gli uomini di senno, che si vedono noiati negli onesti ed utili ricreamenti. Queste strane proibizioni eran più severe in Napoli che nelle provincie, e meno anche in Sicilia. Il ministero per incoraggiar gli ingegni mise premii a scrittori plauditi di drammi in concorso; ma conseguitò che, sendo la politica e la religione la sostanza delle tragedie, o non se n’avevano, ò se n’avevano di misere da premiare.
Per tai grette opposizioni all’esplicamento degl’ingegni, i lamentatori trascorrevano a dir mala la istruzione nel reame. É veramente per essi buona è la semidottrina che sentenzia di quel che non sa, e maledice troni e altari.
Credo aver detto e con severità gli errori principali del governo; dei quali molti ed anche maggiori troveransi in altri paesi. Avevam piccoli furti, lievi ma frequenti ingiustizie, coperte immoralità; ma chi visitò Parigi e Londra vide assai peggio. Sono quei paesi più imbiancati de' nostri, ma hanno eresie, fallenze, malversazioni, calunnie, uccisioni, costumi perduti, ricchezza e fame, scienza e abbrutimento, giuoco e suicidii, brogli e traffichi indecenti, e depravazioni di animi e di corpi. I mali enormi di quei regni scopre la loro stessa cinica letteratura.
I nostri mali eran minuti ma frequenti. Vessar lieve ma continuo, piccoli privilegi, gretto estorquere, brogliar poco di molti, basse illegalità, mala scelta d’uffiziali producevano scontento; e il più della gente che sente e non discerne apriva gli orecchi a' promettitori dell’età dell’oro. Da prima l’avean co' ministri, stati da parecchi anni in sedia, fatti esosi e burbanzosi; poi a' primi motti di riforma fecero eco. Anche l’onesta gente sperava veder la fine delle male usanze, e volea giustizia nuova; e molti v’ha al mondo che per odio del presente e voglia di mutare si contentano del proprio danno.
La giovine Italia suscitatrice dei più di questi mali, ne prese argomento a patetiche declamazioni. Esageravano da farli parere insopportabili: diseppellivano e sponevano a rovescio vecchie cronache, e né fean novelle e drammi; mostravan grande il passato, abbietto il presente, il nuovo speranza di glorioso risorgimento. Quindi motti, satire, poesie, storie, sforzate con maravigliosa propaganda a celebrità. I fatti governativi ripetevano a dileggio, gli inventavano, li smozzavano, gl’incorniciavano per abbassare i governanti. In contrario alzavano al cielo qualunque fosse depresso dalla potestà; questi modello di coraggio civile e d’amor patrio, questi uomini valenti, questi degni di salire. Poi un lamento, un piagnucolar la patria, un invocar morale e Cristo, un parlar di Bibbia, filantropia, economia pubblica; un celebrar Byron, Goethe, Schiller, Victor-Hugo, Lamartine, e altri poeti nebulosi; un rammaricarsi dell’umanità depressa, dell’ingiustizie umane, delle tirannie regie, di servaggio a stranieri, e altre ipocrisie che parean belle allora. Pochi sapevano tai magnificati dolori avessero a partorir servaggi e dolori veracissimi; sembravan desiderii giusti di progredimento civile.
Nondimeno fra tanto gridare Italia parea strano a' pochi veggenti quel laudar continuo di cose estrane, e le straniere lettere e vestimenta, e leggi, e linguaggi presi a modello e messi innanzi da quelli stessi professori d’Italianità. Infranciosati libri, gallico gestire, spruzzo di scienza eunuca, scendeva giù la italiana sapienza, che sempre fu originale e maestra. Voleano essere Italiani, e fean le scimie a Francia e Albione; volevano parer dotti, ed erano incortecciati di iattanze oltramontane. Ciò fea disdegno agli scienti; ne’ mediocri che si credeano saputi diventò baldanza. A poco a poco il dir male del nostro fu moda: tutto parea tristo, tutto e anche il bene malignalo, venia meno il rispetto alla potestà, e sorgeva negli animi una voglianza di fare, che parea generosa, ed era balorda seguenza di setta.
Da prima il molto fu che si voleva esecuzion di leggi e buoni uffiziali; e che più giusto? che desiderar meno? poi qualche modesta voce di riforma, poi di progresso civile; di qua a costituzione lieve passo, ma non osavano pronunziare questa parola, brutta per ricordi del 1820. Nondimeno s’andava per isbieco ricordando, la nostra monarchia essere stata parlamentare; e così con abuso di parole vecchie s’accennava a idee nuove.
Le costituzioni proposte dal Montesquieu sono di natura democratiche. La monarchia di Ruggiero tutta feudale non ebbe elemento popolare; perché la gente borghese in Sicilia e in Puglia era ancora quasi Saracina e Greca: solo i baroni sedevano in parlamento, né in tempi stabiliti; e per obbligo di soccorrere il Principe ne’ bisogni, non per esercizio di sovranità. Avean poteri quanti lor né volea il re, che li congregava a grado suo. La rivoluzione del Vespro nel 1282 portò a' parlamenti di Sicilia più forza; ma vi prevalse l’aristocrazia, che impicciolì il paese, e ‘l die’ agli Spagnuoli, onde la somma potestà ricadde nel sovrano. Il parlamento fu diviso in tre camere; de' feudatarii, de' comuni e del clero; le quali fean poco più che conceder sussidii alla corte, e talvolta proporre qualche legge; ma i poteri esecutivo, giudiziario e legislativo stavan nel monarca; e con tutti quei parlamenti non v’era libertà, né politica né civile; e Sicilia scemò di popolazione, di potenza e di ricchezza, sino al venir de' Borboni. Sul continente pur meno. Avevan seggi di nobili e di popolani in quelle poche città non infeudate, né quasi potean altro che provvedere all’annona. Dov’erano feudi le Università avean misera voce; facean sì certe congreghette in piazza chiamate parlamenti, dove pochi borghesi servi del barone, e alquanti scherani di esso s’onoravano a contentare Sua Eccellenza Padrone. Per questo i tempi di tai parlamenti furo i più miseri del reame: vero servaggio durato più secoli, sino a Carlo III.
Quei parlamenti adunque, citati per insidia, e ricitati a sproposito da chi non li sa, eran ben altroché costituzioni come si vogliono oggi; anzi appunto l’opposto. Ora, distrutta la feudalità, è surta la classe mezzana; la quale per la nuova civiltà, e pel buon governo, fatta ricca e numerosa, agogna a pigliar lo scettro. Queste costituzioni non sono già, come dissero, parlamenti risuscitati; sono invece reazione di quelli; cioè che il già servo vuol diventar padrone. Ma la libertà vuolsi per tutti. La setta la piglia per sé sola; onde ha discreditato affatto coteste costituzioni, che hanno due sole cose simili ai parlamenti; cioè le scialacquo della cosa pubblica, e la tirannia de' pochi sui molti. Il Mazzini stesso scrisse: «La monarchia costituzionale è il governo più immorale del mondo.» Speriamo in Dio veder costituzioni per tutti: che, fiaccate le sette, rendan veramente le nazioni libere nel bene; e serve alla legge, dappoiché fra tanto libertinaggio siam sitibondi di un sorso di libertà vera.
Tanto lavorio di filosofia e poeti avean preparato gli animi a novità, quando ad accenderli uscì Vincenzo Gioberti. Questi nato a Torino nel 1800, prete e carbonaro, fu cappellano di re Carlo Alberto, per cospirazione condannato nel 1833 e spatriato, si fermò a Brusselles sino al 1845, scrisse filosofia ed estetica, coprendo con religiose parole pensieri di libertà socialista. Rivai di mestiere del Mazzini, correva con altro modo lo stesso arringo: onde come lui meritò plausi e favori dalla medesima setta. Subitamente ebbe fama portentosa. Nel 1843 diè il Primato degl'Italiani nel titolo e nelle pagine opera tutta incitatrice. Diceva: Italia essere stata grande, ora fievole; ma doversi e potersi risublimare, avere a ripigliare su’ popoli il primato insito alla sua pelasgica stirpe, questo aver voluto Gregorio magno, Gregorio VII, il terzo Alessandro, e altri papi, la cui dittatura, che accennava alla fondazione della italiana nazionalità, sendo mancata, era caduta Italia. Oggi cresciuta la virilità popolare, non abbisognar dittatura. ma arbitrato, e dover essere pontificale, poggiato sulla opinione, pacifico. illuminato, non grave ai sovrani, anzi loro sostenitore, col doppio treno del vero e dell’onesto, arbitrato d’onore, non di potestà, di politica non pratica ma speculativa, per l’osservanza del dritto delle genti, non per mutare gli ordini de' singoli stati. In Italia divisa poter sorgere lo arbitrato papale, solo atto ad assicurarle tre cose: unità, indipendenza, e libertà civile, arbitrato legittimo da non poter essere avversato, perché riprodutture di dritto antico non estinto ma interrotto. Però predicava unione di animi, confederazione di prenci, e il Papa presidente d’una Italia confederata e forte. Del Tedesco padrone di Venezia e di Milano non dicea verbo.
L’idea avea di che abbagliare qualsivoglia popolo, non che l’italiano immaginoso; e lo stile frondoso, gonfio, luccicante, con torrenti d’erudizioni, ribadiva ad ogni capitolo l’idea stessa. Le astruserie Kantesche, con paroloni bui, rendendo possibili l’unioni di cose contrarie e disparate, servirono a far parer vero ogni paradosso, ad acconciar la storia alle idee preconcette, e a vestir di colori splendidi le magre dottrine. Pagine erano procedenti per argomentazioni, esagerate nelle premesse, oblique nelle medie, e false nelle conseguenze; pagine ipocrite a insidia, cui egli stesso presto con l’opere e co' scritti smentì. Nonpertanto il libro divulgato in ogni paese, innalzato come miracolo di scienza e senno, avidamente letto, inebbriava i giovani, e fea tacere i vecchi. Il manto religioso acchetava le coscienze; quel non attentare a' dritti, quella confederazione legale, quel papa presidente parean cose facili a fare, e buone e giuste.
Ma egli era carbonaro. L’anno dopo, cioè il 44, Cesare Balbo commentando il Gioberti, pubblicò le sue Speranze d'Italia; poi lo Azeglio fe’ altro commento a questo cemento, col libercolo Ultimi casi di Romagna; tutti a un fine.
Con lodi alla potestà regia e sacerdotale il Gioberti spingeva i Principi a esser fàbri di repubblica; e poco stante Giambattista Nicolini uscì in campo con acri versi, e a viso scoperto contro la potestà sacerdotale e principesca. Pubblicò una tragedia con forme romantiche, cioè alemanne e inglesi, intitolata Arnaldo da Brescia. Questo Arnaldo fu del duodecimo secolo, e forse frate, seguace di Pietro Abelardo, e più pervicace di esso. Menò vita fra trabalzi di rivoluzioni e di esilii; e più volte scacciato d’Italia, vi tornava sempre con l’aiuto de' nemici de' papi a danno de' papi. Le sue dottrine furono condannate da S. Bernardo e dalla Chiesa, ma ei non si pentì come Abelardo, e predicò scismatico sino alla morte, ch’ebbe da Barbarossa imperatore. Molta età ignorato, né risquillò il nome sul finir del passato secolo, per rinfocolar l'ire contro Roma. Né fecero un eroe, e finsero morisse arso vivo per ordine di papa Adriano VI. Ultimamente il Niccolini mettelo in tragedia, e gli fa dire quanto si potea contro il Vaticano.
Il primato risvegliava l’idea guelfa, l’Arnaldo riuscitò l'ire ghibelline, quello percuoteva l’imperio, questo il papato; ambo fatti a evocar da' sepolcri le sopite passioni che tanta età bruttarono questa patria; ambo favellando d’italiana grandezza, con rimembranze antiche, in opposta maniera spingevan la nazione. E la Giovine Italia plauditrice al concetto guelfo, molto più fraudi al concetto ghibellino, perché aspirava alla ruina del papato e dell’imperio insieme, dello scettro e dell’altare, e con doppiezza impudente si valse del guelfismo e del ghibellinismo per ingannar tutti. Mover voleva in quantunque modo le genti: diroccar la religione alzandola, abbattere i re blandendoli, pigliarsi l’Italia chiamandola a grandezza.
Fu sempre fatale che le ipocrisie degli scrittori avesser breve durata, né tardasser guari eglino stessi a sbugiardarsi. Il Gioberti non stette due anni a tenere addosso la insopportata divisa della religione e del dritto, ché presto cantò la palinodia.
Parendo disposta la materia, e pronta a pigliar fuoco, s’ordì nel 1814 vasta trama in tutta Italia. Il napolitano Giuseppe Ricciardi doveva assoldar Corsi, e sbarcar sulla spiaggia romana, i fuorusciti in Isvizzera avevano a invadere Piemonte e Lombardia, un Fabrizi con Italiani combattenti in Algeria dovea di là navigare in Sicilia, altri venir da Malta e da Corfù. Sin dai 1842 s’erano aggregati alla setta mazziniana tre giovani, cioè due figli d’un ammiraglio veneto servente l’Austria, Attilio ed Emilio Bandiera alfieri sulla fregata Bellona, e Domenico Moro luogotenente sull’Adria. Prima volevano tentare d’impadronirsi della fregata, e navigare a Messina a portarvi la rivoluzione, ma né spillò qualcosa, onde i congiuratori spauriti disertarono, Attilio fuggì a Siro, Emilio a Corfù, il Moro in maggio a Malta. Uniti tutti e tre a Corfù fur poco stante raggiunti colà da Niccola Ricciotti da Frosinone, mandato dal Mazzini a capitanar l’impresa, cui disegnavano allora volgere negli stati romani. Intanto su quest’isola preparavano uomini ed armi per lanciarsi ove il lontano maestro comandasse. Nelle nostre Calabrie, già rinomate per devozione al trono, la Giovine Italia aveva seminato i suoi, che stavan pronti a una levata. La polizia tedesca n’ebbe sentore, e ne avvisò i governi italiani.
I faziosi calabresi prematuramente a mezzo marzo accozzarono un cento uomini a prezzo, e al mattino del 15 entrarono in Cosenza gridando Costituzione e Italia. Affrontaronli i Gendarmi, e vi perì il capitano Galluppi (figlio del filosofo), ma i ribelli, perduti cinque morti e molti feriti, ruggirono. Poi presi, parecchi subiron lungo giudizio, e a 10 luglio venner dannati ventuno nel capo, tosto graziati, fuorché sette che passarono per le armi, e furono: Nicola Cariliano, Antonio Rao, Pietro Villacci, Giuseppe Cancodeca, Giuseppe Franzese, Santo Cesario, e Sanderbec Franzese. Intanto i Bandiera e il Moro avean radunati a Coriù molti profughi italiani, fra' quali oltre il detto Ricciotti, Anacarsi Nardi modanese, un Corso Boccheciampi; e vi s’aggiunse un Boceastro, calabrese, fuggito allora pel fatto di Cosenza. Dubbiavano sul dove cominciar l’impresa; ma suolendo i giornali settarii prevenire i fatti con loro annunzii, avean rapportato non so quali altri sognati moti in Calabria; perlocché i Bandiera che li stavano aspettando, senza attender conferma, com’erano impazientissimi, subito la notte dopo il 12 giugno si misero in mare. Questa volta la gente rivoluzionaria andò vittima delle rivoluzionarie bugie. Posarono la sera del 16 su deserta spiaggia del Neto presso Cotrone, con soli diciannove compagni, per dar cominciamento al redimere l'Italia dagl'Italiani. Avean bandiere, divise militari, armi, munizioni, e proclamazioni stampate, sottoscritte Bandiera e Ricciotti; volsero ver Cosenza gridando repubblica una da Scilla ad Alpe, e chiamando il popolo a sollevamento. Cotesta idea di repubblica una, non più pensata, fu una maraviglia, e parve nuovissimo il caso. Peggio che favellarono linguaggio irreligioso, ingrato al paese: «Il papa ci scomunicherà, non importa; protestiamo di conoscere Dio meglio di lui, che sta fra' sordidi interessi di dominazione temporale.» niuno lor si unì; e anzi i Calabresi risposero con schioppettate. Sembra che il Corso Boccheciampi, viste le cose andar male, disertasse dai compagni, e corresse a denunziarli a Cotrone. La sera del 18 vennero assaliti da certi paesani e qualche gendarme in agguato presso Belvedere Spinelli, lungi dalla spiaggia trenta miglia; e al mattino sondo stati spiati da' contadini, fur circondati da una mano di guardia urbana e d'onore e paesani, raccolti in fretta dal giudice di S. Giovanni in Fiore. Nel conflitto caddero il profugo calabrese Boccastro, Giuseppe Miller milanese, e Giuseppe Tesci di Pesaro. Quattordici furono presi allora, e altri quattro ne’ dì seguenti. Due giorni dopo la cattura, Attilio scrisse al re ch'egli avrebbe voluto Italia una e repubblicana, ma ch'ove volesse essere sovrano costituzionale di tutta Italia, gli si darebbe anima e corpo. Il processo prese tempo, perché l’Austria dimandò l'estradizione di quei suoi sudditi quali disertori di guerra; il che fu negato dal re, per non mostrarsi d'Austria dipendente; laonde non prima del 23 luglio il fisco dimandò la morte per tutti. La Corte marziale condannò dodici nel capo, quattro raccomandò al sovrano. Il quale, allora in Sicilia, avria voluto far grazia a tutti, ma per la lettera del Bandiera invitantelo al regno d’Italia, ingenerati sospetti nelle potenze settentrionali, la grazia avrebbe i sospetti convalidati. Impertanto i due Bandiera, il Moro e altri cinque venner fucilati a Cosenza il mattino del 25; agli altri si commutaron le pene. Gli scrittori liberaleschi li lodano morti impenitenti, e che a' sacerdoti rispondessero: «le loro opere raccomandarli a Dio meglio delle preghiere altrui: non voler perdonare all'infame Ferdinando; e se il potessero anche in altro mondo congiungerebbero contro i re.» Non so se quelli graziati perdonassero all'infame che li tenne in questo mondo. In Napoli fur sostenute nove persone, fra le quali Matteo de Augustinis, Mariano d'Ayala, Francesco Paolo Bozzelli e Carlo Poerio, che si gridavano innocenti allora. Stettero qualche mese a S. Elmo, liberati senza più. A Roma si arrestò il Galletti e qualche altro. Questi innocenti, trionfati poi nel 1848, vantarono loro reità.
Certo è rincrescevole veder per legge versato umano sangue; e anche è pietosa la misera fine de' giovani Bandiera, che l’uno 55 e l’altro 25 anni contava; ma niuno dirà non giusta la punizione di stranieri venuti a portar la guerra civile in pacifico paese. Giusto saria stato maledire il Mazzini, instigatore di giovani a imprese fratricide; eppure quella punizione fu al Mazzini ed a' suoi arma nuova contro i Principi, cui gridaron barbari e crudelissimi. Non era barbaro chi mandava a rovesciar le leggi, ma barbaro chi le faceva eseguire. Quei Bandiera subito predicati grandi, martiri, modelli di magnanimità. Ed ecco il Gioberti riescire in campo; e fa i prolegomeni, cioè una prefazione postuma al Primato, riuscita la palinodia di quello. Lancia filippiche veementissime contro i napolitani ministri, e mostra in qual guisa volesse la osservanza del dritto delle genti sostenitore dei legittimi sovrani; gitta la maschera conia quale avea sorriso al principato e al sacerdozio; maledice i Principi pe' casi di Cosenza, e virulenti improperii scaglia ai Gesuiti, che non so come entrassero colla morte de' Bandiera. Nel primato li lodava, ne’ prolegomeni li vituperava. Si sentiva già forte per inoltrata rivoluzione di spiriti, e cominciò a osteggiare la compagnia di Gesù, soldati della Chiesa, temuti avversarli. Con la veste religiosa corbellato avea il mondo; ora se ne spogliava. Anzi nel 1847 si nudò affatto con l’opera del Gesuita moderno, dove rattoppò quanto mai s’era scritto contro quest’ordine. Uomo da impiastrar volumi su’ più opposti principii, con abuso di raziocinio e di parole.
Intorno a' Bandiera si piagnuculò a lungo. Pria dissero averli fatti venire il re stesso per ingiunzione dell’Austria; poi gl’Inglesi averli spinti, avvisato il re. Stamparono averne indarno chiesto la grazia un arciduca d'Austria, a dispetto di lui Ferdinando aver voluto quel macello; e chi ciò scriveva soggiungeva Ferdinando avrebbe voluto graziarli, impedisselo Austria con ordini perentorii; menzogne doppie contradittorie, per infamare. Maledizioni a Ferdinando, a' giudici crudeli, a' ministri spietati; barbari, ignoranti i Calabresi; raccapricciarne l’umanità. I nostri popolani percuotitori di stranieri turbatori di pace, avevano a portar rispetto al Mazzini, e alla repubblica una che non sapevan che si fosse, quasi venti uomini avesser dritto d’imporne ai milioni. Ma la propaganda rivoluzionaria con quei piagnistei volea rinfocolar gli animi. Vi scrissero libri sopra; celebrarono funerali; e anzi nel 1847 Pisa prima, e poi Ferrara cantaron messe funebri a' Bandiera, presenti i Tedeschi, come racconterò.
Da alquanti anni s’era messa l'usanza di congregare scienziati in qualche città d’Italia, dicevan per l'avanzamento del sapere, in fatto perché gli adepti della Giovine Italia confabulassero alla libera. I sovrani, sendo volonterosi di promuovere l’arti di pace, caddero nella pania, e permisero cotai congressi, che furono precursori di quei parlamenti che li avevano a scacciar di seggio. N’era stato promotore Carlo Bonaparte principe di Canino. Gregorio XVI come udì il nome di lui e del suo segretario Masi, prevedendo ove mirassero, non li volle a Roma, e vietò a' dotti romani d’intervenirvi altrove. Lo stesso fe’ lo accorto duca di Modena. Ma eglino trovaron favore presso altri principi; e primo vi calò il Gran Duca di Toscana, che nel 1839 accolseli a Pisa, e nel 1841 a Firenze. Anche re Ferdinando, dopo che v’era caduto il Tedesco, vi sdrucciolò; ché Niccola Santangelo, ministro dell’Interno, vel pinse; e il re, forse per non dar esca al motto dell’avversar egli le scienze, aderì, e volle anzi fosse magnifica e graziosa l’accoglienza. Quel congresso, il settimo italiano, s’aperse in Napoli a 20 settembre 1845, presente Ferdinando, che pronunziò parole di maestà e sicurezza incitatrici di scienza. Tenner seduta nella sala mineralogica dell’Università seicento personaggi; dei quali molti erano ignoti, molti anche ignari dello scopo di tali chiacchierate, e molti eran notissimi rivoluzionarli. Il Santangelo, non so se sciente o addormito, fecero presidente, per rimertarlo. A ciascuno femmo dono di due volumi appositamente scritti, la Guida di Napoli; ebbero il palazzo Gesso per ricreamento serale, carrozze per salire al Vesuvio e visitare le reali delizie, un ballo a casa il ministro, e un altro ricchissimo alla reggia, nella gran sala aperta allora la prima volta. Festeggiarono il re con lodi sperticate, e l’Orioli il paragonò a Giove tonante trasformato in Giove pacifico.
Quale avanzamento s’avesser le scienze niuno seppe: la unione fu allargamento di speranze, opportunità di conferenze, promesse a propositi faziosi. Usciti appena, né pagarono i balli e i sorbetti con istampar vituperii di Napoli, si cominciando la guerra con le calunnie. Ma il nostro volgo aggiustò a quei scienziati nome di scoscienziati; perciocché la gente grossa non è illusa da parole rimbombanti, e con pratico senno motteggia le cose ridevoli o ree che a' semi-savii paiono belle e gravi. Nulladimeno, con quel colore di scienza, fecero nove congressi alla fila: Pisa, Torino, Firenze, Padova, Lucca, Milano, Napoli, Genova e Venezia; col che sorge chiaro quanto mentissero accusando gli Stati d'Italia dello avversare il sapere umano. De’ congressi fu frutto il 1848, e la cacciata de' principi mecenati: primo cacciato Leopoldo II Toscano, primo conceditore e celebrato liberale; che avea dato il libero scambio commerciale, e abolita la pena di morte. A Ferdinando Giove pacifico fecero le barricate. A Roma, entrati con le amnistie di Pio IX, gridaron repubblica. Carlo Bonaparte lasciato di presiedere a dotti, si mise presidente in Campidoglio. Raggiunto lo scopo con le fatte rivoluzioni, non fu mestieri più di congreghe dottrinarie, e per dodici anni non se ne parlò più. Fra l’altre pensate fu la proposta d’una lega doganale fra gli stati italiani, certamente utile agli interessi commerciali della popolazione; ma la volevano come cominciamento a fusione, per ravvicinar con quel contatto le idee e le speranze. Molto se ne parlò e scrisse; nondimeno sendo più trasparente l’insidia, i Principi non vi caddero. Per la ragione stessa fu proposto un concordato italiano per la proprietà letteraria, giustissima, perché la proprietà dell’ingegno, certo la più sacra di tutte le proprietà, è in demanio degli stampatori, che stampati di là da' confini l'opere de' dotti senza pagarle; ma qui surse appunto in Napoli il garbuglio; ché i nostri stampatori reclamarono, e la lite andò in consulta di stato. Difeseli lo avvocato Giacinto Galanti, allora creato del ministro Pietragatella (dappoi liberale) e la vinse, con più intrigo che giustizia. Era fatale che di tutte le trame settarie le più ingiustissime riuscissero. Del resto tutto quanto si proponeva a quel tempo con veste letteraria o scientifica eran congiure coperte. A Torino nel 1842 fu fondata e permessa un’Associazione agraria con comitati in tutte le città di quel regno, promotori il Cavur, il Valerio, e altri, dove sotto spezie d’economia campestre si preparava il 1848. A Casale s’istituirono Comizii agrarii; e là nella tornata del 30 agosto 47, il conte di Castagnetto ministro e confidente di Carlo Alberto, trapassando dall’agraria alla politica. nunzio che il suo re s’era gittate nella rivoluzione.
L'anno 1846 scarso per ricolto in tutta Europa, neppur fu grasso fra noi, cosa da molto non avvenuta; e sendo uscite dal paese parecchie derrate, avemmo carezza in inverno. Subito fu vietata l’estrazione del frumento, e il re mosse per le provincie, beneficando, ordinando opere e provvedimenti da dar pane agli artegiani. Le popolazioni acclamavano il sovrano, e laceravano i ministri, lor davano colpa d’aver fatto uscir dal regno i grani; accusavanli di monopolio e arricchir col sangue de' poveri. La setta mestò subito in quelli umori; e Romagna, Toscana, Modena, e Lombardia patiron tumulti e rapine; noi stemmo cheti. Ferdinando fece vender grani con perdita, e lenì le miserie de' popoli. Per le Calabrie ne die’ il carico al Bonucci affittatore delle dogane; il quale invece di usare i danari a sollievo della gente bisognosa, ne fe’ arma di rivoluzione, come dirò.
In quest’anno avemmo nel reame Niccolò imperatore delle Russie; prima la imperatrice malata a Palermo, dove ricuperò la sanità, poi ambo a Napoli, accolti regalmente e a spese del re. Mandò poi Niccolò due bei gruppi colossali equestri di bronzo, che fur messi all'entrata del nuovo giardino, fatto a settentrione della reggia.
Preparatissima a commovimenti era l’Italia, quando per morte di Gregorio, saliva alla cattedra di S. Pietro, a 16 giugno 1846, Giovanni Maria Mastai Ferretti, nato a Sinigaglia nel 1792, il quale prese nome Pio IX. Se negli altri principi s’odiava la potestà, nel Papa s'odiava la potestà e la Fede. Lo stato della chiesa all’uscita de' Francesi nel 1814, vietato l’introdotto codice Napoleone, riprese sue leggi sino a Gregorio XVI, che die’ altro codice. Per questo e per l’amministrare de' preti si faceva rumore, quasi i preti non fossero uomini; eppure nel 1846 lo stato papale avea 5282 uffiziali pubblici, de' quali n’eran laici 5019; sicché prelati eran soli 253; nondimeno era motto d’ordine il gridar contro il pretume. Appunto per la mansuetudine del governare, s’eran fatti moti ribelli nel 1831, nel 43 e nel 45; e quando morto Gregorio i cardinali stavano in conclave, le Romagne mandar petizioni chiedendo riforme; ma i deputati arrivarono che già s’era eletto il papa. Pio IX sin da' primi dì messo l’animo ad appagare le dimando giuste, unì in segreto concistoro il Sacro Collegio, per parere, sur un perdono generale di colpe di stato. È fama la maggioranza avvisasse pel no, notando i pericoli della concessione in quei concitamenti di animi; ma ei sollecitato dal cuor suo, die' a 17 luglio il decreto d'amnistia, a patto i perdonati giurassero sull'onore che in nessun modo e in niun tempo abuserebbero della grazia tornando a fellonia. Tutti, salvo Terenzio Mamiani, giurarono. E ritornarono in Italia due o tre mila sitibondi faziosi.
Allora fu facile eseguire il motto trovato dall’Azeglio del far la rivoluzione senza guerra, con le mani in tasca. Giusta le prescrizioni del Mazzini scoppiarono plausi infiniti a Pio IX; a Pio IX, non al papa, che all'uomo, non al santo vicario di Dio significavano incensare. Riprodussero in cento maniere il decreto, su carte, su pergamene, su drappi e fazzoletti; celebraronlo con prose e versi in tutte lingue, con dipinti e bulini, con medaglie e accademie. Festeggiaronlo per plaudire a vera pace i padri Gesuiti. Le donne vedevi co' colori papalini; giallo e bianco sugli arazzi, per le finestre, nelle vie, su’ tetti, in petto a ogni persona. Inni, canti, balli, battimani, conviti, girandole, fuochi, ghirlande, luminarie, dipinti trasparenti, archi di trionfo, scenici ludi, facevan della gioia un delirio. Il popolo seguitava la festa. Non cavalli, ma braccia umane traevan la carrozza di Pio, dovunque andasse era fra l’esultanza. Durò due anni l’allegrezza, sinché la rivoluzione maturò.
I festeggiatori avean direzioni, capi ed esecutori disegnali. Famoso fu Angelo Brunetti soprannominato Ciceruacchio, fienaiuolo e bettoliere, già fazioso noto nel 1837, quando valutasi del colera avea con altri tentalo mover Roma, ora guidatore di bassa marmaglia, per questa lodato, e altresì qual poeta di versi politici improvvisi. Dettavano, e pingevano iscrizioni insidiose; cucivan bandiere e nastri significativi, designavan le vie, il tempo, il modo. I profughi ritornati avean parte delle ovazioni, per mostrarli modelli onorati. Sforzavansi a dar nelle fantasie, avvezzare il popolo al rumoreggiare, al ragunarsi, al discuter cose governative; però intanto circoli segreti e palesi, giornali e oratori a discuter con la stampa e la parola i fatti pubblici, a suggerirli, a disapprovarli, a farli imprendere o mutare. Già eran padroni; e nel rumor delle feste ruminavan gli assassinii.
Il Mazzini intanto, per ricordare i doveri agli adepti suoi, in ottobre di quello stesso anno 1846, mandava scritto così: «Il cammino del genere umano è sempre tracciato da ruine; chi teme le ruine non comprende la vita. L’Italia oggi deve uscire dalla sua prigione, rompere i legami dei papi e degl’imperatori; e purché si compiano suoi destini corran pure numi di sangue, le città si rovescino Fune sulle altre, e battaglie ad incendii, incendii a battaglie succedano. Non importa! Se l'Italia non dev’esser nostra, val meglio preparare la distruzione, e tale che ogni disfatta sia catastrofe finale. Però esortiamo popoli e soldati a eseguir questo disegno, che nessuna città si lasci ritta al vincitore, e ch'esso trovi morte ad ogni passo. In tal guerra non si ceda, si distrugga. Sarà terribile; tutta la vita d’un popolo non sarà che un’opera di rivoluzione. Combattiamo dunque, e sterminiamo...» Così questo Maometto del socialismo si lascia addietro gli Attila e i Genserichi, gridando civiltà e progresso. E i nostri governanti credevan sapienza il sopprimer coteste infamie, che rese pubbliche avriano a molti dissuggellati gli occhi.
Pio IX procedendo senza sospetto voleva il bene vero, riforme amministrative e giudiziarie, secondo già altre parti d’Italia, e soprattutto Napoli s’avevano; spinta alla istruzione popolare, riordinamento a' tribunali, giureconsulti a studiar codici, strade ferrate, asili d’infanzia, leggi di stampa larghe, giunte al municipio romano, consulte di stato, consigli di province, e simiglianti. Sempre sulle udienze, non tralasciava modo da migliorare i sudditi. Il Mazzini stesso osò in settembre 1847 scrivergli lodandolo del fatto, e sospingendolo a fare. Le cose romane avean nomea fuori; e anche la porta ottomana, anche la lontana repubblica dell'Equatore mandavano ambasciatori.
Carlo Alberto a quel rumorio risentì le viete velleità carbonaresche, e parvegli scorno o danno a restar fermo, gli si ridestarono le fantasie della corona italica profetategli dal Mazzini; e voglioloso di trarre a Torino quell’indirizzo rivoluzionano e farla al papa, si gittò nell’arringo, e permise cose nuove, associazioni politiche, giornali faziosi, e stampa iniqua. Diffidenti di esso gli altri principi italiani, veggendo tanto festeggiare riforme già attuate in altri paesi senza festa, e udendo subito quà e là negli stati loro, dove quelle riforme erano in alto, levarsi voci maggiori, entrarono in sospetto, e pregarono il papa non sopportasse che a nome suo surgesser clamori per mutazioni, che concedute riunirebbero i troni. Rispose alzar egli la condizione civile de' romagnoli, non volere né poter concedere altra libertà; purgare il paese dalle male usanze e vecchie; porre la stessa legge civile che tutta Italia si godeva. Male interpetrarsi l’animo suo, ma non perciò ritrarrebbe il piè dall’incominciato bene, o userebbe rigore: poter più dolcezza che violenza; egli fidare nella gratitudine dei beneficati. E avria ben fidato, se non era la setta. Questa esaurita l’ipocrisia, sollecitò il compimento, e copiò nell’alta Italia le feste romane, instigatrici a' principi di far lega secondo la teoria Giobertina. Predicava concordia fra popoli e sovrani, progredimento, fratellanza, patria, uguaglianza e giustizia; parole allettatrici che fean seguito e rumore. Presto il domandare parve voto universale, bisogno di tempi maturi.
Accanto al viva al papa cominciò il morte all’Austria. A Milano sulle muraglie si trovava: Viva Pio IX, morte a' Tedeschi. Genova repubblica soleva festeggiare il 10 dicembre, commemorativa della cacciata de' Tedeschi da quella città nel 1746; e come compievano i cento anni, venne acconcio il rifarne l’antica festa. Alle ore otto del mattino adunalo popolo in piazza, con lunghe bandiere, armi ligure e bande civiche, procedettero per le vie, in ordine, cantando inni,sparando mortaretti sino al santuario; dove un abate boria in vesti pontificali li benediva; indi in Portoria, fermati sulla lapide memorabile, rifacevan viva ed inni sino a sera, con luminarie, e senza opposizione di potestà. Il re venuto a Genova per onorare il Gran Duca Toscano itovi a caso, presagendo la faccenda se n’era qualche giorno avanti tornato a Torino; sicché lasciò Leopoldo a veder quella scena che accennava a guerra alla sua casa d'Austria. Vienna fece note diplomatiche; Torino rispose con esultanze e banchetti. Colà i giornali aveano alzato il capo, i teatri mettevano in iscena preti e gesuiti, i torchi stampavano libri rivoluzionarii; tutto sonava guerra a' Tedeschi. Toscana con luminarie fece eco a celebrare il 10 dicembre: Roma ebbe qualche scritta ai cantoni poco avvertita. La cacciata de' Tedeschi del 1746 fu a pro delle armi Borboniche di Francia e Spagna e Napoli; ma questa festa centenaria significava meno insultare i Tedeschi che scacciare i Borboni.
Milano, malgrado l’Austriaco presente, pur fe’ qualche cosa. La sera del 28 dicembre 1846 celebrarono il funerale a un Federigo Gonfalonieri già per fellonia carcerato nello Spielberg; e volevano elevargli tumolo di marmo, cui vietò il governo. Dettero inoltre feste da ballo, dove non vollero né un solo Tedesco, a posta per mostrar antipatia nazionale. Firenze ebbe fuoco maggioro: non eran più buone le celebrate leggi Leopoldine; il Gran Duca, non più modello di principi, avea vituperii; si gridava per sistema Riforme, Riforme! Fecero banchetti a Massimo d’Azeglio ch’avea scritto l'opuscolo da far la rivoluzione con le mani in tasca; e mentre la potestà mandavalo via, gli scolari di Pisa col professore Montanelli correan sulla via di ferro a Pontedera a fargli ovazioni. Per contrario giunto l’arciduca austriaco Ferdinando d’Este a Pisa, insultaronlo con imprecazioni sotto le finestre; e al mattino lo accompagnaron coi fischi sin fuori la città. In tanta debolezza quel Gran Duca fu il primo a calarsi a concessioni. A 7 maggio 1847 die’ un decreto sulla stampa, permettente il sindacar le leggi pubblicate, il che fu alterazione al suo mite principato. Subito plausi infiniti. Eppure il decreto parve magro a Livorno; e vennero a zuffa chi voleva e chi non voleva far festa; lo stesso a Pisa e a Siena.
Per tal borboglio plateale, quel governo con ordinanza ricordò gli adunamenti popolari esser proibiti; ma levatasi burbanzosa la stampa, la già civile Toscana vide ineseguiti i decreti sovrani, la potestà scemar di forza e opinione, e i festeggiamenti vietati seguir più fragorosi. Anzi fur tumultuosi a Livorno, più a Lucca, e peggio a Parma; dove bisognò la soldatesca menasse le mani. In Firenze le feste andar sospese, per nuova che quei del borgo l'avrebbero guastate armata mano; e di fatto una sera corse sangue.
Ma in Roma stufi di festeggiare procedettero a cose maggiori. Domandarono Guardia civica; Posteggiava il cardinal Gizzi segretario di stato; nondimeno il padre Ventura, Teatino Siciliano, sospinse il pontefice a concederla il 5 luglio 1847; e il Gizzi si dimise. Che dimostrazioni di gioia! la stampa dettò pagine caldissime. Volevan l’arme, e il governo andava lento. A un tratto il 15 di quel mese esce una voce, come i retrogradi amatori del governo di papa Gregorio tentassero un colpo di stato per tornare all’antico. Ciceruacchio grida d’una congiura preparata dai colonnelli Freddi e Nardoni, da monsignor Grassellini governatore di Roma, dal cardinal Lambruschini e da altri contro Pio IX! Ecco sulle cantonate liste di proscrizioni; laonde popolani in armi alla cerca di tai proscritti scorazzare in ogni patte; la civica dimandar arme in furia, e averle sul fatto. Lo scopo era conseguito. I supposti rei di tanta congiura, altri arrestati, altri presentati in giudizio, dopo molti mesi uscirono innocenti, il Grasselli riparò a Napoli, il Lambruschini a Civitavecchia, sua sede vescovile. La guardia civica condotta dai più settarii come fu armata lavorò a corrompere le milizie, e anche i Carabinieri pria tenuti in uggia. Armarono altresì fanciulli, e né fecero un battaglione, detto della speranza; cioè la speranza della rivoluzione. Pio IX inerme stava nelle mani loro.
Il nuovo segretario di stato cardinal Ferretti tentò placar gli animi con una proclamazione; ma surse altro grido come i gesuiti nascondessero armi e congiuratori. Corrono in massa con soldati e carabinieri, accerchian la casa, non trovan nulla, e chetan rabbiosi. Indi sospetti di congiure per tutta Romagna. Rimini, Rieti, Spoleto, Civitavecchia, Cesena, Bologna, Forlì ed altre città s’han travagli ed uccisioni. E in Toscana per far feste a Dio, in ringraziamento d’aver salvato Pio IX dalla congiura, risuscitano tumulti nuovi.
L'Austria dal trattato di Vienna ebbe facoltà di tener presidii nei forti a Piacenza, Comacchio; e Ferrara; e benché allora il Papa signore di queste due ultime città protestasse, nulla ottenne. Né giorni tranquilli vi tenea pochi soldati, ma visto il tempo nero il general Radetzky rafforzò Ferrara d’ottocento Croati, pochi Ungari a cavallo e tre cannoni, i quali giunti a 17 luglio 1847 si ridussero alle caserme che insieme alla cittadella sin dal 1815 avean nelle mani. Il Cardinal Chiacchi legato protestò per quell'aumento. Inoltre i Ferraresi, a offendere quei stranieri, pompeggiarono un funerale in S. Sebastiano a' fratelli Bandiera, disertori d’Austria; ciò sugli occhi de' Tedeschi presenti. Si querelò il comandante, e il legato rispose non potersi impedire le preci pe' trapassati; perlocché inciprigniti gli animi, seguir chiassi e brighe fra soldati e cittadini; onde uscirono pattuglie per le vie, e i paesani a cercar arme, e a porsi di sentinella alle prigioni; sinché il Radetzki, il 13 agosto, fe’ occupare la gran guardia e le porte della città murata.
Per Romagna fu un gridar battaglia; e prima Bologna, poi tutte le città dello Stato volsero indirizzi al papa invitandolo a guerra d’indipendenza. Si armavano, si confortavano, raccoglievano danari, facevano esercizi! militari; e fidanti nel soccorso piemontese, volean che Pio, nuovo Giulio II, con baionette e cannoni, a capo di popolo e di milizie scacciasse il Tedesco da Ferrara. Da prima il papa tacque,poi,temente l’entusiasmo straripasse, fece intendere gradire le profferte de' sudditi, ma volerli cheti, e fidanti nel giusto. La voce di Pio IX tanto riverita, non garbava con quel suono pacifico, già cominciava ad essere superflua, già si sentivan gagliardi da andar soli alla meta. Allora lo stato romano era un caos, dove la mano sola di Dio poteva spartir le tenebre dalla luce. Ma la setta voleva un Dio suo; esclamò forte, e ottenne tornasse Terenzio Mamiani, stato esule sedici anni, che avea voluto giurar di star cheto, però ricevuto a Roma ovante. come pubblica felicità.
Similmente lo ingrossar de' Tedeschi a Ferrara fu pretesto in Toscana a nuovi passi. In Lucca, ov’era il Duca Borbone, fievole signore, fu ribellione aperta, si vollero le riforme fiorentine eia Guardia Civica. Allora lui misero in cielo; né mai fu più celebralo principe di quel Duca, già tanti anni gridato da esso loro tiranno. Firenze vistosi porre il piè innanzi da Lucca, non aspettò più. Livorno tumultua, manda deputati; questi giunti di notte sveglian dal sonno il ministro, e mandante in sul botto alla reggia, perché la guardia civica s’approvasse pria dell’alba; carpitala, risfavillan le feste; e se Italia con dieci Battaglie avesse scacciati Tedeschi, Francesi e Inglesi fuor dalle alpi e dall’isole, non avrebbe potuto con più baldoria tanto gran fatto come quel della civica celebrare. Tutte città toscane nonché Livorno e Pisa, fecer gara di festeggiamenti, e di laudazioni al Gran Duca; e frattanto si sventolavano per la prima volta bandiere co' tre colori della già repubblica cisalpina.
Di poi a 12 settembre celebrarono a Firenze una festa federale italiana, ove intervennero con loro civiche bandiere tutti i gonfalonieri, e le deputazioni della città, dei ducato, e anco rappresentanti degli altri stati italiani. I soli Siciliani mancarono, chè dissero avere il tutto per la non ancora scossa tirannide; ma vi comparve lo stendardo messo a bruno. In tanto tripudio solo re imprecato fu Ferdinando nostro, ch’era fermo sul trono, plauditi oltre misura Pio IX, Carlo Alberto, Leopoldo, e Carlo di Lucca, perché ire quelle lusingherie stavan per dare il crollo.
Sotto v’era la mano inglese. Già Luigi Filippo di Francia, per fermar Io interesse orleanista, avea dalla rivoluzione de' Belgi tratto un trono belgico, ma con sua figlia regina. Ora sposando suo figlio duca di Montpensier all’infanta spagnuola D. Luisa, avea gran dote e speranza d'un futuro nipote a re di Spagna. Col tempo potevano tre orleanisti regnare a Parigi, a Madrid e nel Belgio. L’Inghilterra forte avversò questo matrimonio, e vistolo fatto arse d’ira. Mirava Francia potente nel Belgio e in Ispagna, con un piè in Algeria, e parata a spander protezione in Italia accennante a confederazione, e quindi a formazione di potenza marittima da collegarsi con essa. Reggeva il ministero Britanno Lord Palmerston, uomo graduato in alto ne’ Massoni, gran pregiatore d’utilità materiale, siccome quella che per sé sola gli par bella e giusta, ei venne nel proposito d’accomunar lo interesse inglese col settario, e sbizzarire le italiche passioni, acciò calasse in fondo la italiana crescente prosperità. Italia rovinata sarebbe peso non aiuto a Francia, onde lavorò a guastar l'indirizzo della confederazione dei Principi che l’avria fatta forte. Agl’interessi inglesi aggiungi l'ire scismatiche contro Roma. Convenivagli altresì infiacchir l’Austria, e usurparle la preponderanza in Italia. Or come quella poteva co' Principi, egli si mise co' sudditi, e gl’istigò contro i governi, per intervenir fra le lotte in sembianza di protettore degli uni e degli altri. Disse a' faziosi d’Italia poter eglino più sperare da Londra che da Parigi, dover levar gli animi a cose maggiori; e com’egli già da più anni ospitava e accarezzava il Mazzini e i suoi, li ebbe di leggieri, ché a costoro fievoli e dispregiati parve toccar col dito il cielo a vedersi sorretti dalla possente Inghilterra. Questa inoltre mirava più alto, cioè all'abbattere i Borboni, a evocar nuovi imperii che più de' legittimi re stessero devoti alle ingiunzioni britanne. Primo principio la guerra civile in Italia.
Era membro del ministero un Gilbert Ellist Murray conte Mintho, nato a Lione nel 1782, di casa scozzese, elevata nel 1797 alla paria. Entrato nella camera de' Lordi nel 1814, non ebbe pe' suoi principii esaltati uffizio pubblico, se non quando i suoi consettarii ascesero al seggio. Allora fu due anni ambasciatore a Berlino, poi stette nel ministero Melbourn come Lord dell’ammiragliato sino al 1841, e dopo cinque anni entrò nel ministero Russell. A costui amico d’ogni setta, e nemico accerrimo di Santa Chiesa, die’ il Palmerston in settembre 1847 il carico segreto di scorrere la penisola a seminarvi la sollevazione. L’Italia visitata di continuo da stranieri ammiratori de' suoi monumenti, non aveva a maravigliare delle visite d’un ministro di governo amico di tutti i principi suoi. Ma fu maraviglia quel subito celebrarlo, uscito in tutte parti come magico incanto, quel buccinarsi misterioso d’un ricco Lord, già ignoto, predicato a un tratto filantropo, soccorritore, amatore d’Italia, quell’eccheggiarne il nome in città e villaggi quasi nuovo Messia, beneficatole dell’umana razza, più maraviglia udir benefizii inglesi sì rari nella storia, rarissimi qui, dove, e in Sicilia sopratutto, eran tristi ricordi delle gratuite protezioni Brittanne. E Lord Mintho detto il Pacificatore, con semi-uffiziale dignità, organo potente d’anarchia, enne a favellarne di civiltà, di socialità, di nazionalità, di progresso, di maturità di tempi e redenzione; incitava a rivoluzione; prometteva arme, munizioni ed aiuti; e con tal esca e con l’altra più sonora delle lire sterline poneva tutte passioni in subuglio: pacificava cosi.
Senza dir mai ai governi italiani quali missioni s’avesse, non faceva che affratellarsi co' notissimi spasimanti di ribellioni in ogni città. I Mazziniani prima che arrivasse annunziavanlo con pompa d’elogi; arrivato, gli si ponean di costa, e guidavanlo. Prima di giungere a Roma, lo Sterbini né diè alta nuova nel suo giornale il Contemporaneo. Giunto, tutto quanto in Roma era rivoluzionario cors’egli alla porta e sotto le finestre, con ovazioni e cantate; ed ei s’affacciava, salutava, ringraziava, e andava spesso al circolo romano dello Sterbini a rimestarvi le fiamme. Solo al Papa non andò, benché stesse in mezzo a' plauditori di Pio IX. Suoi amici erano il Canini, Luigi Massi, lo Sterbini, e Ciceruacchio; questo gli fu fatto conoscere dall’Azeglio; ed ei con esso a braccetto per le strade, con esso gridava Viva l’Italia. E la sera del 15 novembre, festeggiandosi la conceduta consulta di stato, sendo egli co' consultori nel teatro Apollo, accolse il Ciceruacchio nel palchetto. Gli fe’ presente d’un libercolo di canti del Macaulay sull’antica Roma, cui scrisse su di sua mano certi versi in lode della libertà e di esso tavernaio; che fur questi:
These be but tales of the olden da.
The patriot Bard shall now his la.
Of charming freedom pour.
And Rome’s fair annals bid the fam.
Of Ciceruacchio s’humble carn.
In deathless honour soar.
Mintho
E l'Azeglio così li traduceva a margine.
«Sono soltanto racconti di una età passata. Ora il poeta patriota può salutare la libertà che risorge; e gli annali di Roma spargeranno la fama dell'umile nome di Ciceruacchio cinto di gloria immortale. Massimo d’Azeglio.»
In tal guisa la setta congiungeva un bettoliere, un Lord ministro d’Inghilterra, e il futuro presidente di ministero sardo. A tanto bassa adulazione scese l’orgoglio brittanno per ruinar la nostra patria.
Mentre Roma, Toscana e Piemonte commediavan riforme, Napoli dove simiglianti riforme eran già senza plausi da quarantanni fatte, non avea che festeggiare. Noi senza stranieri, noi governo patrio, leggi libere speciali e generali, noi prosperità, esercito forte, marina numerosa, guardie civiche armate a piè e a cavallo avevamo. Ma con queste cose era ordine e pace, il che pareva un controsenso a chi quelle cose voleva per muover subugli. Pertanto invece di plausi qui furono accuse: il reame doveva essere atteggiato a vittima di tirannia. In luglio 1847 furon compilati nei segreti conciliaboli de' congiuratori in Napoli due libelli: uno chiedente riforme, il quale restò sprezzato e inavvertito; l’altro fu una certa diatriba contro il re e i reali, intitolato Protesta de' popoli delle Sicilie; il quale esagerati gli errori dell’amministrazione, e i falli de' governanti, spruzzava contumelie abiette a persone alte; e conchiudeva invocando e promettendo ferro e fuoco. Sendo vere in parte le accuse, credute eran tutte, e si guadagnavan avidi lettori. La polizia in sospetto di peggio carcerò molti creduti complici: Carlo Poerio, Mariano Ayala, Domenico Mauro, e Francesco Trinchera. Luigi Settembrini, già maestro del liceo di Catanzaro, campò su nave inglese a Malta, e là se ne dichiarò autore, per iscagionar gli altri. Cotai libercoli, primo passo della rivoluzione, furono segno di star già nel reame una congiura ordinata. Il re volle visitar le provincie; v’andò a mezzo aprile, vi girò più mesi; se non che in quel mentre venuta in Napoli Maria Cristina regina vedova di Spagna appunto per parlargli, fu voce (credo verace) che Ferdinando si partisse per non vedere quella sorella motrice delle rivoluzioni spagnuole. Dappoi a 13 agosto il re con atto sovrano ricordò sue promesse allo ascendere al trono, e come le adempisse, i debiti tolti, le tasse scemate, e ordinava che dal 1° gennaio 1848 si diminuissero due milioni di annue imposte, cioè abolito il dazio del macino sul continente, minorato in Sicilia, minorato d’un terzo quello del sale, e pur quello su’ vini d’entrata al continente. Ma la rivoluzione voleva altro che sale e macino. Ha stampato il La Masa che in luglio dodici Siciliani congiurassero per uccidere il re, e in novembre pur si buccinò di altra trama per assassinarlo il 2 in una chiesa di Portici, onde vennero arrestati certi studenti. La protesta accennava a fatti di sangue; e i fatti cominciarono sul cader di agosto.
Dissi il re aver ordinato al Bonucci fittaiuolo delle dogane di comprar frumento per venderne a buon mercato alle popolazioni bisognose per la carestia de' grani. Ei fidò tal carico a un suo creato Domenico Romeo di S. Stefano presso Reggio, mazziniano, che già con divisa d’uffiziale di dogana scorrea qualche tempo le Calabrie, e v’avea tessuto la cospirazione. Questi e il Bonucci volsero la beneficenza regia contro il re stesso, venderono il fromento, e tennero il denaro per pagar la rivoltarla quale aspettavano simultanea in tutto il regno. Quei di Catanzaro e Cosenza avean di segreto dichiarato non esser pronti; ma il Romeo, forse spinto dal comitato di Napoli, o dal Mazzini, o che temesse essere scoperto, o restituire il denaro del grano, avventurò la levata, che scoppiò quasi a un tempo a Reggio e a Messina. Quivi dovevano sollevarsi a 15 agosto, per far numero con la gente del contado accorrente alla Madonna; ma a quei giorni il re, viaggiando per le provincie, fu a Messina ed a Reggio; dove largì pur grazie a molti, spezialmente ad Antonino Plutino ch'era in carcere, e gliela fe’ per supplica del fratello Agostino sergente delle Guardie d’onore. Corsero anzi entrambi a baciargli la mano in mezzo la piazza, promettendo viver quieti; i quali due furon de' primi a ribellarsi dopo quindici giorni. Per questa ragion del viaggio i congiurati tardarono la mossa sino a settembre.
Prima a Messina all’uno del mese certo Pracanica conciatore di pelli, accozzati da trecento disperati su pe' monti, entrò in città per porta S. Leo, con bandiere a tre colori, chiamando il popolo a libertà. Ciascuno si fuggi in casa, e serrò l’uscio. Eglino si misero avanti al palazzo senatorio, sperando cogliervi il generale Laudi e altri uffiziali del presidio, colà a posta convitati e mensa; ma questi avvisati a tempo se n’eran ritratti. Fallito il colpo, mentre i congiuratori s’allenavan cercando compagni e armi, sopraggiungeva una compagnia di cacciatori che li sparpagliò; poi tornarono per altre vie alla zuffa; ma non la potendo spuntare, riguadagnaron le porte, a rifugio per la campagna. Morti restaron pochi d’ambo le parti; e vi fu ferito il colonnello Busacca, in quella che in carrozza accorreva a' suoi. Nella vicina Calabria sendo connivente il Zerbi funzionante da intendente, il capitano de' Gendarmi e altri uffiziali, benché fossesi lor rapportato della rivolta imminente, non provvidero; perlocché Domenico Romeo senza tema potè unire a S. Stefano un po’ di gente perduta. Poi a Reggio, dove erano sol due compagnie di fanti e pochi gendarmi, cominciano a 2 settembre tredici persone uscite dalla casa del Canonico Paolo Pellicano, a gridar Pio IX, Italia e Costituzione, uniscesi ad essi un Pietro Mileti misero maestro di scherma con seguaci, e poscia chiamato arriva Domenico Romeo con altri due fratelli suoi da S. Stefano con men d’ottanta uomini e male armati. Gli vanno incontro Antonino e Agostino Plutino, Federico Genovesi, Domenico Muratori, Antonio Cimino, Casimiro de Lieto ed altri. Corsero la città con alla testa un diacono Antonio Suraci, avente in fronte scritto Pio IX, con nella manca un crocifisso, e una pistola nella destra, gridando libertà. Il Romeo alla prima assale le carceri, opprime i pochi gendarmi, e le sfonda; la dimane intima la resa al castello dove s’era chiuso co' fanti il principe d’Aci, che senza pugna, invitito posa l’arme. Il Romeo allora piglia il denaro della cassa provinciale, sforza il vescovo a benedir la bandiera, e piantala sulla torre; poi scacciate le regie potestà civili, fa un governo provvisorio di sette persone con a capo il canonico Pellicano. E stampano un programma proclamante la costituzione del 1820. con in fine: Viva l’Indipendenza italiana eia libertà! Un giovinetto Michele Bella lo stesso di corse a propagare la rivoluzione nel distretto di Geraci; s’univa a Bianco con Domenico Salvatore, vi chiamava Rocco Verducci e la sua gente da Caraffa, e Pietro Mazzoni con altri da Roccella. Il sottintendente Buonafede misesi in barca con un uffiziale e tre gendarmi 1)er accorrere a Bianco, ma il Bello e il Verducci itigli incontro, per mare o presero. Indi a Bovalino, trovato con altra gente un Gaetano Ruffo, cantarono il Te Deum; il 5 giunsero a Siderno, la dimane a Roccella. Volevano assalire Gerace, ma i cittadini atteggiati a difesa li fecero retrocedere.
Il telegrafo segnalò il fatto la sera stessa del 2, e il tre mossero da Napoli soldati: un reggimento di fanti, un battaglione cacciatori, e due cannoni su due fregate, il Ruggiero col capitano Leopoldo Del Re, e il Guiscardo col capitano Antonio Bracco. Appena giunti ebbero una deputazione da Reggio invitantili a pigliar terra per discacciare i ribelli; ma il Del Re non ben fidando in essi, tenneli a bada e tirò a Reggio dove finse tentare lo sbarco in luogo vicino, passando abbatté con una cannonata la bandiera de' tre colori; e quando ebbe fatto accorrere gli avversarii sul minacciato sito, disperseli con pochi colpi, e girò le prue per isbarcar i soldati al vicino villaggio Pentimele luogo aperto, come a salvamano gli riesci. In quella il capitano de' gendarmi che s’era unito a' faziosi, vista la cosa andar male, trasse un colpo al Romeo, che noi colse, ma incontanente esso fu spento da seguaci di lui. Costoro non osando combattere, fuggirono in disordine alla città; indi, pe' monti e per le spiagge a Staiti, perseguitati dal Tenente colonnello De Cornè. Sull’altra Calabria sbarcò con duemila uomini il brigadiere Ferdinando Nunziante; e aiutato dalle Guardie Urbane, s'avanzò per Gerace sopra Staiti; dove il Romeo veggendosi stretto da esso e dal Cornè, fe’ sbandare i suoi. Gli altri ribelli a Roccella si dispersero la sera del 6, liberato il sottintendente Buonafede; quindi il Nunziante giunse senza colpo a Gerace il 9, poi a Staiti; e mandò soldati ed Urbani appresso a' fuggitivi per le balze d’Aspromonte e nelle Sile. Domenico Romeo fu colto in una capanna dagli Urbani di Pedavali e Seido co' capi Carbone e Ruffo; si difese, ed uccise un Urbano, poi esso cadde morto. Altri si presentarono, e fra essi i fratelli superstiti del Romeo, il Mazzone ed altri; dugento vennero presi. Bentosto una commissione militare a Gerace sentenziò Michele Bello, Pietro Mazzone, Gaetano Ruffo, Domenico Salvatore e Rocco Verducci, poi fucilati a 2 ottobre. Altra commissione a Reggio in novembre molti a prigionia, quattordici a morte condannò, de' quali morirono sol quattro; al resto il re fe’ grazia, e fra essi il Pellicano e i fratelli Romeo. E a 17 novembre ordinò che cessando le commissioni militari, i rei scritti nei ruoli de' banditi fossero giudicati da Corti speciali; per gli altri abolito ogni procedimento penale; a qualunque sentenza capitale si sospendesse l'esecuzione. Di fatto in quel mese fe’ grazia del capo ad altri tre. Le stesse prescrizioni e grazie corsero per Messina, dove un solo, Giuseppe Sciva calzolaio, subì la morte. I graziati furono quelli appunto che prepararono ed eseguirono le rivoluzioni del 18 e del 1860.
I giornali della setta stampavan racconti maravigliosi in Italia, in Francia e in Inghilterra, come la rivoluzione Calabra fosse universale sull'appennino, e come negli scontri vincesse i Regi e uccidesse generali e soldati. Poi quando non poterono più stravolgere il vero, voltaron verso strepitarono alla rovescia, con improperii in capo a' vincitori. Ferdinando tiranno, spietatissimi i ministri, scherani, croati i soldati, fratricide le Guardie Urbane, bombardatorino il conte d’Aquila (che nulla avea fatto), e immanissimo il Nunziante; mostro, sanfedista, degno dell’abhominio dei posteri. Inventarongli ch’ei promettendo grazia inducesse a presentazione il Mazzone, e presentato il fucilasse; mandasse i condannati al supplizio prima del tempo dato dalla legge, e altre menzogne. Invece il generale per quei cinque avea chiesto a Napoli la grazia, che non venne. Cotali accuse eran dardi a disegno contro gli uomini fidi al dovere, per isconvolgere l’opinione del dritto, e col rombo delle contumelie ispaventare gli uffizioli del governo. Per contrario santificavano i ribelli percossi; questi promotori di civiltà, redentori della patria, martiri di libertà, beati d’aver dato le vite per causa santa. Maraviglia fu che il Del Carretto stato già liberale, vedendo la tempesta vicina, volea riamicarsi i liberali, e anch'esso lamentava alto i rigori del Nunziante e del Landi in Calabria e Messina, dimentico del suo efferato rigore in Sicilia, e contro i Capozzoli al Vallo, e di Bosco arso.
Veramente, salvo quei primi capitati, si usò indulgenza, e si rattenne la severità delle leggi; il che i congiurati dissero debolezza; però confortati dal rumorio contemporaneo dell’alta Italia e dalle instigazioni straniere; né si vedendo puniti, alzar le cervici, e sbizzariron con parole e fatti.
In Napoli era venuto sul finir d’ottobre ambasciatore di Francia il conte di Bresson, bene accolto a corte. La mattina del 2 novembre ei fu trovato cadavere nella sua stanza all’albergo Zir avanti la villa, tagliata la gola con un rasoio, robe e carte sparnazzate per la camera, e ’l suo cameriere fuggito. Fu suicidio, e n’è arcana ancora la cagione; molto se ne vociò, i giornali rivoluzionarii in Italia s'ingegnarono a dimostrarlo assassinio, incolpandone la polizia e non so qual Gabinetto nero; fu chi in istoria scrisse il Bresson esser venuto a proporre consigli di riforme a Ferdinando, che non è vero. Voce pubblica fu, e costante, recasse documenti segretissimi di stato, cui l'Inghilterra Incessegli involare dal compro cameriere; ond’ei disperato per salvar l’onor suo s’uccidesse. Certo fu l'involamento; né parmi avesse estranea parte alla rivoluzione che a capo di tre mesi fu fatta compiere in Francia.
Ferdinando in molti anni di regno avea di rado fatto eseguire sentenze capitali; ora tirato per la tutela della cosa pubblica a dura necessità di supplizii, volle scrutare se cagioni fossero reali di inala contentezza. A far cessare i clamori contro i ministri, alcuni né mutò. A’ 11 novembre die’ il ritiro al Ferri, e mise a quel ministero di Finanze Giustino Fortunato, vecchio Massone. A’ 16 concesse anche il ritiro al Santangelo, con onore di consigliere di Stato e titolo di marchese; e ad esempio di Francia costituzionale divise quel ministero dell’Interno in tre, cioè: Interno, Agricoltura e Commercio, e Lavori pubblici; e li die’ a Giuseppe Parisi, Antonio Spinelli, e Pietro d’Urso, uomini allora in fama. Io non credo buona cotale divisione di branche governative; perché sendo in più parti essenzialmente congiunte, spartite portan ritardo e inceppamento. Nondimeno, piacque, perché nuova, perché principio di concessioni, perché caduto il Santangelo tant’anni potente. Gli uomini pur degli Aristidi si stancano. Lo esaltamento di questi tali ministri segna la nuova politica delle concessioni, che ruinò il regno, l’Italia e l'Europa. La fazione sicura di essi, baldanzosa di avere steso le braccia ne’ regii consigli, subito cominciò sue commedie. La sera del 22, suonando la banda musicale come per consueto avanti la reggia, udisti viva a Pio IX, all'Italia, e al Re, pe' dimessi Ferri e Santangelo; poi s’avviarono per Toledo, sino al palazzo del Nunzio apostolico, colà le grida gioiose addoppiando. A Leopoldo zio del re dissero riva in teatro S. Carlo. Al mattino la potestà ordinò cessasse quei plaudire turbatore della pubblica quiete; ma la sera stessa dell'editto fu peggio, anzi chiesero la cacciata del ministro di polizia, del confessore del re, e non so che altro. Per prudenza non fu suonato più avanti la reggia: e mancato il teatro mancò la scena colà, ma trovarono altro campo.
Come i gridatori non patiron nulla, questa non pria vista indulgenza, persuadendo che come a Roma e in Toscana non si oserebbe eseguir le minacce, molti diventaron bravi. La sera del 14 dicembre ripresero i viva sotto la Nunziatura al largo della carità, e cercavano di raccozzar gente per le strade vicine; ma una pattuglia di gendarmi e poliziotti li affrontò, e si venne a zuffa con mazze e stocchi, però dopo molte legnate e alquante ferite i plauditori sparirono. Chi fu preso andò in carcere, v’andarono Camillo Caracciolo di Torella, il duchino Proto, Gennaro Sambiase di S. Donato; e il pittore Saverio Altamura; colà s’avean visite e carezze d’amici, e rinomanza; e con libri e giornali e desinari si sollazzavano, come in villeggiatura. Peggio che la Corte Criminale li mandò assoluti; perché v’era ito poco innanzi procuratore generale del re il settario Raffaele Conforti; onde usciron di prigione a 7 gennaio 1818, gloriati con corteo per la via, e poscia in un pubblico albergo vennero convitati a banchetto, dove un Bonghi lor lesse studiato discorso, tosto messo a stampa. La sera seguente ebbero la libertà Carlo Poerio e Mariano Ayala, già per mandato di polizia sostenuti, uomini di nota nimistà al trono; però usciti appena dal carcere iniziarono la ribellione aperta nel Cilento, come narrerò. Anche la gran Corte di Chieti dichiarava costare non essere rei moltissimi imputati di setta Giovine Italia. Mitezze, che crebbero ai faziosi animo, nomea, sicurità e seguaci.
Per tutelar la quiete blandamente, si perlustravan le strade con pattuglie miste di soldati e Guardie civiche; le quali come erano elette bene, prestarono buoni servigi. Per questo uscirono cartelli a vituperarle d’essersi accomunate a mercenarii; quest’onta doversi lavare col domandare riforme a seconda de' mutati tempi e degl'italiani destini. Incitavano cosi la guardia a ribellare, e a vilipendere il braccio regio. Eran saliti di speranze, per la vittoria de' protestanti sopra i cattolici in Isvizzera (e a Roma s’era gridato, viva i protestanti), e perché sapevano la solidalità della causa irreligiosa con la loro. Visto riuscire a busse il plaudire in Napoli, né inventarono un’altra. Ogni di, sul meriggio, uomini ignoti per via Toledo e in altre parti si lanciavan di botto a correre, come fuggenti da pericoli, i consapevoli s’intramettevano e affettavano spavento; e seguiva un serrar d’usci e botteghe, uno spaurirsi, un fuggir di popolo e carrozze e cavalli. Tosto s’acchetavano, ma rimaneva un vociare, un sospetto un’incertezza, e la dimane si ripeteva il gioco.
Era astio da parecchi anni tra il Del Carretto e ’l maresciallo Giovanni Statella comandante la piazza di Nopoli; il re sapevalo, e ’l sopportava, o nol curasse o ’l credesse opportuno a tener ambo in riguardo. Avvezzi dunque ad avversarsi, a procurar impacci l’uno all’altro, per fiaccarsi a vicenda, come sopravvennero questi turbamenti, lo Statella ch’era lido al trono, non si pensando poter proceder tanto, sol vide in essi una congiuntura buona a far cadere il ministro, però a dimostrar co' fatti non esser quegli capace a tener l’ordine materiale, non gli dava aiuto di sorta. Intanto il governo, che non mettea mano a ferri, teneva le milizie chiuse a' quartieri; né poneva modo a quelle paure finte che turbavan la città, notavano i buoni e i commercianti, per quel disordine molestati nelle faccende ch'eran lor di lucro e sostentamento. Inoltre i reggitori credettero più del rigore giovar le carezze; e i ribelli s’accorsero esser venuto il tempo loro. Io vidi pochi garzonacci fischiare alla sicura un drappello di gendarmi a cavallo, giganti della persona; i quali frementi per l’onta sopportavano, per ubbidienza agli ordini, quel vilipendio ingiusto, cui un solo mover di braccio avrebbe vendicato. Sul finir dell’anno i caporioni italiani per aiutar la barca aveano pubblicato un lungo indirizzo a re Ferdinando, intitolandosi Gl'Italiani dell'Unione; pregandolo accedesse alla politica di Pio IX, di Leopoldo e Carlo Alberto; Italia aspettarlo, Europa guardarlo, Iddio chiamarlo. Firmavanla Brofferio, Cavour, Durando, Masi, Silvio Pellico, Sterbini, Armellini, d’Azeglio, e altri cosifatti. Ma già affrettava gli eventi la rivoluzione siciliana, della quale ho a far lungo racconto.
La Sicilia, a pie’ d'Italia, divisa per cinquemila passi di mare, della in antico Trinacria per la forma a triangolo, è l’isola più grossa del Mediterraneo, di miglia geografiche quadrate 498, dove nel 1856 eran 557 comuni, con abitanti due milioni e 321,020. Montagnosa molto, ha il centro dell’elevazione a Gangi, donde corron tre catene a' tre angoli con promotori al Faro, al Passero e a S. Vito: mentre l'Etna, vulcano solingo e immenso con ottanta crateri, giganteggia verso il mezzo della costa orientale. Gli si stende a pie’ la pianura di Catania, la più larga e ubertosa di Sicilia. I monti di natura nettuniana, s’alzano a seimila piedi sul mare, e l’Etna a oltre i diecimila. Pochi e stretti laghi, piccoli fiumi, molti torrenti dividon l’isola, ch’è feracissima, e fu granaio d’Italia al tempo romano, ma allora avea dodici milioni d’abitanti. Ha quasi tutti i prodotti d’Europa, e v’allignan pistacchi, cedri, dattili, cotone, zafferano, e canne da zucchero. Di zolfo ha miniere inesauribili. L’han divisa in sette provincie o valli: Trapani, Girgenti, Caltanissetta, Noto, Catania, Messina, e Palermo città capitale: e ha pure altre città grosse, come Caltagirona, Siracusa, Modica e Marsala. La popolazione è intelligente, ospitale, fantasiosa, e perché passionalissima dà sempre nel molto, e nel bene e nel male,ottimi o pessimi. Nelle cose di stato è in se unita, con gli altri discorde, e seguita la nobiltà ch’è anima di tutte sue aspirazioni.
La nazione sembra aspirare ad autonomia, desiderio inappagato sovente in quattromil'anni. Smozzicata in antico, obbediente ad Egizii, Fenicii. Greci, Cartaginesi e Romani, poscia a' Bizantini, poscia a Saracini più secoli soggiacque. Conquistolla la casa normanna, itavi dal nostro continente, e l’alzò a monarchia congiunta alle Puglie, Terra di Lavoro, Calabria e Abruzzo. Quei re s’incoronavano e avean seggio a Palermo; ma per sovrastar da presso alle cose d'Italia, alternavan la dimora tra l'isola e terraferma, e tenevan parlamenti plenarii a Melfi, Barletta, Bari, Foggia, Ariano, Termoli, Salerno, Napoli e Capua, città continentali, ov’era il nerbo del regno. La dinastia Sveva stanziò poco nell’isola, quasi niente l'Angioina. La rinomata congiura del Vespro fatta per isbalzar dal trono gli stranieri conquistatori, riuscì a divider Sicilia da Napoli, e a farla rimorchiata da Spagna. Quella non rivoluzione, controrivoluzione fu, restaurazione di legittimità, che ridiè lo scettro al sangue svevo nella stirpe d’Aragona. Se non che restati in Napoli gli Angioini, diviso il regno, agli odii de' re Raggiunger le gare de' popoli, e seguirono due secoli di pugne e ostilità vicendevoli, dove stillò una rivalità, che neppur s’estinse quando nel secolo XV tornarmi congiunti in Alfonso aragonese. La casa di questo re magnanimo percossa da congiure baronali, e da Francia e Spagna collegate, cadde presto; onde sul cominciar dell’altro secolo Spagna scacciata Francia, dominò co' viceré a Napoli e a Palermo. Ritornarono due regni scissi, ma sotto uno straniero, messi a una catena, simili per miseria di lunga età; sinché Carlo III rivendicatore di dritti redense ambo i popoli, e rifece il trono di Ruggiero. Ma per le mutate condizioni de' tempi rimessa la sedia in Napoli, si ridestarono le gelosie siciliane. e divamparono nelle seguitate peripezie di opposizioni alle cose napolitane. Non è facile problema politico il diffinire se l’isola avesse utilità e sicurezza a restar sola; e se di presente fra tanta foga d’unire si riuscisse a dividere, per restar fiacchi tutti; ma il fastoso ricordo dell’incoronazione de' re a Palermo tira gli animi patrioti a bramosia di corte e rappresentanza patria; potendo in essi più il decoro che la ragione. La setta mondiale e l’astuzia inglese soffiò in questi spiriti, sconoscendo il bene avuto, il mancato aggrandendo.
La Sicilia sotto i viceré disertata contava appena mezzo milione d'abitanti; in centoventisette anni di Borboni n’ebbe più che quattro tanti, e con essi monumenti, industrii, ordine, sicurezza e prosperità. Nondimeno questi re sono accusati d’averla tenuta indietro alla civiltà europea; menzogna ch'asconde la lunga via corsa per menar il paese alla condizione del 1860. Chi movendo dal quarto stadio arriva al nono, benché non tocchi la meta, ha camminato più di chi mosso dall’ottavo avesse raggiunta al decimo la meta, perché quegli quattro, e questi due soli stadii ha corso. Il progredimento vero delle nazioni non va a sbalzi e salti, ma a misurati passi, né tutte possonlo a un modo e nella stessa via; spesso la stranomania si scambia per civiltà, e ’l vassallaggio della mente per libertà. Sicilia era progredita secondo le condizioni sue; fors’anco il poteva più, ma l’ottimo è raro in terra. La sua cresciuta ricchezza fu anzi fomite di rivalità; ché grassa e ingagliardita parcalo con vergogna sottostare a Napoli; il che montò a nimicizia ne' dieci anni dal sei al quindici, quando la dinastia discacciata dal Bonaparte ricovrò colà; onde l’isola ebbe riverbero di quel foco guerresco tra Francia e Inghilterra. Tra Siciliani e Napolitani parvero tornati i tempi aragonesi e angioini.
Molti credono l’Inghilterra agognar la Sicilia; par certo ne agogni la supremazia commerciale; ché ne farebbe deposito di prodotti inglesi pel traffico indiano e per la via di Suez; né saria maraviglia a vederla Gibilterra d’Italia. Gl’Inglesi s’alzan di continuo a protettori di essa: ad ogni rumoruccio vi mandan vascelli, e fan note, e tendon le braccia a chi si solleva. Nel 1811, quando per le nozze di Napoleone con Maria Luisa d’Austria parean finite le guerre, eglino tementi s’allentasse l’inimicizia de' nostri re col dominatore di Francia, mutarono in offese lo aiuto pria dato al monarca. Sobillarono nel paese i sensi liberaleschi; e l'ammiraglio Bentink per aver sotto la mano un governo vassallo, nutricò l’ambizione del Duca d’Orleans Luigi Filippo genero del re. Si disegnava far abdicare Ferdinando IV e Francesco primogenito, e alzare al trono Ferdinando in fasce con l’Orleans reggente. Il parlamento siculo rifiutò certi sussidii alla corte; altri baroni chiesero più concessioni; e la regina Maria Carolina d'animo virile, sapendo che per concessioni non posan le rivolture, stette dura, e fe’ sostenere cinque de' baroni oppositori. Allora Inglesi e sollevati s’unirono. Ferdinando con la famiglia si ritrasse alla Ficuzza sua villa, e forte ricusò d’abdicare; perlocché Lord Bentink per isforzarlo mandò soldati a porgli lo stato d’assedio. Passando per la piazza di Palermo i reggimenti brittanni volti a quell’impresa, l’Orleans dal balcone salutava essi e ’l popolo tumultuante, e costrinse con brutale atto l’Amalia sua moglie, e pregna e piangente, a uscire a vedere quegl’insulti al padre suo. Il Bentink dichiarò malati il re e la regina, questa anzi fe’ partire dal regno, mutò le tradizionali costituzioni sicule con una costituzione all’inglese data ai 16 gennaio 1812. Presto gli stessi Siciliani se ne svogliarono; dolse a' nobili la feudalità e i fedecommessi tolti; dolse al clero il perduto parlamento distinto; dolse a' democratici l’aver avuto poco. Si spartirono in fazioni, tutte iraconde. Così i parlamenti furono arena dove molto fu detto e nulla fatto; e convocati più volte giunsero al 1815, quando il trattato di Vienna lo spense. In quel congresso l’Inghilterra avea potuto raffermare l’opera del Bentink; ma perché era stata mezzo non iscopo, neppur né fe’ motto; sicché non una parola sola colà corse sulla indipendenza e sulla costituzione del 1812.
Rifatti i due regni uno, quella costituzione, imperante Europa tutta, era con regia proclamazione annullata. niuno fiato, né Siciliani, né Inglesi; né alcuno suppose il parto del Bentink potesse aver guaratigia Britanna. Ciò s’è buccinato in più vicini tempi. Molti Siciliani ricordano volentieri quei dieci anni, perché ebbero la Corte, l’esercito che là spendeva i soldi, e le molte ghinee inglesi che, per l’eccczionali condizioni europee, confluivan nell’isola, fatta centro di commercio largo; laonde si speranzano poter col vessillo d’Albione tornare a quei tempi; ma dovrebbero tornare anche i blocchi continentali del primo Napoleone. Non veggono il bene posteriore e duraturo ottenuto di fatto, e sospirano un passato eccezionale che non si potria rinnovare.
I Borboni restaurati s’ingegnarono a spegnere le rivalità de' due popoli gemelli. Le leggi imposte da' Francesi sul continente, lavorate sulle romane, e sugli scritti de' nostri insigni giureconsulti, riuscite buone, non eran leggi nuove, ma ritorno al dritto patrio semplificato, e spogliato di tradizioni longobarde; però restarono, e si vollero largire altresì all’isola, perché un solo corpo di dritto ricongiungesse le due parti del reame. Né uscì nel 1816 apposita legge, cui notificata alla Gran Brettagna non ebbe disapprovazione, ma conferma, con raccomandazione di quel ministero a pro de' Siciliani implicati ne’ casi del 1812. Difatto, coperto il passato, tutti ebbero onoranze ed uffizii. Con quelle leggi nuove l’isola guadagnava; cadevano i privilegi di caste e mestieri, le giurisdizioni baronali, le torture, e tutte le mondiglie del medio evo; aveva amministrazione nazionale, tribunali, uguaglianza, libertà civile, e ciò senza i mali che tai benefizii accompagnarono sul continente; cioè le guerre civili, i supplizii, le invasioni, i brigantaggi, le guerre estrane, il chiuso commercio, e la servitù a' Francesi. La gioventù sicula non era stata cacciata avanti al cannone russo e tedesco in tutte le contrade d’Europa; quel paese non avea patito esilii, confische, fucilazioni, arsioni di villaggi e città e campi, non sopportato il blocco, non combattuto lo straniero in casa. Avea le nuove leggi, senza travagli.
E mentre s’accomunava a Napoli nel bene, serbava benefizii ignoti a noi. Meno balzelli, non carta bollata, non dazio sul sale, sul tabacco, sulla polvere da caccia, non leva di soldati; di sorte che potevano i Siciliani militare volontarii, non costretti, mentre molti di essi salivano a gradi alti di milizia. Invece pagavano un mite dazio sul macino; e sullo stato discusso siciliano era stabilita ad esito la somma annua di once settantaquattromila come prezzo in transazione della esentata coscrizione. Avevano più privilegi di commercio, stampa più larga che a Napoli, maggiori entrature in corte, intenta a rabbonirli. Ma il bene si pregia in ragione delle pene che costa: Napoli gradì le leggi conseguite a gran prezzo, Sicilia le accolse fredda, non perché male leggi, ma perché venute da Napoli.
Né posò là. Ebbe nel 1819 migliori istituzioni giudiziali e d’istruzione popolare. Si formarono università, accademie, società d’incoraggiamenti e manifatture, istituti veterinarii e di vaccinazione, scuole di ogni maniera. Poi leggi silvane e di beneficenza, opere pubbliche insigni, divisioni legali di beni comunali, scioglimenti di promiscuità di dritti in terre demaniali, registri d’atti pubblici, conservazioni d’ipoteche, e simiglianti. Ma i benefizii a molti parevano offese.
La nobiltà colà scende quasi tutta da' conquistatori Normanni, ed è ricca e potente per sangue e territorio. V’han 117 principi, 61 duchi, 217 marchesi, più che mille baroni, e innumerevoli nobili senza titolo. Pe’ tolti feudi avean patito, e i più apponendo a Napoli ciò che era necessità d'indrizzo sociale aspiravano a tornare all’antico e anche a guadagnar altro, il che soffiava nel nazionale orgoglio il ricordo di viete grandezze. I più malcontenti erano in Palermo, città che su tutta l’isola vantava privilegi e supremazia, di che gelosi gli altri paesi mal ne sopportavano la boria. Come scoppiò la congiura napolitana del 1820, solo a Palermo gridarono indipendenza; e bisognò che la stessa rivoluzione napolitana combattesse la palermitana; sicché i Tedeschi conciaron l’una e l’altra.
Salito re Ferdinando II, nato in Sicilia, bramoso d'accontentare i conterranei, prima richiamò il luogotenente marchese Ugo delle Favare, cui dicevano odiato; poi tosto mandò a reggerli il fratello Leopoldo conte di Siracusa, e si credè averli appagati. Invece fu congiurato a infellonire quel principe, e un po’ vi si riuscì. Nel carnevale del 1835 designavan fare una mascherata simulante l'entrata di re Ruggiero in Sicilia, e tumultuare in quella festa: seppelo il re, e chiamato in fretta il fratello a Napoli, sventò la trama. E n’ebbe il danno che questi tutta la vita gli congiurò contro e avanti agli occhi, assicurato dal regio sangue, e dal manto onde il re copriva le colpe de' suoi. Il principe era alla setta sospinto a gridarsi re, e ’l Dumas in un suo libercolo si vantò esser ito in Sicilia nel 1835 a preparare con quei carbonari il disegno di sollevazione, averlo presentato in Napoli al Siracusa, e incitato a scoprirsi contro il fratello, e ch’ei si negasse. Ma al Dumas credo piuttosto il desiderio che il fatto. Or mentre la setta lavora a rovesciar l’ordine antico, quei nobili di Sicilia entrati nella setta preparati rivoluzioni per isperanza dell’antico baronaggio, né s’avvedono della democrazia che s'avanza terribile. Sognano morte grandezze, e corrono all'abbisso.
Ferdinando II più di tutti i re beneficò l’isola. Poverissima di strade, ei né ordinò la costruzione, dichiarandole provinciali, soccorrendo con l’erario, in ispezialità nel 1838 per Noto, Caltanisetta e Girgenti. Ebbe in breve 1505 miglia di strade nuove, e un altro migliaio si trovavano ordinate e in esecuzione quando sorvenne la rivoluzione. In Catania e Messina ospizi pe' trovatelli ed orfani, a Palermo quello pe' sordo-muti, asili infantili, il Lazzaretto e altro albergo de' poveri; a Palermo stesso prigioni alla maniera di Nuova Jork; a Trapani il monte di pietà, a Messina borsa e portofranco. Era a Catania l’antichissimo porto detto Saraceno, atterrato da secoli, sì che anche il luogo n’era obbliato; nel 1770 il primo Ferdinando avea fatti lavori al molo, guastati dal mare nell’83; si ripigliarono nel 92, anche indarno. Ferdinando II nel 1834 volle un disegno novello di opere, e due anni appresso vi mise mano. Nel 1831 s’aboliva nell’isola la privativa del tabacco, messa e non eseguita tre anni prima. S’era ordinato pagarsi carlini venti a quintale sugli zolfi ch’andavan fuori, non mai riscosso, si scemò a carini otto, poi a due soli nel 1842. Nel 1846 anche il dazio sugli olii che uscivan del paese si scemava.
V’eran terre assai concedute da' monarchi a prelati e abati e beneficiati, rimaste più secoli incolte; un decreto a 19 dicembre 1838 ordinò censuare tutti i fondi di patronato regio, si partissero in quote di quattro salme ad agricoltori, con obbligo di scassarle, e farvi case coloniche fra tre anni; cosi la rendita fu più certa, e si rinsanguinò l’industria. Per le terre chiesastiche non s’ebbe assenso da Roma. Altri decreti dello stesso di, e del 1842, 1844 e 1852, provvidero a compiere l’abolimento della feudalità e della promiscuità de' demanii. Si proclamò altresì la libertà de' fondi, con prescrizioni di reclami, e affrancamenti di canoni per rendite sul Gran Libro. L’entrate dei demanii regi e de' luoghi pii laicali furon più pingui, la proprietà libera, sminuzzata, valse più e crebbero gli agiati. Cotali leggi agguagliaron meglio la condizione dell'isola al continente.
Si tentò più gagliardo atto per fondere i due popoli, e farne sparire le rivalità. Fu decretato nel 1837 fossero in tutto il reame promiscui gli uffizii; e che quanti uffiziali napolitani andassero in Sicilia altrettanti di Siciliani venissero in terraferma. Restavan così disfatti i decreti del 1816 e 1822 che aveano stabiliti uffiziali conterranei in ciascuna parte del regno.
S’era declamato tai due decreti aver sanzionato vero atto di separazione, e bipartito lo scettro. Ora al contrario Ferdinando II sperava seppellire l’ubbie nazionali, e unificare le due genti; ché la dimora di Siciliani in Napoli e di Napolitani in Sicilia, con parentele e amicizie e negozii ammorzerebbero l’astio. Sicilia guadagnò, ch’avendo per ragion di numero a tenere un quarto d’uffiziali, n’ebbe più del terzo, il re intendendo a rabbonirla; e inoltre, avendo essa in proporzione meno uomini di scienza, riceveva al governo ingegni maggiori che non ne mandava al continente.
E chi il crederebbe? subito la setta sclamò alla tirannia, alla prostrazione della patria. Non si spiacevano a comandare in terraferma, ma lor pareva servitù ubbidire in Sicilia a magistrato napolitano. Strimpellarono il più certi nobili e curiali; e giocavano a doppio refe; ché o guadagnavano impieghi in Napoli, o popolarità in Sicilia, spesso l’uno e l’altro. La ragion segreta de' lagni era che non volevano occhio estrano a guardarli, per non esserne impediti nelle macchinazioni. Corso questo vento nella plebe, fu vezzo, moda, onore a dir male degli ordinamenti venuti d’oltrefaro: male la promiscuità d’impieghi, male la feudalità spenta, male il corno di leggi, male le seminate terre, i fabbricali edifizii, le migliorate sorti, l’eguaghanza nel dritto, la sicurezza e la quiete. Che che si facesse erano scontenti.
Benché la promiscuità lor desse vantaggio di fatto, pur li mortificava nell’idea; n’erano umiliati, parendo aver perduto co' magistrati proprii l’ultimo avanzo d’indipendenza. Si sentivan contrariati in due aspirazioni, l’autonomia e la costituzione, per le quali in cinquantanni ribellarci! più volte. S’uniscono alla setta mondiale per averne aiuto a sedizione, ma mirano a quelle due cose; fanno eco a unità d’Italia a bocca, operano per ritornar regno diviso.
Altra occasione a lamenti fu quando ebbero a sottostare in giusta parte a' pesi comuni al regno, de' quali il continente era più gravato. Fu necessità agguagliare la proporzione della tassa fondiaria; e il decreto dell’8 agosto 1833 impose il rettificamento del catasto sulla base dell’imponibile. Reclamarono questo essere stato messo in tempo d’alto prezzo delle derrate; e il re, a 28 dicembre 1838, provvide ordinando s’imponesse la tassa sul valor reale de' fondi. Era giustizia pagassero almeno per fondiaria come gli altri sudditi, se pari n’eran ne’ dritti; eppur la sentiron male; e da quel tempo porsero più orecchio alla Giovine Italia; ma in core avevan la Giovine Sicilia.
L’aspirazione sicula all’indipendenza fe’ vani tutti gli sforzi de' re per la fusione. Due popoli simili di costumi e tradizioni, stati sotto uno scettro più secoli, con medesimezza d’interessi, con una legge, un esercito, una rappresentanza all’estero, tante parentele e negozii, e comunanze di fasti e sventure, mai non poterono diventare uno. Due popoli fratelli non potuti unificarsi in tanta età, oggi s’unificherebbero col resto d’Italia, cui furon quasi sempre stranieri? Sicilia vuol esser sola; né so se cheteria se pur sola stesse, o non tornasse alle garose guerre civili de' tempi antichi, quando chiamavan Greci, Cartaginesi e Romani per asservirsi a vicenda.
Gran vizio de' Napolitani è lo sfatar le cose proprie, sospirar le altrui, e, vistele, dispregiarle. Pregio de' Siciliani è l’amar sé e sue cose; ma dan nel troppo. A questa passione appellò Michele Amari con una storia del vespro siciliano. Non potendo battezzar siciliani Giovanni da Procida e Ruggiero di Lauria, eroi precipui di quel fatto, né trovando a spatriarli dal continente, s’affaticò a scardinare i vanti di quei due antichi suggellati dal tempo, per mostrare quelli niente aver fatto. Inetta audacia d’uno nato sei secoli dopo, contradícente a' testimoni sincroni, alle tradizioni popolari di venti generazioni, che inventa la storia antica innanzi al sole, ma importava persuadere non essere stati propugnatori di Sicilia quei due Napolitani. Inoltre l’idea luccicante del libro sta nel paragonare le condizioni del dugento a quelle dell’ottocento, l’Angioino Carlo al borbonio Ferdinando, i Francesi dominatori a' Napoletani compagni; tutto è incitamento a ribellione, sponendo quell'antica riscossa con vistosi colori, acciò i viventi Siciliani rifacessero un vespro contro i Napolitani. Carità italiana! L’autore era basso impiegato del governo nel ministero di Grazia e Giustizia; aveva ottenuto il permesso di frugare negli archivii dello stato, e stampò con licenza della censura; donde si vede quanto larga essa fosse. Per tre mesi niuno si calse dello scritto; ma scortosi lo spirito iniquo di esso, venne da Napoli l’ordine d’arrestar l’Amari; il quale avvertito si fuggi su nave inglese in terra inglese, ov’ebbe moneta, e opportunità di cospirare. Allora il libro, non curato prima, come si leggea con pericolo, fu cerco e lodato; e udivi in quella fratellanza d’Italia, celebrare un libello che dava il bando a un popolo italiano. Gridando Italia, seminavan odio fra italiani e italiani.
In quel tanto si preparavan rivoluzioni da per tutto. A Parigi sul cadere del 1847 inventarono banchetti pubblici, per adunarsi sottospecie d’invocar voti universali nelle elezioni de' deputati. Tutta Europa era mossa la una idea, ma transformata in modi e apparenze diverse; in Italia l’idea Guelfa, in Germania il ritorno all'Inqierio, in Ungheria i dritti di casta, in Francia la democrazia, in Sicilia le borie baronali e odii municipali; tutti anacronismi, menzogne, berte, per mover le passioni. Si volevan ardere le nazioni, perché dalle ceneri la Giovine Europa come Fenice risorgesse.
Per quel vizio che dissi del concentrameli lo era in Sicilia luogotenente un maresciallo Mayo, duca di S. Pietro, stato generale di Gioacchino, uomo di nessuna levatura, tenuto a Palermo per ricevere e trasmetter carte. Incapace di pensiero gagliardo, servì ignaro la fazione e corteggiato da' signori, che spregiandolo laudavanlo per addormentarlo, era bonariamente persuaso non v'esser temenza di niente. Per contrario Pietro Vial, generale comandante la provincia palermitana, e direttore di polizia, astuto e inflessibile, s’era addato per tempo della congiura. Nato a Nizza, giovine servì nel reame, fu colonnello di gendarmi, però uso a scrutar gli animi e le cose, scorta la nimicizia degl’isolani, le segrete adunanze, i libelli, le propaganti accuse a Napoli, gl’incitamenti stranieri, e 'l contemporaneo divampar d’Italia e Francia, previde imminente la sollevazione. Molte fiate né rapportò al ministero in Napoli, ogni dì né tenea proposito al luogotenente, col quale giunse ad acerbi detti; ma i ministri, abbacchiati dalla loro stessa forza, poco volevan credere, e men credeva quel misero Mayo villeggiato da' congiuratori ch’aveva attorno. Non si prese valido provvedimento. I nobili tementi e abbonenti il Vial, fean le lustre di tacciarlo visionario e crudele; e mentre discreditavanlo, affrettavan le mosse.
Eran due uffiziali d’artiglieria, Longo ed Orsini, già educati a spese regie nel collegio militare, i quali tolta a modello la gratitudine di Giuda s’eran gittati nella setta. Avean promesso pigliarsi la batteria del treno nel primo botto della sedizione, però, insieme a un Angelo Gallo fonditore di bronzo e a qualche sottuffiziale, andavan tentando i soldati. Quel Gallo un mese prima era stato fatto cavaliere dal re, e n’avea avuti seimila ducati per incoraggiamento alla fonderia. Sebben procedessero circospetti, pure un sergente aperse al Vial la macchinazione, laonde i congiuratori presi con bandiere e altre prove di reità, fur sottoposti alla Corte criminale. Ecco i nobili, proclamando non colpevoli i carcerati, tanto susurrano nelle orecchie al Mayo che il persuadono quelli esser vittime di calunnia, e presto doversene dichiarare l’innocenza, perlocché quegli sollecitò il giudizio, che ben innocenti li dichiarò. La reità dimostraronla i fatti posteriori, e l’assoluzione de' giudici (se fu in coscienza) mostra come blandamente nel reame si ministrasse giustizia.
Per questo smacco il Vial guadagnò dispregio da' faziosi, e maggiore incredulità da' ministri, i quali sebbene i tempi buttandosi al peggio avverasser la previdenza di lui, pure gli ordinarono non arrestasse più nessuno. Così la congiura impavida andava innanzi; mentre il Mayo bambinescamente né ridea fra' suoi corteggiatori che lui deridevano. Il proposito di fidar cose grandi ad uomini inetti fu lo error capitale degli ultimi anni di Ferdinando. Alla fazione quella giudicata innocenza de' rei valse assai per gridare insopportabile la oppressione militare. Ripresero con più lena i piagnistei; rimpiangere il popolo, accusar la potestà, mettere in vista gli errori del governo, veri o falsi. Certi nobilicchi scorrean quelle insulane provincie, e con discorsi e proclamazioni agitavan gli animi, ridestavan gli odii contro Napoli, incitavano a levar l’arme vendicatrici di supposte ingiurie,sostenitrici d’indipendenza. Spargevano già addoppiarsi le tasse, inciprignirsi la servitù, crescere Tonte, diffamavano gli uffiziali pubblici e col timore e col sospetto in quei sospettosi popoli fean breccia. Non parchi in promesse, chi le ripeteva le aggrandiva. Malta lavorava co' fuorusciti. Impazienti eran già d’indugio, s’aspettava il segnale; e 'l governo credeva sopir tutto coi! la dolcezza. Questa anzi interpretata per timore partorì l’audacia, e affrettò lo scoppio.
Palermo, in antico Panormo, ora città capitale, ha 180 mila abitanti, fabbricata attorno al suo molo ch’è a settentrione. Qui sull’entrata a occidente e Castellammare, cittadella unita alla città, quadrilatero lungo e irregolare, con fievoli bastioni, dominato dal monte Pellegrino. La città ha due vie principali messe ad angolo retto: il Cassero o Toledo di 3400 passi da sud-est a nord-ovest, da palazzo reale ov’è porta nuova a porta felice che dà sul mare; e Via Maqueda a porta S. Antonino. Essa è quasi un quadrato di circa quattro miglia in giro, che quelle due vie parallelamente circoscrive; di cui un lato è la spiaggia, e 'l resto è cinto di mura vecchie bastionate, qua e là cadenti, con sedici porte. Fuori son case di campagna e ampii sobborghi, sulla spiaggia v’ha il castello del molo che serra da una banda il porto; sull’occidente alla campagna è il carcere nuovo a forma d’elisse; e più lungi sulla pianura stanno i quartieri de' Quattroventi.
A oriente è l’orto botanico e la Flora. Palermo ha intorno montagne: di là dal fiume Oreto a oriente e sud-est son quelle di Misilmeli e Gibilrosso, da settentrione, ove è il castello del molo, la costa si stende al capo Gallo, segue il monte Pellegrino; di rincontro è il Curcio, sito sul mare più di tremila piedi. Monreale è a mezzodì.
Come i palermitani sepper le grida fatte a Napoli la sera del 22 novembre, dolenti di esser da altri preceduti, si affrettarono. La sera del 27 al teatro Carolino, a mezzo dell’opera, levaronsi a un botto in piè uomini e donne, e dettero in viva al Re, a Pio IX, all’Italia, e all’indipendenza di Sicilia. Replicaronlo più grossi la dimane alla villa Giulia, pubblico giardino, e posti cartelli a' cantoni con Viva il re, Pio IX e lega italiana rifecero la sera in teatro le cose stesse, aggiungendo la bandiera a tre colori, e la dimanda di Guardia nazionale. Da' palchetti gittaron cartelli così: «Il re ha mandato via il ministro Santangelo, e né ha dato i portafogli a tre galantuomini: Viva il Re! Ha concesso amnistia agli insorti di Messina: Viva il re! Ha cambialo il confessore Gregorino per altro devoto a Pio IX: Viva il Re! Il giorno seguente ridimandarono la guardia nazionale con spedizione firmata da molte migliaia, e già, concedente il Mayo, facevan le liste de' cittadini da armare. Il terzo dì un D. Vito Ragona, prete, in piazza Madrice, fatto popolo, spiegò un vessillo tricolorato, cui pose nelle mani della statua marmorea di S. Rosolia ch’è colà, e fatta una diceria, ripresela, e s’avviò verso S. Isidoro, fra plebe tumultuante. Ma venuti soldati, dopo breve scaramuccia, pittò là bandiera, e s’ascose.
A quei giorni scorazzavan per su le coste vascelli inglesi con entro quelli ch’avean pronti a far gli attori della rivoluzione; e l'apparizione loro qua e là ne’ porti siculi destava sentimenti vivi ed impeti audaci. Pubblica correa la voce d’aiuto brittanno, del mandato Lord Mintho, del prossimo sollevarsi. A Corleone in un banchetto, avvinazzati, detter brindisi alla Gran Brettagna, liberatrice di Sicilia. In una festa a Trapani coronarono un busto di Pio IX, e rifecerlo la dimane sulla piazza della marina. Dopo, a imitazione di Roma, bisbigliato che la plebe volesse far sacco, improvvisarono Guardia nazionale. La potestà incerta non voleva aspreggiare, e la marca faziosa montava su. Passava il dicembre. Sul cominciar dell'anno 1848 venne avanti Palermo una nave inglese, i cittadini correvano a bordo a visitare il capitano, e chi noi trovava vi lasciava il cartellino del nome. E il Mayo squisitamente adulato non montava in sospetto, e scriveva a Napoli Sicilia esser cheta e devota.
Sendo le fila della cospirazione ben tessute in tutta Italia, i Siciliani convennero con Francesco Paolo Bozzelli capo de' liberali napolitani ch'essi primi ribellerebbero, seguiterebbeli il continente. Ed ecco a 9 gennaio proclamazioni affisse sulle mura a Piazza, Termini, Cefalù, Misilmeli, Bagheria e Palermo, nunziano al mondo che sull'alba del 12, al primo rimbombo del cannone festeggiarle il natale del re, comincerebbe l'epoca gloriosa della rigenerazione generale. Palermo accoglierebbe lieta tutti i Siciliani accorrenti a sostenere la causa comune, per istabilir riforme e istituzioni analoghe al progresso, voluto dall'Europa, dall’Italia e da Pio IX. Firmato Il comitato direttore. Cotal nunziare la rivolta tre giorni prima al reggitore è caso unico, ma è anche più singolare che il reggitore si scoperta disfida inghiottisse dormendo.
Si disse: Le guerre, non le rivoluzioni si denunziano; e non si prese rimedio che valesse. Non allestiron sufficienti vettovaglie, non accrebbero i soldati, non fortificarono i bastioni, non pensarono a tener aperte le comunicazioni fra posti di guardia e i quartieri delle milizie, non concepiron disegno d’assai cimento, né di difesa, né di ritratta. Credevano vincere al mostrarsi d’un cavallo. Però da più mesi affaticavan senza pro le soldatesche, accorrenti qua e là, per vie e per campi, ovvero strette nelle caserme o accampate in disagio. Uscita la sfida, fecero cose facili: deporre pochi impiegati, postar sentinelle e pattuglie, e pigliare in casa e mandar di notte in castello undici giovani de' più adocchiati. Furono Amerigo Amari, Francesco Ferrara, Giuseppe Fiorenza, Gioacchino Ondes Reggio, Francesco Paterniti, Paolo Perez, Leopoldo Pizzuto, Emanuele e Giuseppe Sessa, e ’l duca di Villarosa. I caporioni dattorno al Mayo stavan sicuri. Eppur questo poco di rigore qualche mese innanzi avria svaporata la tempesta; ora la provocava senza rimedio.
Erano a Palermo cinque migliaia di soldati, così partiti: il3. dragoni a cavallo sul piano S. Teresa a' Borgognoni, con avamposti agli sbocchi delle vie che danno a palazzo, e uno squadrone sulla strada Monreale. Otte compagnie del 1. granatieri della guardia e il 1. di linea stanziavano al palazzo reale con quattro cannoni e Fanti ausiliarii, con avamposti sulle strade propinque, e a' quartieri S. Giacomo, Noviziato e Papireto. Al banco delle Finanze, oltre la guardia consueta, era ita in fretta quel mattino stesso del 12 senza vettovaglie una compagnia del 2. di linea e tre artiglieri per lanciar granate. Eran presidio a Castellammare il resto del 1. granatieri della guardia, cento artiglieri, e tre compagnie del 2. di linea con avamposti a S. Sebastianiello e a Piedigrotta. Una compagnia di gendarmi a piede custodiva la sua caserma. Ai Quattroventi era mezza batteria da campo, un battaglione del 9., e due del 10. di linea, con avamposti a' capi delle vie adiacenti, e lievi distaccamenti alla Vicaria e al Castelluccio dei molo. Da ultimo stavano a Bagheria e a Monreale due compagnie del 2. di linea per errore 0 sdimenticanza non richiamate in quel gran bisogno di truppe. Adunque le soldatesche stetter partite in quattro luoghi principali, Palazzo, Finanze, Castellammare e Quattroventi, quasi assediate da sè, inabili per poco numero a uscir dalla difesa, con poche munizioni da guerra, pochissime da bocca, e con difficili comunicazioni fra loro.
L’alba del 12 sorgeva cheta. Comparver sulle muraglie cartelli con parole Ordine, Unione. Molti del contado sperano cacciati in città, ma le pattuglie scorserla senza intoppo sino all’ore sedici, quando con poca fatica dissiparono qua e là certi assembramenti. Udendo essersi fatta moltitudine alla Flora e a S. Erasmo, v’andò il capitano Grenel con ventiquattro dragoni e l’alfiere Vial, por Portanuova lungo le mura; e scorse molta gente sulla. strada presso porta S. Antonino; però fattosi avanti solo impose si sciogliessero, e pareva ubbidissero, ma gli trassero colpi di fucile. Allora ei die’ co cavalli su’ rivoltosi, disperseli, e gli inseguì sino all’arco Cutò; dove quelli ricovrati nelle botteghe e nelle case, da usci, da finestre e da cantoni presero a trar loro a salvamano schioppettate non solo, ma altresì pietre e masserizie e quanto lor venisse alle mani. Si commoveva tutta la città. Altri più audaci assalirmi di dietro quei pochi cavalli, e alquanti né ferirono, ond’eglino ebbero a ridar la carica, e a disperderli di nuovo per tornare al quartiere per porta S. Antonino, ad annunziare l’inizio di quella rivoluzione che in breve dovea sconvolgere Italia ed Europa.
Udendosi lo assembramento d'altra gente, il maggiore d'Agostino con due compagnie del 1° di linea e pochi poliziotti, dalle vie Gioiamia e S. Cosmo e Damiano scese per S. Isidoro, trovò a piazza del capo molti armati che investironlo con archibugiate dalla via e dalle case; respintili con le baionette, né prese undici, cui per le vie Montegrande, Candelari, Maqueda e Toledo, senz’altro scontro menò prigioni a Palazzo. Un’altra pattuglia col tenente Armenio avea scacciati i ribelli dalla via S. Antonino; e altra banda era pur dispersa dal capitano Albertis con una compagnia della Guardia sul largo di Casaprofessa. Ma ciò non bastava a ripristinare l'ordine, e occorreva ben altra guerra offensiva che non quella del perlustrar con pattuglie le strade. Nondimeno i faziosi s'erano sgomentati; visti non comparire i nobili, serrarsi in casa i cittadini, non venir gente di fuori, cominciarono a sperdersi, e 'l loro capo Miloro fuggi sul Bulldog, vapore inglese. Un po’ di piglio risoluto avria soffocata la rivoluzione nel nascere.
Ma i generali in consiglio al palazzo reale considerarono la città essersi sollevata dopo lungo preparamento, sorretta da' vascelli inglesi presenti, da quella trafficai rice nazione forniti d'ogni arme, i soldati cadere senza prò, senza veder nemico, schiacciati dall’alto, in impossibile pugna. Quella guerra, se d'offesa, doversi fare investendo i palagi, uccidendo cittadini, forse buoni per rei scambiando; se di difesa, aversi a guardare i quartieri, le caserme e altri posti. Però non osando senza permissione regia cominciare una lotta sterminatrice,statuirono difendersi soltanto;perlocché chiamaron le milizie indietro, postandole ne’ quattro luoghi su notati. Così la rivoluzione ebbe campo d'aggrandirsi.
Avvenne in questa richiamata che riedendo il tenente Maring dalle Quattrocantonate, come mosse i passi fu segno lui e i suoi a grandi colpi, ma con fuochi di ritirata tenne discosto gli aggressori; e 'l tenente Gessaci del 3° dragoni corso col suo drappello a sorreggerlo, ebbe a sormontare parecchi ostacoli per via, e tornò ferito al mento, e ’l suo cavallo e altri sette malconci.
Come per la ritirata delle pattuglie i faziosi imbestialissero non serve a dire; procedettero a imberciare i soldati sin dentro i loro posti. Prima alle Finanze, ov'erano i danari; ma ferite due sentinelle,avendo due risposte, sostarono. Dall'ospedale militare menaron prigioni i malati. Costruirono barricate con botti d'arena tra' palagi Gerace e Belmonte, sul cantone del piano di Bologna; e dietro di esse, e di su le case percussavan duramente le sentinelle. A frenar quella pertinacia, il general Vial mise due cannoni a capo di Toledo, accanto al palazzo vescovile; e traendo a scaglia, tutta la via restò spazzata e deserta.
Il Mayo avria dovuto proclamar lo stato d'assedio, postar soldati agli sbocchi, vietar l’entrata a Palermo, disarmarla e stringere i sollevati alle sole forze loro; invece lasciò la città a sé stessa, anzi in man de' faziosi. Questi pertanto padroni delle vie, non molestati, ripresero animo. Ventisei de' più avventati s’adunarono in piazza Fieravecchia, si costituirono a governo, e provvidero al bisogno della rivoluzione. Furon tra' primi un Bivona, un Giacomo Jacona, e un La Masa tornato quattro dì prima dall'estero. Costoro con lungo codazzo saliron per su le case de' ricchi, invitandoli ad aprir le borse in aiuto. E chi a cotali chieditori facea niego? Ebber larga messe d’arme e danari, tale che poteron pagare l'arme e le munizioni tratte da' navigli inglesi. Sparsero per tutta Sicilia proclamazioni, paragonanti quei primi fatti al famoso Vespro, dicendo santa la causa, promettendo trionfi, incitando città e villaggi a mandar giovani a propugnar la libertà. A sera Viva senza fine, fra stormir di campane, colpi di moschetti, luminarie e orgie. Il luogotenente mandò del fatto le novelle a Napoli col telegrafo del monte Pellegrino, che, reso quest'ultimo uffizio, cadde reciso per man de' ribelli; ma il dispaccio neppur corse, per l’interruzione d’altri telegrafi rotti altrove.
La dimane seguì un fatto atroce. Un sergente Manfredi, ito a recar l’ordine della ritratta a' fanti lasciati nel Commessariato di polizia in piazza S. Domenico, fu presso il bastione degli Stimmati aggredito da uno stuolo d'ambo i sessi, e senza misericordia ucciso e dicollato. Il capo portaronlo per le vie in trionfo. Così i regi che s'eran ritratti per non far guerra sterminatrice pativano lo sterminio. Intanto dal contado accorrevano a torme delinquenti e smasnadieri che s’armavano di moschetti a percussione e polveri inglesi violenti, e s’ordinavano in bande. Asserragliaron le strade, preser le poste su campanili e cupole e case, e aprendo feritoie nelle mura, sollevando le tegole, sbirciando per le finestre, senza mostrar le persone lanciavano a salvamano frotte di palle su’ soldati, ove né scorgevano. Primi investiti i Commessariati di polizia, il quartiere Noviziato,le Finanze e i Tribunali; ma per la buon i difesa e pe' cannoni di Castellammare e di Palazzo si ritrassero. Osarono a sera aggredire Castellammare; ma quel colonnello Samuele Gross sì colla mitraglia li salutò,che mai più non s’avventurarono a tornare. Sull'ore 21 aveano assalita la caserma de' gendarmi da certe finestre superiori, sicché i soldati si rifugiaron nel forte; ma il Gross loro impose di ripigliare il luogo; e fecerlo, sebben per via da archibugiate, e da masserizie dall'alto percossi. Mandò altresì una compagnia del 2 di linea alle Finanze, ov'era difetto di munizioni da bocca e da fuoco. L’una e l'altra cosa sorrette da' cannoni del forte si compierono bravamente; i gendarmi ripresero la caserma, e i fanti con le munizioni si congiunsero nelle Finanze a' compagni, che sendo in mal punto li accolser con festa, come liberatori.
Risposero fra' primi alla chiamata rivoluzionaria due delinquenti, già per misfatti condannati, Salvatore Miceli e Giuseppe Scordato. Il primo, radunati molti ribaldi a Monreale sua patria, osò affrontare lo squadrone di cavalli sulla via che mena a Palermo, ma alla prima sbaragliato da quel maggiore Zimmerman, lasciò alquanti morti, e di fretta die’ addietro. Invece assalse il fievole presidio dimenticato a Monreale col capitano Pronio; e dopo micidiale zuffa sopraffattolo col numero, fe’ prigioni i superstiti. spenti i più. Parimente lo Scordato con altra banda alla Bagheria superò l'altro colà obbliato capitano Corion. Eppure questi due banditi ebbero la magnanimità di menar vivi i prigionieri a Palermo, dove entrarono come in trionfo e presero quasi il capitanato.
Il Comitato la mattina del 14, unito il municipio, fe creare altri quattro comitati: uno di senatori e decurioni con presidente il pretore, per l’annona; uno per la guerra e pubblica sicurezza, presidente il principe di Pantelleria, vecchio ribelle del 1812 e 1820; altro per adunar danari, presidente il marchese Rudini; e il quarto per divulgar le notizie degli avvenimenti, cui misero a capo (così volente l’Inglese) il retro ammiraglio Ruggiero Settimo. In questo fu il nerbo della rivoluzione; ché l’inventar novelle e ’l mandarle pel mondo riuscì forza maggiore de' cannoni. Si trovò in questi quattro fuso il comitato della Fieravecchia, pur rimasto a posto pe' provvedimenti urgenti della giornata. Di tutti anima il Settimo. Onesti nel 1812 ubbidiente al Bentink fu ministro di marina, nel 20 ribellò di nuovo, poi si pentì, e venne graziato da Ferdinando. Nell'anno 1816 sendo ito a Palermo il re, ei gli si gittò a' piedi, e perché misero e bisognoso ebbe largita grossa pensione, di che mostrandosi riconoscentissimo stette quei di sempre nel regio cortile, pronto a servire ogni regio servitore. Ora, vecchio e anche di mente fiacco, la setta rimetteva su questo ingrato, per aver un nome da martire cui dar rimbombo. Fecerlo indi a poco presidente del comitato generale, che strinse in mano tutta la potestà, ma gli stelle di costa un Mariano Stabile, che veramente moveva il tutto.
Le soldatesche ridotte con mal consiglio a sola difesa, erano in fatiche e perigli, sia per respingere assalti, sia per uscir fuori ogni dì a comunicare co' posti spartiti; dove per via bersagliate da invisibili nemici postati ad aspettarle, pativan morti e ferite invendicate; ma questi sanguinosi tragitti erano necessità per recare il nane a' compagni. Così fecesi una gita al Noviziato, quartiere del 1. di linea, ove eran solo cent’uomini in continua pugna, impacciati fra le famiglie del reggimento. V’andò la settima compagnia di quel corpo, e né trasse a Palazzo le donne e i fanciulli, tra le consuete schioppettate; ma i soldati già a tai saluti assuefatti, solo acceleravano il passo, per dar meno bersaglio di se.
Ad arrenare cotante aggressioni il luogotenente ingiunse al governatore di Castellammare che al segnale d’una bandiera legata sulla reggia lanciasse qualche bomba per le contrade combattute, per contenere gli assalitori; perlocché al mattino del 15, come la tromba delle Finanze squillò per soccorso, e s’alzò il segnale, il Gross scagliò da quella parte certe bombe da otto che atterrirono i ribelli; e ancorché fosse prescritto si traessero ogni cinque minuti, pure tardavan di mezz’ora. Il rimedio faceva frutto; perché quei del contado usi a colpire riparali, non trovando il coperto dalle bombe, pigliavan la via di casa, né per quanto s’avesser promesse volean restare. Allora i capi, corsero per protezione agl’Inglesi contro quelle bombe malvage.
Il comandante del Bulldog ancorato nel porto rappresentò al Mayo ed al Gross come il bombardare fosse barbarie. Poi fatto unire il corpo consolare, protestò in nome d’Europa, affinché in tutti i casi si risparmiasse quell’orrore, ch’avrebbe meritato l’esecrazione del mondo civile. Il Mayo accedette a sospendere per ventiquattr’ore, poi per ordine da Napoli sostò affatto. Non però sostarono le offese de' ribelli: i quali sentendosi patrocinati dall’Europa rialzaron le creste. Né protezione solo, avevano aiuto. Da Malta impunemente con bandiera brittanna venivan arme, vendute a sì basso prezzo, che si vedeva con la vendita mascherato il dono, tal altra il dona era netto; e l’ammiraglio Parker forniva lettere cambiali su Londra al Comitato, di che facevan pompa i giornali siculi; e nunziavan anco che qualche uffiziale inglese offerisse tutte le munizioni del suo vascello. Assicurati dalle bombe, si riposer dietro le finestre da bravi, rigettarono l’armestizio proposto vergognosamente dal Mayo, e senza rischio tutto il dì si spassavano a imberciare dall’alto i soldati. Vidersi uffiziali inglesi vestiti da paesani a dirigere i ribelli, e indicare i modi e i luoghi da offesa e da difesa. Nulladimeno per le non lanciate bombe la setta tassò Ferdinando di re bombardatore il ferir di dietro i muri guadagnò nome d'eroica a Palermo, e lo star per ubbidienza di bersaglio a nemici ascosi fruttò nome di codardi a' soldati regnicoli. La rivoluzione capovolge il senso delle parole. Ma Dio preparava i giorni rovesciatori delle menzogne; e permetteva che tutte città e provincie andassero in balia di quei baldanzosi, perché con più onore si ripigliasser poi a forza da quello stesso esercito, sì abbiettamente calunniato e vilipeso.
Non prima della sera del 13 col Vesuvio, nave a vapore, era giunta in Napoli la nuova della rivoluzione scoppiata. Ecco nella città subuglio di pensieri e speranze, e gran vociare alla svelata, in barba alla polizia. Ne’ consigli di stato, ov’eran pur dappochi e malfidi, prevalsero partiti mezzani, cioè gagliardi in vista, fievoli in fatto, mandar forti soldatesche e dubbio duce. Era allora maresciallo di campo Roberto De Sauget, stato nel 1820 capo dello stato maggiore di Florestano Pepe che prese Palermo; uomo protetto dal general Filangieri. Una segreta propaganda avea sempre designato costui fra' migliori; non fe’ mai nulla di grande, ma si dicea che farebbe; però Ferdinando s’indusse a mandare questo Achille. Al mattino del 14, allestiti nove legni da guerra comandati dal conte d'Aquila fratello del re, su vi montarono alacremente otto battaglioni di fanti, e due batterie da campo; testimone tutta la città; molti accorsi per curiosità, altri a disegno, speranti cogliere il destro da dar grida faziose a scoramento del governo e de' soldati; ma vistisi pochissimi, non osarono levar una voce. L'armata salpò la notte.
Al de Sauget eran date queste istruzioni: Disbarcare ove credesse conveniente; prendere il comando supremo del Parme in tutta l'isola, con potestà senza limite; fortificare e guarnir d’armati il forte di Termini, cui potrebbe prendere a base d’operazioni; spegner presto e con energia la ribellione in Palermo, poi campeggiar sul l’altro parti di Sicilia che (’imitassero; procedere contro i tristi, incoraggiare i buoni, rispettare la proprietà, essere sendo all’ordine, fiaccar l'anarchia. Nulla ei fece.
Non era fermato luogo da sbarcare, perché ciò la condizione delle cose dovea determinare; ma designato gli era Termini come base d’operazioni, perché di là terrebbe da manca alla città le relazioni esterne e l’acqua e le vettovaglie. Ov’egli dunque avesse preso terra sulla spiaggia di Solatilo, avria messo Palermo in mezzo Ira esso e l’altro soldatesche stanziate a' Quattroventi e a palazzo; e, chiuso dalle navi il mare, senza sforzo l’avria fatta cadere. Egli per contrario, arrivato la sera del 15, scendeva al molo, posava a' Quattroventi. All’aurora rassegnò sue genti; crebbe le munizioni da bocca, traendole dalle fregate, afforzò gli avamposti, e dispose, come era già stato ordinato, d’aprire il transito interrotto col reale palazzo. V’andò il brigadiere Nicoletti con quattro battaglioni di cacciatori e quattro cannoni; il quale prese sulla via un luogo detto Villa Filippina, vi lasciò un battaglione, e un altro al piano S. Oliva propinquo; e andò a palazzo a dare al Alavo le lettere del maresciallo, nunziatrici del suo arrivo, e chiederli ordini. Perché il De Sauget non prese la suprema potestà come gli era prescritto? perché si metteva sotto il comando del Mayo? Questi pertanto ignaro ritenne il capitanato, e chiese due battaglioni d’ausilio. Ben vi potevan rimanere i due recati dal Nicoletti; ma costui stimò tornarsene con essi la stessa sera a' Quattroventi latore di tal richiesta. Per via sostenne colpi alle porte Maqueda, Carini e d’Ossuna, e ripigliò il battaglione lasciato a S. Oliva. Fu mandato alla reggia il brigadiere Del Giudice (uffiziale del 1820) co' battaglioni 5. e 6. cacciatori, la notte del 17; ed ci passando per Villa Filippina, scortovi notato dal nemico il battaglione messo là dal Nicoletti, come se il soldato non fosse fatto per combattere, il mandò indietro a' Quattroventi, abbandonando il conquistato luogo, e lasciando di nuovo le comunicazioni interrotte. Alla reggia inoltre vennero anche altri due battaglioni il L e il 7. cacciatori. Così si camminò molto, e non si fe' niente.
Il De Sauget avea, compresa la guarnigione, diciotto battaglioni di fanti, il terzo reggimento dragoni a cavallo, molti gendarmi, trentadue cannoni mobili, oltre quelli di Palazzo, del Moloc Castellammare, e una flotta con ogni maniera di munizioni. Avria potuto conquistare tutta Sicilia costituita, non che poche bande a massa nelle strade palermitane. Infatti al suo primo apparire i sollevati allibirono; chi s’ascondeva, chi avea masserizie le fuggia, chi alle campagne, chi a navi inglesi cercava rifugio: tutti imprecavano a' confratelli congiurati di Napoli, che mancato alle promesse, rimasti cheti, avean lasciato quel nerbo di milizia venir sopra l’isola. Ricordavano i seimila venuti nel 1820 aver vinto in pochi dì, e allora le fortezze eran con la rivoluzione, ora senza fortezze, già si tenevano spacciati. Sparì il comitato della Fieravecchia, restarono appena dugento armati; i più che s’eran mostri pigliarono il mare; la città muta, deserta aspettava la legge, e l’entrata dei Regi.
Ma il De Sauget era venuto, non a vincere, a farsi vincere. Stettesi inoperoso a' Quattroventi, quasi mandatovi ad alloggio, per affamare i soldati, stancarli con marce vane, affralirli per fatiche senza pro, scoraggiarli per ferite invendicate; non tenne le comunicazioni con gli altri posti, non vietò quella di Palermo col resto dell’isola, non ruppe gli acquedotti, non prese i mulini, tutto lasciò intatto al nemico, tutto fe’ togliere a' suoi. Restò là in vile ozio inchiodato. I Siciliani tosto si rincuorarono; e perché sicuri di lui, e perché il coraggio va e viene all’inversa di quel che mostra l’avversario.
E, senza aver pugnato, egli il 16 rapportava al re: terribile esser quella guerra, ogni siepe, ogni muro vomitar la morte; i ribelli sublimati, protetti da forti nazioni, forniti d’ogni arma, e d’ogni cosa, aver mortifere spingarde, appalesar pertinace nimistà non mostrata nel 1820; i soldati combatter valentemente, ma soli, privi in paese ostile d’ogni novella del mondo, non aver legna da scaldarsi; non paglia da giaciglio, non vitto buono, non acqua, non sigari, non tabacco, solo un po’ di vino nel borgo e col sangue condito, però scoraggiati alquanto; non bastare il bombardamento, riuscir d’orrore alle nazioni, più inacerbir gli animi, tutta Sicilia star sulle mosse; egli stai male fuori, peggio il Mayo dentro; non poter comunicare, mancar le munizioni, le cose ogni dì cader più, vano ogni sforzo, assolutamente non potersi vincere. A’ dì seguenti riconfermò con più neri colori i rapporti stessi, esagerando le forze avverse: spingarde, cannoni, mine, barricate, aiuti inglesi; e invocava clemenza e concessioni, come unico modo di salvezza; con queste il re muterebbe la trista condizione delle cose. Non aveva ubbidito all’ordine d’operare con vigoria, e scriveva come fosse stato sconfitto.
Frattanto i capi ribelli ridiscesi da' legni britanni cantavan vittoria, ripigliavan le già nascoste arme, ripopolavan le strade, e rinvestirono il palazzo, i quartieri, e sin gli avamposti. Saccheggiarono il quartiere di Santa Zita, donde si ritrassero le truppe; arsero il magazzino di vettovaglie a Porta di Castro, ruppero gli acquedotti a' Regi, e molte vettovaglie venute da Napoli e mandate a Palazzo senza forte scorta si pigliavano. I nostri traditori favorivanli con ravvisarli e farli vincere. Il De Sauget per mostrar di fare qualcosa, mandò a' 18 una brigata col Nicoletti a fare una passeggiata senza più; dove la gente periva senza scopo, e vi fu ferito il maggiore Viglia; ritornarono pugnando a retroguardia sino a notte. Il 19 si ribellò Termini; e come era minacciato quel castello, ei non potè più trattenere gli ordini ricevuti, e bisognò vi mandasse la corvetta Miseno con due compagnie di fanti, una per restare, altra per proteggere lo sbarco, che di fatto fecesi combattendo. Tuttodì scaramucce moleste. A Palazzo non avean pane, né ve n’era a' Quattro venti; invece di pigliarlo dal paese aperto al valore, traevanlo dalla flotta. Ogni dì si aveva a recar lettere e munizioni a' posti in città, e battagliare con nemici non visti, bravi a colpire. E se fuori con periglio, dentro con disagio: poco sonno, poco vitto. miseri giacigli, stagione piovosa, col crudo freddo, stretti l’un sull’altro. con leciti, infermi, donne e fanciulli, patendo vergogna per comandata inazione. Il soldato fremeva, pensava male, e sospettava peggio. Il Mayo. avvilito, scrisse il pretore di Palermo trattasse una convenzione; ebbe risposto si volgesse al comitato.
Il conte d’Aquila tornato a Napoli la sera del 47, recava i primi due rapporti del de Sauget; cosicché il Consiglio dove già s’eran ficcati settarii, invece di mutare il generale, calò a concessioni. Vincitore concedere è grandezza, concedere per non pugnare è viltà, è sconfitta volontaria. Al mattino del 18 stamparono quattro decreti: accrescimento d'attribuzioni alla consulta e a' consigli provinciali, libera elezione di decurioni, a questi facoltà deliberative, a' sindaci le esecutive, durata temporanea alle cariche di cancellieri comunali, abrogato il decreto del 31 ottobre 1837, sciolta la promiscuità d’impieghi fra Napoli e Sicilia, a questa lasciato il suo civil governo, larghezza di stampa, consultori di dritto, luogotenenza del conte d’Aquila, e amnistia piena.
Ferdinando avea acceduto per non far sangue, ma era persuaso quelle concessioni non partorirebbero bene al paese: vedevale sospirate da' malcontenti, si pensava aver dato assai. Veramente come furon divulgate a Palermo i popolani e i moderati cittadini gridaron Pace! Pace! Ma chi voleva iniziata colà la rivoluzione sociale europea né rideva: il comitato gl0riosamente diè il famoso motto, ripetuto poi sempre; È troppo tardi! In contrario formulava proposte, cui non sapeva non poter allora essere accolte; e dichiarava: La Sicilia aver preso l’arme per rivendicare la costituzione dei 1812. E rimandò indietro il capitano Trigona, senza neppur concedere una tregua. Il De Sauget mandò i decreti al Settimo, ne ebbe risposta, onde scrisse al re le più codarde lettere che mai comandante d’esercito scrivesse. Inoltre dimandò un colloquio su nave inglese con certi del comitato, e v’andò, e né tornò dicendo non aver potuto ottener niente. Combattendo avrebbe imposta la legge, per ubbidienza alla setta si fingeva vinto. Dopo ciò i ribelli trasuperbi crebbero l’audacia e l'offese, ché l’uomo in prosperità più t’ingegni a contentarlo, e più rilutta.
Dissi gli uffiziali Orsini e Longo imputati di fellonia restare assoluti. Stavan guardati fuor di Palermo in un luogo detto La quinta casa, e sin dal 10 gennaio era ito l’ordine del liberarli, rimasto ineseguito per la sopravvenuta rivoluzione. Il ministero ora chiamavali a Napoli, e ne fidava l’esecuzione al De Sauget, zio del Longo. Ei li convitò a mensa, e liberi (disse sulla parola) li mandò per montare sul battello, pronto a salpare. Che fanno? scansan la nave regia, ascendono ad una inglese, e là mutate vesti entrano per porta felice in città, accolti con baci e abbracciamenti. Vantati innocenti, assoluti per innocenti, piagnucolati per ingiustizia, ora che potean darne le prove, disertano alla rivoluzione, educati a regie spese nel collegio militare, corrono a sperimentare la imparata scienza contro il re e i proprii commilitoni, a puntar cannoni contro le patrie bandiere. Svelano quel che han visto e pensato delle male condizioni dell'esercito, incuorano i faziosi, son fatti colonnelli, e i giornali additanti come eroi, come modelli d’ogni anima liberale. Il De Sauget disse di aver errato per bontà di cuore.
Co’ decreti eran venuti ordini al generale ch'ove non s'accogliesser le concessioni, bloccasse la città sì da averla per fame, e caso neppur ciò si potesse, cavasse l’artiglierie dalla reggia e dal molo, mandasse i danari del banco a Messina, imbarcasse per Napoli i cannoni, le donne, i fanciulli e i feriti, e con l’esercito si ritraesse a Messina, e rafforzasse per via Termini, Trapani e Melazzo. Egli a niente ubbidì. Spedì un’altra compagnia a Termini, dove i soldati tenner fermo, sinché bastò il pane; e standosi a' Quattroventi a marcire, mandava tratto tratto qualche battaglione per comunicar con la reggia: non bloccò Palermo, non tolse il danaro dal banco; e scrisse non esservi più che trentamila ducati del Tesoro il resto esser di privati, difficile il prenderlo, riuscendo s’avrebbe taccia d’assassini. E per guadagnar tempo chiese altri soldati, ché andrebbe avanti. Il ministro Garzia con lettere del 24 e 26 gennaio gravemente il garrì delle sue inubbidìenze; gli inculcava riparare al suo e all'onore de' soldati, vano il mandargliene altri dopo il mal uso fatto de' molti ch’aveva, nel banco non trentamila, trecentomila ducati starvi di credito napolitano, e altrettanti e più de' banchi di Napoli per sue polizze cambiate in terraferma, i privati averne tratti i danari loro, il tutto appartenere allo stato, subito manderebbe uffiziali a verificarlo; incontanente ubbidisse, non lasciasse ai ribelli la moneta. Ma appunto alla rivoluzione ei la volle lasciare. Al ministro non rispose mai, né mai gli ubbidì; al re solo scriveva inabissando le condizioni dell’esercito, esaltando i contrarii, consigliando maggiori concessioni di stampa, Guardia Civica, e altro, che benché noi nominasse s’intendeva Costituzione. Da ultimo pregavalo impetrasse l’intervento straniero; e fate presto, conchiudeva, o non saremo più a tempo.
Intanto si versava sangue umano. I disertori Longo e Orsini, avuto cannoni inglesi, ne postaron due sul bastione Montalto, contro la batteria regia a porta di Castro, due men grandi avanti i cancelli delle Finanze, e altrettanti a sfondar le porte del Noviziato. Deviaron l’acqua al palazzo, arser la paglia al fornitore de' foraggi, e vietarono ogni passaggio di frumento. I Regi che dovevano assediare e affamare la città, restarono per volontà del duce assediati e affamati essi. Come i luoghi circostanti al palazzo dominati da edifizii alti pativano offese, il Vial vide la necessità di farsene padrone; mandò il maggiore Ascenso Spadafora ad assalire il convento de' Benedettini, e l’ebbe a forza, dopo duro contrasto ed uccisione. Metteva una guardia sull'ospedale civico incontro al palazzo; e udito i nemici entrati nella badia di S. Elisabetta, espulse le suore, e stormeggiarvi con l’arme, incontanente v’accorse; i faziosi fuggirono per un foro aperto dietro l'edifizio, ed ei v’acconciò i suoi. Fu occupato anche il palazzo arcivescovile. In quell’ospedale civico eran malati i siciliani, eppure il comitato si negò a mandar loro il vitto; perchè voleva, e il manifestò, i malati ribellassero, e scacciassero i soldati, però questi, patendo carestia, spartirono il loro pane con gl'infermi; e per recarvelo ogni dì eran percossi da palle siciliane.
Sul mezzodì del 20 una masnada scesa da Monreale e Bagaria inondava improvvisamente con empito di moltitudine le caserme a' Borgognoni e Vittoria; i cui soldati assottigliati pe' molti sbocchi di strade ch’avevano a guardare non poterono impedirlo; nondimeno il capitano Russo de dragoni tenne fermo innanzi alla casa Cesarò sino alle ore ventuno: quando giunto il brigadiere Pronto con fanti, cavalli e un cannone, fugò gli assalitori. Costoro ch'avean piegalo su’ fianchi si ricongiunsero alle spalle de' soldati, e feronli rinculare sino all'albergo dei poveri; ma qui serrati in massa caricarono gagliardamente e più volle quella ribaldaglia, e molti uccisene, il resto da ogni banda discacciarono. Questa prova persuase i ribelli a non più ito campo aperto risicarsi; e ripigliarono il vezzo consueto dello sparare di dietro a usci e tetti.
Divisarono pigliare il Noviziato, perché di qua al grosso edilizio del comando generale, e quindi alla caserma di S. Giacomo, avrebbe dominato certi bastioni della reggia. Cento uomini difendevanlo, e,sebben con molto bagagliame e famiglie, avean tenuto fermo. I ribelli venuti in forza poser fuoco alla porta carrese e alla sagrestia, e mentre l’incendio strideva e minava la casa del parroco, si cacciaron dentro; ma accorsi i soldati, con granate a mano li respinsero. La dimane tornarono, e anche con la peggio. Se non che i regi considerata la difficoltà de' soccorsi, e ’l quartiere da cinque bande aperto incapace di difesa, avendo già molti giorni di zuffe sostenuti, la sera del 23 si ritirarono in ordine, benché con dirotta pioggia; e col bagaglio e le donne ricovrarono a S. Giacomo. I nemici entrarono al mattino senza guerra, e saccheggiarono sì ingordi, che rapita ogni cosa, strappare anco le catene di ferro alle muraglie, onde crollarono. E ’l comitato stampava il popolo aver preso il Noviziato d’assalto.
I Borboniani allora postarono cannoni da montagna sul Papireto, fecero saettiere e parapetti a' balconi del Comando generale, e levarmi barriere su’ luoghi minacciati, ma gli avversarii dalle finestre alte del Noviziato e da altre case con boccacci e artiglierie minute battevano i bastioni; e dal campanile dell'arcivascovado imberciavano i soldati sin dentro il quartiere S. Giacomo. Sul cader del 23 s’apron l’adito nell'ospedale civico. Investono una porta, sfondanla, ardono un andito di legno, ma incalzati con la bajonetta in canna indietreggiano. Intanto la fiamma alta piglia l'edifizio, e vedi spaventevoli scene. Storpi, malati, moribondi nudi perle letta gridar misericordia, rotolarsi a piè de' soldati, e invocar salvezza dalla terribile morte; e quelli a combattere, a strascinar quei miseri in salvo, a difendere i passi, ad accorrere a' più minacciati siti. In fra ’l fragore seguiva altro assalimento silenzioso, per un foro aperto nel muro dell'infermeria de' Cappuccini. Tra due offese, tra ’l fumo, le tenebre e lo schioppettio, non potettero durare; e si ritrassero percossi da ascosi feritori che decimavanli sino al Palazzo; donde il cannone affrettando gli avversarii tuonò sino a notte, e celò la strage di quel giorno. Perduto l’ospedale, era vano tenere la badia di S. Elisabetta, e quel di stesso fu abbandonata; sicché tutte quelle milizie si strinsero nel Palazzo, ove mancava l’acqua e ’l frumento.
Allora lo sforzo della rivoluzione si volse alle Finanze ov’era il danaro, quasi tutto come ho detto del tesoro napolitano, per crediti, e per rivaluto di polizze palermitane riscosse in Napoli. Il De Sauget, non ostante gli ordini reiterati di porlo in salvo, e sebbene il maggiore Milon che là comandava né chiedesse allo l’esecuzione, mai non volle, pertinacissimo a mandar tutto a male. Impertanto i faziosi attratti dalla moneta, colà notte e di combattevan grossi; ma il Milon come cresceva il pericolo dava nelle trombe, e l’artiglieria di Castellammare spazzava gli aggressori; i quali non potendo altro poser fuoco alla caserma de' gendarmi propinqua, e cosi questi costrinsero a entrar nelle Finanze. Quindi più stremo d’alimenti, più dubbio e risicoso il soccorso. La sera del 25, dopo reiterale inchieste del Gross, vi fu mandato il maggiore Ritucci, con quattro compagnie del 2. cacciatori; che trovò duro intoppo a porta Carbone, dove esso ferito ebbe a cedere il comando all’aiutante maggiore Asturi; il quale superato il passo, fra la grandine de' colpi entrò nelle Finanze. Sprecato così sangue indarno, il De Sauget richiamavalo a' Quattroventi, e si versò altro sangue per tornare. Nondimeno il Milon, restato con le forze di prima, stettevi bravamente; e anche dopo il 26, quando tutti i regi avean lasciata la città, e ’l comitato gl’intimava la resa, sebbene isolato e senza speranza, rispondeva: aver debito di combattere, non facoltà di patteggiare.
Da Napoli intanto sin dal 24 veniva notificato al De Sauget (e si replicava il 26) che non avendo ei fatto suo debito per ridurre a ubbidienza la città, l’evacuasse. Di ciò ebbe avviso, né soda chi, il comitato, il quale die’ una proclamazione a' Siciliani: «Palermo aver cominciato, altre città seguito l’esempio e mandato soccorsi, tutti giurar di morire per la libertà. Le condizioni europee, il levarsi di tutti gl’Italiani, la nazionale concordia esser l’occasione sospirata tant’anni per uscire di schiavitù. Tutte città ribellassero, prendessero i più reputati cittadini il maneggio della cosa pubblica, provvedessero alla sicurezza, alla moderazione dopo la vittoria, facessero provvisorii comitati, e corrispondessero col comitato generale a Palermo, per render una e grande la siciliana sollevazione.» E mentre della comandata ritratta erano scienti i nemici, i Regi in Palazzo Pignoravano. Il Mayo chiama a consiglio generali e colonnelli: considerano esser cinti da ogni banda, mancar vettovaglie per uomini e cavalli, stanchi i soldati per veglie e disagi, fra intemperie, zuffe e digiuni, perduto il Noviziato, l’ospedale, S. Elisabetta, difficile lo arrivo de' viveri, indarno chiestine a' Quattroventi, solo aver contrastato allo sforzo di popolosa città e di tutta Sicilia; scemare i soldati, crescere i nemici; nimistà crudele d’Inghilterra; arme porte a' ribelli, tanto patrocinio forza morale; tutte cose contrarie sì da far vana qualsiasi difesa. Unanimi statuiscono abbandonare il palazzo.
Ver la mezza notte il luogotenente aduna le soldatesche nel cortile, le divide con poca buona tattica, e rimane alquante famiglie di militari col palermitano maggiore Ascenso, che trattasse la resa del luogo. A passo di marcia, i generali avanti, vanno per Colonnarotta, Zisa, Olivuzza, e Croce Vicaria; e perché questa via lunga e tortuosa, avendola retta e breve? portan bagagli, cannoni, malati, donne e fanciulli. Debito saria stato del De Sauget uscir con battaglioni a provocar altrove l'attenzione del nemico; ma questi sciente della partenza, mentre egli poltriva ignaro, si mette grosso al varco, cioè postato sulle case, lungo le vie Olivuzza e Zisa. Passa incolume (e fu poi molto notato) l’avanguardia comandata dal brigadiere Del Giudice, uomo del 1820 dimesso e grazialo; ma ecco grandinare schioppettate infinite sulle colonne vegnenti in massa, in cui non si fallava colpo. I Siciliani belli e freschi, seduti, riparati, senza pietà, caricano e scaricano l’armi, sicuri uccidendo; il buio, i carriaggi, le strida de' bambini e delle donne, le strade sprofondate, fangose, rotte, la impossibile difesa da' codardi colpi, le morti, le ferite numerose e invendicate, fan terribile il passo. Quand’ccco il cader percossi due muli attaccati a un cannone sbarrando la via, cresce il periglio e lo scompiglio. I sopravvegnenti hanno a sostare, e spinti da tergo fan ressa, e diventan più folto e fermo bersaglio agl’implacabili percussori. Muoion soldati, donne, bambini in collo alle madri, zitelle trapassate il petto cadon rimorso su’ carri; chi pe sto, chi dalle ruote schiacciato; chi a scostare il cannone, chi a trar da canto i morti, chi a raccorrò i caduti, chi a gettar via masserizie e ad allocare i feriti; capitani a incuorare, a ordinare, a sollecitar come meglio si possa. Laceri, sanguinosi, giungono a' Quattroventi, con perduti due cannoni e ’l danno e l’onta.
L’alba del 26 vide la bandiera della Giovine Italia sull’antica dimora de' re. Né il maggiore Ascenso ebbe campo da capitolare, soverchiato con impeto di moltitudine. Ecco il saccheggio: tappezzerie, porcellane, arazzi, specchi, bronzi, cristalli, tappeti, mobili ricchi e antichi, rapiti, strappati a brani; guasti i musaici pregiati della cappella, devastato il palazzo, spoglio pur delle porte e de' mattoni. Depredano il ricco monetiere antico con più ingordigia, ché barattano le medaglie là stesso a uffiziali inglesi vestiti da paesani, a quelle ruine presenti e incitanti. Due capre di bronzo, greco lavoro, state già sul tempio di Minerva in Siracusa antica, rispettate da' Saracini, messe colà da Carlo III, una andò alla vandala fatta a pezzi a colpi di scure; e quei prodi bisticciavansi fra loro pe' minuzzoli, da venderli agli Inglesi, ghiotti pur di frantumi; l’altra men guasta, potè poi esser raccozzata e riposta a luogo, ma con un piè manco, ad aspettarvi consimil fato nel 1860.
Non prima di quel dì il De Sauget manifestava esser egli al Mayo succeduto; però questi e 'l Vial incontanente partirò per Napoli. Il comitato, tenendo la città tutta, intimava la resa alle Finanze; e negandosi il Milon si volse al Gross comandante di Castellammare, dal quale il Milon avea dipendenza. S’eran lanciate poche bombe a frenar gli aggressori, e già gl’Inglesi n’avean rinnovate le umanitarie rimostranze, e cominciate pratiche per far cedere le Finanze con la guarentigia brittanna; al che il De Sauget stantesi immobile avea subito acconsentito. Si fermarono i patti; ma l’ordine della cessione non giunse in punto; perché nella inazione della tregua, i popolani gridando Pace, Pace! e sendo l’ora bruna, e intiepidita la vigilanza, si cacciaron dentro senza guerra. Il comitato trattandosi di moneta seppe impedire il sacco, ancora che non sapesse impedire qualche assassinio di soldato inerme. Questo il 26. Così il danaro napolitano andò a pagare la rivoluzione.
Unite a' Quattroventi tutte forze, il De Sauget con l’esercito gagliardo poteva gagliardamente operare, assediando la città da mare e da terra; questo voleva il suo onore e l’onor della bandiera, ma egli avea falla tanti anni la parte d'uomo saputo, appunto per far quella di scemo a questo tempo. Stettesi con l’arme al braccio a veder lo scempio de' suoi fratelli d’arme; poi il 26 spiccò un uffiziale a Napoli, dicendo caduto lo scopo della sua impresa, aspettar ordini sul da fare. La sera del 27 si fece aggredire sin dentro il campo; ma i soldati frementi discacciarono e inseguirono gli assalitori sino alle porte di Palermo.
L’ordine di ritrarsi a Messina già l’avea, ma ei facea le lustre di dubitare se andar per mare o per terrai per mare temea guerra nell'atto dell’imbarco; farlo in due volte crede a pericolo, in una difficile; per terra vedea lunga la via, tra paesi commossi, e pronti a ribellione. Eran lustre, perché sicuro era lo imbarcarsi, protetto a dritta dall'edilizio delle prigioni, a manca da' forti del molo, col mar libero e la flotta a fronte, che a un menomo comparir de' ribelli li avria fulminati. Ma egli anche nel fuggire ebbe a mettersi l’onore sotto i piè, e aiutar la rivoluzione con non credibile viltà. Propose pel mezzo del commodoro Lusington inglese di cedere i forti del molo e Castellammare, a patto fosse lasciato imbarcare senza molestia; e 'l comitato gli rispose altiero con tre condizioni: lasciare tutti i prigionieri per ragion di stato, dar le carceri e i galeotti a guardia del popolo, e cedere Castellammare in punto d’armatura. Egli aderì a tutto, fuorché a quest’ultima; perché il Gross, giusta la legge, volea l’ordine di pugno del re; ed i Siciliani invaniti per quel vedersi supplicare di cosa che non avrebbero potuto impedire, credettero col duro ottener tutto, e ruppero il trattato.
Il maresciallo s’aonestò chiamando consiglio di generali, cui fe’ giudicar pericoloso porsi in mare presente il nemico, e più avendosi a lare in due volle per difetto di navigli. Le navi come si vide potean bastare a uno imbarco. Dissero più onorevole alla bandiera l’aprirsi il passo a Messina. Ed egli senza aspettare il ritorno dell'uffiziale spedito a Napoli, mosse il campo incontanente, senza bisogno. Disarmò il molo e la Lanterna, bruciò gli affusti, inchiodò i cannoni; mise ne’ legni le donne, i fanciulli, i malati e i feriti, e ritrasse le guardie custoditrici de' galeotti. Sull’ore sei della notte dopo il 27, unì le schiere al piano della consolazione, quasi diecimil’uomini; die’ l’avanzata al Nicoletti, il mezzo al Del Giudice, la retroguardia al Pronio. I soldati silenti ed in ordine mossero per S. Paolo e Braida. Avean di qualche guida; in ispezialtà un borghese fornito da un gentiluomo di Palermo, cui poi seppesi essere il boia: ultimo scorno. Così l’esercito onorato fu da disonorato duce sottomesso ad avere il carnefice per guida. Il carceriere de' Quattroventi, vistosi solo e minacciato, aprì le porte; i detenuti liberi appena, corsero alla Vicaria, e liberarono i compagni, il che die’ altro campo alle sette da sfringuellare: i Regi avere scatenato i galeotti per far saccheggiare Palermo. Menzogna da far numero coll'altre. Dodici anni dopo fu il liberatore Garibaldi che quelle stesse carceri aperse, e armò i galeotti per far l’Italia una.
Di tal ritratta ogni militare biasimò il condottiero, per esser ito cercando rischi senza pro in contrade sollevate, quand’era sicuro per mare; e ad ogni modo avria dovuto aspettare da Napoli gli ordini da esso stesso provocati. Così partendo trionfò la rivoluzione, disanimò i soldati, e per perigliosi calli li fe’ decimare. Difesesi che per difficile ritratta salvasse l'onore; l’avria salvalo combattendo per vincere, ma non avendo voluto vincere, si confortava con tai baiate, mentre i Siciliani festeggiando gridavanlo fuggito; e avean ragione.
Mosso alle ore due del mattino, fu sull’alba a Boccadifalco, paesello sur una scoscesa rocca, d’onde gli accorsi rivoltosi presero a saettare i soldati di su le balze e le case, e molti né uccisero impunemente. Il Pronio ito pe’ campi passò intatto. Non volendo il duce vendicar quelle offese, andò avanti benché percosso; e pe' piani de' Porrazzi, S. Maria del Gesù e S. Ciro, ripigliando i monti giunse a Villabate. Là da presso venner colpiti da' cannoni che i disertori Longo ed Orsini avean puntati da sopra una torre. Furiosissimi allora i soldati, per empito di rabbia, s’avventarono su’ percussori, fugaronli, presero i cannoni, ed entrati nel fa terra manomisero e accopparono quanto lor si parò avanti. Anche un po’ saccheggiarono. Vi stettero la notte, al mattino, ch’era il 29, presero i monti d’Altavilla, senz’altro danno, ché fresco era il gastigo di Villabate. Altavilla rimasto cheto, non fu tocco.
Per la punizione di Villabate i giornali e le bocche liberalesche disser sulla barbarie de' soldati cose da Tacito. Gl'Inglesi rapportarono di fanciulli uccisi, di donne e vecchi sventrati, di paesi e campi arsi; poi dimentichi d’avere scritto questo, per sublimare il valore de' ribelli scrissero questi in tutta la rivoluzione non aver perduto più di dugento persone; e de' Napolitani contano di compagnie tagliate a pezzi, di feriti a centinaia, e che solo a Solanto s’imbarcassero cencinquanta feriti di quel tragitto. Or se fosse vero che i Regi con tante bombe e cannoni, fanti e cavalli non uccidesser più che dugento nemici, seguirebbe ch'essi non già immani e feroci ma mitissimi fossero stati in tanto patimento d'offese. Ma la rivoluzione sola avea dritto d’uccidere, i soldati dovean percossi morire senza reagire, e aver poi taccia di codardi. Logica cui niuno contradiceva allora.
La flotta con le munizioni seguiva l’esercito lungo le coste; ma sopraggiunte altre navi da Napoli con lettere, il comandante scorti soldati sulle alture di Casteldaccio spedì gente a terra. Similmente il maresciallo come scorse l’armata ingrossata, piegò a manca sulla spiaggia di Solanto, villaggio a due miglia da Bagheria, dove lesse l’assenso ministeriale responsivo alla sua domanda, che tornasse per mare, intento a imbarcarsi mise truppe a guardar le bande che gli stormeggiavano attorno, cominciò l’imbarco la sera del 29, e durò tutto il 30, e la seguente notte, quantunque il mare avesse calma. Al mattino del 30 fu assaltato agli avamposti, onde vi andò il capitano Rodolfo Russo, con uno squadrone di dragoni e due mezze compagnie di fanti, che bastarono in un’ora a respingerli e a snidarli da ogni albero o siepe o maceria circostante. Nulladimeno quell'imbarco fu quasi una sconfitta, ch’ebbe a gittar qualche cannone a mare, e lasciarne qualch’altro sulla riva. Al più de' cavalli del treno e di quel bel reggimento dragoni die' condanna di morte, ma pochi ebber cuore da eseguir l'atto; altri piangendo li abbracciava, altri sguarnivali del bardamento, e li scapolava. I generosi animali davano in nitriti, e correano appresso ai soldati, più amanti del padrone che della libertà, molti lanciatisi in mare seguianli nuotando; sinché spossati e sopraffatti dal lungo mare perivano, men fortunati del cane di Santippo che il potè seguire da Alene a Salamina. La fedeltà de' bruti per mutar de' tempi non muta. Così l’esercito napolitano, vinto dal suo duce, lasciava a' 31 di gennaio quelle malaugurate spiagge di Sicilia.
Adunque il De Sauget eseguì in aperta spiaggia, presente il nemico e combattendolo, quell'imbarco ch'avea stimato periglioso a Palermo sotto la protezione delle fortezze; s’imbarcava con perdita, quando già tutti i pericoli della ritratta per terra avea superati; e quando il menare a Messina quel nerbo di soldatesca avrebbe serbala al re buona parte dell'isola, e fatta facile la riconquista. Non volle vincer Palermo, gli mandò capitani, gli lasciò i danari, fe’ decimare i battaglioni spartiti nella città, si ritrasse per terra quando senza pericolo poteva intaccarsi, e si mise in mare senza necessità quando era pericolo e danno il farlo. Servì egregiamente la rivoluzione, poi quando questa fu vinta, ei s’ingegnò a inorpellar ragioni in un libercolo per farsi innocente. Re Ferdinando mancò al suo debito, ché dovea sottoporlo a consiglio di guerra, né tampoco il dimise, onde ei potè lunghi anni macchinare all’ombra de' gigli e del serbato grado, sinché tornati i tempi rivoluzionarii, strisciando nella reggia, gli venne fatto ingannare il buon Francesco II, e accorrer poi festante incontro allo straniero Garibaldi, e condurlo a mano e sicuro nella tradita patria, e nella reggia del suo re. Uomo che stamperia con invetriata fronte un altro volume a difesa della sua nuova innocenza.
Importava a’ congiurati il tacciar di codardia i Borboniani, per dar animo a sollevarsi all’altre parti del regno; però loro giornali spruzzavan vituperii. Ma l’esercito, condannalo dal duce a non usar sue forze, combatté con pochi e sparpagliati, né soccorsi, quà e là, contro città popolosa; fu obbediente a' comandi, sordo a seduzioni e minacce, con poco vitto, e cercatolo tra' rischi, senza letti, sempre in veglie, al sereno, all'intemperie, non mormorazioni, non disertori, colpiti sempre senza veder nemico, e ritrarsi tra gente contraria combattendo, imbarcarsi sulla spiaggia con feriti, cannoni e bagagli, presente lo spietato nemico. Eppur l'Europa echeggiava di turpezze su’ soldati. Ricordiamo i Francesi rinculare avanti alle popolazioni di Spagna, esser vinti nelle tre giornate del 1830 a Parigi; i Russi uscir discacciati da Varsavia, gli Olandesi da Brusselles, e poco dopo i Tedeschi in tredici migliaia percossati da' Milanesi abbandonar Milano; né altri mai tacciò di codardia cotesti soldati, sebben facessero minor difesa che non i Napolitani a Palermo. I Napolitani combattenti e morenti erano accusati di viltà; ma Dio toglieva il senno a' settarii; e gl’ingiusti vilipendii misero in cuor de' soldati tanta indignazione, che quando trovarono duci non vietatoci di vittoria, dettero l’esempio al secolo della prima milizia percuotitrice della rivoluzione, su quelle vie stesse credute insuperabili. Napoli vide le prime barricate vinte; poi Francfort, Vienna, Dresda, Praga e Parigi.
I Palermitani vistisi padroni impazzarono: prima arsero le carte del catasto, de' dazii civici, e de' processi penali; poi saccheggiarono le case di polizia, e pubblicarono aver trovato teschi ai morti in quelle a S. Domenico e in via S. Celso, tacendo il vero per calunniare il passato; gl’imbecilli ripeteronlo, e ’l volgo il credette. Quei teschi eran d’antichi malfattori giustiziati, cui per usanza dell'età stavan da secoli in gabbie di ferro sulla porta S. Giorgio, tolti nel 1846, all’entrata dell’imperatrice di Russia. Incontanente van cercando a morte quanti furon di polizia: piglianti, strascinanli, e con coltelli e moschetti fra cento sevizie senza forma giuridica finisconli sin presso il palazzo pretorio, sotto gli occhi del comitato. Questo vistine già cinquanta assassinati, credendo sazie le vendette, die’ a 20 gennaio una proclamazione per disapprovare tali atti non corrispondenti all'indole generosa del popolo. In risposta, sendosene carcerati trentaquattro con un ispettore, e chiusi in S. Anna, ecco la notte seguita al 10 febbraio, una banda di manigoldi né li traggo, strascinati fuor di città, e li fa a pezzi in un luogo detto Pantano. Quasi cento altri sventurati perirono atrocemente in vario modo, fra orgie sataniche, dove uomini e donne gavazzavano furibondi. Diroccate eran le case del Vial e d'altri uffiziali, rubate le masserizie; aperte le prigioni di ladri e omicidi, scorrevan le vie tumultuosamente con bandiere e canti e ferri insanguinali, plauditori e plauditi, fra balli e abbracciamenti, tra percosse e uccisioni, in tanta ubbriachezza di trionfo insaziabili, il comitato sfrenata quell’idra. non bastava a contenerla; e in esso era altresì chi quei delitti reputava necessari a far la rivoluzione duratura. La plebe sentendo sua forza, francata dalle leggi, sicura di non aver soprastanti, incitata da demagoghi che servilmente piaggiandola fean pompa di liberissime parole, non rifuggiva da eccesso nessuno. Manomettendo, saccheggiando andavan le case dei partiti uffiziali; dove trovavan persone infierivano; mogli e figliuole strascinavano in postriboli. segni a a tutti obbrobrii, quanto più note per condizione tanto più vituperate. Un quartiermastro di gendarmi rimasto in città fu aggredito in casa da un galantuomo già suo amico in tempo felice, il quale con suoi scherani gli rapi la cassa dei reggimento, gli rubò la sua roba privata, e ligaio lui con funi, tutte e tre le sue tre figlie zitelle fe’ stuprare avanti al misero padre. Questi mirata tanta vergogna acciecò per furia di sangue. Atrocità simiglianti nell'altre città: a Catania indotti con bei modi i gendarmi a posar l’arme, poi feronli segno a mille oltraggi; il tenente Fiorentino uccisero, un gendarme scorticarono vivo. Peggio nelle campagne; percorrevanle armata mano i galeotti, depredavanle, e ascondévan sotterra il bottino; uccidere, ardere, stuprare, rapire eran cose lievi, né pur davan rimorso. E i possidenti che allettati da promesse di paradiso avean per vezzo sorriso alla rivolta, ora dissuggellati gli occhi, rimpiangevano il pria maledetto governo, i cui mali ancora che esagerati eran sopportabili almeno. Sospesa l’agricoltura, tronco il commercio, abbandonate l’arti, cresciuti con l’ozio i bisogni, con la libertà i desiderii, con le grida l’audacia; interrotta la giustizia, l’amministrazione, il culto, ogni cosa tenuta lecita, ogni colpa impunita e lodata, già la plebe alzava gli occhi alle case de' ricchi. Quanti erano impiegati napolitani svaligiarono: magistrati, finanzieri, militari e civili, tutti costretti a fuggire co' nudi panni addosso, lasciarono loro case in balìa di quella turpe canaglia; e miseri, bisognosi d'ogni ben di Dio, andarono tapinando pane e panni sino a Napoli, dove la carità pubblica e del re li soccorse. Né tampoco nella riconquista dell’isola poteron ricuperare il loro; ché il re posto velo sul passato, non volle si rimestasser quelle vergogne.
La ritratta de' Regi, e la proclamazione del comitato data a' 20 gennaio, finì di commuovere tutta l’isola. A Girgenti il 20 il colonnello Pucci col piccolo presidio si ritrasse al quartiere de' gendarmi. Al castello novantatré galeotti tentarono di fuggire; onde il Pucci mandolli tutti ch’eran centosettanta al molo, sette miglia discosto, dove messi in luogo sottano, vi mancarono infelicemente moltissimi per asfissia. Dipoi sendo il quartiere inadatto a difesa, i soldati a 1. febbraio navigarono a Napoli. In Catania a 24 gennaio tentarono aprir le carceri, e furono respinti dalle guardie; indi scaramucce; e il general Rossi, non potendo tener tutti i posti entrò col battaglione in castello, e sparò i cannoni; ma impedito da' consoli esteri restò bloccato, sinché a 11 febbraio s’imbarcò. In breve da ogni parte ritraendosi i soldati, il comitato palermitano pigliava la potestà su tutta Sicilia, laonde rifacea di nuovo a 2 febbraio i quattro comitati da durare sino all’apertura del parlamento. Fur presidenti il principe di Pantelleria, il marchese Torrearsa, Pasquale Calvi, e ’l principe Scordia, Ruggiero Settimo capo di tutti, ch'eran sessantasei. L’isola intiera era abbandonata a se, fuorché la cittadella di Messina, Siracusa, Castellammare di Palermo, Milazzo ed Augusta. Quella ribellione siciliana era il prologo della europea rivoluzione.
Sebbene la rivoluzione sicula fosse da molto preparata, pur la sua fortuna che passò le speranze fe' divampare tutta Italia, e più Napoli vicina. Qui il comitato rivoluzionario, consenzienti quelli dell’altre italiche città, statuì turbar subito le cose del continente. I faziosi di Roma per divertir le forze del governo napolitano, prepararono una spedizione di volontarii in Abruzzo, giusta la proposta d’un Giovanni Durando, esecutore Ignazio Ribotti Nizzardo. Quei di Firenze vi davan la mano, e volgevano all’impresa Nicola Fabrizi per la via di Siena e 'l Ribotti con Felice Orsini per le Romagne ed Ancona. La trama non ebbe effetto, perche le cose di Napoli andarmi sole e presto.
Sul finir dell’anno il ministro di polizia avea fatto l’ultimo errore. Eran quarantamila studenti in Napoli, torbidi, vogliolosi di novità, cui fu ordinato ritornassero a casa. I più faziosi non ubbidirono, sol quindicimila all’antivigilia di Natale partirono, recando nelle provincie il dispetto, l’ira e gli ordini del segreto comitato. Ferdinando visto il tempo nero, credè che alquanto cedendo eviterebbe subugli, né turberebbe la quiete del paese; perlocché a 18 gennaio die’ due decreti per riforme municipali, amministrazione disgiunta da Sicilia, e larghezza di stampa. Ciò accontentava chi in buona fede aspettava il bene governativo senza più, né v’era allora altro possibile progredimento buono, ma la fazione ch’avea cominciato dimandando meno di quello, viste sue arti prevalere, e aver già mossi gli animi a desiderii, voleva altro che quelle concessioni. Inoltre a sostenere i moti di Sicilia, e rattener sul continente le milizie, s’aveva in ogni conto a far rumore pur qui. Gridarono sdegnosamente quei decreti venir tardi, non bastare alla pienezza de' tempi, a popoli civili doversi larghezze consone al progresso,gl’italici interessi voler camere legislative. Una volta scoccalo il motto, fu uno schiamazzio per le strade e pe' caffè di Napoli. Pochi sapevan costituzione che fosse, chi ne sapea meno né volea più, né veggendosi compressi, sbizzarrivano.
Il re sul pendio del concedere s’avvisò contentarli, scarcerando a 20 gennaio quant’eran sostenuti per colpe di stato, e con decreto del 23 graziò i condannati, anche il Pellicano, il Romeo e complici dell’ultima sedizione calabra, salvo che per sicurezza restassero un po’ sur un’isola. Altro decreto nel dì stesso nominava censori di stampa uomini liberali. Ne’ giudizii correnti si guardò grosso, e la Gran Corte criminale di Chieti dichiarò costare la innocenza di cinque imputati di setta Giovine Italia. Tai decreti e mollezze furon ragia al fuoco, dissero il re temere, e alzaron le creste.
Mentre ei perdonava reità, ne seguitan altre. Un Antonio Leipnecher di Siracusa, espulso dal real collegio militare dopo il 1820, testa leggiera, stato soldato e uffiziale in Algeria, dimessosi per isposare una fioraia di Parigi, era con lei tornato a Napoli a vender fiori; onde presto fornito il capitaluccio pigliava per campare qualche carlino dalla setta. Agevolmente lo Ajala e ’l Poerio il persuasero a gettarsi in risicoso partito, e ’l mandarono nel Salernitano, ove tenevano un Costabile Carducci già locandiere, allora fittaiuolo d’una scafa sul Sele e fallito, uomo dato animo e corpo alla fazione. Questi due aizzarono la bandiera rivoluzionaria nel Cilento, distretto un po’ torbido, montagnoso, pieno di gente bieca e proletaria, ghiotta di guadagno, cui raccozzarono in più bande, coadiuvati da un arciprete Patella, un Mazziotti, un De Dominicis figlio d’un fucilato dal Del Carretto nel 1828, ed altri. Pria di muoversi, i giornali d’Italia profetavano che al 18 gennaio ribellerebbe il Cilento, ma fu anticipato d’un dì, ché il 17 i congiurati ruppero il telegrafo di Castellabate, un ponte ed una scafa sul Sele, per vietare il passo a' soldati che accorressero, e scorazzaron per quei paeselli disarmandoli, rapinando casse pubbliche e private, sfogando vendette e ricattando e uccidendo senza pietà. I più noti per fede al Governo accoppavano issofatto; fucilarono entro un chiostro un notaio sindaco, né gli vollero dare un prete, né un momento di abbracciare i suoi cari; e tali assassinii legalizzavano a ludibrio con certe sentenze di loro consiglio che appellavan militare. Uccisero a Sala di Gioi un Gizzo, e ad Asclea un barone Maresca. Già i più malandrini accorrenti al bottino, giunti a molte centinaia, costrinsero a ritratta il capitano Girolamo de Liguoro co' suoi gendarmi; perlocché il colonnello d’artiglieria Lahalle chiese spontaneo e ottenne d’andar con milizie a punirli, e si partì il 23. Subito la stampa a infamarlo per tutto il mondo, i giornali d’Italia gridavanlo indegno della divisa militare, e per contrario esaltavano i sollevati: il Cilento, il Vallo, Salerno levarsi come un sol uomo; già diecimila marciar sopra Napoli. Ma il Lahalle, incontrati i faziosi presso Laurino, li ruppe e disperse il 30 di quel mese. La promulgata costituzione fe' vana la vittoria, e anzi quei tristi impuniti premiò.
A Salerno i consapevoli fratelli rumoreggiavano a bocca e con lettere; e Napoli ov’era tutta la macchina ingrossava gli umori. Fischiavano i gendarmi, fischiavano il Del Garretto, non eran puniti, e fean calca, accorrendo molti come a festa. In casa Poerio stesero una petizione chiedente Costituzione, e fecerla girare attorno, sottoscriverla da mille persone, chi per vanità, chi per moda, chi per setta; il più per voglia di torbido da pescarvi dentro. Vera d’ogni ordine, e pur di nobili e di corte. Primo firmato il principe di Strongoli che si vantava repubblicano del 99, secondo Gaetano Filangieri, figlio del generale.
La popolazione era indifferente, molti volean altri ministri, pochi rivoltura, le provincie fuorché i misfatti nel Vallo eran chete, né tampoco sospettavan mutazioni, Napoli incerta, inerte, intenta alla industria, le soldatesche fide, le milizie civiche devote all’ordine. Salvo studenti, ambiziosi e pazzi che fean seguito, i congiurati procedean soli, e né fremevano; fecero pratiche a mover la plebe, mandaron larghe promesse a' popolani, né furon compresi; si volsero a contrabbandieri, questi risposero saper tragittar mercanzie di nascosto, non di politiche tresche. Ma soli bastarono; accerchiarono attorno al re loro adepti, e lo strepito de' pochi superò il silenzio de' molti.
Tanto seppero strimpellare nelle orecchie del re che gli fecero credere gravissimo il moto, né potersi con la forza sedare: tutto il Cilento in arme, Salerno tentennare, le Calabrie seguiterebbero, Sicilia perduta, unica salvezza il conceder presto. Il più curioso fu che seppero spaurire il potentissimo Del Garretto; il quale smessa quella sua boria, vilmente si calò il 21 a pregar di consiglio quello stesso Mariano Ayala ch'avea più volte e pur pochi dì avanti carcerato; disselli non aver colpa di niente, aver tenuta la sedia della polizia per impedire ch’altri facesse peggio. L’Ayala lo consigliò si ritirasse; ma ei che a lui s’era volto appunto per restare in nome della libertà a quel posto tenuto da assoluto, noi fece; così nel dì della tempesta imbalordito, si sperava rifacendosi carbonaro seguitare al timone.
Ma sendo esoso ad ogni partito, il re stesso, o per contentare l’opinione pubblica e rimuovere una cagione di diffidenza, o che vistolo bazzicare co faziosi né sospettasse, la dimane, 25 gennaio, il fa chiamare alla reggia. Ei trova in sala chiuse le porte, ed ecco il Filangieri che il tragge seco, gl’impone di partire issofatto, e non gli permettendo andare un istante a casa, traggelo per segreta scala alla propinqua Darsena; di là condotto sul Nettuno, avuti danari e altri arnesi, è incontanente fatto partire. Com’egli nel 1831 avea preso di notte e mandato fuor del regno rintontì suo predecessore ch’avea proposto riforme col Filangieri ministro, così questi ora gliel restituiva, cacciando lui alla vigilia di più che riforme. Alla dimane un decreto mettealo al ritiro; e abolito il ministero di polizia, se ne davano le attribuzioni a quel dell’Interno. Del discacciatosi strombettarono cose infinite e turpi; e secondo l'usanza dei codardi svillaneggianti al caduto, molto gravando le colpe, e conculcando il vero. Né qui finì, ché ito il motto settario, perseguitaronlo pur fuori: a Livorno fermatosi il legno a chieder acqua, fu tumultuosamente negata; lo stesso a Genova; a Marsiglia cinser la casa del consolato ov’era disceso, ond'ebbe a cacciarsi nell’interno della Provenza. Il troppo potere di questo ministro era stato male; fu maggior male che mancasse a un tratto, perché i congiuratori toltasi la polizia di dosso, fuor d’ogni temenza operarono alla libera, guadagnaron seguaci, credito e forza, e dettero il crollo alla potestà regia.
In questi rivolgimenti s'era inventato un certo modo di tumultuare senza ferri, molto riuscito a Roma, a Genova a Firenze e in altre parti. Quando la fazione voleva una cosa assembrava i suoi in piazza, li accresceva co' curiosi e con la plebe cui largiva monete, e in sembianza di popolo dava grida chieditrici. Ciò dicevano dimostrazione, cioè dimostrante il desiderio popolare. La sera del 26 gennaio vociarono per le vie ciascuno si recasse al mattino a Toledo per la dimostrazione, cui assicuravano sarebbe senza opposizione. Di fatto, dopo il consueto fuggire e ’l serrar degli usci, incominciò sul tocco di mezzodì a ingrossare un po’ di gente al Mercatello, qualcuno gridò Viva il Re e la Costituzione! poi in molti, pagatori e pagati, giù per Toledo dettero in grida costituzionali piene; con nastri tricolorati, e fazzoletti svolazzanti. Innanzi a tutti un Saverio Barbarisi, vecchio in gran fascia, gesticolatore e schiamazzatore solenne. Pel caso nuovo s’affollò molto popolo a vedere e a seguitare giusta l'uso napolitano, pronto al frastuono. La Guardia civica e gli Svizzeri videro passare, e s’udiron plauditi; ma non avendo ordine di niente, né si mossero, né risposero, solo i castelli dettero il segnal d’allarme con bandiera rossa; ma i capi dimostratori sicuri d’esser lasciati fare, e più dalle promesse del general Roberti comandante di S. Elmo che non farebbe fuoco, s’avanzarono baldanzosi sino alla Carità. Quivi arrivava da Palazzo il generale Giovanni Statella governatore di Napoli, seguito da dodici ussari a cavallo, e come avean le sciabole nude e trottavano, pareano assalire; perlocché tutta quella gente sgombrò in un attimo, rifugiando in vicoli e botteghe; poi sendo sdrucciolati per terra la metà de' cavalli, i gridatori preso animo uscirono a fischiare i soldati, e si misero lo Statella in mezzo. Dimandati che si volessero, risposero Costituzione, e seguitando ver la reggia invitavanlo a presentare al re quel voto popolare. In giù s’ingrossarono con alquanti giovani gentiluomini, anche in carrozzelle da nolo, con gran fasce e nelle mani rami di ulivo e bandiere, strillando a gola piena; ma a S. Ferdinando trovaron file di soldati che chiusa la via vietarono procedere innanzi; onde si dispersero. Un’ora dopo uscì uno squadrone d'ussari a cavallo a passeggiare per Toledo, quando più non era niente da fare.
Seguitarono due giorni d'aspettazione; ma uscì il molto si confidasse, ché il sovrano accederebbe. Questi udita l’ambasciata per lo Statella, mutò ministero la sera stessa del 27 così: presidente il duca di Serracapriola, ministri Bonanni, Dentice, Cianciulli, Torella, Garzia, e il siciliano Scovazzo; udì lo avviso di tai consiglieri, e poi, all’ore dieci di sera, quello de' generali presenti in città. Dissuadevano la costituzione il Saluzzo e ’l Filangieri soli, questi se ad arte non so, certo il figlio stava co' strepitatori in piazza; gli altri generali chi storse il muso, chi parlò dubbio, chi assentì netto. Fu stampato che il Roberti comandante di S. Elmo interrogato se avesse fatto suo dovere, sapesse far intravedere il niego senza molto mostrarsi, ond’ebbelo di grandi, com’era di dovere. Anche hanno scritto che i ministri d’Austria, Prussia e Russia esortassero con nota il re al niego, ricordando come pel trattato di Vienna del 1815 non si potessero fare mutazioni, inconciliabili coi principii adottati dall’Austria in Lombardia, e si rispondesse soprastare a' trattati la necessità della pubblica pace. Per fermo Ferdinando si pensava concedendo ottener la quiete e por fine al versamento di sangue, però al mattino del 29 gennaio die’ fuori la promessa di regime rappresentativo, di cui fermava le basi, e aggiunse fidar nella lealtà del popolo pel rispetto all’ordine, alle leggi e alla potestà. Ciò fatto, a confermare la spontaneità della concessione, volle mostrarsi al popolo, e percorse la città a cavallo con pochi uffiziali. Avvenne che un Domenico Mauro, repubblicano (del quale parlerò appresso) scorta la facilità del regicidio, fu per cavare il pugnale, rattenuto da' circostanti consettarii, coperto l’atto e le voci dal moto e da' plausi della moltitudine; la quale circonfusa di stranieri e congiuratori, plaudiva anch’essa, infiammata dalla solennità del momento, e dalla riverenza al monarca. Ma questi come passò Toledo e Foria, lasciato per le strette vie addietro il popolo artefatto, trovò innanzi popolo schietto e silente; e anzi pervenuto nella vecchia Napoli fu circondato da popolani, tutti a commiserarlo, a esortarlo, e dir non temesse, lasciasse fare a loro, svaccerebbero essi quelle setiglìe (vesti da gentiluomo). E subito a' fatti, laceravan dove si vedesse un nastro de' tre colori. Il re colla voce e col gesto tentò calmarli; poi visto crescer l’onda, e gli affetti rinfocolarsi; giunto alla Marinella punse il cavallo, e si involò.
Il giorno appresso rinunziando il Cianciulli al ministero dell'Interno, vi salì Francesco Paolo Bozzelli. Proposerlo i congiurati, convenuti a posta da Napoli e da Salerno a confabulare tra le ruine di Pompei, molto ma indarno oppugnante il Poerio che né diffidava; contentaronli tutti e due, fatto il Poerio direttore di Polizia, e il Bozzelli ministro. Questi fu nel 1820 su’ fianchi al Pepe, qual capo d’amministrazione dell’esercito carbonaresco; poi carcerato, poi esule; rimpatriato per grazia, fe’ l’avvocato; e stampò opere d'estetica e dritto costituzionale; dappoi nel 44 per sospetto di cospirazione fu sostenuto a S. Elmo col Poerio, l'Assunte, il Graziosi, il Primicerio, l’Augustinis ed altri. Liberato, fe’ il presidente del segreto comitato rivoluzionario, però principale motore di questi mutamenti Laonde in premio surto ministro, ebbe anche il carico di stender la costituzione promessa; e non è da dire qual profluvio di lodi gli volgessero in tutti i metri; dicevanlo il sommo Bozzelli. Ciascuno da lui professore di dritto aspettava una costituzione napolitana, buona a guarire i mali del paese, senza spegnerne la salute; ma ei per fretta o leggerezza né copiò una all’orleanese di Francia. Veramente queste costituzioni d'oggidì son tutte a uno stampo, inventate non a sollievo de' popoli, ma a tenerli agitati. N’eran fondamento: religione cattolica, re inviolabile, ministri responsabili, armi dipendenti dal re, guardia nazionale, stampa libera, due camere legislative, una di deputati della nazione, altra di pari scelta dal re, indeterminata di numero, base principale d’elezione il censo, nel re il veto, e velo impenetrabile sul passato. All’articolo 87 prometteva modificarne parte per la Sicilia. Il ministero presentolla al sovrano l'8 febbraio, all’ore sei pomeridiane; la dimane fu sottoscritta, l'11 promulgala, e 'l di seguente col Vesuvio spedita a Palermo.
Benché questa costituzione sul primo botto si vedesse plaudita, pur a pochi bonarii piacque: i realisti vi vedean la ruina della dinastia, i liberali tennerla poco liberale. Prima piano, poi aperto riprovavano la non concessa libertà religiosa; il darsi al re la nomina degli ufficiali superiori della Guardia nazionale; il potersi arrestare i rei nella quasi flagranza, frase dicevano elastica, soggetta ad abuso; poco largo l’articolo 30 per la stampa (ed era larghissimo); il lasciarsi con l’art. 44 il numero de' Pari a volontà del re; il regio veto dell’art. 65; bastevole dicevano a render nulla la costituzione; il poter egli sciogliere parte della Guardia nazionale; la mostruosità di ministri eleggibili a deputati; i consiglieri di stato eletti non dalla Camera ma dal re; l’articolo 85 dicevan perfido, che i magistrati eletti dopo il 10 febbraio fossero inamovibili solo dopo tre anni; il non esservi motto di giurì, volevan proprio repubblica. Anche la masticavan male per Garzìa stato a lungo direttore di guerra, ora fattovi ministro; e sussurravano Ferdinando voler tener l’esercito sotto la mano. E i repubblicani aggiungevano che il paese avrebbe dovuto sbarazzarsi de' Borboni al 29 gennaio; generoso rammarico! Con tutto questo perché eran pochi non osavan mostrarsi allora; e plaudivan con gli altri. Nondimeno sin da quei primi dì trasparian lampi di ferro; e fu scandalo veder sulle cantonate un manifesto di un Matteo Vercillo, uomo privato, invitare qualunque del popolo a prendersi in casa di lui moschetti e munizioni.
La costituzione alle popolazioni delle provincia elude ed ignare, parve una cosa strana; qualche città non vi credette; e a chi vi recava la prima nuova mal né colse; poi visti i decreti stampati maravigliavano. Il ministero mandò lettere circolari ordinanti feste, e furon fatte. L’esultanza è come la paura; uno piglia lutti. Inoltre facean vedere la costituzione unico rimedio a tutti mali; si vide poi e presto come i mali sopportabili diventassero insopportabili. Chi avea visto il 99 e il 20 trepidava, chi no, vagheggiava rose nell’avvenire: i ricchi speravansi indie venture leggi confermata la sicurezza della proprietà e scemala la tassa fondiaria; i poveri adescali da grasse promesse intravedevano nella cosa nuova fortuna nuova; i dotti nella libera stampa sognavan la manifestazione del vero, si consolavano della cessata melensa censura; gl’ignoranti encomiavan tutto; e ciascuno con l’occhio a' vizii vecchi non prevedeva vizii nuovi. Cotesta gente aspettava il paradiso; la popolazione delle campagne guatò diffidente quell’esultanza.
A 1. febbraio altra cagione di giubilo, per decretate grazie ad ogni imputato o imputabile di reità di stato, sia dimorante in regno, sia fuori; e che pienamente liberi andassero i già perdonati a 25 gennaio. Si cantarono Te Deum; poi gale, luminarie, archi trionfali, iscrizioni, carri, cocchi, bandiere, grida entusiaste, e plaudimenti infiniti. Scrissero a posta un inno di ringraziamento, musicato dal Pistilli, cantato da schiere di persone d’ambo i sessi avanti la reggia. In Napoli certa gente parve delira. Si mostrarono allora carchi di nastri e vessilli tricolorati, a gridar forte, in piè su trascorrenti carrozze, personaggi, che, stati sin allora strisciatoci a piè di potenti, erano in ispregio per servitità troppa. Giacinto Galanti avvocato ministeriale, Giacomo Tofano, Aurelio Saliceti magistrato e creato del Del Garretto, e altrettali fecero maraviglia. Di festeggiatori stranieri vedevi catervie, fra' primi il Mintho; e videsi Ibraim figlio del pascià d’Egitto. Ma la plebe de' quartieri vecchi guatando bieco turbò in quelle basse vie la quiete; dove scorgea tre colori s’indignava, e seguiron busse e ferimenti; laonde Ferdinando passeggiando in carrozza per Chiaia avvertì certi giovani smettesser quei colori, che eran vana pompa di cosa già avuta, che potean turbar l’ordine interno, e provocar nell’estero controversie. Fu ubbidito, e per qualche dì si vider parecchi regi nastri rossi al vestito. Un Michele Viscusi già impiegatuccio, e arlecchino nelle case de' potenti, sorse concionatore in piazza, a spiegar la costituzione al popolo, e con buffonerie si fè un pò di seguito; coi quali a 10 febbraio si recò avanti al palazzo entro un carro, vestito da lazzaro fra lazzari, con bandiere e frasche. Emulo di lui fu altresì un Angelo Santillo.
Il re a' 19 febbraio passò a rassegna sulla piazza della regia i primi quattro battaglioni della Guardia Nazionale. Con due decreti del 21 si stabilirono le formule di giuramenti pel re e pel duca di Calabria, quando giungesse ai ventun anni, e quando salisse al trono. Poi il mattino del 24 il re nella basilica di S. Francesco di Paola, e le milizie sulla propinqua piazza giuravano la costituzione. Con decreto del 27 si abolì l’azione penale per delitti e contravvenzioni sino a quel dì, prescritte le formolo di giuramenti agli uffiziali civili, e provveduto a' consiglieri di stato.
Lord Palmerston temendo l’Austria intervenisse a comporre le cose volse a 11 febbraio un dispaccio al Ponsomby ministro inglese a Vienna, perché dichiarasse: «L’Inghilterra voler trattare con l’Austria sui gravi fatti italiani; esser paga delle assicurazioni sempre avute da lei distarsi ferma a seguire la via più savia e giusta, conforme anche a quelle stipulazioni nel 1814 che provvedevano alla indipendenza degli itali stati, giusta i principii di giustizia internazionale. Confidare che (quali si fossero gli ovanti nel reame di Napoli, e che che lo esempio di questo potesse gravare sulle cose interne d'alcun altro stato d’Italia) l’Austria persevererebbe tuttavia nella precedente condotta, e ratterrebbesi dal varcare i limiti dei suoi possedimenti.» Risposegli il Metternich a' 23: «Il sentimento dell'Austria sul valore morale e pratico del principio di libertà nell'interno di qualunque stato sovrano essere sì stabilito, che qualunque iniziativa presa da un governo straniero in uno stato indipendente, saria fuor delle facoltà legali d’un estraneo. Sfidare la imparziale storia di notar fatto ov’ella avesse mancato al rispetto dell’indipendenza ch’è primo dritto d’ogni stato sovrano. Non intendere come la riserva espressa nel dispaccio inglese relativa a Napoli da poter gravare sopra altro stato italiano possa applicarsi alla Corte tedesca. Sembrargli mancar di scopo. L’Austria sempre esser pronta a concorrere con altre potenze al mantenimento della pace e dell’equilibrio europeo.»
Ma per torre il ticchio all’Austria di tutelar la pace, s’aggiunsero alle note britanne le macchinazioni settarie, che Boemia, Ungheria e Vienna stessa, e tutto il suo imperio sconvolsero indi a poco.
La napolitana costituzione fu tizzo all’incendio europeo. Prima dirò d’Italia. Sin dal 6 gennaio avean diffuso in Livorno uno scritto chiedente armi contro il Tedesco; e la sera una torma di gente gridava arme sotto il palazzo del governo. Il Guerrazzi propose le dimandassero al principe, ma intanto una deputazione di popolo afferrava il governo; pcrlocché l’altro dì itovi il marchese Ridolfì, e sostenuti il Guerrazzi, il La Cecilia e qualch’altro, fu riposta la potestà non la quiete. Sopraggiunta a 31 gennaio la nuova di Napoli costituzionale, fu uno schiamazzio, con Viva la Costituzione e Fuori il Guerrazzi! Il buon Gran Duca avea fatto ogni possa a chetar gli spiriti, e sbianco tolto via da' suoi titoli quello d’arciduca d’Austria: quel dì 31 per secondare in parte le dimando di riforme ordinò con due decreti leggi sulla stampa e sulla consultar se non che in quella il Piemonte, terreno concio da molti anni con le passioni settarie ribollenti nello stesso re, visto Napoli, proclamò anch’esso la costituzione a 9 febbraio, la qual cosa come s’udì a Firenze mosse un vespaio. Primo Bettino Ricasoli gonfaloniere levò grido con una proclamazione all'italiana, poi la magistratura chiese con indirizzo al Principe la costituzione, e una turba festosa faceva calca a plaudire il ministro sardo; laonde il Gran Duca quel di stesso 11 febbraio, non potendo più tenere promise uno statuto che fosse essenzialmente Toscano e accomodato ai generali interessi d'Italia. Ma in fretta compilato da Gino Capponi, al 15 lo sanzionò. A’ 12 il principe di Monaco avea dovuto far lo stesso, ma quei congiurati neppur paghi ricorsero al re di Sardegna, e in marzo anzi si ribellarono e s’eressero a governo, quindi proclamarono Monaco città libera, e della libertà usarono poi in giugno con una specie di suffragio che li fuse al Piemonte.
Roma intanto centro di tutto il movimento rivoluzionario, stata primiera a provocarlo, avea turbolenze quotidiane. Gli esempi di Napoli, Genova, Firenze e Monaco ringrandiron l'ansie. Già col Mintho v'eran giunti innumerati demagoghi al servizio inglese. Già sul principio di marzo ottenuto l’incremento dell'esercito, con a capo Giovanni Durando, mazziniano piemontese quivi dimorante da un anno, v'accoglievano i faziosi di tutta Italia, de' quali fecero generale un Andrea Ferrari napolitano profugo del 1821; già avean messi i tre colori alle bandiere pontificie, già più volte mutato ministri, finalmente avean ministri i primarii ribelli con lo Sturbinetti e il Galletti, questi uscito poco prima per grazia da' luoghi di pena. Ma la rivoluzione repubblicana trionfata a Parigi, come or ora dirò, sguinzagliava gli eventi. Domandarono costituzione prima i consigli comunali di Bologna con un indirizzo chiedente il compimento delle riforme cominciate, cioè governo rappresentativo, né mancò chi una notte osò proporre la repubblica al papa. Questi sottoscrisse la costituzione a 11marzo, e al di appresso fu promulgata. Ma fra la baldoria delle feste non vollero tardare i doverosi insulti a' Gesuiti, i quali per amor di pace s'ebbero ad allontanare in quel paese stesso.
Se in travaglio le parti d’Italia indipendenti, quelle soggette ad Austria eran vulcani. Viceré per l’imperatore nel Lombardo Veneto si trovava l’arciduca Ranieri, con due governatori, il conte Spaur in Milano e 'l cont.
Palffy in Venezia, e due eserciti col Feld-maresciallo Radetzky, sommati a settantamil’uomini, di cui un terzo italiani, spartiti per lo Stato. Sul principio dell'anno i congiuratori avean proibito il fumare, per iscemar l’entrate all'erario; proibito l'andare al teatro, fischiata una ballerina perché avea un nome tedesco; però insulti, risse, repressioni, onde il 3 restarono uccisi a Milano cinque cittadini e feriti cinquantaquattro. Subbugli consimili a Padova e a Pavia. A’ morti solenni funerali, né solo colà, ma a Torino, a Genova, a Firenze e a Roma. Subito dimandarono riforme, Milano a 12 gennaio, Venezia il 4, Verona il 12; e la congregazione provinciale centrate fe’ al 25 un indirizzo collettivo al viceré. Quindi eran carcerati il Manin e ’l Tommaseo a Venezia, il Rosales, il Battaglia e lo Stampa a Milano, ed altri} dappoi a 22 febbraio si promulgava legge stataria per giudizii sommarli a' ribelli. Aggiunse esca il Palmerston, che ipocritamente a 13 marzo dimandò all'Austria concessioni per gl'Italiani, e sendo quel dì medesimo scoppiata la rivoltura a Vienna, e uscito il Metternich d'uffizio, non è da dire quanto tai novelle rinfocolasser gli spiriti di qua dall'alpe.
Venezia stata quattordici secoli repubblica,al nascer della bellicosa repubblica francese avea dichiarato neutralità nelle italiche guerre, però il generale Bonaparte presela inerme, e a 17 ottobre 1797 col trattato di Campoformio la vendé permutandola all’Austria. L’ultimo doge s’era chiamato Ludovigo Manin. Nel 1806 ricadde nelle mani di Francia, e tornò a casa d'Austria col trattato del 1814. Errore fu, che lasciò a danno d'un popolo l'opera della rivoluzione distrutta a pro de' re, errore che disparò le cause simili, confuse nelle menti gl'interessi popolari co' settarii, e lasciò a questi un’apparenza di giusta causa, e un modo da riguadagnare credito, e rimpastare il lievito per future rivoluzioni. Ma più grave errore fecero i Veneziani con lo stendere le braccia alle settoriale sperando essi rivendicatori di dritti la salute da queste d'ogni dritto rovesciatrici. Vedremo le sommosse venete sempre con quelle della Giovine Italia coordinate. Daniele Manin, nato nel 1804 da Pietro avvocato, cospirò tutta la vita co' mazziniani, coadiuvato dal Tommaseo e dall'Avesani. Come s’udì a Venezia la sedizione viennese, s’adunò popolo in piazza a' 18 marzo; chiesero liberi il Manin cl Tommaseo, e avutili, portarmi li in trionfo a piazza S. Marco. Alzarono anche bandiere di tre colori, ma tolserle i soldati. La dimane furono scaramucce con danno di cittadini; nondimeno ebbero concesso una guardia civica di quattrocento, eppure né ferono quattromila in sei corpi, giusta i sestieri di Venezia, capitanati da Angelo Mengaldo. Al 22 gli operai dall'arsenale trucidarono il comandante, ed ecco il Manin vi manda Guardia civica come a riporvi l’ordine; invece arma quelli onerai, ch'eran duemila, esce in frotta a S. Marco, fa popolo, e grida repubblica. Il Palffy, benché avesse cinque battaglioni, non preparato a violenza, stordì, e capitolò, lasciando i soldati italiani, la città, i forti e tutti arnesi da guerra. Subito governo provvisorio, presidente il Manin, riproclamazione della repubblica dopo cinquant'anni che era stata strozzata da Napoleone. Chioggia, Rovigo, Padova, Palmanova, Vicenza, Belluno, e tutte le terre venete tumultuando aderirono. I Tedeschi per ordine del Radetzki si concentrarono a Verona.
A Milano sangue. Il viceré alle nuove di Vienna si era messo in Verona, rimasto il vecchio Radetzki con quasi quattordici migliaia di soldati. I congiurati prima chiesero e ottennero d’armare guardia civica, e l’abolizione della polizia; ma scendendo con queste concessioni il Potestà seguito da molti, scontrò per via una pattuglia che fe’ fuoco; perlocché commossa la città sursero barricate per le strade, e zuffe. I soldati presero e manomisero il palazzo comunale; ma la dimane,19 marzo, e anche il 20 seguendo scaramucce, il Radetzki co' suoi si ritrasse al castello. Allora i sollevati, invasi i palazzi di giustizia e di polizia, liberarono i prigionieri, elessero quattro soprastanti alle cose di guerra, il Cattaneo, il Cernuschi, il Clerici e il Terzaghi; poscia il Podestà Casati proclamò prendere interinamente il governo per tutela della pubblica sicurezza. Intanto chiedon soccorso a Torino, avvisano (faziosi de' circostanti luoghi, e al 21 arriva il conte Arese promettente l’entrata in campo di Carlo Alberto, purché né fosse richiesto, a giustifica dell'intervento. Dettata dal municipio la dimanda, vola a Torino un legato.
Seguivano conflitti; e riuscite vane certe pratiche di accomodamento fra' sollevati e 'l Feldmaresciallo, i consoli esteri pregandolo risparmiasse le bombe, proposero armestizio che neppur ebbe effetto. Impertanto al mattino del 22 il Radetzki, perduti sei cannoni e molti uomini a porta Tosa, sentendosi non bastevole a sottomettere la città, non volendo bombardarla, e prevedendo l’arrivo dell’esercito Sardo, divisò ragunare tutte forze sull’Adda, e si partì la notte. Per via patì molestie, e pugnò a Melegnano, onde questa terra ebbe un pò di sacco: al 24 era sull'Adda. Allora Como, Pavia, Piazzighettone, e tutto il milanese ribellarono; in più luoghi si combatté; e come i soldati italiani disertavano, gli Austriaci sconnessi e divisi si ritrasser tutti a Mantova e a Verona; dove quantunque pur si udisse qualche Viva Pio IX e Italia, non seguì cosa di momento.
Il duca Parmense pel tumulto provocato a' 15 febbraio avea chiamato a sua guardia un battaglione tedesco e uno squadrone d’Ussari; ma i fatti di Milano mutando la condizione delle cose, già già si veniva a' ferri; onde il duca a evitare conflitti die’ la costituzione a 20 marzo, mandò i Tedeschi a Colorno, e lasciata una reggenza s’allontanò. In Piacenza lo stesso dì 20 devastarono le case de' Gesuili, i padri salvi da' soldati; e più la dimane udita la partenza del duca di Parma gridarono Italia, ruppero gli stemmi ducati, e alzarono governo provvisorio. Intanto la reggenza proclamava il programma rivoluzionario, cioè Guardia civica, costituzione e lega italiana; e andarono là pure gli stemmi spezzati. Nulladimeno il duca dissimulando l'offesa, il 24 con editto accettò ogni cosa e rientrò plaudito in Parma. Quivi i reggenti diero a' 29 le basi d’una costituzione larghissima: una camera, elettore ogni cittadino di 25 anni, eleggibili quasi tutti; e il duca a contentarli meglio, lamentò con un manifesto la sua passata politica sottomessa a imperio straniero; dichiarò sottostare all'arbitrato di Pio IX, di Carlo Alberto e del Gran Duca, acciò decidessero su’ compensi da offrirglisi per le sorti future di Italia; e promise mandar soldati in soccorso de' Lombardi e ’l suo figlio Ferdinando. Atto simile ad abdicazione. La reggenza mandò in Piemonte un legato per la lega, poi messa su un assemblea con voto universale si dimise; e indi a poco il duca medesimo permise un governo provvisorio, e die’ lo stato in tutela a Carlo Alberto. In quella i Tedeschi ritratti a Colorno,circondati da milizie italiane, su’ principii d’aprile capitolarono; dier l’arme per sedicimila lire austriache, e inermi si partirono per l’Adriatico, con paltò di non più combattere contro Italia. Il principe Ferdinando uscendo dallo Stato fu sostenuto a Cremona, né valsegli di dire d’andare a unirsi a' Sardi giusta la promessa, ché in ostaggio menaronlo a Milano, donde uscì poi a mezzo il giugno per reclamo d’Inghilterra, e si condusse a Malta. Ultimamente il duca standosi senza onore a Parma, consigliato da' rivoluzionarii stessi, si partì cheto per Marsiglia.
A Modena quel Duca era sempre stato più degli altri principi con un pò di testa, onde la setta, avendovi meno presa, dové procedere diversamente. I congiurati sendo pochi s’assembrarono avanti il palazzo chiedenti concessioni; e benché lor si rispondesse la popolazione esser tranquilla, pur in grazia de' tempi ebber concesso facesser trecento guardie civiche.
Appresso visti i Tedeschi lasciar lo stato estense, fecero accorrere orde rivoluzionarie da Bologna; perlocché a' 2 quel Duca mise una reggenza con facoltà di dare la costituzione, ordinò a' suoi soldati di ubbidirle, e con la famiglia riparò fra' Tedeschi. I suoi soldati, ben 2400, non vollero servire la risoluzione, e si disciolsero, quindi i Bolognesi poterono abolire la reggenza, e compire con provvisorio governo la rivoltura. Reggio seguì l’esempio; Massa e Carrara, e i territorii della Lunigiana p Garfagnana si unirono a Toscana. Allora surse una reclamazione curiosa. Modena e Reggio che poco avanti trattavan di fondersi col Piemonte, ora protestarono contro l’aggregazione di Massa e Carrara alla Toscana. I rivoluzionarii tengon due logiche e due dritti.
La rivoluzione giusta il programma settario s’ingegnava a movere a un tempo tutti gli stati d’Europa. Sconvolta Italia, subito in Francia. Luigi Filippo surto re per rivoluzione, sconosciutala sul trono, riposava su’ trattati del 1815, seguendo le vie di legittimo re; ma se quella via al legittimo era fallata, più fallibile per inevitabile necessità ell’era a re rivoluzionario. Si tacciavan quei trattati di danno all’onor francese, laonde rispettandoli mostrava accettare il semplice benefizio d’un trono, non il debito voluto dal donante. Però avea due generazioni di nemici, i legittimisti abborrentilo usurpatore, e i repubblicani gridantilo tiranno, ma egli ch’aveva afferrato lo scettro con un giuoco di parlamento, credea con giuochi simiglianti serbarlo sempre, e largamente usò il tristo mezzo ch'oggi è vita delle costituzionalità, la corruzione. Comprò elettori, comprò deputati, comprò ministri, e si creò la maggioranza; con la quale pensavasi rendere stabile il suo governo, zoppo e barcollante fra il dritto e 'l conculcamento del dritto, tra lo antico ed il nuovo. Non soddisfacendo all’interesse di nessuno, avea gli occhi all’interesse della sua dinastia. Quest’ire de' suoi nemici la vendicativa Inghilterra attizzò: cominciano a 22 febbraio i tumulti, per cagione d’un vietato banchetto politico al duodecimo circondario di Parigi; la marmaglia s’arma, difendete la Guardia Nazionale, i soldati combattonla da prima; ma il re non osa scendere a capitanarli, abdica a pro del fanciullo nipote, e a' 24 fogge, e seco la famiglia tutta; nel modo stesso com’ei diciott’anni prima avea fatto fuggire Carlo X suo re e benefattore.
Ecco il volgo saccheggia i palazzi delle Tuilleries e il reale; ruba, rompe, distrugge quante trova opere d’arti, mette a sacco fuor di Parigi altri paesi, abbatte ponti e stazioni di strade ferrate, e fa danni sino a trenta leghe lontano. Incendi! e rapine a Lione e sull’alto Reno; si perseguitano gli Ebrei. A Parigi come a Palermo il volgo sfrenato è sozzo del pari. Esce prima un governo provvisorio col poeta Lamartine, vecchio settario, il quale il 26 ritorna a improvvisar la repubblica in Francia, paese del mondo il men capace di repubblica; convoca l'assemblea nazionale, e abolisce la pena di morte per colpe distato. In quello stesso dì 26 Luigi Napoleone corso da Londra a Parigi s’offerse alla rivoluzione con umile lettera, dicendo: «Il dovere d’ogni buon cittadino esser quello di convenire attorno al governo della repubblica.»
Gli operai, stati attori del dramma, il premio della vittoria, lo adempimento delle promesse volevano. Un Salles tornitore di legno, a' 25 febbraio sforza con plebe il palazzo di città, fa dal governo proclamare il dritto al lavoro, restituire agli operai cui appartiene un milione della lista civile debita al re, e stabilire fabbriche nazionali da far lavorar tutti: primo passo di socialismo. Il Lamartine per rassicurare l’Europa manda lettere dichiaranti: la repubblica non aggredirebbe nessuno, non riconoscere i trattati del 1813, ma tenerli come fatti, da modificarsi poi di accordo, non permettere che gli stati indipendenti d’Italia fossero invasi,proteggerebbe le trasformazioni interne e i movimenti legittimi d’incremento e nazionalità de' popoli; essere alleato del progresso, ma non farebbe propaganda ne’ paesi vicini.
Alla rivoluzione francese altre molte seguitarono. Nel Belgio a 27 febbraio le società politiche congregatesi a Brusselles per chiedere libertà più larghe, misero gente in piazza, e sforzarono la camera legislativa a scemare il censo agli elettori. Non pertanto sui finir di marzo una masnada ragunaticcia entrò dalla parte dì Francia con vessillo repubblicano, ma vinta da' soldati tornò l’ordine. Altri turbamenti ebbero Olanda. Irlanda, Scozia, e anche Inghilterra, dove cinque milioni di persone sottoscrissero una petizione chiedente il voto universale e segreto, l’abolizione del censo e altre franchigie, eppure quel governo che ne’ paesi altrui sorreggeva e alzava a dritto qualunque dimanda di pochi faziosi, stettesi duro, e benché quella petizione fosse presentata da una moltitudine di dieci migliaia, non anco ottenne onore di discussione. In Isvezia a 18 marzo dimandaron riforme, e ne vennero zuffe, con la meglio de' soldati. In Isvizzera i liberali già sedenti al governo riformarono la costituzione del 1815, e invece dell'aulica Dieta, ordinarono un’assemblea federale di due sezioni, e dichiararono Berna sede permanente della federale potestà. A Vienna ho detto scoppiata a 14 marzo la sommossa, e benché v’uscisse proclamata la costituzione, pur si sollevò l'Ungheria; sicché restaron pugnanti fra loro quelle forze che avrebbero dovuto combattere il ribellalo Lombardo-Veneto. Seguirono tumulti a Berlino, in Boemia, in Baviera, a Baden,a Nassau, a Darmstadt, e in tutta Alemagna. L’Europa riposata tant’anni in ogni parte, con pretesti di riforme travagliava.
Se veri italiani fossero stati a capo d’un vero indirizzo nazionale, avrebbero fatto pro di lauti impacci degli Stati stranieri, per istabilire senza mano estera una lega leale di principi che facesse la penisola forte e rispettala, vietasse le alpi e il mare a' forestieri cannoni, e riponesse in seggio di gagliarda nazione la patria comune. Facile era ch’ove il mutamento avesse rispettato tutti i dritti, avria trovata la nazione concorde, e impossibili i conflitti interni. Già parecchi generosi aprivan l’animo a speranza di giusta italica grandezza, ma la setta motrice del tutto aspirava non a far grande Italia, bensì a mutazioni sociali universali, né cosa abborriva più d’una lega principesca che i principi con l'arme comunali raffermasse. Avea lavorato per abbattere non per esaltare i sovrani, la lega giobertina favorita per abbagliare i popoli e ingannare i principi, non era stata già scopo della setta che voleva l’opposto, ma mezzo per lanciar gli spiriti in cose nuove, già avea fatto l’ufficio suo, allora si volevan altri pretesti per nuove aspirazioni.
Pertanto i caporioni italiani procedettero nella repubblicana Francia a proclamare una certa repubblica italiana. A 5 marzo s’adunaron da dugentocinquanta, già fuorusciti; e in Parigi convennero a stabilire una Associazione nazionale italiana, dicevano per coadiuvare e promuovere la indipendenza e la nazionalità d’Italia. Fecero presidente il Mazzini, due vice-presidenti: Giannone e Canuti; e quattro segretarii con voto, Cisale, De Filippi, Sirtori, e Melegari. Tosto il Mazzini pubblicò il programma: «L’associazione non è toscana, piemontese, o napolitana, è italiana; non tende a discutere quistioni locali, ma ad armonizzarle, a unificarle, nel gran concetto nazionale; non anela al trionfo d’una o d’altra forma governativa, ma promove con ogni mezzo possibile lo sviluppo del sentimento nazionale. Nazionalità tma, libera indipendente; guerra allo straniero; affratellamento con le nazioni libere e co' popoli combattenti per la libertà, sono i tre obbietti dell'associazione. Ogni suo atto sarà pubblico.» Cotai principii mettean da banda i sovrani, accennavano a repubbliche unitarie in tutto il mondo? e furono aperta sfida a tutti i re. Né il Mazzini ha mai da questi pensieri devialo; i suoi seguaci hanno spesso a seconda de' tempi mutato parole, divise e soldi.. Ma il leggitore noti in quel programma il seme di tutte grida liberalesche; la cagione vera del 15 maggio, e le ipocrisie e le maschere dei plauditori di Pio IX e de' principi concedenti.
Da una parte lo indirizzo settario, dall’altra le passioni mosse erano incapaci d’affrenamento. Quel contemporaneo rivoltarsi di tutta Europa ch’avrebbe dovuto metter senno in capo agl’Italiani per ringrandirsi col dritto, li sbizzarrì anzi con vertigini smodate, dimentichi che i popoli non s’alzano per isventure altrui, ma per virtù proprie di moderazioni e continenze. Credettero la costituzione a Vienna e la repubblica in Francia permettere ogni eccesso; né ebbero meta ai desiderii, né fermata a passi. Però le peripezie straniere non di aiuto, ma di mine e miserie né furono cagione.
Soprattutto le cose napolitano intristirono a un botto. I Siciliani al veder qui festeggiare la costituzione temettero, come già nel 1820, la opposizione alle ripulse loro; onde a discreditarla dicenvala inadatta a redimere Italia; e afforzati dal soffio mazziniano, dalla caldezza inconsiderata de' giovani, dai vaghi del nuovo e dell'irrequieto, e più dai lauti che voglion torbido per mercature sulle pubbliche sciagure, in breve le vulcaniche passioni nostre fecero divampare. Fu progresso il progredire a male, libertà rallentare alla libertà altrui, coraggio civile la vigliacca baldanza, che pe' fortunosi tempi non poteva avere punizione; però fatto impossibile il progredimento, la libertà, e la civiltà. Le sette pria segrete vollero dar lezioni pubbliche per corrompere la nazione, e scostarla dalla devozione al sovrano; preser case in fitto, e miservi circoli, dove aperto e a distesa concionavano e confabulavano; onde vi dominarono i più ciarloni; e, come avvien sempre, chi più callido veemente ed esagerato aveva più plauso. Però legulei e storcileggi, usi al viso duro e allo sragionar di tutto, com'eran mastri di cavilli forensi, così fecersi primi demagoghi. Tanto quella febbre invase i cervelli, che vedemmo pur comitati di donne, e stamparne i programmi. Quei circoli con apparenza di tutelar l'ordine aspirarono a pigliar la potestà; e sempre lottanti con essa ovvero sospingendola sempre, resero impossibile ogni potestà. Sin da' primi dì suscitarono una dimostrazione di muratori e sartori gridanti pane e lavoro avanti la reggia.
Similmente la stampa libera, che mezzo di luce avria potuto indirizzar le menti al nobil fine della socievole vita, trascorsa in pazza incontinenza fu incendio. Subito libelli infamatorii, satire virulenti per privati fini contro private persone; né valse che il liberalissimo prefetto di polizia con esortazioni li vietasse. Laidi giornali, furibondi, oppositori per sistema di ogni quantunque atto governativo, calunniatori di persone e cose ragguardevoli, mentitori, strombazzatoci di fiabe,seminatori di fiele, di polemiche indecorose e odii e ire cittadine. Si vantavano organi di pubblica opinione; ma strumenti di circoli, né avean la imbeccata, e sputavan leggi nuove di sapienza, e nuovissime di dritto. Uscì allora un Ferdinando Petruccelli, uomo di sconvolto ingegno e animo astioso; il quale s’era fatto nominare qualche anno prima scrivendo male diluiti gli scrittori d'una strenna letteraria, onde n’ebbe certi schiaffi nella platea d'un teatro. Poi scrisse un romanzo detto Ildebrando, dove mise papa Gregorio VII eunuco; pingendo evirato quell'insigne personaggio che fu l'uomo maggiore del suo secolo, e forse del medio evo. Costui adunque tratto da invida natura a investire e a bruttare ogni grandezza, si pose a scrivere in un lurido giornalicchio, detto Mondo vecchio e mondo nuovo, incredibile diffamatore d’ogni persona e cosa sacra. Egli tolsevi il carico di calunniare; inventava dispacci, dava l’allarme, e spingeva tutto a ribellione. Un Gaetano Valeriani fiorentino scriveva l'Inferno, giornale emulo di quello. Né solo contro particolari persone e pubblici uffiziali, ben presto al re stesso s’avventarono. Stamparono il re di accordo col Metternich ottenesse dal papa licenza di passar Tedeschi sullo stato della Chiesa per aiutarlo a cassar la costituzione; e bisognò smentirlo il 15 marzo nel giornale uffiziale. Siffatte intemperanze di scrivere e parlare apriron gli occhi a' veri patrioti, onde si trassero indietro. Ciò voleva la setta; restar sola padrona del campo, movere ire, subugli, conflitti, per averne opportunità di spazzare i troni; però sospingevan le cose incessantemente; e padroni delle piazze vi scagliarono quelle incitatrici idee promettrici di subiti e non sudali guadagni; onde imparammo i nomi di socialismo e comunismo, nuovi segni degli antichissimi desiderii de' nullatenenti sitibondi dello altrui. I giornali tuttodì si avventavano al Guizot, che rispondendo al Thiers in parlamento avea detto L'Italia abbisognar di trent'anni per sopportar governi rappresentatici; e con le loro intemperanze mostravano quegli aver molta ragione.
Il siciliano Scovazzo chiedeva e otteneva a 21 febbraio d’essere dimesso da ministro d’agricoltura e commercio. Anima del ministero il Bozzelli, i suoi colleghi chi avea fama di lettere, chi di broglio e cospirazione; ma perché usciti dalle congiure, si sperava attuassero quel bene ch’avean promesso. Costoro la prima cosa che fecero fu Balzare alle principali loro sedie cagnotti e confratelli, sicché diventarono uffiziali regi il Poerio, il Settembrini, l’Imbriani, l’Ayala, il Pellicano e altri già. esuli o carcerati, ora direttori, coadiutori, prefetti, intendenti, presidenti; e come ne’ decreti si dichiarava il soldo, il meno in cencinquanta ducati, così cotesti privilegiati fui detti i cencinquanta, Di qua altre diffidenze: ché l'onesta ente sussurrava non dover la costituzione appagar bisogni personali, né dar mercedi e onoranze a cospiratori; essersi chiesta per infrenamento di abusi vecchi, non per addoppiarli; per iscemamento di spese, non per isprecarle; dunque quei ministri aver macchinato per sé, non lavorato per la patria; poter macchinare contro la patria. Tai temenze pigliavan radici; eppure non mancava chi sperasse il bene da quelli uomini nuovi. Ma la nazione non conosceva essi, né essi la nazione. Ignari d’amministrazione e di governo, lanciati a un botto dalle carceri e da' conciliaboli su gli uffizii supremi dello stato, surti in un (fi da tapine condizioni a potestà., conseguitati da codazzo d’uomini per lunga fame famelici e ingordissimi, concedenti tutto per guadagnar gli animi, e nulla sapendo concedere a modo, spezzanti le redini dello stato, abolenti le prevenzioni al delinquere, e tutte cose alla sbadata e ignorantemente malmenando, là dove avean necessità d’esser uomini sommi, più si mostraron melensi e bambini. La macchina governativa sostò. Si scuorarono i buoni, i tristi levaron le creste, il governo scese al trivio, e rimaser padroni i più schiamazzatori. Questi ordinatori ed esecutori, chiedenti e plaudenti, pagatori e pagati, decretatoci e decretati; questi re, ministri, magistrati, soldati e tutto. Il ministero ligio di costoro doveva,o il volesse o no, seguitar lo indirizzo della setta, ciecamente a repubblica.
La subita salita di tanti ignoti uomini fu tristo e contagioso esempio; tutti ad agognar lo stesso, tutti a dar la spinta a rovesciar gli uffiziali antichi per surrogarli. Preparavan le cadute altrui ne’ circoli e ne’ caffè fatti circoli; e mentre il festeggiato statuto dava i1 dritto di petizione, non si perdeva il tempo a sperimentarlo, ché inventarono più speditivo modo, lo abbasso. Facevan frotta sotto le finestre di questo e quello, gridando Abbasso! e al mattino il governo ubbidiva, e mandava il decreto; così i più intemerati e capaci e vecchi impiegati mettendo alla via. Ogni sera udivi abbassi, e ogni mattina trovavi su’ giornali lunghe liste di destituzioni e surrogazioni. Uno stuolo di liberalissimi, già lodatori di progresso, di redenzione, di merito e di civiltà, ora a stender le mani, ad accattar tozzi e soldi, per aver gridato il 27 o il 29 gennaio; i primi serviti erano scandalo agli altri, ché non potean restar bassi accanto a' fratelli sublimati; però né furono allocali assai, tutti no, ché impossibil’era. E chi non l’era tacciava d’egoismo e ingratitudine i consorti, e strepitava e minacciava. Nelle camere ministeriali s’ammazzavan per la calca, tutti postulanti; e qualcuno porse il memoriale col nudo pugnale sotto di esso. Peggio quando giunsero i martiri, o di fuori o dagli ergastoli, i quali benché la costituzione mettesse velo impenetrabile sulle colpe loro, non intendevano coprirle essi che se ne facevan merito, e alto dimandavan magistrati, e dove non v’eran sedie vuote s’avevano a fulminar gli antichi per adagiare cotesti campioni di libertà. Chi restava fuori e perdea la speranza d’avere, raggranellava malcontenti per rovesciare i ministri, e averne altri che riconoscesser la salita da loro. A questo modo ben quattro fatte di ministri avemmo in tre mesi, uomini ricompensatori di chi li aveva aiutati a salire. E v’era di sì ingordi che aggraffavan più cariche e soldi (il Tofano n’ebbe quattro), ciascuno aonestandosi con amor di patria, con obbligo patriota di menare innanzi la nave dello stato; ma veramente in quel naufragio ciascuno si voleva abbracciare a una tavola dello sdruscito legno.
Dalle tante promesse liberalesche non fu che guai, lo agognato potere, malmenandolo, infransero; cadde l’amministrazione, ruinò il governo. Per uno gretto degli uomini di prima, ora cento ignoranti, se quelli deferenti, eglino ingiusti, se quelli miseri, eglino ladrissimi. Ogni cosa fu disordine e anarchia. E quei patrioti, per lascivia di potestà e di roba, bisticciandosi l'un l'altro, e incensando la ragunaticcia marmaglia, a vicenda si scacciavan di seggio. Mandati via giudici, governatori, doganieri, e tutti, sol restava un seggio eminente e riverito da trenta generazioni: il trono di Ruggiero.
Primo a insultare il re fu un farmacista Mammone Capria, calabrese, uomo di scienza pratica e di poche lettere, stato creato del Del Carretto, ora con la libertà infatuato, e messo su da' macchinatori. Raccolse danari da studenti con promessa di costruire un carro festeggiatore della costituzione, fe’ cartelli stampati a' cantoni, e dopo sperticate aspettazioni esci la sera del 25 febbraio dall'edilizio Fosse del grano. con un grottesco carro funebre, e fuochi e lumi e torce, tirato da sei bovi bianchi. Era un melenso catafalco di carta co' ritratti trasparenti del Pagano, del Cirillo, del Caracciolo, del Poerio (per incensare al figlio) e d’altri giustiziati o esiliati per le rivolture del 1799 e 1820, forse per mostrare questa rivoluzione esser seguito di quelle. Ma quel carro uscito il giorno dopo al giuramento dato dai sovrano, parve fatto in riconoscenza alla regal concessione. Il mausoleo mobile, preceduto da strumenti in lugubri sinfonie, accompagnato da Guardie nazionali e da studentelli, lento lento trascorse per via Toledo, sino avanti la reggia, dove fra grida di Viva Sicilia fermò, replicando la musica mestissima in rammemorazione di quei morti, a dispregio della potestà sovrana punitrice delle fellonie, a improperio al padre e all’avolo del re. La popolazione immensa indignata fischiò il carro e l’inventore. Seppesi poi quello essere stato un tentativo da commuovere il popolo. e istigarlo a vendicar quei morti. Ma quest'insulto fu il primo frutto che re Ferdinando raccolse del suo dono; primo principio di nuove macchinazioni. La dimane molta gente assediò il palazzo de' ministri, chiedente il perché non si facesse niente di nuovo; udito prepararsi nuove leggi, si ritrasse brontolando, e ’l giorno dopo tornò con Abbasso i ministri!
Nelle provincie dov’è minor vernice, e son passioni più scoperte, ei a più disordine. Armi, armi gridavano, quasi la costituzione fosse stato di guerra, e arme aveano. Ammutolita la polizia, aperte le carceri, i ladri in piazza, senza pane, senzatetto, niuna potestà rispettata, imbaldanzita e armata la canagliate arti reiette,gli artigiani senza lavoro, nessun dritto restò non tocco, niuna persona sicura. Dove prima era pace, ora subugli e zuffe, dove commercio e industria ora abbandono e pericoli, masnadieri in campagna, soverchiatori in città; e dove ciascuno avea la mente alla famiglia, sobillavano idee politiche superlative, più superlativi discorsi, più iniqui e folli fatti. A esempio di Napoli e Palermo, giusta l'ordine segreto, ogni paesello metteva su il comitato. I vecchi rubatori dei Comuni, sindaci, eletti, cancellieri, e altro, voltata bandiera, ora per seguitare a rubare gridavan libertà e rubavan meglio. I soli uomini onesti avesser cariche o no, che pur si sarebbero acconciati alle nuove cose, vistele iniziate da cotali archimandriti se ne disgustaron subito. Non fu più forma né sostanza di giustizia. Armata mano discacciarmi via i regi giudici da parecchi circondarli, messi su i supplenti paesani, o confratelli dei comitati. Quindi giudicar nuovo: sentenziar sempre i retrogradi, assolver sempre i fratelli, calunnie, spie, false testimonianze. Colpa esser dabbene colpa stomacar di quei fatti, delitto esser nato di padre realista, delitto aver parenti in corte, delitto non dar danari, non chinarsi a' nuovi potenti, onde dovevi o incallire agl’insulti o menare il bastone, unica medicina. Di leggi antiche niuna s'eseguiva, di nuove si parlava per ischiamazzare, solo scampo la legge del forte, però ciascuno s’afforzava come poteva. Così l'ire cittadine e la guerra civile covavano. Nulladimeno sì pensava quello essere provvisorio, l’apertura delle camere legislative troncherebbe quei guai cui dicevano insiti alle mutazioni, aspettavamo.
Ma i comitati rivoluzionarii che volean far monopolio della libertà elettorale, per mandar alle camere uomini da sospingere la rivoluzione, lavorarono a far uscire una legge di censo basso, perché s’eleggessero loro adepti nullatenenti; laonde compilarono dimando dottrinali e critiche sul censo, e mandavanle con deputazioni a' ministri, bene udite e bene accolte. Sotto tali impulsioni l’ultimo di febbraio il Bozzelli promulgò la legge elettorale provvisoria, e ’I decreto che convocava le camere pel 1. marzo. In quella indicava la popolazione del regno continentale aver 6,531028 anime, e i deputati uno per quarantamila, e sarebbero 161; determinava esser elettore chi avesse ducati 21 di rendita, eleggibile chi 240. niuno si contentò; chi volea progredire a repubblica trovavan alto, chi sottostava alla costituzione diceva! basso. Altri sclamava a dirittura il censo incompatibile con la libertà; il cittadino o povero o ricco è parte della nazione, ha dritto a eleggere e ad essere eletto, e movere i destini della patria. Cotali scontentezze e ‘l continuo sospinger della setta partorirono poi il ministero del 3 aprile.
Intanto intristendo le cose siciliane, ponevano in tante dubbiezze l’altra della pace o della guerra fra le due parti del regno. In Messina sin dal 6 gennaio s’era trovato sui cantoni un disegno con Sicilia piangente, s’era insultato ai regi stemmi, e gridato Pio IX e lega italiana. Al 25 fischiarono il presidio mentre il generale Ferdinando Nunziante il passava a rassegna; e come per prudenza non venner repressi, trascorsero a creare un comitato di trecento, e chiamarono all’arme la città. L’altro dì alzata bandiera di tre colori assalirono la cinta di Terranova; ma più volte respinti, piantarono cannoni di marina sulla strada d’Austria, traendo alla Porta che mena alla cittadella, e co' moschetti fean fuoco dal convento di S. Chiara. Il comandante la piazza, general Cardamone, non ossando pigliar partito da sé, ne scrisse a Napoli; e 'l ministero rispondeva si difendesse, non usasse bombe né cannoni. Di ciò scienti i Messinesi, avuti da Palermo altri cannoni e munizioni e uomini prepararono senza ostacolo mine, trincee, mortai e batterie da percuotere i Borboniani; e il 20 febbraio né fecero il primo saggio. Gl’Inglesi s’intramisero, volevano il comandante lasciasse i forti, e si chiudesse in cittadella; il che negando egli, fur ripigliate le offese. Sopraggiungeva il disertore Longo con Palermitani e cannoni inglesi; e ricominciato a' 22 il fuoco da tutte parli, pigliava in due ore il forre Realbasso e la cortina di Terranova; che le milizie regie per le ministeriali ingiunzioni pugnarono irresolute. Fecero centoventi prigionieri al Realbasso; e incontanente arsero i quartieri all’entrata di Terranova, sendosene i soldati ritratti alla cittadella.
Questa fazione fe’ salir gli animi de' ribelli a immoderata boria; non vider fermata a' desiderii;e ricusarono qualsivoglia offerta de' nostri ministri costituzionali. Ma questi intenti a favorirli buccinavan che abbandonando affatto l’isola, meglio si verrebbe a convenzione con essa; e già avean mandato l’ordine incredibile che Castellammare di Palermo si cedesse. Il comandante Gross era allora intrattenuto da offerte di mediazione dell'anglo commodoro Lusington; il quale con patente malafede forniva intanto arme e munizioni a' rivoltosi. Un dì si pose co’ legni in mezzo per dar tempo a' ribelli d’armare le batterie del molo;il Gross gli intimò si scostasse o che trarrebbe su di lui; e com’era uomo da farlo, l’ottenne, e fe’ tacere le batterie. Così si difendeva alla gagliarda; ed era in sul più vivo del fuoco, quando gli giungeva l’ordine ministeriale di cedere. Si diniego, giusta l’ordinanza che prescrive volersi lo scritto di pugno del re; e i ministri dichiarando barbarie quel versarsi sangue, l’ottennero. Ubbidì dolentissimo il comandante; e il disertore Longo si compiacque d’andar là esso a prender possesso del luogo. Il Gìross a 5 febbraio usciva, battente il tamburo, con uomini, arme e bagaglio; e recò intatta la bandiera a pie’ del sovrano. Dopo pochi mesi volle fortuna ch’egli stesso chiudesse il Longo nella torre di Gaeta.
Il nostro ministero cominciò a trattare il cambio dei prigionieri e degl’impiegati. Ve n’era di Siciliani in Napoli, e di Napoletani in Sicilia. V’andò Luigi Lauch capitano di vascello, con tre piro-scafi; il quale a 8 marzo sottoscrisse la convenzione, onde ciascuno potè tornare in patria. I Siciliani più imbaldanziti dal vedersi pregati, ricusarono la costituzione; dissero voler quella del 1812, e regno separato; ma intanto assalivan soldati ove né vedevano: Trapani, Melazzo, Catania; Acireale e Siracusa, ritratte le milizie alle cittadelle, erano sgombre; non pertanto il ministero chiamò a Napoli tutte le soldatesche, abbandonando i forti: Melazzo a 11 febbraio. Augusta su’ primi di marzo; e in breve solo in Siracusa e Messina avevam le cittadelle. Grave fatto questo abbandono, perché quelle terre fortificate e occupate avrian ritardate le mosse della sollevazione, e impedito l’armarsi in punto; ma perdute quelle terre, tutta l’isola buon grado o malgrado ebbe a seguire la rivoluzione.
Il re mandò a Messina il general Pronio, con ordine di tener la fortezza. Giunsevi il 23 febbraio sul Sannita, con altre tre compagnie di Pionieri, Zappatori e artiglieri e munizioni da guerra; cominciò nunziando la dimane a Messina il desiderio di pace e fratellanza, ma se lo assalissero tirerebbe con tutte armi. Risposero all’indirizzo con cannonate, ed ei co' cannoni controrispose. I rivoltosi avean fatte batterie incontro al bastione S. Chiara, sulla Fiumara, presso la diruta chiesa S. Girolamo, nella stradetta de' Bottari, dietro il palazzo S. Elia, alle Quattro fontane, sulla piazza Madrice, al forte Andria, alla Flora, presso la casina a dritta del noviziato, nel noviziato e sotto la porta Messina, tutte con grossi cannoni, salvo quella a S. Girolamo di mortai. Avean poi asserragliate tutte le vie uscenti alla cittadella. In questa il Pronio trovò 71 cannoni, 15 obici cannoni, e 4 mortaci; nella batteria Lanterna 7 cannoni, 46 cannoni obici da ottanta, e tre cannoni obici minori, in tutto 154 bocche da fuoco. Potevano i Siciliani far l’assedio con parallele ne’ campi Mosella, ed approcci secondo l’arte; e così avrian salvata la città da ogni danno; ma elevate batterie nel bel mezzo di essa, questa stava esposta alle bombe delle due parti pugnanti; il che fu apposto a malizia de' Palermitani per l’abbassamento di Messina. Il Pronio occupò il Lazzaretto, vi piantò batterie, rovesciò il muro avanti l’arsenale, rioccupò il bastione D. Blasco, e a 21 febbraio ripigliò Terranova a baionetta calata. I ribelli rafforzati da settecento uomini arrivati con Pasquale Miloro da Palermo, e da altre genti tenute da altri luoghi, fecero duce il Nizzardo Ignazio Ribotti corso da Roma in Sicilia.
Cominciò una guerra davvero; però avvezzi a vincere con le grida, i Palermitani ripigliarono i piagnistei per le cannonate e le bombe, sopratutto per l’incendio del Portofranco che apponevano a' cannoni regi; ma non par probabile i soldati nel calar della zuffa pensassero a trarre là donde non veniva offesa; invece fu credulo una mano iniqua appiccasseviil fuoco a disegno per rubarne le mercanzie; come di fatto avvenner furti moltissimi, pe' quali pur feron processi. Nulladimeno strepitavano, e facevan cantare i consoli esteri; quasi la cittadella assalita da loro non avesse dritto a difesa. Inoltre i fratelli di Napoli che non avean tenute per barbare le morti de' Napolitani, subilo gridavano alla barbarie de' soldati. Abbasso il ministero! pace con la Sicilia! Così i Siciliani erano a quei Napoletani settarii più fratelli de' Napolitani stessi; così i soldati non potevano combattere senza esser barbari né ritrarsi senza esser vili.
Tutta Sicilia in disordine era dominata da ferocia e violenza. L’odio contro Napoli spinto a fanatismo, i loro giornali immoderatamente né insultavano, mentre i giornali nostri sclamavan pace; uniti a percuotere il trono. Gli undici giovani arrestati il giorno 9, e tenuti a Castellammare, come uscirono divennero gli eroi del tempo; e con menzogneri racconti facean pompa di mali trattamenti non patiti, per darsi aria di martiri, e cumular odio ad odio. Deste tutte ambizioni, deposti quanti erano impiegati regi, non bastavan le cariche a meritevoli di premio uguale. Quello non era governo, ma imperio di circolo, e ve n’era di molti; i quali co' comitati ciascun avendo speciale potestà, ma opposti interessi, battagliavano a chi più torre danari. Cento comandi e forze e voleri contradittorii, ognuno a ordinare, a operare a suo modo, e sempre a nome del popolo e del bene universale; onde la vinceva chi più veemente per voce, audacia ed esagerazione. E come lo schiamazzare portava fortuna, oggi dì più crescevano schiamazzatori. Quindi tumulti e crudeltà continue, la tranquillità scomparsa; esaltate le menti, le ire, e tutte superlative passioni. La Guardia nazionale temente fuggiva il servizio, e bisognò sforzarla con minacce. Le campagne eran corse da predatori; né più s’avea sicurezza di roba né di persone, né in istrada, né in casa.
La nobiltà paga d’essersi emancipata da Napoli, tosto s’accorse che usciti i creduti padroni, avea in esso perduto i protettori della proprietà. Molti di essi devoti al re, esularono spontanei, e patiron anche la confisca. Molti altri eran novatori per moda, o ambizione; onde videro con ispavento le ambizioni plebee che più novatrici di loro, aspiravano a rovesciarli per ispartirsene le spoglie. Non potendo rivolgersi alla monarchia tanto offesa, non ebbero altra via di salute che lanciarsi nella rivoluzione per guidarla a loro prò, ma arduo era a condurre a bene quei vorticosi flutti di mali; e lo stringersi attorno a Ruggiero Settimo, vecchio e indolente, era poco ausilio; sicché anzi il domar la tempesta, iterano ingoiati. Già le imposte mal pagate, o malversate non bastavano al gran bisogno; già si fondevano gli argenti delle chiese, si confiscavano i beni de' Gesuiti, si vendevan fondi nazionali, già nuovi debiti pubblici, e nuove tasse e confische. Dove s’andava a terminare? Ma a malgrado questi patenti mali; e la temenza del peggio, pur la vinceva il timore dell’armata rivoluzione; onde i signori si gettarono a farle eco. In essa l’odio di Napoli e lo spavento dell’arme regie erano spinta a moderati passi; quindi tutti concordi a vituperare Napolitani, a calunniare il re, a diffamarlo, e a turbare con emissarii e ogni maniera d’incitazioni il continente. Si maneggiavano co' rivoluzionarii nostri, e con tumulti e giornali e invettive facean da' Napolitani stessi gridar contro la guerra siciliana. E mentre inducevano il ministero ad abbandonar l’isola, eglino con libelli infamavano e gridavano vili i soldati, la stampa sicula gittava il fango in faccia a Napoli; e la stampa napolitana non rimbeccava già gli oltraggi, ma vi faceva il ritornello, e aggiungeva.
Da' gridi plateali sospinti, i ministri del re, si dettero a terminar la controversia siciliana. Sin dal 1. febbraio s’eran volli a Lord Napiere al conte di Montessuy incaricati d’affari d’Inghilterra e Francia, perché facessero da mediatori, il Napier rispondeva farebbelo, con certe assicurazioni di concedersi la piena divisione dell’isola; perlocché gli si faceva osservare la integrità della monarchia pattuita con l’articolo 104 del congresso di Vienna a' 9 giugno 1815, segnato anche dalla G. Brettagna, non poteva essere alterata dal re senza infrangere il trattato; cosi la pratica cadde. Invece speravan molto nell’opera del Mintho, corso qui ambasciatore straordinario d’Inghilterra. Dopo le preparate parti, ei veniva a porre in azione il dramma. Il comitato palermitano uvea desiderato lui compositore, e lui sublimarono a giudice i ministri regi. Condiscesero a molto; fra l’altro che l’isola avesse amministrazione e parlamenti separati, e che restasser pari di dritto quei nobili che l’eran per gli antichi parlamenti; ma il comitato ottenuta una cosa, né chiedeva un’altra, onde continue conferenze tra il Mintho e i ministri, i quali sospinti sempre dalla setta ogni di calavano a maggiori concessioni, che già infirmavano la integri là del reame. Ma giunti al punto dove quel nodo volea colpo di spada, stanchi della lotta, si dimisero a 1. marzo, dichiarandole ragioni. Enumerate le quistioni già risolute con regie concessioni, dissero una rimanerne vitale: «Voler Sicilia che il re non tenesse colà soldati se non siciliani, e a ciò non potersi accedere, perché annienterebbe il dritto regio del muovere le forze unite del doppio regno, sarebbe anche all’isola dannoso, che ampia e poco popolata, non poteva aver milizie sue bastevoli a difenderla da assalto straniero; e inoltre il divieto a' Napolitani del militare colà ferire l’italico pensiero che di tutti gl’Italiani una famiglia vuol fare. Sendo impossibile a conceder tanto, non volerne la responsabilità, né turbar con essa l’italico progresso; ritrarsi piuttosto, e sfiorare ch’altri ministri armonizzassero meglio interessi e desiderii opposti, e gravi d’inevitabili perigli.» A cotai discorso i demagoghi rispondevano: «Mostruosa esser la guerra fratricida; Messina s’abbandonasse, i parlamenti de' due regni provvederebbero.» Se ne fe ne’ circoli strepito infinito. Il ministero la dimane si dimise tutto; poi al 6 si modificò, scambiate sedie fra loro, tolto il general Garzia, salito l’Uberti alta guerra, Giacomo Savarese a' Lavori pubblici, il principe di Cariati agli Esteri, Carlo Poerio all’Istruzione, e fatto ministro di giustizia Aurelio Saliceti, uomo d’ambizione furibonda. Rimasero Serracapriola presidente, Dentice, Torella, e Bozzelli. E anche tal mescolanza tacciarono retrograda; e Raffaele Conforti, fatto dal Saliceti prefetto di polizia, ricusò, perché carica indegna de' suoi spiriti progredienti; e n’andò a' cieli.
Il ministero, a purgarsi della brutta taccia di retrogrado, risolse la controversia sicula concedendo quasi ogni cosa. Tennesi alla reggia consiglio, con intervento di undici nobili Siciliani e del Mintho; il quale minacciando che pe' moti di Francia l’isola trascenderebbe a pronunziare la deposizione del monarca, propose il re legalizzasse in suo nome l’atto di convocazione del parlamento siculo. Subito i Siciliani presenti, e i nuovi ministri, e i precedenti (salvo tre) approvarono; e dopo discussioni di molte ore, si fecero decreti con data di quello stesso dì 6 marzo, si può dire dal Mintho dettati. Il parlamento vi si convocava a' 25, per aggiustar la costituzione del 12 al tempo e a' bisogni della Sicilia, ferma l'integrità della monarchia. S’approvava la legge fatta a' 24 febbraio dal comitato rivoluzionario per l’elezione de' deputati; le parie temporali e spirituali vacanti o possedute da non Siciliani, proponessele la camera de' Comuni, con proporzioni triple a quelle de' Pari; i deputati di Napoli e Sicilia porrebbersi d’accordo su’ comuni interessi; luogotenente nell’isola un principe reale o un Siciliano, per allora sarebbelo Ruggiero Settimo, che v’aprirebbe il parlamento. Inoltre si nominarono ministri siciliani i più rivoluzionarii: Pasquale Calvi a Grazia e Giustizia, il principe di Scordia all’Interno, il marchese Torrearsa alle finanze; comandante le armi a Palermo Giovanni Statella, e ’l fratello Errico a Massina, ambo Siciliani. Da ultimo si decretava ch’ove i due parlamenti non s’accordassero, né fossero arbitri quelli di Piemonte e Toscana; e ov’anco questi discordassero, arbitro inappellabile Pio IX. L’ultimo decreto definiva la formola del giuramento. Dell’esercito, principal pomo di discordia, non si fe’ motto, forse perché il Mintho volea lasciare il lievito ad altra pasta. Ma le cose concesse, ove fossero state accolte, avrian di fatto distrutta l’integrità della monarchia, serbata a parole; elevavano il parlamento a costituente, il re facean re nominate, disceso a far suoi luogotenenti e ministri gli archimandriti della risoluzione; rendean questa legale; e ponean dritti e interessi nazionali in arbitrio straniero. Con siffatti decreti Lord Mintho tolse l’assunto di pacificare gl’isolani col re; e incontanente il 7 si partia per Palermo sull’Hibernia, seguitato dalla squadra inglese, e co' due Statella.
Intanto mandava altri col capitano Gagliardi a Messina per far sospendere le ostilità; chetava la cittadella, non i rivoltosi. L’8 marzo lanciarono da tutte le batterie inumerevoli colpi sino a mezzanotte; e lo scoppio d'una bomba nella direzione del bastione S. Carlo, produsse incendio nel magazzino delle vesti del 15 di linea, e negli alloggi degli uffiziali. Mentre s’accorreva a spegnerlo, tutte le campane di Messina suonavano a festa, tutti i cannoni traevan là dove il Turno segnava la mina, per colpire la gente intenta a salvar sé e la roba da tanto danno. A mezzodì della dimane ripresero il fuoco; rispose la cittadella, e con una bomba arse due case propinque alla batteria di Mezzo Mondello; laonde il comandante proibì il trarre su quel luogo. Ma che valea ricever crudeltà, ed usare pietà? Il mondo dovea risuonar di lamenti siciliani per darmi da esso loro provocati, mentre i loro bullettini di guerra raccontavan mirabili prodezze. Seguivan vane discussioni sulla fregata inglese Thetis, col suo comandante Codrigton; ma non si potè concludere tregua, perché i Messinesi diretti dal disertore Longo chiedean patti cui il regio consiglio di difesa rigettò. Volevano elevar opere da offesa senza esser combattuti; e come la cittadella alzava opere difensive, ricorrevano al Codrigton, perché non si danneggiasse la bella Messina.
Ruggiero Settimo avea sin dal 17 febbraio nunziato con proclamazione alla Sicilia la venuta del Mintho, però si preparavan ricevimenti da re a quello, gridato saldo propugnatore della rivoluzione italiana. Giunse a 11 marzo; restò sul vascello, né scese a terra. Al suo primo apparire la gente dabbene in gran numero a Palermo e a Messina esultò alla nuova della riconciliazione col sovrano; ina chi non volea pace, subito a renderla impossibile, gridò al Tiranno! Al Bombardatore Altri sclamava: «La Sicilia fu altra fiata tradita dall'Inghilterra; non vogliamo Inglesi, non mediazione, non protettorato, ma guerra.» Il segretario Stabile parve frenasse a stento quei demoni. Quel medesimo dì il comitato ricusò nettamente i decreti regi, replicando voler costituzione del 12; ma incaricava una commissione scelta nel suo seno, perché recasse al Lord sulla nave gli omaggi debiti al suo grado, e con esso discutesse le condizioni essenziali su cui si potesse trattare, e riferissele al comitato per le risolvilo definitive. E lo stesso dì ricusati gli Statella, rimandaronìi a Napoli.
Il ministero che vedeva andar in fumo la pace con l’isola per essere operoso sul continente, proclamò un debito di sei milioni di ducati; che fu il primo frutto cavato dalla costituzione.
Era stato decretato le guardie urbane s’appellasser nazionali, e s’accrescessero con nuovi ruoli. Leopoldo zio del re ch'avea molti anni comandata la guardia civica di Napoli, si dimise; e per decreto de' 2 marzo surrogollo il liberalissimo principe di Strongoli. Crearonsi anche maggiori e colonnelli. Domandavano cannoni e artiglieri,un posto di guardia da contenere l'artiglieria nazionale, e ottomila fanti pronti al bisogno; poi richiedevan arme sempre, quasi fosse guerra imminente: e arme avevano. Prima in una volta trentamila fucili, poi 4500 alla guardia di Calabria, duemila a Caserta, presi dalla sala d'arme di Capua, e altri molti appresso, sempre pochi al desiderio. Talvolta non giungevano al luogo, ché per via gli stessi mandanti, avvisali i faziosi, facevanli rapinare; e stampavan presi dal popolo.
Lo statuto concedeva alla guardia lo eleggersi gli uffiziali; ciò schiuse un inferno. Era un solo parlare; nella guardia nazionale la guarentigia, la sicurezza, l’avvenire della libertà, niuna franchigia senza di quella esser buona, fu messo da canto il pensiero del parlamento, per diffinir l’ardua questione del vestito nazionale, se cappello o cimiero, se spade o daghe, e dopo lunghe discussioni vinsero cimieri e daghe. A 15 marzo il Bozzelli die’ a un parto i sospirati decreti pel vestito, e per l'elezioni degli uffiziali. Subito il sole splendé su migliaia d’elmetti, e beato chi primo vestisse in divisa, questa beatitudine di libertà, spavento di Tedeschi, risorgimento d’italico valore. Sostarono industrie, litigi, faccende commerciali, e sin le cose amorose e musicali e ogni pensiero della vita; tutti attorno alle liste della guardia nazionale. Però fatte a furia in quel primo empito, intramessivi ambiziosi, tristi, e pazzi, riuscirono mostruosa mescolanza: vecchi, fanciulli, oziosi, paesani, siciliani, esteri, retrogradi, liberali, mazziniani, nobili, plebei, possidenti, proletarii, onesti, ladri, casalinghi e vagabondi, fu moltitudine di gente eterogenea per pensieri, età, grado, ricchezza, passioni e interessi;ed essa doveva essere il palladio dell’età nuova. E chi non stava ne’ ruoli, si poneva in fronte al cappello una piastra d’ottone, si buscava un fucile, e, messo tra mezzo a gli altri, eccolo difensore della libertà.
Come lo ubbidire in tempo di libertà lor parea vergogna, tutti volean comandare, perlocché alle elezioni fu un visibilio: partiti, brogli, calunnie, zuffe da per tutto, ché tutti voleva esser capitani. In molti paesi corsero schioppettate; schioppettate e uccisioni furono a Cancel d'Anione e ad Avella, ne’ soli distretti di Caserta e Nola, e cosi in tutte provincie. Riuscirono capitani moltissimi ribaldi, schiamazzatori, pagatori o prepotenti, ciascuno credentesi maresciallo, superiore a ogni potestà. Qualche buono fu miracolo. E quasi gli spallini-fossero insegna di rivoltura, il più di quei comandanti serviandi veicolo alla setta; ed eglino dappoi indirizzavano reiezioni de' deputati, eglino adunavan gente per servizio della congiura, armavanle, incitavanle; e i mandatarii partenti da Napoli in ogni luogo volgevansi a essi capitani, siccome a uomini fidati ch’avean naturalmente a secondar la guerra civile. Videsi manifesto la con vocazione del parlali ionio essersi tardata a posta, per crear prima la forza da por mano alle elezioni, per elegger uomini ligi a' comandamenti segreti, e capaci di rovesciar la monarchia. Prima la guardia nazionale, poi l’assemblea; prima Farini, poi la ribellione.
Ciò si vide meglio in Calabria. V’eran tornati con la costituzione i ribelli, i quali sotto specie di festeggiare s’eran messi a costruire la rivoluzione. Tra questi era un Domenico Mauro di S. Demetrio nel Cosentino, poetastro, semi letterato, e peggio che del suo spiritato verseggiare si serviva a fin di setta; il quale in lega col romano Benucci fittaiuolo delle dogane, o’ Romeo e Plutino di Reggio. e con tutti i fratelli calabresi, già nel 45 arrestato per cospirazione, sin dal carcere avea guidata la sedizione del 15 marzo 1844 in Cosenza. Poi liberato, poi ricarcerato e riliberato, si trovò in Napoli nel 29 gennaio 18, e fe’ l'atto come dissi di voler pugnalare il re; indi a poco fu inviato a Cosenza per voltar quelle provincie a repubblica. Stretto era con moltissimi già condannati e graziati, e di pessima vita, de' quali cito soli fra tanti un Giovanni Mosciaro di S. Benedetto Ullano, e un Pietro Salii di Cosenza; il primo nato d’un manutengolo di masnadieri e ladro, cui fu tronca una mano dal boia. e nipote d'un falsario di carte bancali, morto nel carcere di Cosenza; il secondo omicida nel 1817, arrestato per furto nel 26, relegato a Ponza nel 37. e graziato dappoi. Ambo rei pe' fatti del 44, e perdonati. Cotesta schiera si sparse per le Calabrie, e alla prima creò in Cosenza un Circolo nazionale, con uno statuto issofatto da essi dato alle stampe, dove non si tacque il fine fazioso tra le frasi di sicurezza ammendamento, svolgimento e progresso: designato numero di soci, segreto scrutinio su’ candidati, adunanze straordinarie per urgenza, corrispondenza con gli altri circoli di Napoli e del regno, pagamenti di prestazioni, cassiere ecc. Né fu presidente Tommaso Ortale leguleio, capo di duella abborracciata guardia nazionale; s’adunava nella sala del real collegio. Oltre questo furon altri circoli in Cosenza e in quasi tutte città calabresi, erettivi la maggior parte dal Mauro. corrispondenti, lavoranti unanimi al comando d’una mente. Solo nel Cosentino ve n’eran Scalea, Castrovillari, S. Demetrio, Rossano, Saracena, Lungro, Altomonte, S. Donato, S. Basile, Cassano, Amendolara, Spezzano Albanese, S. Lorenzo del Vallo, e altri. Lo stesso nell'altre due Calabrie e in Basilicata. Tai circoli avean gradi e numeri progressivi; e mentre cospiravano per vendette e disordini, taciuto il primo nome di Giovine Italia, si appellavano chiese; e spesso vi aggiungevano il nome d’un qualche vicino fiume; così chiesa di Lagania, chiesa di Garga, chiesa del Pennino, e altrettali. Empie liturgie nello aggregare adepti, e un sommo sacerdote; il quale in stola nera, e così due sacerdoti assistenti, faceva giurare l'uomo, tenendo un pugnale infisso sul costato del crocifisso, e il messale aperto; giurare di vincere o morire, distruggere i Borboni, migliorar la costituzione sino all’ultimo sangue, e difender le Calabrie; poi inviolabilità di segreto, e morte a' trasgressori. Uno di tai sommi sacerdoti predicando nel circolo di Saracena eruttò: «Cristo fu seguito da dodici straccioni di Apostoli, né volle tributi; mentre il re vuol pagata la fondiaria, fa la coscrizione, e mantiene i soldati a spese de' popoli; perciò si deve sterminare con tutta la famiglia.» V’era altresì un commissario organatore di siffatte congreghe; esse tutte già in marzo erano erette.
Lavorando alla rivoluzione, non è credibile quante pazze ed empie proposizioni ed atti ostentassero. In Bollita di Basilicata certi un dì a desco battezzarono sacrilegamente un ariete e una vacca, co' nomi del re e della regina; e mangiate le carni, gittando l’osso a' cani; dicevano: «Té l'ossa di mastro Ferdinando: Tè rossa di monna Tesesa! Il nostro ministero avea fatto intendente di Cosenza Tommaso Cosentini, vicepresidente di quel circolo, perché bene stesse delle mani d’un caposetta tutelato il regio potere. Il simigliante fu a Catanzaro, a Reggio e a Potenza. Così con la potestà nelle mani, si potè a Cosenza procedere a un altro atto significativo di fellonia; a' 15 marzo disotterrarono l’ossa de' morti e giustiziati per la ribellione del 44, e con gran pompa menaronli alla cattedrale; poi tre dì salmodie e prediche, dove un Orioli, frate domenicano, si scagliò contro il re e il suo governo.
Colà come nell’altre parti la guardia nazionale s’era fatta a libito, senza norma legale, con i più faziosi a capi; essa ed essi parati a eseguire la congiura, pertanto come usci la nuova legge sulla Guardia nazionale, tementi veder diroccato l'edifizio, e restar essi capi esclusi col nuovo organamento, corsero al rimedio. Subito il circolo nazionale cosentino mise la legge a esame, e udisti superlative arringhe. Il Mauro sclamò: «Bisogna ricorrere all’arme; e basteranno le tre Calabrie a rintuzzare il tiranno.» Quindi con atto d’aperta ribellione contro il potere esecutivo, rigettarono la legge, e mandarono in giro una lettera circolare in istampa a 18 marzo, con questi sensi: «La legge è inadatta a' bisogni del paese; e perché imporla molto che tutti fossero del nostro pensiero, e abbracciassero un sol partito, né diremo le ragioni: Il governo già n’avea mandato una circolare di norma sull'installazione della Guardia nazionale, che non piacque; perché n’avria dato una guardia come la precedente Urbana, si manifestò la scontentezza al ministero, ed ei promise nuova legge; ed ecco ora crede contentarci con questa ch’è con altre parole una seconda edizione della circolare. Però la città di Cosenza rappresentata da numerosa assemblea, ha pubblicamente dichiarerò che l’organico novello ha molti vizii radicali; e i principalissimi sono; 1. Che rinnovando l’elezione secondo il regolamento nuovo non avremmo quel che più importa, l’anello e il cemento che lega tra loro le guardie de' capoluoghi e de' comuni. 2. Si creerebbero altre difficoltà di partiti, moltissimi già inclusi ne’ ruoli sarebbero esclusi, sia per età che per possidenza o per l'opera d’un partito malevolo.5. Lasciando stare la Guardia com’è fatta, abbiamo un corpo organizzato, e compiuta almeno a metà una grann'opera, cioè l’organazione provinciale di corrispondenze, e intelligenza tra le Guardie de' capoluoghi e de' comuni, ciò che menerà a grandi risultate ti, e che prestissimo dobbiamo compiere. Sformando questa per far la nuova,nel frattempo non possiamo operar nulla, e passerà ozioso qualche mese. Ma non avrem forse il bisogno d’essere armati e disposti a ogni evento? qual buon Calabrese vorrà aspettare un altro mese? Impertanto Cosenza non accetta il nuovo organico; desidera che i distretti, i comuni, e i paesi tutti né segnali l’esempio; che valerà a far comprendere al ministero i Calabri essere un popolo ch’ha già rotte le catene, e compresi i suoi diritti.»
A’ 25 marzo Domenico Mauro stampava una proclamazione, dove messo fantasiosamente l'Immagine della repubblica con un piè sulla Senna, e l’altro sul Monte bianco, e definita la nuova legge fonte di mali e disordini, causa di anarchia e sociale dissoluzione, invitava i popoli ad armarsi. A capo di due giorni usciva altra lettera del Comando Generale della Guardia Nazionale di Cosenza, ordinante: 1. Che il Capo della Guardia nazionale di Cosenza comandasse tutte quelle della provincia. 2. Una giunta eletta ad assisterlo deciderà su quanto è da operare, composta di uffiziali, e di Domenico Mauro, Raffaele Valentini, Domenico Furgiuele, Biagio Miraglia e Domenico Parisi. 3. Stabilita corrispondenza uffiziale tra esso Capo e quei de' distretti e comuni. 4. Potendo verificarsi il bisogno d’unir forze in qualche luogo, si formasse in ogni comune una Guardia mobile pronta ad accorrere.
Per tai lettere e maneggi non s’eseguì la legge in nessun di quei luoghi, e restaron l’arme in mano di gente trista pronta a sollevazione. Atto ribelle fu, preludio al 15 maggio, perpetrato da quelli stessi che corsero poi a Napoli a compierlo, e che fiaccati andaron predicando spergiuro il re. Intanto anarchia: si gridava Abbasso i realisti! si perseguitavan famiglie e persone oneste. Il monaco Orioli quel dì che le soldatesche di Cosenza davano il giuramento alla costituzione, concionava per le strade sulla distruzione de realisti. Si facevan cadere cento teste, gridava. In Cassano Abbasso il Vescovo! suggellaron le porte dell’episcopio. In Rossano fecero serrare il seminario. Da Castrovillari scacciarono il sottintendente; scacciaron da Cosenza il tenente colonnello Simoneschi comandante le armi. In altri luoghi mutavan snidaci e decurioni, frangevan gli stemmi e le statue regie, gridavan Morte al tiranno! e sin tentavano i soldati a proclamar repubblica. Aggiungi le instillate idee di comunismo spingere i contadini a correre in fretta a Cosenza più volte, a chiedere partizioni di terre pubbliche e private. E il Mauro spalleggiando diceva: Vengono a rivendicare il loro! Seguirono armata mano innumerevoli danneggiamenti, devastazioni e arsioni; talvolta gl’istigatori usurpavan per sé, talvolta facevan le porzioni altrui. Invasero a tamburo battente e bandiere un territorio del barone Campagna, altro de' fratelli Gaudio, e quei de' comuni di S. Cosmo, S. Demetrio, Amendolara, Campana, e altri.
La Guardia nazionale anche prima della legge avea in Napoli stesso riportato vittoria de' Gesuiti. Con lunga premeditazione sin da due anni s’andava dicendo gran male di quell’ordine, scritti libelli infami, e il Gioberti in più volumi avea ricantate le viete accuse, dicendoli puntelli a tirannide. Risposero i padri, ma fu voce fievole nel deserto. Invero eglino al tempio nostro non s’impacciavan di cose di Stato, eran censori di libri, come altri preti, anzi men severi di quelli. Facevan prediche, limosino, scuole gratuite al popolo, confessioni e altre opere buone; onde avean clienti assai nobili e plebei, dotti e ignoranti. Ultimamente apposer loro a colpa la eredità d’un marchese Mascari, ricchissima, ila in essi a danno degli eredi; onde surta lite ebber la sentenza a favore. Per fermo avean più amici che nemici quando in quest’anno 18 corse per Italia l’ordine settario della loro cacciata, dicevano per toglierne lo aiuto al potere assoluto, veramente per isveller dal popolo quei predicatori di morale e religione, che tacevanlo cheto ed ubbidiente. Prima in febbraio Cagliari e Genova tumultuosamente li mandaron via; poi in marzo Piemonte, Piacenza, Verona e altre; né poteva Napoli comparir da meno e mostrar d’esser men libera, però in consiglio di stato né fe’ proposta il ministro Aurelio Saliceti. Costui nato di povera gente d’Abruzzo, avea comincialo da cancelliere di giudicato regio; onde allora studiò legge, e venuto a Napoli, pei’ amor di don zella brigò e ottenne cattedra all’Università, indi uffìzio di giudice di tribunale; per gratitudine abbandonò la innamorata fanciulla, e menò mala vita privata, e peggio pubblica. Plauditore a' potenti, dedicò una magra traduzione del Giobbe al ministro di polizia Del Carretto, suo protettore. Surto maravigliosamente liberale e plauditore al 29 gennaio, fu estolto a intendente in Avellino, e tosto a ministro; e come la setta predicavalo campione e uomo immacolato, egli aspirando a dittatura, non ostante avesse versificato Giobbe, volle farsi primo a percuotere i Gesuiti. Pertanto concionò in consiglio: la compagnia di Gesù rea d’avarizia, sospetta d’altri delitti, screditata, incompatibile col novello stato, aversi a provvedere, anzi che farsi sorprendere e rimorchiar da' tumulti. Voleva provvedere appagando voglie disordinate; ma i colleghi di quel ministro di Grazia e giustizia, non trovando graziosa né giusta la proposta, non gli badarono.
Dovendo il Saliceti esser fatto un grand’uomo, e parer profeta, subito se ne fece avverar la profezia. La sera del 9 marzo s’iniziò una dimostrazione in via S. Sebastiano, ov’è una porta della casa gesuitica; eran men che cento a gridare Viva Gioberti! abbasso, fuori, morte a' Gesuiti! ma comparsa una pattuglia di Svizzeri, voliamo con Viva gli Svizzeri! e se ne andarono, promettendo tornare al mattino. E fur puntuali, ché mentre i padri la dimane piativano per su i ministeri a invocar la tutela della legge, fu ripigliato lo schiamazzio al largo del mercatello; e più animosi per non opposizione, mandar dentro sul mezzodì una deputazione con foglio scritto e non firmato al rettore del convitto, intimante sgombrassero il luogo incontanente, o ferro e fuoco. E tardando la risposta, fecero scendere a parlamento alquanti padri cui replicarono a voce le minacce, avvalorate dalla facondia di certi uffiziali di guardia nazionale; sicché forte spauriti firmarono obbliganza di lasciar loro case all’ore dieci del dì appresso; né ebber concesso più tempo. Intanto vedevi cartelli sulle mura con firma Il popolo napolitano, inculcante alle famiglie di ritrarre dal convitto i figliuoli, o che sperimenterebbero il furor popolare. Così a nome del popolo contro il popolo s’inveiva. Fu uno spavento, un accorrere di trepidi genitori, a pie’, in carrozza, a cercar de' bambini piangenti e tremebondi, e a stento fra la calca trarli dalle condannate mura; fanciulli fuggiti soli, spersi per le vie; e madri e parenti a chiederne, a lamentarsi, a disperarsi.
In quella il Saliceti baldanzoso proponeva in consiglio si facesse inventario dei beni e delle carte della compagnia. Bene i suoi colleghi cicalavano sulla illegalità del fatto, ma niuno s’alzava ad impedirlo; né più discutevano sul proibirlo, ma solo sul modo d’attenuarlo. Quelli uomini già cospiratori, posti al governo stordivano, né sapevan reprimere l’onda ribelle da esso loro messa su. La fazione del Saliceti la vinceva.
Sebbene fosse pattuita la partenza pel dimane, la guardia nazionale si lancia come d’assalto; piglia chiesa, atrii, corridoi, scuole, celle e ogni cosa: mette sentinelle agli aditi, manda pattuglie attorno, e al silenzio di quelle mura fatte per istudii e meditazioni, succede fragor d’arme,frastuono, scalpitio dì turbe tumultuanti e discordi. Fra tanto gridare inviolabilità di domicilio e di persone, si violavan le persone e ì domicilio d’un ordine religioso stabilito da Santa Chiesa. I padri memori degl’assassinii di Madrid nel 1831, si raccomandavano a Dio, e Dio lor mandava soccorritori in quella stessa guardia nazionale. Ivi eran giovani stati loro scolari, amici, clienti, congiunti di quei tribolati; i quali presentendo perigli, s’eran lanciati dentro con gli altri, pronti a battaglia, ove si fosse trasceso a maltrattamenti. Intanto i tristi a padroneggiare, a comandar alto, sputar parole pazze e nefande. Chi chiedeva il tesoro, chi le scritture, chi le camere segrete colme d’ossa umane, e chi volto a più materiali frutti della vittoria invadeva cucine e dispensa, e gloriosamente saccheggiava le mense, persuasi non avessero i Gesuiti più a mangiare. Satolli, facean fardelli, andavan col bottino a casa, e ritornavano pel sopraccarico; onde si resero abbietti a quei medesimi incitatori della liberalissima impresa.
Eppur quei religiosi si confortavano sperando uscir presto d'affanno; promesso di sgombrare per la dimane, già si figuravan le carezze di congiunti ed amici in grembo alla città ospitale. Già qualcuno impaziente per andarsene il di stesso, vestiva panni da secolare, e si volgeva alla porta, ma riconosciuto era tracotantemente ricacciato dentro. S’avvidero allora esser prigioni, e che strillando fuori i Gesuiti li volean dentro a forza. Sul tardi venne il direttore di polizia: «Non volere, diceva, non potere i ministri lor comandar nulla, essere illegale il procedimento, ma in tempi torbidi comandare il popolo, chi opporsi? meglio la compagnia di Gesù involarsi all’ira pubblica uscendo dal regno; ciò non comandarsi, consigliarsi.» l padri rispondevano: «Aver promesso lasciar la casa, non il reame; quello essersi chiesto, quello convenuto. L’esilio perché? senza delitto, senza giudizio, bandirsi uomini religiosi, molti d’età grave, moltissimi giovanetti, sol rei d’aver la veste d’Ignazio; facesserli uscire dalla casa, al resto Dio provvederebbe.» Il direttore recava tal risposta al consiglio de' ministri, e né tornava a un’ora di notte, dichiarando: «Ciascun Gesuita esser libero; poter restare in convento i vecchi e i malati, e altri quattro a custodire la chiesa e amministrare la casa, cui non era da considerar disciolta. Recassero con esso loro le masserizie, solo suggellati restasser gli archivii e le biblioteche». E tosto ordinava i suggellamenti, e che sgombrasse!’ gli armati, entrasser pure i congiunti de' padri a menarseli a casa. Reiterava gli ordini stessi il colonnello della guardia nazionale, e parca s’eseguissero. Ecco i dimostranti del mattino a strepitare, a gridar tradimento; tutti tutti dover spatriare, anche i vecchi, anco i malati, aversene a sterpare la semenza. Infra lo schiamazzio, il direttore imbalordito scese a interrogar la volontà de' battaglioni della guardia nazionale (così riconoscendo in questa il dritto sovrano) della quale eran presenti i singoli drappelli. Di dodici battaglioni tre soli votaron per l’esilio, nove pel no; nondimeno i tre sommarono più de' nove; i tumultuanti la vinsero su’ bonarii, ripresero le poste, né fecero uscir niuno. Nelle sedizioni le passioni ree trionfali sempre sulle buone.
Fu un irrompere, circondar d’ogni lato il luogo, chiamar i padri a rappello, numerarli come galeotti, correre alla cerca di qualche mancante, puntar baionette alla gola; e dall'altra un trambasciare, un umiliarsi, un rassegnarsi alla volontà di Dio. La notte crebbe le furie e le paure. Trovali in una vicina casetta diciotto padri, itivi a rifugio sin dalle prime aggressioni, trasserneli violentemente in mezzo all'arme e quasi a berlina, e per via Toledo ricacciaronli in convento. Stretti quasi tutti in una sala; tutta notte senza letti, senza pane, in disagio, guardati a vista da guardiani sbevazzanti adusati al mal costume; né pria del mezzodì della dimane s’ebber qualche reficiamento. Tratti a due a due in refettorio, trovaron solo pane e formaggio, ché le minestre naufragavan per via, sfamanti nei corridoi quei patrioti. Tornati nel salone, da capo l'appello e la numerazione; dappoi sull'ore quattro pomeridiane sendo pronti a partire, arriva il Bozzelli a confortarli con una concinne: «Stessero di buon animo, non a andare in bando, ma lontano, per sol quei momenti tempestosi; scortali sì da soldati, ma per difensione. Andrebbero per mare; alla Darsena si imbarcherebbero; lungi da terra saprebbero la destinazione.» I padri, niente racconsolati, fecer rimostranze; ma i viva e i bravo affogavo n le proteste, come tamburi a condannati. Scesero quanti erano, pur vecchissimi e malati; anche uno Spagnuolo ottuagenario e paralitico, messo in seggiola a ruota, sospinto in una carrozza, non ostante gli spasimi, a peregrinar pel mondo. E la pubblica potestà guardava.
Non perciò paga la setta, volle pubblico trionfo, per dar prova di sua forza. L’ora vespertina, via Toledo popolosissima, lunga sino al molo, seguenza di venticinque carrozze, migliaia d'armati, fanti, cavalli, cannoni, ministri, generali, trombe, passo lento, spesse fermate. Ciò forse a ludibrio, perché il volgo credesse giusto il gastigo: invece fe’ compassione. Uomini venerandi, predicata virtù tanti anni, confessato, benedetto, ministrati sacramenti, menati allora senza perché come fiere, come briganti al supplizio: quel paralitico e canuto, su quella seggiola in cocchio, sofferente e insanguinalo, quei volti pallidi per insonnie e digiuno e patemi fean miseranda vista. La moltitudine silente, attonita, spaurita, chi tremen compresso, chi piangea, chi storcea gli occhi. Assai poveri per quella cacciata perdeano il sostentamento, molti genitori la gratuita istruzione desigli, molte famiglie i consolatori nelle avversità, e il più della stessa Guardia nazionale arrossiva dell'opera sua. Quello spettacolo dissuggellò gli occhi sull'avvenire, l'onesta gente cominciò a trar le mani da quel processo.
Navigarono prima a Baia, dove a certi padri venne fatto con mentite vesti trafugarsi in braccio a' parenti accorsi alla spiaggia, la maggior parte stivati sul Flavio Gioia vaporetto da quaranta cavalli,usato già alla deportazione da' galeotti, fur poi messi su’ lidi di Malta, isola padroneggiala da protestanti, dove almanco trovaron ricovero e ospitalità.
Ciò su’ primi giorni di nostra libertà spaventando la buona gente, era per contrario celebrato da' tristi, che ne davano il primo vanto al Saliceti, fatto subito famosissimo, e più dopo. I suoi trascorrendo le provincie ponevanlo in cielo, come patriota vero, e campione di quella vittoria. Allora il costituzionale Bozzelli sclamò: Napoli aver bisogno di gendarmi e Del Carretto! Pria che si compiesse il mese facean lo stesso a' Gesuiti di Roma: similmodo, stesso effetto, uno il pensiero.
Ma nella città nostra la plebe pel fatto de' Gesuiti sospettò peggio. La dimane 12 marzo certi studenti gridarono Abbasso a' frati del Carmine, di che i popolani del mercato sospettando volessero rifar la stessa storia, li perseguitarono a sassate, e tutta la notte e ’l dì seguente stettero avanti la chiesa vigilanti, con l’immagine della madonna al collo. Nessuno osò tornare: ond'eglino fidando nel numero, passata l'ora sospetta, s’incamminarono in frotta per via Marinella alla reggia, con Viva il re, e la madonna del Carmine! Non fecer atto di male, se non che al caffè d'Europa, rinomato ritrovo di liberali sul cantone tra Toledo e Chiaia, spezzarono i vetri. Subito surse un voce quelli volessero saccheggiare, però il ministero che inerte avea guardato la cacciata de' Gesuiti, si fé operoso a ordinar la dispersione de' lazzari. Questi investiti dalla Guardia nazionale e da Svizzeri con moschettate e baionette, dettero indietro lasciando feriti e prigioni. Molto lodalo fu pertanto il ministero d'aver usato forza contro quel non popolo ma plebe superstiziosa, retrograda, non degna di costituzione ma di bastone, solo popolo vero e libero esser quello trionfatore dei Gesuiti. Due illegali attruppamenti, uno a offesa, altro a difesa, uno con fucili, altro con pietre, quello avea encomii, questo schioppettate, barbarie reprimer quello, gloria fiaccar questo; eppur quello era stato esempio e sfida a questo. Mar fra' due popoli era un cotal divario: ambo di proletarie, uno amava la fatica, mangiava col lavoro, vestiva giubba e camicia, e credeva alla Madonna, l’altro non volea faticare, amava l’altrui, e vestiva giamberga gridando Italia. Il ministero s’accorse la popolazione sentirla male, né fe’ più toccare i frati, anzi al 15 decretò la G. Nazionale sotto la protezione della Vergine del Carmine, e promise una gran festa a suo onore.
Intanto si proseguiva ad anarchia. La stampa inveiva contro persone e cose sacre, propagava nelle provincie i pensieri e i voleri della Giovine Italia; strombazzava vergogne, avversava qualsivoglia atto governativo a disegno; e questo diceva esser lotta generosa di libertà contro tirannia. Gli uomini del passato governo non avean requie, designati a ludibro, diffamati con calunnie, fischiati per le vie, dovean calarsi a spatriare. Il Gen. Ferdinando Nunziante che nel precedente settembre avea doma la rivoltura calabra, confinato a Caserta, udiva sua fama lacerata; il Vial già governatore di Palermo, uscito dal regno, avea fischi a Genova; monsignor Code confessore del re, perseguitato, ebbe a 4 marzo visita dal prefetto di polizia a Castellamare ov’era, e costretto a ramingare a Malta, condotto dal Nettuno pacchebotto reale.
Compresero i buoni quello non esser tempo da starsi; mandarono a' ministri una petizione con migliaia di firme reclamante provvedimenti forti. E i settarii spaventati al veder la forza di quel popolo, fecero altri indirizzi con altre migliaia di firme, vere e false, chiedenti una legge contro gli assembramenti. E il ministero anch’esso considerando quel popolo assembrato all’avvedersi di sua forza poter reagire, fe’ subito un progetto di legge provvisoria contro gli attruppamenti, ’l propose in consiglio di stato, dove suscitò gran rumore; perocché li Saliceti non volendo che quella legge osteggiasse altresì il suo popolo progressivo, e arrestasse la rivoluzione, strepitò, minacciò peripezie e tempeste, e volle anzi dimettersi che sottoscrivere; onde i più furibondi celebráronlo uomo invitto. Questi era sì cieco per la repubblica, che sperava farla col re, o con l’aiuto del re. Il Poerio, il Savarese e l’Uberti voleano anch'essi ritrarsi dal ministero, ma pregati dal Cariati, stettero. Lo stesso dì 12 marzo al Saliceti fu surrogato il Maccarelli; e la legge passò, ma più fiacca e smozzata; però non bastevole all’uopo, anzi che. paura provocava le risa ogni volta che s’attuasse. Era prescritto non so qual cordone in collo all’eletto del quartiere, e che cosi dovesse ordinare alla folla di sgombrare; ma colali intimazioni non ubbidite mai, né seguite da repressioni, riusci van commedie, con urli e fischi; vergogna alla potestà.
Altro decreto dichiarò le Guardie d’onore Guardie nazionali a cavallo; altro richiamava a servire gli uffiziali deposti nel 1821, cioè quei pochissimi che non avean fruito delle grazie precedenti. Questo lamentarono ingiusto, perché si voleva gli uffiziali richiamati avessero altresì le promozioni come avessero servito. Altro a 17 marzo, abolendo la Gendarmeria, creava la Guardia di pubblica sicurezza; ma sendo la gente stessa, a gendarmi odiati era mutato nome, cappello e rivolta al vestitola quale posta gialla fe’ che la popolazione a dileggio appellasseli i canali. Quei ministri che non sapevan né abolir la cosa né tenerla, cangiavan nomi e colori; codardia e incenso a' tempi, cui non osavan far contrasto, né voltare a bene.
A 24 marzo con due decreti s’aboliva la presidenza dell’università degli studii, instituita sin dal 12 settembre 1822; e creavasi una commissione provvisoria di pubblica istruzione, presieduta da! ministro, col carico del riordinare lo insegnamento nel regno, e censurare i metodi e i professori. Quel dì medesimo vedeva altro decreto che convocava i collegi elettorali per reiezione de deputati sul continente, pel 12 aprile. Né fu dimenticato uno strale a Roma: s’ordinò una commissione da compilare una proposta di riforme al culto e al concordato col papa, da presentarsi al parlamento.
In frattanto il comitato siciliano confabulava col pacificatore Mintho, ossequiandolo più che re, mentre al sovrano e alla nazione napolitana dava offese invereconde. Ricusarono i decreti regi conceditori di tutto quanto avean prima chiesto, ripetendo la formola È troppo tardi. Gli animi superbissimi di quei ribelli isolani sperano esaltati per le lodi di tutto il mondo settario, che dicevano dessi con la loro vittoria aver fatto le rivoluzioni italiane, senza di essi starebbesi ancora a pitoccar grette riforme, meritar riconoscenza e gloria, doversi batter medaglie col motto Palermo l’eroica. Rigonfiati per la rivoluzione parigina, pel programma del Lamartine, per le incitazioni britanne, per le sventure tedesche, già dettavan leggi da trionfatori, laonde sdegnavano altresì d’entrare in trattato co' ministri regi, e giunsero a dimandare al Mintho che Ferdinando abdicasse a pro del figlio. Lo stesso lord approvando il diniego siculo a' decreti del 6 marzo da esso stesso dettati, e da esso recati a Palermo, insisté proponessero altre condizioni. Discussele in più conciliaboli con la commissione, e aderendo egli, n’uscì a 16 un ultimatum, come base di riconciliazione, così.
«Il re non più del regno delle due Sicilie, ma re delle due Sicilie s’appellasse, rappresentasselo nell’isola un viceré, principe reale o Siciliano, con alter-ego irrevocabile, e potestà esecutiva secondo la costituzione del 1812; rispettarsi gli atti e gl’impieghi diplomatici civili e militari, e le dignità ecclesiastiche si dessero a soli Siciliani, e dal potere esecutivo là risiedente; serbarsi la Guardia nazionale, con le riforme che farebbevi il parlamento, rilasciarsi fra otto giorni le due fortezze rimaste al re, e se ne demolissero le parti nuocibili alle città, a grado del comitato o de' municipii; la Sicilia battesse moneta da determinarsi dal parlamento; serbare i tre colori e la nappa rivoluzionaria; darlesi il quarto della flotta, dell’arme e arnesi da guerra del regno, o invece lo equivalente in moneta; non parlarsi di spese di guerra, ma i danni recati al porto franco e alle mercanzie in Messina pagarsi da Napoli; i ministri di guerra e marina, d’affari esteri, e di tutte faccende siciliane, responsabili a maniera costituzionale, risiedessero colà col viceré; non dover esser nessun ministro d'affari siciliani in Napoli; il porto franco di Messina riporsi com’era prima del 1826, tutti gli affari d'interesse comune si tratterebbero d’accordo fra' due parlamenti; facendosi lega italiana, l’isola manderebbe legati distinti, nominati dal potere esecutivo siciliano; da ultimo le si dessero i vapori di posta e di dogana, comprati con danaro e pel servizio di Sicilia.»
Cotali eran le condizioni consentite dal pacificatore Mintho; e con esse il comitato permetteva il re avesse titolo di re delle due Sicilie; con patto che queste e altre dimando da farsi, s’approvassero ad eseguissero prima della convocazione del parlamento (pel 25 marzo); in contrario tutto cadesse. Proposte a disegno per averne rifiuto; né sai se più di oltraggio al re o alla nazione napolitana. Posavan sulla divisione del regno, e ponean l’esercizio diretto della potestà sovrana subordinato a condizione di residenza, cioè l'opposto del principio d’integrità della monarchia, messo dal re a base (fogni concessione. Serbare a ludibrio nome di re, e a dare altrui alter-ego irrevocabile e indefinito? Napoli costituzionale ceder fortezze, arme, munizioni, pagar danni, senza l’assenso del parlamento? e poteva questo approvar tanto obbrorio per l’onore di cosiffatta pace? Napoli pagar i danni d’una guerra riuscente a pro di Palermo? Ov’anco l’isola indipendente trattasse da nazione a nazione, potea giustamente voler che Napoli solo pagasse il debito pubblico stato comune, e d'avvantaggio desse navi e armi, quando invece era notorio il continente in passato avere speso due milioni e mezzo per tener l’isola? Conceder tutto fra otto dì, col coltello alla gola, senza neanche entrare in preliminari di pace? accrescer la forza al nemico, e poi tornare a guerra? Se un esercito siculo fosse stato vincitore attorno Napoli, affamando il re e la città, non poteva dettar a' vinti più dure e vergognose leggi. Nulladimeno il Mintho pigliava l’incarico di trasmetterle al sovrano, di che tutta plaudivalo Palermo, appellavate difensore de' popoli oppressi, e per segno di pubblica riconoscenza davagli una statua marmorea di Ferdinando II. Vedi pacificatore che per guarantigia di pace fra popolo e monarca, piglia da quello lo strano donativo del simulacro del monarca. Egli fe’ tosto una corsa a Messina, disse per curiosità; visti i fortini costrutti da' ribelli sulle alture, diretti da uffiziali inglesi, li approvò, ed eccitò a guerra i Siciliani.
Giunto in Napoli a 17 marzo l’ultimatum, la fazione filo-sicula e la calabrese, invece di mostrarsi offese delle arroganti intimazioni, e delle stomachevoli burbanze della stampa isolana, l’appoggiavan anzi con grida e giornali. Dicevano: «perché non concedere prima della rivoluzione Francese? perché non si cede ora almeno? sapienza è cedere a tempo, il tempo stringerà più il nodo, che guerra? che patti? pace a qualunque costo fra popolo e popolo.» Volevano unire Italia e dividere il regno. Ma non potendo il re chinare il capo a quell’indegnità, col pusillanime assentire al regio disonore,il ministero volse istanze al Palmerston a usar di sua potestà sul Mintho, per indurlo a persuadere agl’isolani più miti sensi, e conformi a' veri interessi delle due parti del regno; ma presto le risposte di quel pacificatore, dichiaranti la inalterabilità delle sicule proposte, resero ultronee tutt’altre umiliazioni, andò in fumo ogni speranza di pace. Pertanto il re a 22 marzo, con solenne atto, rammentati i decreti concessi al dì 6, considerando qualsiasi modificazione a quelli violare l'integrità della monarchia, protestava solennemente contro qualunque atto seguisse nell’isola avverso agli statuti fondamentali del reame. E il ministro d'affari esteri comunicandolo al Napier lamentava la durezza de' Siciliani, che turbava l’italica risurrezione, e l’indipendenza della patria comune, appunto nel momento supremo in che tutti gl’Italiani dovevano affratellarsi negli sforzi e nella volontà. Ma il Mintho, autore di tanto fuoco, dettatore de' decreti del 6 marzo, portatore di essi, consigliatore di respingerli, scriveva inoltre il 21 marzo al Palmerston ch’essendo il parlamento siciliano per decretare la separazione dell'isola, saria stata buona politica il riconoscere il governo separato. La dimane in ringraziamento il principe di Scordia invitavalo a mensa, ed ei v’andava coll'ammiraglio Parker ed altri Inglesi. Dopo tre dì, cioè il 25, con maraviglioso progredimento precedendo gli avvenimenti, scriveva al Palmerston: «Il dritto de' Siciliani a deporre il loro re, se fondato sull’articolo 8. della costituzione, sarebbe al più dubbioso, ma non si può negare avervi essi più forti ragioni che non l’Inghilterra nel 1688, per isbarazzarsi d’un’intollerabile tirannia.» E poco appresso in un dispaccio del 1 aprile aggiungeva: «I principali di Palermo pensano potersi ancora salvar la monarchia, chiamandovi qualche principe di casa Savoia.» Cosi fingendo temer proclamazioni di repubblica, profetava. Dimostrava la giustizia della deposizione del re un mese prima della deposizione, metteva innanzi il Savoiardo tre mesi prima dell’elezione, e co' suoi dispacci precorreva la via agli atti del parlamento. Volontario s’era offerto pacificatore, appunto per far la pacificazione abortire. E lord Palmerston dappoi a 29 giugno, lodandolo nella Camera inglese, disse con gravità di volto: i consigli del Mintho in Italia aver prodotto in ogni parte fortunati frutti.
Nientedimeno il ministero napolitano cedevole al gracidar de' trivii. ripigliava con petulanza da accattone le pratiche, e offeriva l'una sopra l’altra novelle concessioni, tutte con disdegno rigettate. Eppure quasi accordo fosse seguito, ei faceva senza guerra a 21 marzo sguarnir di arme e armati il forte di Siracusa, già ben difeso dal vecchio general Palma, così sbrandellando la monarchia, e traendo in sembianza di vinti i prodi soldati.
I capi della rivoluzione tenevano a Londra agenti segreti presso al Palmerston, e, sicuri di soccorsi inglesi, facevan promesse pubbliche, e v’aggiungevan menzogne per ispinger le popolazioni contro il re. Instituivano una festa commemorativa del 12 gennaio, stampavano avere un battello siculo fugato a Milazzo la flotta intiera di Napoli, due reggimenti di soldati scesi a Sciacca fatti a pezzi, poi la cittadella messinese presa d’assalto; il re fuggito, e ora a Malta, ora serratosi in Capua, ora morto. In quella caldezza il comitato di Palermo, con l’intervento di delegati di Messina, Catania, Siracusa e altre città, avea dato a 24 febbraio una non so se legge o decreto, invitante la nazione a eleggere deputati, con norme indicate, simili molto alle inglesi, con ampliazioni da quelle stabilite nella tanto invocata costituzione del 1812; cui fuor del nome niente rispettavasi; e fermavan la convocazione delle camere pel 25 marzo, per adattare a’ tempi quella costituzione. L’elezioni si fecero a' 15 con voti quasi universali, ed ebbero 160 deputati del cuor loro. Similmente seguito lo squittinio de' pari, fu con pompa aperto il parlamento generale sul mezzodì del giorno indicato in S. Domenico a Palermo, presenti i diplomatici stranieri, e popolo immenso, squillando le campane, fra colpi di cannoni. Dopo la messa e la benedizione, surse Ruggiero Settimo, presidente del comitato, con studiata diceria a dichiarare aperti i parlamenti di Sicilia. Lodava la rivoluzione, magnificava preparativi di guerra, e come già una flotta e un esercito invincibile stessero parati a difesa; citava i regi decreti del 6 marzo, dicendoli non bastevoli a tutelare i dritti dell’isola; e tenerli come non avvenuti; dichiarava invalida la protesta regia del 22 marzo, e richiedeva pari e deputati votassero la legge definitiva del potere esecutivo. I pari fecero presidente il duca di Serradifalco; i deputati elessero il marchese Torrearsa, e vicepresidente Emerigo Amari. La sera feste, luminarie e baccano. All’apparente libertà de' voti la setta, per assicurarsi la servitù delle assemblee, avea posto questo riparo: laddove le camere non fosser d'accordo, sorgeva un comitato misto di numero uguale di pari e deputati, ma presieduti dal presidente della camera bassa, il quale valendosi del suo voto facea sempre rigettare il parere de' pari. Ciò servi a spaventar questi signori, i quali vistisi sempre perdenti, e starvi per forma, approvava sempre, senza risicar la pelle in quell’anarchia.
Il parlamento per primo atto decreto: «Il potere esecutivo è fidato a un presidente del Governo del regno di Sicilia, da esercitarlo con sei ministri da lui scelti ed amovibili, egli ed essi responsabili de' loro atti.» La camera de' deputati fe’ presidente il Settimo, i pari aderirono, e restò casso il comitato. Egli a' 27 si fe’ il ministero cosi: Mariano Stabile a esteri e commercio, il barone Riso a guerra e marina, Michele Amari alle Finanze, Pasquale Calvi a Interno e sicurezza, il principe di Butera a istruzione e lavori pubblici, Gaetano Pisani a Culto e Giustizia. Questi cominciarono chiedendo un prestito di mezzo milione d’onze, e ’l parlamento a 30 marzo l’approvò, e anzi a facilitarlo die’ a 13 aprile facoltà al ministro delle Finanze d’emetterne certificati di rendita al cinque per cento.
Al 1. aprile decretarono si dichiarasse agli altri stati d’Italia voler Sicilia libera e indipendente far parte dell’italica confederazione, e si presentassero tre bandiere a Torino, Firenze e Roma. Il La Masa detto colonnello propose si mandassero cento giovani alla guerra lombarda; li raccoglieva, e avuto l'assenso solo de' deputati a 17 aprile, lo stesso giorno partiva con essi, pria che i pari approvassero; e sbarcò a Livorno. Nella tornata del 7 il La Farina concionò, perché si facesser cannoni dell'enee statue de' re di Sicilia, onde meritò plausi strepitosi, ma il ministro Stabile, temente altri nol passasse avanti co' sensi liberali, osservò già essersi abbattute a Messina le statue di Carlo II, Carlo III e Ferdinando II, avvegnaché questa fosse lavoro egregio del Tenerani; ond’ebbe plausi maggiori. La camera approvò, aggiungendo anche si fondessero le campane dei conventi soppressi. La stessa sera, senza aspettarsi la risoluzione de' pari, la marmaglia col grido Morte a Ferdinando, die’ addosso a quant’eran regie statue in città; solo risparmiò Carlo V in piazza Vigliena, sebben di bronzo, forse perché stimaron liberale Carlo V. I pari, dopo il fatto, a' 19 approvarono. La rivoluzione balda, a ricisa, senza titubare procedeva dritto. L’era animo e consiglio l’Inghilterra; sicurezza le peripezie europee; superbia le lodazioni settarie, l’incenso della napolitana stampa, e le Bassezze del nostro ministero; perocché gli uomini odiano il nemico pugnace ma odiano e sprezzano il nemico cedevole; perché quando s’è posto mano a' ferri, non v’è strumento meglio del ferro efficace a persuadere.
Avendo l’Inghilterra nutricato la setta tant’anni, e ora sguinzagliatala sull’Europa; ardendo Germania, sendo repubblica Francia, e Italia guazzante in libertà; fiduciosi trionfando i novatori, né di niuno impossibile dubitando; e stando rannicchiati oltre il Mincio i Tedeschi, mal sicuri in patria e fuori, Carlo Alberto di Savoia stimò quell’occasione esser unica a porre in atto i vieti sogni sabaudi sul conquisto d’Italia. L’incita il ministero Brittanno, spingevelo il Mazzini fido al suo programma, vel lancia l’amo ingannatore di cieca ambizione. Gli antichi legami del 1821 con la setta, benché poi disdetti, allentati o sconosciuti, ora rannoda; e mentre essa tende a servirsi del suo braccio ed infrangerlo, egli si vale degli annosi sforzi di quella, sperando spegnerla poi, e seder sul retaggio di lei. Sa bene la profetata mazziniana repubblica, ma crede comprimerla con la sua monarchia. Lega infedele di due maniere di tristi, concordi al conculcare i diritti altrui, concordi nel non dividere la preda, ciascuna parte aspirante all’intiero, e farla all’altra. Impertanto unite a gridar progresso, leggi e nazionalità, ambe proclamano un dritto che dicono nuovo; e ell'è vecchio quanto le umane ingordigie. La setta nullatenente, ancora che sconfitta, guadagna sempre un po’ di cuccagna; ma egli re, discendente di monarchi gloriosi, mette in bilico il trono; il nome regio, l’onor di cavaliero, spezza legami di sangue, d’amistà, di riconoscenza, calpesta solenni trattatile si lancia nell’abisso delle rivoluzioni, per istender la mano ad ardua corona, che sempre arse le tempia di chi la cinse.
In faccia al mondo s’aonestò con una scritta, stata principio di quella tela di barocchi sofismi ch’andò poi sempre tessendo il Piemonte a giustificar sue aggressioni. Il suo ministro a 25 marzo mandò un dispaccio ai connivente ministro inglese, e agli altri ministri esteri a Torino, in questi sensi: «Primo dovere d’uno Stato rassicurare il suo essere, però dove eventi di forza maggiore e simpatici al paese sorgendo ne’ vicini Stati metteano in periglio il governo, questi doversi premunire dalle catastrofi che il potrebbero trarre a mina. Lombardia in foco reagire sugli animi in Piemonte, la simpatia per la vincitrice Milano, lo spirito di nazionalità prorompente, tutto concorrere ad agitar Torino, tanto da far temere il rovesciamento del trono. Fatta repubblica Francia, repubblica sarebbe Lombardia. I moti di Modena, Parma e Piacenza, sulle quali Savoia avea ragione per dritto di riversibilità; la esasperazione surta in Liguria e in Piemonte pe' trattati fra quei Stati ed Austria, che sotto colore d'esser soccorsi facevanli annessi all’Impero, né portatali le frontiere di qua dal Po, e rompean l'equilibrioitaliano, mostrava chiaro potere il Piemonte a udire repubblica in Lombardia cadere in commozione da squassare il trono. Pertanto il re forte del suo dritto per la conservazione del suo; forte de' dritti sul ducato di Piacenza, di cui non si era tenuto conto col trattato del 24 dicembre 1847, essere in debito d’operare in guisa da impedire che Lombardia voltasse in repubblica, e tanta catastrofe ardesse tutta Italia.»
Fingeva temer la repubblica, e correva ad aiutare la rivoluzione, dimostrava la necessità dell'intervento quello Stato eh andò sempre sguainando il nuovo principio del non intervento invocava dritti di riversibilità su Piacenza esso che dappoi negò lo stesso dritto a Spagna su Napoli e all’Austria su Toscana. Ma il dritto nuovo è appunto il mutar dritto a seconda dell’interesse. Dodici anni dopo, il figliuolo Vittorio proclamava consimiglianti ragioni, invadendo lo stato del Papa e il napolitano: impedire la repubblica o l’anarchia, ma veramente per pigliarsi lo altrui. Accorrere per guardar l’armento, e mangiarselo, è la vecchia favola del lupo.
Operò anche perfidamente. Sfringuellando i giornali sardi per eccitar gl’Italiani a crociala contro l’Austria, il ministro austriaco a Torino, chiestone ragione, n’aveva il 22 marzo parole dolci; lo stesso re la sera protestavagli fede inviolabile, parentela vera, e religione di trattati, onde quegli, fidando nella sacra regia parola, scrisse in modo da dileguare i sospetti dell’Imperatore. Dopo quattr’ore Carlo Alberto lasciava Torino, spiccava il dispaccio ch’ho rapportato, e più il suo famoso manifesto a' popoli Veneti e Lombardi, laudatore della rivoluzione, e dichiarante accorrere per dar loro lo aiuto dell'amico all'amico, del fratello al fratello; e che a prova del suo desiderio d’Italica unione passerebbe la frontiera con sulle bandiere lo sendo sabaudo e i tre colori. Smettendo tutti gli usi guerreschi usati sin dall'antichità, entra in guerra senza dichiarazione di guerra. La prima brigata è a Milano il 26 marzo, ed ei v’arriva il 29, con trentamila soldati.
Quel governo provvisorio fe’ battaglioni di più migliaia d’uomini raccolti. Altro migliaio ne mandarono Parma e Piacenza. Un colonnello Brocchi dal Modanese ne condusse tremila con sei cannoni. Da Firenze ci nome del Granduca giunsero cinquemila soldati e tremila volontarii con un generale Ulisse d'Arco Ferrari. Molti battaglioni accorsero da Bologna e Ravenna. Da Roma il napolitano Ferrari che aveva accozzati duemila volontarii, e il Durando con settemila soldati, fra' quali gli Svizzeri papali, mossero per la guerra, senza licenza del papa. Al Durando faceva da aiutante di campo il romanzatore d'Azeglio, stato come dissi di costa al Mintho. Di Sicilia narrai: v’andò il La Masa con cento. Anche in Francia l’associazione italiana raccolse una compagnia, e in aprile la fe’ navigare a Genova con un Antonini, donde volse a Pavia. Da ultimo vennevi d’America lo avventuriero Giuseppe Garibaldi. Questi fuggito da Nizza sua patria nel 1834, corse il mondo industriandosi al cabotaggio; poi con altri Italiani si mescolò nelle fazioni pugnanti a Rio lanerio e Montevideo; e scoppiata l’italica rivoluzione, prese con danari della Giovine Italia cento venturieri, e sbarcò a Genova in aprile. Carlo Alberto nol volle accogliere, parendogli vergogna il contatto di quella gente; ma per ordine del Mazzini accolselo Milano; ed ei si mise a Como a reclutar volontari. De’ Napolitani iti a quella guerra ora parlerò; ma questo fu tutto lo sforzo della setta per iscacciare il Tedesco.
L’esercito napolitano, lasciata per ordine la Sicilia, avea viste le mutazioni del regno senza far atto; sopportò sovrapposti alla sua bandiera i tre colori ch’avea combattuti, sentiva percossi i suoi migliori generali, aboliti i gendarmi, l’armi in mano a plebe; s’udiva vituperare, e si taceva fremente, e si stava immoto per disciplina, ubbidiente alla sovrana volontà. Ma i faziosi a forza di gridar vigliacchi i soldati sel credettero davvero; e smarrito il senno, anzi che lavorare a guadagnarli presero a più nimicarli. Vano dicevano, non buono a nulla tanto armamento, non occorrere mercenarii, la nazione armata difendersi sua libertà; dell’esercito propugnacolo di tiranni aversene a disfare, e far risparmio. Il perché le milizie offese sull'onore e sull'essere, stavano come foco compresso. Nondimeno i congiuratori mentre affettavano spregio sì da porre i soldati in avvilimento che li tenesse dal reagire, dall’altro non se ne fidando, né osando assalirli, cercavan lustre da torseli da torno con qualche bel modo. Con la congiuntura della guerra lombarda s’ingegnarono a mandarli fuor del regno.
Il marchese Luigi Dragonetti vecchio cospiratore, carbonaro e deputato nel 20, esule in Roma, fu dei fondatori e compilatori del Contemporaneo. Il governatore Grassellini lo consiglio d’andarsene dallo Stato. Subito i circoli in tempesta, e tanto che il governo con discapito della dignità sovrana, ebbe a pregarlo che restasse. Era pur colà giunta una Cristina Trivulzio Belgioioso, donna lombarda, notissima settaria, ch'avea scritto a Parigi nell'Ausonia, giornale precursore della rivoluzione, e in novembre 47 avea fatta l’arrabbiata in Roma per circoli e caffè. Questi due, il Dragonetti e la Cristina, udita la costituzione in Napoli vennervi accompagnati il 4 febbraio. Non era ella bella né giovane, ma vestita come maschera per farsi sguardevole; perciò seguitata molto da giovanotti, di quei che vanno matti appresso al nuovo. Segrete laudi raccomandavanla; ed era poco men del Mintho predicata dama di progresso. Certo non era venuta a far nulla; e come le riforme voltarono a costituzione, colei alla Marfisa spasimava guerra, e adescava i giovani a seguirla in campo contro i Tedeschi. Già si magnificava radunanza de' Romani al Colosseo de 23 marzo, quando il Barbatula padre Gavazzi avea predicata la crociata; l’entusiasmo, i giuramenti, le concioni, le seguite benedizioni di bandiere, e poi le partenze dei militi romaneschi, le proclamazioni, e i nomi de' Ferrari e de' Durando s’andavan gonfiando. Si taceva che il papa avea vietato di passar le frontiere, per contrario il motto Italia farà da sé si facea volar dall’alpe al Sicano. Impertanto la Belgioioso gavazzeggiando predicava pur fra noi la crociata, e tirò centoventi giovani, cui pose in petto di gran croci rosse. Arrivava inoltre un indirizzo d’invito del comitato genovese per dar aiuto a' Lombardi, poi la novella della cominciata guerra, con menzogne di morto Radetzki, fugato l’Imperatore, e che so altro. Subito si gridò morte all'Austria, e si chiesero arme e soldati. Volersi ben altro sforzo, dicevano, che pochi volontarii; un reame di Napoli, tanta parte d’Italia, dovere a possa concorrere alla redenzione, doversi soccorrere i fratelli Lombardi con grosso esercito disciplinato contro l’orde barbare, e così con lavacro di sangue riguadagnar la rinomanza del napolitano vessillo. Tai voci della Belgioioso e de' suoi eran vampe, poi una lettera del Mazzini divulgata ne’ giornali fu fuoco su fuoco.
E perché il governo vincolato da' trattati non poteva condiscendere a guerra senza cagione, lu per ordine di setta a togliere la ragion del niego imitato quel che a 21 marzo s’era fatto a Roma. Una mano d’audaci, il più Siciliani e Lombardi, venuti a posta a far le parti di tumultuanti nelle nostre vie, trassero la sera del 25 sotto il palagio dello Schwartzemberg ministro d’Austria, e con atti e motti ingiuriosi, sendo presente la guardia nazionale, tirate giù l’arme imperiali, le strascicaron per le strade, e l'arsero in piazza S. Caterina a Chiaia, fra le baldorie e gl’improperii. Si disse che Lord Mintho dalla sua finestra salutasse quel codardo attentato al dritto delle genti civili, il che non assicuro, ma l’ho notato, per mostrar qual fama ei s’avesse di gran protettore. Anche a Trani spezzarono l’insegna del console. La legazione austriaca se n’andò il 28 sur un legno da guerra.
A risoffiare nelle vampe giunsero un Leyraud incaricato di Francia, inteso a propaganda repubblicana, e un Rignon inviato sardo, chiedente aiuti alla guerra dell'indipendenza. Incontanente la sera del 26, sull'ore quattro di notte, spiegale bandiere di tre colori a Toledo, gridarono tumultuosamente avanti la reggia: Morte a' Tedeschi! Aiuto fratelli Lombardi, abbasso il ministero! sbottoneggiaron vilipendii al re, e gli mandaron su Gabriele Pepe vecchio colonnello del 1820 con altri, a chieder il modo d’andare in Lombardia. Ebber promesso armi e navi per chi volesse andare, e neppur si contentarono, e andavan dicendo il re accondiscendere per torseli d’avanti.
I centoventi della Belgioioso salparon con essa a 30 marzo sul Virgilio, pacchebotto a vapore; andarono altre due compagnie di dugentocinquanta col Lombardo a 4 aprile, e sbarcati a Civitavecchia si congiungevano a' Romani. Si allestivano altri battaglioni da uffiziali dell’esercito che n’avean chiesto licenza, e da giovani vogliolosi di mostrarsi: Francesco Carrano, Cesare Rossaroll, Francesco Materazzi, Rocco Vaccaro, e altri, ma accoglievano il più gente da trivio, lacera, disperata, corrente per pelle o quattrini. Armati, vestiti a spese dell’erario, con divise nazionali, e sulle bandiere i tre colori e 1 cavallo sfrenato, e la croce sul petto, s’avviavan cantando Dio lo vuole! come crociati. Andarono non i più liberali, ma i più rompicolli; restava chi aspettava più messe di guadagno in patria che in campo.
Si partivano sicuri che seguirebbeli l’esercito. Bruciate l’arme imperiali, itosene lo Schwartzemberg, tenevan la guerra per dichiarata; laonde i cospiratori schiamazzando chiedevan alto si mandassero i soldati a Carlo Alberto; e grosse villanie e ’l terribile abbasso scagliavano a' ministri. Questi si morivan di voglia del contentarli; ma in quell'anarchia che capitanata dal Saliceti correva a repubblica, e volea fuori i soldati per restar padrona, non osarono sfidar la responsabilità del disfarsi di quel solo strumento di ordine; però non sapendo meglio si dimisero; e fu una delle poche cose buone che fecero. Ma non si trovando successori, ebbero fra le ingiurie a stare in posto.
Già la costituzione del 10 febbraio, festeggiata tanto, non era buona più; uscì il motto esser sola buona quella del 1820; dicevanla sospesa per forza straniera,rimastone intatto il dritto; questa del Bozzelli cosa intrusa, da meritar almanco mutazioni grandi: abolimento di censo a elettori ed eleggibili, cassarsi i pari, togliersi il ceto al re. Paolo Emilio Imbriani, fatto intendente d’Avellino, ora dimessosi, dava una protesta stampata a l'aprile, contro il ministero, dettando norme di politica nuova. Costui briaco di libertà, in Avellino anzi che serbar la quiete e l’ordine com’è debito di reggitore, avea matteggiato. Era colà fuggito da Roma monsignor Grassellini ex governatore di Roma; e statovi più tempo s’era avvisato far visita all’intendente, cui perché impiegato regio credeva uomo d'ordine; ma questi chiamò a se i caporioni della piazza, certi Nisco, Vitolo, Porcaro ed altri; e li rimprocciò che sopportassero in città la presenza di quel retrivo prelato. Non ci volle altro: la sera uniscesi la plebaglia, s’accalca sotto il palazzo del vescovo ov’era il Grassellini, e grida morte e fuoco. Accorre il tenente Cosenza con pochi gendarmi; e fa ala alla carrozza dello spaurito prelato che si volle partire, e lo scorta sin fuor del paese. Questa prodezza e quella protesta valser merito all'Imbriani per salir ministro Aurelio Saliceti che come il più sfrontato era la spada della setta, e voleva rumoreggiare, compilò un programma ch'adombrava la costituente, cosa sola che voleva davvero (come indi a poco si vide in Toscana e a Roma) per deporre il re e far repubblica. Proclamava? «Sospesi i pari pieni poteri a' deputati per provvedere di accordo col re a una camera alta; per la prima volta suffragio universale, lega di stati italiani, legali a Roma, esercito e flotta alla guerra; e tutto subito.»
Migliaia d’esemplari sparsi in piazza esaltavano le meridionali fantasie. Un altro programma poco dissimile dava il poi deputato di Casoria Carlo Troya; e altro né preparava Guglielmo Pepe il generalissimo del 1820, arrivato allora.
Questi dimorato diciott’anni in Francia, era ligato a' principali settarii d’Europa. Partendosene per rimpatriare, aveva avuto promessa dal La Favette che sarebbero scesi per l’indipendenza d’Italia centomila Francesi. I liberali sperano sempre negli stranieri. Passando per Genova quella Guardia nazionale gli sfilò a onore sotto le finestre. Giunse a Napoli a' 29 marzo, appunto in quel bisbiglio; e primo corso a salutarlo fu il marchegiano conte Pietro Ferretti. Scese a casa il fratello Florestano, dove trovò la cima de' faziosi; eppure egli stampò aver con maraviglia visto che fra tanti liberali niuno pensasse a discacciare il re. Questi per contrario il colmò di cortesie, mandò carrozze sue per condurlo a corte, il menò seco a veder gli esercizii militari, e tennogli di molti discorsi. Ferdinando lo voleva ammorbidire; ed egli voleva detronizzar Ferdinando: presto l’un l’altro conobbe. In quell’interregno ministeriale, egli pronto a farsi capo ministro dettò e stampò questo programma: «Piena potestà a' deputati per rifar lo statuto su larghissime basi, sospesi i pari, riforma di legge elettorale, deputati nominati da elettori, elettore qualunque avesse dritto civile; commissarii ordinatori nelle provincie per mutarvi i municipi e convocarvi parlamenti in piazza, tre legati per la confederazioni, italiana, nuovi uffiziali civili, giudiziarii e militari, pronta partenza dell'esercito per Lombardia, le fortezze alla Guardia nazionale.» Inoltre proponea ministri esso, il Saliceti, e Conforti, Dragonetti, Poerio, Uberti, Savarese, Cariati e Lieto. Concedere tanto significava abdicare; onde il re ricusò, dichiarando non poter mutare la costituzione.
Cotesti programmi erano in sostanza uno; se non che ciascuno venuto dopo v’aggiungea, per mostrarsi più liberale; ma eran di accordo, e sempre ne’ proposti ministeri comparivan quasi gli stessi nomi. La Guardia nazionale volse una petizione al re chiedente il programma Troya. Intanto coi ministri dimessi, co' nuovi in forse, tra le passioni pugnaci di chi voleva andare adagio e di chi in un botto volea tutto, con le piazze onnipotenti, e le milizie tenute immote, non era già governo, ma tumultuosa anarchia. I colonnelli nazionali ogni dì facevan battere i tamburi per chiamata generale; e vedevi un armarsi, accorrere, timor di zuffe, rumorio incessante, sospetti, nausea universale. Alla reggia deputazioni sopra deputazioni, popolaccio insultante, dimande molte, immoderate, non paghe mai. Una di quelle andò a chieder ministro il Saliceti; e il curiale Conforti vi perorò atto di franchigie costituzionali. «È la Costituzione appunto, rispose Ferdinando, che mi dà facoltà di fare il mio ministero; la nazione sceglie suoi deputati, io scelgo miei ministri; e questo Saliceti non voglio.» Cotal niego fu la salute del regno.
Il re forte pel mandato di Dio a tutela del suo popolo, contrastava; ma abbonante di venire a' ferri piegò in parte; e lasciò che il Pigliatelli Strongoli facesse un ministero di transazione. Così surse quello del Troya, col suo famoso programma del 5 aprile, che iniziò la catastrofe del 15 maggio, e fu prima palinodia allo statuto. Carlo Troya nato nel 1784, figlio di medico di corte, tenuto al sacro fonte dalla regina Carolina, n’aveva avuto il nome; educato nella reggia ai primi anni, poi nel collegio de' Cinesi, nel 1815 fu dal re fatto capo di ripartimento di Casa reale, e indi a poco intendente in Basilicata. Ma scoperto carbonaro nel 20, ebbe esilio breve. Scrisse la storia de' Goti, e per la stampa ebbe soccorsi dal governo, opera di pregio; ma non essa, bensì l'essere uomo del 20 il fe’ degno del ministero, e del suo programma, che fu questo: «Il censo pe' deputati uguale a quello per gli elettori; poter esser deputato ogni uomo di capacità, anche senza censo (egli non ne aveva), capacità intendersi l'esercizio dì professioni facoltative di commercio, scienze, lettere, arti e industrie: questi esser di dritto eleggibili ed elettori; i collegi elettorali proporre i pari, onde il re ne scelga cinquanta; le due camere di accordo col re avessero facoltà di svolgere lo statuto, massime riguardo a' pari; invio di ministri per stringere la lega italiana; subito mandar in guerra a' rimandi della lega grosso nerbo di milizie, incontanente un reggimento per mare, i tre colori alle bandiere; affrettare il pieno armamento delle Guardie nazionali delegar personaggi organizzatori delle provincie.» Al Troya presidente fur colleghi il Vignale a Grazia e Giustizia, il Dragonetti agli esteri, il marchegiano Ferretti alle Finanze, e i generali Uberti a' lavori pubblici, e Del Giudice alla guerra. A’ 7 del mese vi s’aggiunse lo Scialoia per l'agricoltura, al 9 il Conforti per l’interno, e al 14 per l’istruzione pubblica l'Imbriani, e l'avvocato Francesco Paolo Ruggiero al culto: ministero fior di libertà. Vollero il re sanzionasse con decreto quel programma. Del quale sebben la parola svolgere adombrasse la Costituente, neppur si contentarono i progressisti; perché, dicevano, aver i ministri toccato le basi fondamentali dello statuto; e mescolatovi l'assenso regio, invece del commetterne le riforme all'assemblea nazionale; in quella guisa se il re poteva dare, poteva anche torre, e bisognava torgli la potestà del torre.
Quel Pietro Ferretti anconitano, fu rivoluzionario nel 31, videsi nel 47 in Roma per circoli e banchetti, andava e veniva da Napoli, sempre sin fuor le porte accompagnato e incontrato dal Ciceruacchio; sinché data la Costituzione, venne a seder tra noi, per dar vita a' segreti della setta. Ciò gli fu merito a salire ministro del re.
Lord Mintho, come né scrisse il 4 aprile al Palmerston, cercò trar partito dal nuovo ministero. Ebbe col Ferretti lungo discorso, persuadendo: «riconoscer la Sicilia; esser giusto por fine all'attitudine ostile; evacuar la cittadella di Messina prima che i Siciliani la pigliassero; questi poter cercare aiuti stranieri; e male per l’Italia veder Russi, Francesi o Inglesi sì vicini alle coste napolitane.» Il Ferretti prometteva quanto desiderava, e desiderava più che non poteva. Il ministero fra' primi atti fe’ decreto a 6 aprile, quasi legge provvisoria, per l'elezione de' deputati, giusta il programma, e per liste da presentarsi al re pe' cinquanta pari. Altro decreto stabiliva pel 18 i collegi elettorali, e il parlamento pel i° maggio.
Quel programma, e la salita degli uomini opportuni ad esso, chetarono un po’ il rumorio della strada; intanto si lavorava a guadagnar adepti nell’esercito; e se fosser iti più cauti e men di fretta, avrebbero allora fatto quello che poi si vide nel 1860. Mulinarono un colpo strepitoso, dico aver Capua nelle mani. Sin dal 1(e) aprile i colonnelli della guarnigione, cioè di un reggimento Regina-artiglieria e del 9° e 10° di linea, avean firmato segreta protesta che, uditi i voti degli uffiziali, non avrebbero mai fatto fuoco sul popolo, e si porrebbero con la Guardia nazionale. Certo de' soldati nessuno; e degli uffiziali pochissimi erano stati interpellati; nondimeno la setta, tenendo sicura l'impresa, fe’ accorrere da' dintorni la notte del 5 quanti v'avea di prezzolati, con ordine d'entrar nella città e pigliar l’armature della sale d'arme, quando certi uffiziali li mettessero dentro. Era sì certa del colpo che ne mandò le nuove fuori; sicché parecchi giornali (e io ne vidi di Messina e di Roma) stamparono la guarnigione di Capua essersi data alla nazione. Ma non segui l'effetto, che ne spillò qualcosa; il governatore postò cannoni per le vie, i soldati montaron con le micce accese, e niuno osò fiatare. Gli assalitori notturni, gente vilissima, stati tutta notte ascosi nel molino a vapore e in capanne, all'alba si sbandarono. Il re v’accorse il mattino del 5 col ministro di guerra; ma o che non avesse allora certezza de' rei, o non volesse far rumore, restarono impuniti colonnelli e uffiziali; la cui reità vedemmo poi nel 1860 celebrare per le stampe. Nondimeno mutò la guarnigione, e ’l 1° battaglione del 10° di linea di 800 uomini col colonnello Rodriguez partiva quel mattino stesso per terra verso Lombardia, non avendo ancora il papa concesso il passaggio. Seguiate per mare il 14 l'altro battaglione col maggiore Viglia sull'Archimede.
Re Ferdinando sottoscriveva a 7 aprile una proclamazione nunziante ai suoi popoli la partenza delle soldatesche, e dichiarante: «pigliar la causa italiana con quelle forze che lo stato del regno permetteva. Tener come fatta la lega italica, dacché volevate il consenso unanime de' principi e de' popoli; egli primo averte proposta, egli primo mandar ministri a Roma. Già iti soldati e militi per mare e per terra per operar con l’esercito dell’Italia di mezzo; le patrie sorti decidersi su’ campi lombardi; i Napolitani doversi stringere al loro principe, uniti esser temuti e forti. Confidare nel valor dell’esercito, nella magnanima impresa; per ispiegar vigore fuori volersi dentro pace e concordia; però sperar dell’amor pel popolo, nella Guardia nazionale, per serbar l’ordine e tutelar le leggi; contassero sulla sua lealtà alle libere instituzioni che ha giurate e vuol mantenere. Unione, annegazione, e fermezza; e sarà certa l’italiana indipendenza. Tacciano avanti a tanto scopo le men nobili passioni; e ventiquattro milioni d’Italiani avranno una patria potente, comune patrimonio di gloria, e nazionalità da pesare nelle bilance d’Europa..
Andava col Viglia lo stesso dì li, e da esso dipendente, un battaglione di volontarii crociati di 558 uomini, ordinato, col nome d'8° battaglione cacciatori, passato a rassegna dal re sul molo. Andavan questi, sperando diventar truppa regia; ché un’ordinanza ministeriale avea promesso riconoscerne i gradi, come già n’avevano il soldo. Per tai promesse s’accozzavano in breve altri due battaglioni, e partivan pure. I più accorrevano per guadagnarsi un pane, pochi per l’italianità, nessuno quasi de' furbi e iniziati nei segreti settarii. Che se qualcun di questi pareva andare, presto presto il vedevi tornar con futili pretesti; e lasciate le battaglie fermarsi in patria, a dar con men rischio e più lucro te mano al progresso. Nel 1848 gli animi più elati per libertà non s’acconciavano alle durezze dei campi; però nel 1859 fecero venire i Francesi a far l’Italia.
Mentre da Napoli si dava la spinta alla monarchia, Sicilia imbaldanziva, e Inghilterra soffiava, e preparava te smembramento del regno. Il Palmerston ne’ suoi dispacci al Napier diceva: «il trattato di Vienna del 15 non contener guarantigie, né imporre obbligazioni alle potenze contraenti, salvo che per guarantigie speciali; e volease ne persuadesse il ministero napolitano, acciò non insistesse sulla integrità del regno, ordinata in quel trattato.» Si lavorò con questo intendimento: si cominciò dal Napier a proporre la divisione con due corone ed un re, poi parendo la rivoluzione afforzata, si procedé a consigliare il darsi l’isola a un figlio del re; e il Mintho non arrossì dal proporlo egli stesso a Ferdinando. Dall’altra i siciliani rivoltosi, concordi a voler te separazione, discordi per l’elezion del sovrano, aveano pur Mazziniani moltissimi in maggioranza in assemblea e in piazza; i quali volendo repubblica, guadagnarono il partito di mandar l’elezione del re novello ad altro tempo.
Il Mintho a 6 aprile avea scritto allo Stabile: «il re non aver aderito a dare quel trono a un suo figliuolo; non aver trovato un sol ministro napolitano propenso a consigliare il riconoscimento dell'indipendenza sicula; però gli raccomandava d’evitar la repubblica.» Lo Stabile unì certi pari e deputati presso il presidente Settimo, il mattino del 13; lesse quella lettera, e rinfocolatili a dichiarar la decadenza de' Borboni, incontanente chiama i parlamenti. Con artificioso discorso nella camera de' comuni, mette innanzi questo pretesto: «Dal primo dì che fui ministro d’affari esteri, mandai commessarii in Italia a dichiarare che sendo noi Italiani volevamo come Stato sovrano entrar nella italica lega. Or il re di Napoli manda suoi legati a Roma,certo pretendendo esser nella lega come re del regno delle due Sicilie. Affrettiamoci di far valere i nostri sacri dritti, e impedire ai ministri del tiranno di calunniare Sicilia nostra. Ma a qual titolo i commessarii si presenterebbero al consesso de' principi e de' popoli? Prego la camera a deliberare su tanto importantissimo obbietto.» Incontanente il deputato Paternostro gridò: «Gli avvenimenti si precipitano; resteremo nell'inazione? non penseremo a costituirci? Non è tempo ancora di pronunziare la parola repubblica, ell'è in cuor di tutti; ma facciamo un primo passo: proclamiamo Ferdinando e la sua razza decaduta dal trono siciliano.» Molti altri parlarono pel si, nessuno contro; e come la cosa era fatta da prima, il presidente lesse la formola: «Il parlamento generale dichiara Ferdinando Borbone e la sua dinastia decaduti per sempre dal trono di Sicilia. Questa si reggerà a costituzione ed eleggerà re un principe italiano, dopo ch’avrà riformato il suo statuto.» Subito, senza votazione, spauritori e spauriti approvano plaudendo, anzi in gara lottano a chi primo segni il decreto; e qualcuno udendo che potrebbe firmar la dimane, sclama: «Potrei morire sta notte, e spirar col rammarico di non aver sanzionato col mio nome la caduta di Ferdinando.»
I pari, dopo lunga sessione per altre faccende, già si ritraevano a casa sull'ore cinque pomeridiane, quando venner richiamati in fretta, senza dirsi il perché. Giunti alla via S. Francesco ov'era la sala di riunione, videro una turba armata e minacciosa e gridante; poi le tribune e i corridoi ingombri di persone bieche. Dichiarata la camera in numero legale, qualche deputato di quella de' Comuni mostrò la formola approvata; di che stupiti, perplessi, intronati dalle grida delle tribune, senza discussione. comandati di adesione, aderirono. Qualcuno voleva andarsene, e fu impedito a forza. Firmarono la dimane, e chi v'era stato e chi no; qualcuno firmò dopo un mese; altri non sendo pari, eletto dappoi, fu costretto a firmare. A cotal atto di broglio solenne seguiron la sera luminarie; poscia a 8 maggio, con manifesto alle culte nazioni nunziarono e giustificarono il decreto. Lo Stabile a 14 aprile rese conto del fatto a Lord Mintho, e conchiudeva: «Non v'è pericolo di repubblica; i principi italiani saranno dalla nostra; i nostri legati si presenteranno rappresentanti d’un popolo savio che non cade in esagerazioni; e se il riconoscimento della Gran Brettagna corona l'opera, la nostra felicità è sicura.» Credeva moderazione l’aver tralasciato il nome di repubblica, che tutti avevano in cuore.
Dappoi i rivoluzionarli lamentarono l'aver differita l'elezione del nuovo re; e apposero a tal errore la caduta di quella rivoluzione. Re Ferdinando alla sua protesta dei 22 marzo contro qualunque atto contrario alla costituzione della monarchia,aggiunse a 18 aprile altro atto sovrano; che, udito il parere unanime del consiglio di stato, dichiarava nulla la deliberazione fatta il 13 a Palermo.
Quella dichiarata decadenza non era fatto isolato, ma seguito d’accordo rivoluzionario. Quello stesso di 13 aprile il Gioberti, tanto predicatore di confederazione italiana, mostrò quanta avesse larga coscienza, e mobile convinzione politica, ché viste le rivolture conseguitarsi e rafforzarsi, stampò una lettera in Parigi, mostrante: «il bene d’Italia essere l'unità, doversi fare un regno d’Italia con Carlo Alberto costituzionale. Parma e Piacenza dessero prime l’esempio d’unirsi al Piemonte, poscia una Dieta delle l’Italia emancipata dichiarare la stato definitivo della patria. Ben procederebbe la Dieta con un atto di unione; tutti gl’interessi dover cedere a fronte di tal supremo interesse, doversi predicar l’unione al Piemonte.» Adunque sin d’allora si preconizzavano le annessioni. E poi che la disfatta non fece compiere il voto, cotesti liberali tacciarono il papa e i principi di traditori e spergiuri. Il padre Gioacchino Ventura stampò a 26 maggio una tronfia memoria a Palermo, pel riconoscimento della Sicilia come Stato Sovrano e indipendente, ma in segreto, e in pochi esemplari, solo per gli alti personaggi che dovean giudicare la quistione. Credea dimostrare la sollevazione essere stata legittima, legale, giusta, cristiana e santa, e che i governi italiani avessero alto interesse a riconoscerla presto. Ciò provava con citazioni storte, argomenti speciosi, e menzogne sperticate. Mostrava danno e vergogna la riunione con Napoli dopo la vittoria, e premio de' vincitori dover esser la piena indipendenza.
Un decreto dell’8 aprile a relazione del Dragonetti nominava ministri plenipotenziarii per trattare a Roma la lega italiana i principii di Colobrano e Leporano, Biagio Gamboa e Casimiro de Lieto, cui poco stante fu aggiunto il duchino Proto, con due segretarii giovanissimi. Loro mandato era: «la lega avesse Dieta federale di rappresentanti di parlamenti (non compreso ma neppure escluso quel di Sicilia), essa decidere ogni quistione nazionale, e provvedere alla guerra, la cui direzione si lasciasse al re sardo entrato in campo.» Partirono a 17 aprile, giunsero il 19, e la sera stessa si recarono al circolo romano. Eziandio era ordinato andasse a Carlo Alberto Pier Silvestro Leopardi, fatto pur ministro plenipotenziario; con incarico di rannodar l’amistà delle due corone, indagare i pensieri di lui sulle nuove circoscrizioni territoriali, cacciato il Tedesco, e adoprarsi ad assicurare al nostro regno quelle utilità debite alla sua possanza e alla cooperazione che prenderebbe alla guerra. Questo Leopardi era d’Amatrice nell’Aquilano, di modesti natali, già basso impiegato in quell'intendenza; destituito per carbonaro nel 1821, tre volte processato e tre volte assoluto quasi innocente, avea buscati danari col Del Carretto, facendogli da spia, ma giocando a doppio refe, era stato da quel ministro stesso esiliato nel 1851. Ora dal Dragonetti estolto costui a sì aita missione, ebbe 1700 ducati, la metà delle spese di rappresentanza di un anno, e ducati 237,50 pel viaggio, oltre il soldo, le spese di scrittoio, e chi sa quanto altro per le spese straordinarie. Chiese per segretario un Massari; ma il re che a ragione di lui temeva, gli fe’ avere Guglielmo Ludoff. Oltre a questo fu mandato il 25 di quel mese il capitano del Genio Francesco Somisilli col tenente Carlo Mezzacapo (ambo, come s’è poi visto, settarii) sul legno Palinuro a Livorno, per recarsi al quartiere generale di Carlo Alberto, a stabilir qual parte avesse a prendere alla guerra l'esercito nostro che andava a unirsi a Bologna.
Sicilia intanto mandava nunzii: a Roma il Teatino Ventura, a Firenze il deputato Carlo Gemelli, a Parigi il barone Friddani. Ancora a 17 aprile partian da Palermo il principe Granatelli e Giuseppe Scalia per Londra; Emerigo Amari, Giuseppe la Farina, e ’l barone Casimiro Pisani per Roma, Firenze e Torino, con incarico d’ottenere il riconoscimento della Sicilia dal papa, dal granduca, e dal Savoiardo; promuovere o aderire a qualunque lega o federazione, ed esplorare quale delle due corti, di Firenze o di 'Forino, fosse proclive a mandare un principe a re dell'isola. Ebbero accoglienze officiose, il che come a ribelli fu molto, ma non giunsero a far riconoscere il loro governo.
Pio IX sospinto sin allora dalla fazione progrediente, non aveva ancora con pubblico atto condannata la guerra; bensì avea dichiarato voler le sue milizie sostassero a guardar le frontiere, senza varcarle, e anche s’era negato di richiamare il nunzio apostolico risedente a Vienna. Ma il Durando in Bologna diè a o aprile un ordine del giorno all’esercito papale da esso comandato, mentendo le intenzioni del Papa: spingeva a guerra come crociata, la guerra dichiarava più cristiana che nazionale; e, accomunando Pio IX e Cristo a sensi di sterminio, appellava ad arme e battaglie. Ed esso e l’altro general Ferrari dettero la croce a' militi, e ’l motto Dio lo vuole, come già a' crociati veri. Il pontefice scontentissimo a' 10 del mese li smentì. Ma eglino, senza badargli, sul finir del mese passarono il Po contro i Tedeschi. Intanto il ministero romano dimandava a' 25 al papa che aprisse il pensiero alla guerra, e i circoli, che allora in Roma eran tutto, si unirono a ordinare un comitato di guerra, del quale il Mamiani dettò il programma così: «Farsi in Lombardia la guerra santa, la nazione spartirsi in due schiere, l’una combattente, l’altra che aduni aiuti; non sospettarsi de' governi, ma la guerra nazionale doversi fidare a ogni parte della nazione, crearsi comitati di guerra in tutte città italiane, massime a Roma, in Toscana, in Napoli e in Sicilia, da stare in relazione e aver corti rispondenti sul Milanese, nel Veneziano e con Carlo Alberto.» Pio in cotai fatti scorse le vampe rivoluzionarie; sentì non aver ragione a dichiarar guerra a nessuno; e a' 29 che a' cardinali in concistoro un allocuzione famosa, che troncò i nervi alla rivoluzione.
Disse: «L’audacia d’alcuni avere a lui e all'apostolica sede apposto d’aver traviato da' santissimi instituti de' predecessori e dalle dottrine della chiesa; né mancare chi lui incolpi autore de' commovimenti d’Italia e d'Europa. In Germania divulgarsi il pontefice aver mandato sploratori, e sollevati gl’Italiani; di che valersi i nemici de' cattolici per instigar quei popoli a vendetta, e discostarli dall’unità di Santa Chiesa. Egli dover torre di mezzo questo scandalo, e abbatter la calunnia. Avere i sovrani europei sin da' tempi di Pio VII insinuato alla sede apostolica d’adottar ne’ suoi stati temporali modi amministrativi più conformi a' desiderii de' laici. Nel 1831 Francia, Lamagna, Inghilterra, Russia e Prussia insieme aver manifestati voti di più larghe forme municipali, per la prosperità delle terre papali. e di perdono a' colpevoli di precedenti ribellioni. Già Gregorio XVI aver compiute alquante riforme, altre promesse, sebbene non credute bastevole al consolidamento ed alla quiete sociale. Il perché egli innalzato al sacerdozio supremo, non eccitato da consiglio, solo per amor di popolo, aver dato amnistia, e poscia instituzioni da prosperare il paese. Avergli plaudito i Romani e i popoli vicini, con testimonianze di rispetto e riconoscenza, sì grandi che fu mestieri affrettarle. Egli appresso aver commendate le benignità de' principi verso i sudditi, questi esortato a fedeltà e ubbidienza, tutti a concordia. Ma le italiche rivoluzioni, turbata la pace e l’ordine, accennare a sovvertimenti radicali; cui parendo seguito degli atti di sua benevolenza, sarebbergli a torto imputati a colpa, perché l'opere sue fur giudicate convenevoli da lui e da' principi europei alla prosperità dello Stato pontificio. Nondimeno a esempio di Cristo perdonare egli a chi abusando de' beneficii ingannavate, e pregare il Signore a stornar dal capo loro i a gastighi debiti agl’ingrati. Non doverei popoli alemanni serbar ira col papa, se non potè frenare te ardore de' plaudenti alle cose di Lombardia, perché anche altri principi d’Europa, ben più d'arme potenti, neppur seppero contrastare. Soldati aver mandato a' contini, ma solo a difendete re il territorio dello Stato. Ora che s’ardisce invitarlo a far lega per muover guerra, corrergli il debito palesar solennemente ciò esser lontano u da' suoi consigli, non si convenendo la guerra aggressiva a chi è vicario in terra di Colui ch’è autore di pace e carità, e che tutte genti e popoli e nazioni con uguale amore paternale collega ed abbraccia. Pertanto protestare, ripudiare in cospetto delle genti i subdoli consigli di chi eziandio per giornali ed opuscoli vorrebbe il pontefice rote mano capo o presidente d'una cotal repubblica d’Italiani. Confortare anzi, ammonire i popoli a rigettar tai consigli perniciosi all'Italia, di restar fidi a' principi loro, o ch’entrerebbero nel rischio di vedere anche più la patria scissa nelle discordie e nulle fazioni. Non volere accrescimento di principato, voler solo estendere il regno di Gesù, né poter essere il cuor suo sedotto a lanciartene’ tumulti dell’arme. Pace, pace, desiderare, questa inculcare a popoli e re, questa con preghiere raccomandare a Dio potente, perché dall'alto dalla Sionne riconduca i principi e le nazioni a concordia e ad ubbidienza.»
Siffatta allocuzione percosse bruscamente i disegni della setta, che ornata del nome papale s’era sin allora innalzata. Fremettero i congiuratori, il ministero si dimise, sostarono i plaudimenti, cominciarono gl'improperii. Il Mamiani arringando dalla loggia di sua casa dichiara i preti decaduti da' pubblici uffizii, i cardinali Della Genga e Bernetti son guardati prigioni; la civica e le soldatesche occupano Castel S. Angelo, e il Respigliosi, generale della Guardia civica, è insultato e minacciato alla vita. Il santo padre stesso è accerchialo da sentinelle che guardante al Quirinale. perché non esca di Roma. Suonan grida di guerra da ogni banda, e fra precogitati trionfi sorge a 4 maggio un ministero ibrido, di varie classi ed opinioni, con a capi il Mamiani e il Galletti, repubblicani, i quali senza badare al papa proseguirono la guerra. Se non che la disfatta del Ferrari, e, come narrerò, lo sbandamento de' Romaneschi presso Mestre, volser con la costernazione gli animi a men rumorosi desideri, con tregua all'anarchia.
Il cardinale segretario di Stato mandò l'enciclica in istampa a legati esteri, perlocché quelli di Sardegna e di Toscana abburattati dall’onde plateali, corsero al Ludolf ministro risedente napolitano, per indurlo a compilare uniti una rimostranza; nol volle questi, scusandosi non aver poteri a farlo, anzi li pregò sostassero qualche dì, non essendo necessaria tanta fretta. Ma quelli impezientissimi alla dimane, 1° maggio, spiccarono al cardinale una nota, che sebbene non avesse protestazioni in parole, le avea in fatto: «Non possiamo non sentir grandissimo rammarico per l'enciclica. I nostri sovrani convinti che le riforme cui Pio IX avea dato stupendo cominciamento procedessero spontanee, s’erano ad esso congiunti per assicurare a popoli il ben essere cui eran diretti, ma ora la dichiarazione d’abborrir la guerra distrugge quella forza morale ond’egli era stato largo a' principi ed a' popoli italiani. La benedizione all’Italia fatta dal Pontefice con l’enciclica precedente avea destato entusiasmo in ogni petto, la presenza delle papaline soldatesche sul campo della guerra, e le guerresche parole del loro generale Durando, non contradette dal papa, avean sicurato tutti delle sue intenzioni franche e leali, quali a rigeneratore della penisola si convenivano. Ora l’enciclica ha tutti delusi. Noi presentiamo tali osservazioni su di essa, e né chiediamo schiarimenti. E dove questi non fossero coerenti alla patriottica condotta che deve stringere tutti i governi italiani ad un scopo, arrecherebbero ir reparahile pregiudizio alla santa causa dell’indipendenza.»
Altro più veemente e caldo atto protestativo indirizzarono al papa lo stesso giorno i commessarii di Sicilia per la lega, col padre Ventura, e i legati Veneziani e Lombardi, cui avean pria mandato a firmare a' nostri cinque ministri plenipotenziarii per la lega, i quali per non accomunarsi a’ Siciliani ricusarono. Eppur tra questi nostri sursero controversie: alcuni volevano, massime il Proto far protesta simigliante con atto separato; il che molto fu combattuto dal principe di Colobrano, dicente non aver facoltà a farlo, e vinse il partito di scriversene a Napoli. Inoltre a' 2 maggio chiesero le dimissioni, accusando il ministero del non essersi pria assicurato delle intenzioni della colle romana sul fatto della lega, e il ministero la dimane in risposta, dichiarando aversi la lega a trattare in altra guisa, disgravavali dall’ambasceria. Il Colobrano capo de' nostri legati era uomo un po’ liberale, ma non settario, capiva il Sabaudo aspirare a pigliar tutto, e volea rimediare con una lega ira Napoli, Roma e Toscana, da contrabbilanciare lo stato che s’andava agglomerando attorno al Piemonte invaditore, di che bonariamente fe’ pubblica proposta in adunanza. Ciò era dar su’ nervi alla setta, laonde essa preselo in uggia, e ’l pinse ne’ suoi giornali come uomo municipale, nemico d’Italia. Dall’altra il ministero sardo, ancora che preseduto allora dal Balbo, autore delle speranze d'Italia, fe’ rispondere dal Pareto ministro d’affari esteri,prima s’aveva a scacciar lo straniero, poi pensare a lega,quasi lega non fosse appunto la maniera del cacciarlo. il Gioberti che aspirava al seggio supremo, torte a voce e in istampa biasimò cotesto errore del ministero sardo. I nostri legati se ne tornarono da Doma a 8 maggio. Il ministero di Napoli ordinò al Leopardi trattasse con Carlo Alberto alleanza difensiva ed offensiva per unir le forze contro i Tedeschi, e né stabilisse le basi, ma quel re risposegli in francese (perché la spada d'Italia parlava francese): facesse venire i soldati; d'alleanza si parlerebbe poi. Speranzato della corona sicula, non si voleva legar le mani, ina quella risposta superba, quando s’andava gridando Italia dover esser di quello che la francasse dal Tedesco, adombrava il concetto dell’unità monarchica, poi meglio maturato.
Napoli dunque era sospinto a combattere per l’indipendenza italiana, e primo frutto di vittoria doveva essere la perdita della sua indipendenza: di Stato potente addiventar provincia sabauda, e se il re sardo quando ancor era su’ principii mal celava sue ambizioni, vincitore n avrebbe dato condanna di vinti. Aiutarlo a vincere era napolitana mina. Ma i faziosi squadernavan sempre come talismano la parola Italia, che servi lunghi anni a coprir loro ingordigie; laonde mettendo sotto i piè lo interesse patrio, si maneggiavano a far uscir comunque fosse l’esercito dal regno, per restar padroni del paese.
A far questo era necessità sopire ogni avanzo di guerra siciliana. Il ministero a 19 aprile inviava a Messina Giovanni Andrea Romeo e Antonino Plutino (appellati dottori ambo, e il primo detto eroe di settembre) con lettera del ministro di guerra al Pronio, d’averli scelti pacificatori pro tempore, e cuncludere sospensione d’arme. Costoro stati pochi mesi innanzi uniti a' faziosi di Messina per ribellare contro la monarchia, ora eran mandati dalla monarchia a pregare i colleghi loro a non turbare con guerre inopportune le faccende della rivoluzione. Arrivati, ebbero feste magne. La sera del 20 andarono in teatro al palco reale, dove s’eran cancellate l’arme regie, e poste le sicule e i tre colori. Dopo il primo atto, eglino a rappresentare il simbolo della federazione s’abbracciarono col nizzardo Ribotti, il disertore Longo ed altri, fra plausi infiniti e grida e molti sperticati di libertà. Al mattino scrissero insieme una proposta d’armestizio sino al 15 maggio, giorno d’apertura del parlamento napolitano; e ’l Plutino recolla a farla firmare al Pronio. Questi si negò, e ne scrisse a Napoli per telegrafo; perlocché il Plotino mandò il fratello sullo Stromboli a posta, per indurre il ministero ad acconsentire. Che egli e ’I Romeo lavorassero pel nemico provanlo lettere mandate e ricevute da esso loro. Il primo da Reggio a 21 aprile scriveva al Pirainu commessario del potere esecutivo in Messina, disvelandogli l’ostinazione del Pronio, e la gita di suo fratello a Napoli per fare ogni sforzo a tai approvare le condizioni; sperare che il parlamento o l’indignazione popolare impedissero al re la guerra fratricida; che se ordini misteriosi facesser rituonare gl’infami colpi di cannone, si fornirebbe a' Napolitani gagliardissima arma a condannare il governo. E il Piraino il dì seguente stampava quella lettera, scrisse, per mostrare la mala fede ostinata de' Regi, e l'amicizia de' fratelli di Calabria. Al Romeo un Orlandi rivoluzionario scriveva da Palermo il 26 di quel mese: «egli e gli amici esser lietissimimi della missione fidata a lui; congratularsi della simpatia de' fratelli del continente. Più c'intendiamo, e più stringiamo nostri nodi: non ci resta che compiere quanto mi promettete, sbarazzarci di questa infame dinastia. Sollevate Calabria gridate repubblica, e noi vi seguiremo.» Anche stampata. Con siffatta buona fede i pacificatori pro tempore trattavan l’armestizio.
Il ministero rispose al Pronio a 27 aprile, sibillino: «voler pel bene dell’umanità stabilisse armestizio convenevole, e nelle forme chieste dal dovere militare.» Però il generale, sentendo su di lui la responsabilità, chiamò il consiglio di difesa, che propose nuovi patti; i quali mandati dal comitato messinese a Palermo, ebbero approvazione. Quindi a 2 maggio si pattuì fra il tenente colonnello Picenna pel Pronio, e il Ribotti, il Longo ed il Fardella pel Piraino, in questa guisa: «1. Le due parti serberanno loro posizioni. 2. Proibite nuove fortificazioni, riparazioni ed altre qualsivogliano opere. 3. Si potrà ciascuno provvedere d’ogni cosa, fuorché d’arme e munizioni. 4. Non togliersi di posto niun cannone o altro arnese guerresco, salvo i quindici cannoni smontati fuori porta di Grazia. 5. Ciascuno potrà mover truppe a suo grado. 6. Stabiliti punti di limiti, niuno li potrà oltrepassare più d’un trar di fucile. 7. Liberi i prigionieri regi, a patto non servissero contro Sicilia. 8. Libero il commercio sulle due coste di Calabria e Sicilia, senza ostacolo di sorta. 9. L’armestizio durerà sino al 20 maggio, e più, se non si notifica la ripresa dell’arme, da farsi otto dì prima.
I ribelli accettarono tai patti, perché preparati a non tenerli. Venner da Palermo cannoni e munizioni da guerra; accrebbero batterie mascherate, fecero muraglie per nasconderle, trincee e feritoie, armarono barche cannoniere, e si valsero del permesso commercio per propagar la sedizione in Calabria. Indarno il Pronio fea sue rimostranze, ché tra il rispondere e ’l negare passava tempo, e s’operava. Il perché egli a 10 maggio scriveva acerbo al ministero, nunziando le armate batterie messinesi, chiedendo l'occorrente alla difesa, e dichiarando il dovere della guarnigione voler si tenessero quelle mura, o seppellirsi sotto le loro rovine. Nessuna risposta.
Il ministero travolto ne’ flutti della rivoluzione, pensava a ben altro. Oltre l’idea del risorgimento italico, affettava un dar nuovo indirizzo agli ordini interni del paese; e tutto dicendo migliorare, tutto peggiorava. L’amministrazione innanzi non buona, ma almen con mediocri apparenze, perdeva pur queste, e sprofondava. Imperocché i molti ladri, già saliti alle cariche comunali, da una parte tementi di cadere, dall’altra sperando più guadagno ove potesser restare in tempo di cuccagna, voltavan carta; e quanto più serviti, ora più liberalmente gridavan libertà. Si lanciaron nel progresso, e dovetter per farsi credere mostrarsi i più faziosi, anzi i più servi della fazione, pronti a ripetere ogni motto, a usar ogni arte della setta. Così con le mani in pasta costoro, sia pe' festeggiamenti costituzionali, sia per Guardie nazionali, e atti di beneficenza e altro, fecero sparire di bei contanti dalle casse comunali. Eglino in passato veri tiranni, oggi il passato gridavan tiranno, e sì declamando rubacchiavano a doppio. Per mostrar caldezza facevan comitati e conciliaboli, corrispodevan con Napoli, e così in fatti vituperavano insieme le idee assolute e le costituzionali. Ed eran rispettati e temuti anche da' nuovi governanti, perché nelle sedizioni chi corrompe e chi tradisce si congiungon sempre per mal fare.
In siffatto guazzetto il ministero voller metter le mani, inviando in provincia gli organizzatori, giusta il programma del 3 aprile. Con decreti si nominaron quattordici personaggi responsabili, col carico d'andare, e indagare, disfare, rifare quanto trovavan male ne’ municipii; sollecitar la formazione della guardia nazionale e le convocazioni de' collegi elettorali; tutto con potestà eccezionali, per sanar la cosa pubblica. Ridevoli cose. Tai missioni in tempi tranquilli eran quasi impossibili, e sempre s’avrian dovuto fidare a valentie cimentati uomini; invece s’udiron nomi di giovinastri, inetti anche in tempi tranquilli. In quelle novità, fuor dell'antico uso, fra passioni indisciplinate, ambizioni rideste, guardie nazionali ed elezioni di deputati, in quel fermento, fra tutte discordie, e inubbidienze e bramosie e chiedimenti e inganni, ne’ principii di guerra nazionale, e ’l preparamento di altre sedizioni, chi mai anche buonissimo, senza porre il morso a tutti, avria fatto bene? Chi scacciar di carica? chi tenere? chi eleggere? Scacciare i ladri? s’eran fatti liberali; porre gli onesti? ed eran diventati retrogradi: far capitani di guardie nazionali? E ’I volevan esser tutti; scrutinare? mancava il tempo e il modo. Sicché gli organizzatori, sugo di libertà, non potendo spiacere ai liberali, non potevano sfuggire di fidar le cariche a' più mari noli.
Si fe’ gran vociare di queste nominazioni: chi dispregiava i nominati, chi diceval fatto tardi, chi presto, chi essersi dati troppi poteri; i nominati reclamavano perché i poteri eran pochi; e molti anche approvavano che il governo con quello sforzasse le province e le popolazioni al nuovo ordine di cose; come se fosse opera d’un mese o d’un anno; come se non fosse stato sostituire alla predicata tirannia trascorsa una tirannia nuova. Ma nel disorganamento de' tempi era vaghezza organizzare a parole. I quattordici, caduti in un mar di dubbiezze, benché amasser gli stipendii, veggendo impossibile il numerar gli atomi nel caos, non si mossero da Napoli. I municipii restaron come prima, con raggiunta del progresso.
La legge elettorale del Bozzelli col programma del 3 aprile avea subito largo incremento, celebrato assai, ma più col decreto del 6 aprile: «Ogni collegio elettorale poter eleggere qualunque eleggibile del regno; la capacità non aver bisogno di cedole e diplomi, bastare la pubblica stima; la camera eletta e non altri dover verificare i poteri de' suoi componenti; l’elezione non più per distretti, seguisse per circondarii, e ciascun elettore voterebbe per tutti i deputati debiti dalla provincia.» Ciò per farsi la camera che volevano; perché l’elettore ignorante, venuto a esercitar dritto non più visto, pigliava la schedula ch’altri gli dava, ed eleggeva uomini ignoti: la setta a dare i nomi, la setta a contare i voti, la setta fatta parlamento a verificarli. Non abbisognava censo né ingegno, bastava l’uscir dall’urna per aver la capacità; tutti capaci. Inoltre né nello statuto, né in quel decreto del 6 aprile, era determinato qual numero d’elettori si volesse per l’elezione; sicché s’avea per legale qualunque piccolissimo numero.
Vedesti incontanente in tutto il regno l’ira di Dio: circoli appositamente stabiliti in tutte provincie sciorinavan nomi di candidati; giornali a propagarli, mandatarii a viaggiar pe' circondarii, sindaci, cancellieri e capitani nazionali a esaltarli. I decurionati stendevan ruoli d’elettori e d’eleggibili, messivi salassatoci, speziali, curiali, studenti, giornalisti e peggio. Chi opporsi? I più non intendevano che fosse elezione, che capacità, che rappresentanza; cose ignorate, né credute buone, né durature. A comizii andaron pochi, e per curiosità, o istigati; pochissimi spassionati e oculati. I congiuratori non paghi di questo, tennero conventicole in Napoli, sperando valersi di quell'anarchia, e aver gente in tutte provincie, da correr su Napoli a schiantarvi il governo regio. Giuseppe Ricciardi spasimante di repubblica, venuto dall’esilio sul finir di marzo, unì i caporioni e parecchi stranieri a casa sua il 17 aprile, vigilia dell'elezione; il La Cecilia propose repubblica; altri la sollevazione il dimani in pieno comizio, ed ei ne’ suoi scritti si vanta d’averli affrenati dicendo: quello non esser momento; prima aspettassero la cacciata de' Borboni; lieve saria poi proclamar la repubblica italiana libera ed una. Pertanto si fermarono a dominar le elezioni, e riuscirono in molti circondarii a negar la proposta dei pari, per torre al re la facoltà dello sceglierli. Ma sendo in tutti i circondarii i faziosi quasi soli ad andar ne’ comizii, vi fecero quel che vollero: non tenner conto de' voti dati a retrogradi, dove i collegi eran deserti gittavaìi nelle vuote urne voti a centinaia, cui lor gradiva, aggiustavan con la penna le cifre, mutavano nomi, e del tutto schiccheravan processi verbali a pompa.
Così uscì la solenne trista burla di 164 deputati, detti eletti dal popolo, la maggior parte ignoti al popolo eleggitore, molti uscenti d’ergastoli, altri stanti ancora fuorusciti in terra straniera. E sendo certe liste di candidati venute da' comitati di Roma e Torino, risultarono eletti parecchi che né avean censo né stavan ne’ ruoli. Risultò fra gli altri nel Cosentino Domenico Mauro senza censo, ma ei falsò il catasto, voltando a sé la roba del germano. Eletto, andò pettoruto nel collegio Italo-greco, e vi concionò, dicendo ch'ove il re non concedesse la costituente, sarebbe espulso, e s’eleggerebbe un re ogni tre anni. Ad altri prometteva aperto ch'egli e i colleghi andavano a Napoli per deporre il re. Adunque siffatti deputati vantavan dritto di sedere dove s’avean pubblicamente a trattare i vitali interessi della nazione, e così chi più alto avean proclamato libertà, perpetravan atto di brutta tirannide, facendo sé stessi con sue mani legislatori e sovrani. Di deputati onesti vedemmo pochissimi; i quali poi nella camera meritarono liberalesche fischiate. E la popolazione susurrava: «Sono coteste le tanto vantate franchigie? fra minacce e compressioni la libertà risolvesi a porre nell’urna una schedula? e questo anche è fallace? meglio pace civile duratura, che siffatto garbuglio detto libertà.» Quei comizii tennersi a 18 aprile; e a I(o)maggio s’aveva ad aprire il parlamento, giusta il primo decreto del 6.
Fatti i deputati secondo il cuor della setta, subito si procedette a preparar la rivoltura. Fra gli altri si crearono in Napoli due circoli detti: Il progresso, e la suprema magistratura del regno, che in fatto erano uno. Stabilito il primo in una casa a Magnocavallo, dava a 20 aprile il suo programma, invitando ad ascriversi chiunque volesse opposizione e progresso da osteggiare i conati del governo ad arrestare il compiuto sviluppo della libertà. Parevano capo un Giuseppe Sodano ex frate; capi veri il Saliceti, il Ricciardi, il Romeo ed altri caporioni. Il Dardano firmò una proclamazione In nome del popolo e della nazione napolitano. «Lo statuto dato è vergognosa copia del francese, e immorale: più immorale è il ministero, questo lavora pel dispotismo. Noi ripigliando nostri dritti eterni proclamiamo la costituzione del 1820, sopra basi più larghe: essa né fu tolta da arme straniere, ma fu protestato; venuta è l’ora solenne del rivendicarla; e se il governo non farà senno, andremo più avanti ancora: il popolo si ricorderà che esso è sovrano.» Preparavano il 15 maggio. Incontanente queste e altre proclamazioni, fur viste ne’ più estremi luoghi delle provincie, con ordini che facessero governi provvisorii, abbattessero i realisti, tumultuando prendessero le casse, unite forze accorressero a Monteforte (luogo storico), il motto: Costituzione del 20, su larghe basi; Saliceti, e unica camera costituente. Ciò, fuorché in Calabria, non fe’ gran presa negli animi provinciali, la cui maggioranza voleva ordine e pace; ma fremiti, ire, speranze e sospetti destò.
Un fatto non preveduto accrebbe le difficoltà, e spassionò gli animi dai mutamenti. Arti, lettere, scienze, mestieri, industrie, commercio s’ebbero quasi fermata. Né teatri, né balli, né spettacoli, né pitture, né libri, né ville, né musiche tiravan più nessuno; unica occupazione le concitate brighe in piazza, le ripetute fiabe, i celebrati paradossi. Le teste piene di politica, non avean mente alle faccende consuete: chi non si curava di politica si rannicchiava, stringea le spese, e ammucchiava danari per fuggire. Quindi gli artegiani mancanti di lavoro, fra tante promesse si sentivan le bocche vuote. Napoli sopratutto adusato a feste religiose, e gale di corte, a sfarzi e industrie, tutto mancato, pativa; incaricava il danaro, l'oro non si trovava più, le borse si serravano; neppur si vestiva nuovo, si rattoppava il vecchio, e s’aspettava. Dicesi questo abbandono di arti fosse proprio del 1848, non avvertito tanto nelle precedenti ri volture. Il popolo minuto, sentendo con la costituzione la miseria, si rodeva; la nobiltà disdegnava la democrazia predicata; la media classe cominciava a trarsene fuora; ne’ non settarii ire, e china a reazione. Dirò più giù che rimedio inventasse il ministro Conforti.
Maggior guaio era l’erario, smunto in quei due mesi di piglia piglia. Era spese, armamenti, pensioni, e soldi a liberali saliti in uffizio, volaron via di milioni; e aggiuntovi lo scemamento delle imposte pubbliche, e l’accrescimento di tutti esiti, e ’l soprappiù della guerra fuor del paese, le Finanze erano al verde. Il ministro Ferretti fe due pensate ridicole: dimandò al re danari del suo; e vietò l’esportazione dell’oro e dell’argento, decreto contrario alle più ovvie nozioni d’economia. Avendosi a provvedere in qualche modo, e appressandosi l’apertura del parlamento, il ministro credè saviezza il fare studiare la storia dell'erario napolitano dal 1830 al 1847; e stolto né fe’ stampare un libretto dal tesorier generale. Rammentò che: «all'ascensione di Ferdinando al trono era un debito fluttuante di quattro milioni e 345 mila ducati, oltre le mancanze apparenti degli stati discussi precedenti; osservò che il ministro d’Andrea (durato dal 30 al 40) avea con economie estinto quel debito, pagati i pesi dello stato, aboliti certi balzelli, senza far debiti nuovi; e che la fiducia nel governo aveva estolto il valor della rendita consolidata dal 78 al 106 per cento. Che morto nel 44 il d’Andrea, avea lasciato due milioni e dugentomila ducati di deposito in cassa. Che il sopravvenuto ministro Ferri procedette del pari sino al 45, quando straordinarie spese per costruire la strada di ferro, pel bonificamento delle terre del Volturno, e per navi da guerra avean di nuovo alterato l’equilibrio delle Finanze; e che nondimeno per crescimento di reddito e altre operazioni economiche s’era provveduto. Ma ora nel 18, mancati tre milioni e quattrocentomila ducati, quota di spese comuni debita da Sicilia ribellata, e le spese straordinarie per l’esercito e l’armata, era succeduto grandissimo scapito. Dover pertanto le camere ricomporre l’equilibrio, ripianare la mancanza che in quest'anno è di due milioni e settecentomila ducati, e trovar da provvedere pel 1849, che n’avrebbe di sette milioni.» Questi veri svelati per necessità furono satira coperta, ma parlante della rivoluzione.
Nondimeno il parlamento era un futuro, e i ministri avean bisogno di moneta allora allora. Fecero esporre nelle case municipali registri per offerte volontarie; e invitavano i ricchi, il clero e le confraternite a far prestiti e anticipazioni di fondiaria. Volean mangiar l’avvenire. A ministri di pochi giorni che importava il da poi? Ma tai provvedimenti davan poco, e occorreva denaro molto; laonde a 26 aprile con decreto ordinarono un debito di tre milioni di ducati, de' quali uno volontario e due forzosi. Per quello fanno appello alla generosità nazionale, promettono restituire alla fine dell’anno, con interesse del 5 per 100, dan per securtà una rendita di centomila ducati sul G. Libro, e adescano promettendo lodare i prestatori nel giornale. Per gli altri due milioni obbligano più ordini di persone: commercianti, fabbricanti, manifattori, agenti di cambio e sensali debbon dare novecentomila, spartiti a possa di ciascuno, le proprietà immobili debbon mezzo milione; il resto togliersi con designate proporzioni agl'impiegati di qualsivoglia ordine e grado, anche da indennità, soprassoldi, pensioni, professioni libere, mense, benefici, badie, commende, case religiose, e ogni corpo morale, fuorché le parrocchie, le beneficenze e i comuni. Questo per forza s’incassava, l’altro imprestito niuno faceva; però il ministro con proclamazione del 10 maggio, mostrato quanto avea fatto per favorir la guerra, si duole aver l’imprestito venduto poco, e finisce sollecitando contribuzioni e offerte. Cotal fatto diceva quanto alle popolazioni calesse di quella guerra. Le grida de' pochi non aprivan le borse de' molti.
Eppure fra tai strettezze seppero fare gl’interessi loro: con rescritto del 21 aprile abolirono un decreto del 1825, che dava all’erario i primi sei mesi di soldo de' nuovi impiegati. Era giusto; ma chi di quei ministri avea sicurtà di durar sei mesi?
Già il ministero avea cominciato a mandar soldati a furia, senza aspettar novelle di lega o non lega, senza dichiarazion di guerra, senza lanari par farla, senza la sicurezza del passo, a occhi chiusi. Dissi venuto a mezzo aprile il conte Rignon incaricato da Carlo Alberto a sollecitare il soccorso d’armati, e di sottuffiziali capaci a istruire i volontarii: subito ebbe tutto promesso, e la croce di commendatore di S. Francesco, ordine insigne. Ma Pio IX sebbene in balia di faziosi, preparandosi allora alla negazione della guerra, non volea permettere il passaggio sul suo territorio a' nostri; onde molto si cicalò nel consiglio di Stato, e nulla si concluse, per l’ignoranza guerresca e diplomatica de' ministri; però vi chiamarono certi generali, che neppur bastarono a far loro intendere ragione.
Divulgate quelle dubbiezze fuor di consiglio, più i soldati si svogliavati dalla guerra, di cui non intendevano la cagione né il bisogno. Parecchi generali ricusarono d’andare, e bisognò porre i colonnelli a comandar le brigate, di che niente caleva al ministero ch’aveva in pronto il suo capitano, cioè Guglielmo Pepe, antesignano di libertà. Costui di fiacca mente, non capiva egli essere il meno acconcio duce a quell’esercito, che di lui avea sempre udite le diffalte e le fughe, e tenevalo per fatuo e settario. La bravura e la fede del capo sono pegno di vittoria a' soldati, e il dispregio e il sospetto né sono arra di disfatta. Ma a spogliare il trono delle milizie egli era uomo opportuno.
Da prima s’ingegnò a persuadere il re d’avanzarsi esso stesso con sessantamil'uomini contro i Tedeschi, diceva per liberar l'Italia, pensava per farlo uscir di casa. Poi voleva indurlo ad abbandonare la cittadella di Messina, perché (e l’ha stampato) i Siciliani sono riconoscenti, e si darebbero a Voi. senza una goccia di sangue. Ma in tai puerili insidie non poteva cader Ferdinando. L’esercito s’adunava a stento, i soldati sentivano esser mandati lontani a combatter uomini che non li avevano offesi, per lasciar la patria, a' settari, i duci, chi si dicea malato, chi vecchio, onde il Pepe stampò: Quando ebbero a conquistar la Sicilia fur tutti pronti. Ed è vero.
Voleva imbarcar sette battaglioni sopra sei fregate per entrar dritto in Venezia, persuaselo a non farlo il contrammiraglio De Cosa, perché tanta gente sulle navi, impaccio al fuoco e alla manovra, poteva restar preda delle navi tedesche. Fu stabilito che di tredicimil’uomini si facessero due divisioni, una per terra, altra per mare, comandate dal tenente generale Giovanni Statella, e brigadiere Nicoletti, in quattro brigate, co' brigadieri Filippo Clein e Pasquale Balzamo, e ’l colonnello Raffaele Zola. La cavalleria col brigadiere Ferdinando Lanza, l’artiglieria col colonnello Carlo Lahalle. Ma il Nicoletti e il Lanza rifiutarono d’andare con duce il Pepe. Imperlante fu messo il Clein a comandar la 2(a) divisione, questa aveva il 7(e), l'8°, e il 9° di linea, un battaglione dell’11°, altro di cacciatori, tre reggimenti di cavalli, 1° e 2° dragoni e uno lancieri, un battaglione carabinieri, due batterie di cannoni, e due compagnie di zappatori. Mosse subito a scaglioni pel Tronto nelle Marche, e ’l passo non conceduto fu preso, ché le fazioni romane, scemata la potestà papale, avean tronche le diplomatiche dubbiezze. Entrarono a Giulianova plauditi e infiorali. Accompagnavanli Damiano Assante e Camillo Golia, commessarii civili, uffizii affatto superflui, per isprecar danari, il primo de quali emanò anche una certa proclamazione a’ cittadini del napolitano, perché era tempo ch'ogni piccolo omicciotto volea levar sua voce.
La prima divisione con lo Statella avea due reggimenti di fanti, 1° e 12° di linea, un battaglione del 5°, uno del 7°, il 5° battaglione cacciatori. una compagnia zappatori, e otto cannoni. S’imbarcò a 27 aprile su cinque fregate a vapore, due a vela e un brigantino, condotti dal de Cosa. Allo stretto di Messina ebbero cannonate con lieve danno dalle batterie armate da' Siculi a Torre di Faro. Così l’eroica Sicilia, gridatrice d’indipendenza italica, salutava a morte i Napolitani che l’avean lasciata in balìa di sé per soccorrere gl’Italiani. Sbarcavano ad Ancona. Il Pepe non partito prima per sopravvenutagli febbre, s’ebbe dal re il presente d'un cavallo, s’imbarcò a 4 maggio con parte dello stato maggiore sullo Stromboli; e sul salpare giunsegli lettera ministeriale, che in regio nome ordinavagli sostasse al Po ne il passasse senz’ordine sovrano, avendosi innanzi a determinare co' principi italiani la parte da prendersi da noi alla lotta, ma ei serbò la lettera col proponimento, come scrisse, di non farne nulla. Posto il piè in Ancona fra' festeggiamenti, ebbe visita da quel gran rivoluzionario che fu il principe di Canino, e per lui mandò lettera a Carlo Alberto, poi a 10 maggio fe’ un’ordine del giorno a’ soldati, dove affermava esser egli da' suoi chiamato padre, quando combatteva con Massena e Gioacchino in Castiglia; prometteva esser sempre padre, abolire le verghe umilianti, e alzare ogni meritevole soldato ad alti gradi. In tal guisa citando a sproposito non so quali sue glorie sotto i francesi Massena e Murat, questo italianissimo scacciatore di stranieri copriva le sue fughe da Antrodoco davanti a' Tedeschi. Ma ciascuno ricordando Tonte ond’avea coperta la bandiera napolitana, dispregiavate, però egli stesso stampa che come ei parlava a uffiziali e a soldati del combattere per quella grande causa, eglino aggiungevan tosto: e pel re! Quindi mosse per Pesaro a Bologna, ove alloggiò in casa Pepoli, passò a rassegna la gente, e a' 20 maggio poi diè altra proclamazione.
Mandati via quei soldati, i congiuratori impazienti cominciarono spargendo diffidenze: l’esercito non passerebbe il Po, l’ammiraglio De Cosa aver ordine segreto di fermarsi a Pescaia con l’armata, il ministero inglese non consentirebbe te sbarco ad Ancona, il re mulinar di tradire l'Italia, apparecchiar arme, aspettar legni russi, doversi come a Roma s’era ridotto a vescovo il papa, mandargli compagno Ferdinando. Queste e altre dicevano, dove esagerando, dove innestando falso a vero, per mover passioni acri, e spingere a' ferri. Né sole bocche, giornali e libelli propagavan le menzogne, fingevano altresì lettere di lontano, dette bianche, cioè non scritte, che si facean venire, e vi scrivevan essi improvvisando avvenimenti e sollevazioni; e mostravano i bolli postali e i sigilli, onde si facevan credere, e sobillavano idee di tradimenti, e ribellioni, e agitavan le piazze fluttuose. Brevemente la propaganda delle bugie diventò l’arma più gagliarda della rivoluzione.
Il ministero procedeva con essa, sempre più sospinto in democrazia. Mentre il popolo è tenace alle consuetudini e odia il nuovo, eglino volean far ogni cosa nuova a un botto, supponendo tutto il reame fosse come (pici seicento strepitanti a Toledo. Quasi il mutamento costituzionale non fosse stato nulla, e nulla la guerra esterna, e l’interna anarchia, sciorinavan decreti sopra decreti, commissioni, ordinanze, rescritti, che che udissero o ricordassero né volean far legge, mutavan uomini e cose,alza vano incapaci ed ignoti a tutti uffizii, e duplicavan gradi e soldi. Famoso per questo diventò quel Troya, buono investigatore del medio evo, ma non testa da ministro. Né tampoco i ministri eran d’accordo, si rintuzzavan l’un l’altro, ciascuno avea in istrada sua falange, e lavoravano a chi più l’accrescesse, concordi in questo che, tutti ambendo plausi plateali, giocavano a chi più donasse per meritarli. Donavan, s’intende, del pubblico; e tosto mancatone il modo, mancarono i plausi. Il Ferretti sin dal 20 aprile avea chiesta la dimissione, e restava per mancanza di successore; né entrava in consiglio se non per affari finanzieri. Sull’imbrunire del 25 aprile si gridò abbasso ai ministri di Giustizia e d’Affari esteri; e al mattino non essi ma gli altri due d’Istruzione pubblica e Culto chiedeanle dimissioni. Tutti aburattati dalla piazza, ponevan la piazza e i giornali a parte di loro liti e accuse vicendevoli; ciascuno se vantando cima di libertà, e discordar da' colleghi per maggiori sensi liberali. Quel dì 26 un decreto permetteva la uscita de' grani dal regno, il che incariva il pane, e giovava a' ricchi; e quasi fosser tempi riposali, nominavano una commissione per la revisione del codice civile. Il 21 avean dato un decreto sull’istruzione pubblica, con nuove forme, appien laicali, con più pompa di spregio al passato, che possa di far meglio così subito. In maggio fecero commissioni di statistica, per tariffe doganali, deputavan magistrati a rifar leggi di sanità, ordinarono studii diplomatici, ed altro.
A mostrarsi progressivi regalarono in nome del re tre cannoni alla Guardia civica di Pisa, dove giunsero a 3 maggio. Il ministro degli esteri a 28 aprile ingiungeva al Ludolf, nostro ministro a Roma, di notificare a Ciceruacchio il re avergli concesso la medaglia d'oro di Francesco I in considerazione della buona accoglienza da esso fatta in Roma a' Napolitani; e che gliel’avria recata D. Michele Viscosi Ciceruacchio di Napoli. Colui chiamato tardò più giorni sino a 5 maggio; v’andò accompagnato da chi gl’imbeccava le parole, e rifiutò la medaglia, a spregio della maestà regia.
Il ministro del culto per non restar meno avanti de' colleghi, mise le mani in sagrestia: volea togliere i seminarii a' vescovi, cassando il concilio di Trento; creò deputati a compilare un codice ecclesiastico-politico; fe’ una lettera a' vescovi, accennante a proposta d’una legge d’incameramento de' beni de' luoghi pii. Il Cardinale di Napoli protestò, il ministro rispose; e la stampa parteggiando, e scrivendo a libito di cose ignorate, era un turbar le coscienze e gl’intelletti.
A invelenir la tempesta sopravvenne una lettera ministeriale del Conforti. A’ nostri contadini era ignota affatto l’idea del comunismo, aspirazione settaria; anzi guardavano indignati quell’imperversare del governo; perlocché il buon ministro a tentarli s’ingegnò mostrar loro l’esca della divisione delle terre demaniali. Scriveva agl’intendenti il 22 aprile, favellando dì cupidigie di famiglie, di usure fatte, di dritti popolari, di scuotimento di servaggio, di libertà di vita e pensieri incarnata nell'anime, della durezza del dover l'agricoltore lavorare per altri su' campi proprii, e del deverlosi rialzare all'altezza cui Dio l'avea collocato. Bensì vi dava poi color legale, favellando di reintegrazioni e verifiche di terreni ex feudali; ma in quei momenti d’ansie e voglianze, mentre s’instillava al proletario l'odio contro il ricco e la comunella de' beni, quella lettera, spiegata poi iniquamente da' consapevoli congiuratori, fu foco divampatole nelle provincie. La rivoluzione al 1806 aveva addentato i baroni; di poi le terre divise e suddivise eran ite in molti; sicché la rivoluzione del 48 non poteva aver pascolo che su queste, addentando il dritto di proprietà. Il famoso motto che la proprietà è furto, che la terra è di tutti, e dee sfamar tutti, persuadeva di leggieri i nullatenenti speranzati di pigliarsi l’altrui. Però la lettera ministeriale per quanto usasse vocaboli legali, accennava col fatto a tal pensiero del tempo; onde molte popolazioni né furon subito spinte a invader le terre; e deve trovarono opposizione si venne al sangue, e al grido di Morte alle giamberghe! Iddio al mezzano stato ch'avea desiderato novità mandava quel gastigo. A Rionero i villani invasero il bosco Lagopesole de' Doria di Roma, dicendo essere ingiusto che uno straniero possedesse in regno. E il Dorici fra' principi romani era tenuto liberale. A Teramo fecero un governo provvisorio per reprimere i montanari minaccianti saccheggio. A S. Angelo de' Lombardi invasero le terre dei cittadini, e se le spartirono, presente il cancelliere del comune. Devastazioni grandi a Tito. A Venosa il 3 maggio tumultuarono, pur gridando Morte alle giamberghe! si dividano le terre! Messi in sospetto che ostasse un medico Gasparino, gli vanno a casa, noi trovano, e gliela schiantano; poi cerco a morte lui, ignaro in solinga via, l’uccidono spietatamente; e ’l cadavere menato in trionfo bandiscon venale per le vie. Curioso che durante tal subuglio usci vati dal paese i coscritti di leva, cantando viva il re! speranzosi di lotta che la finisse. In Calabria da tutte bande invasero le Sile; si vider mandre rapite, possedimenti devastati con ferro e fuoco, manomessi, accoppati i padroni, incoraggianti le nuove potestà. A Figliani l'8 maggio certi Gaetano e Luigi Marsico, lamentandosi del veder loro terre devastare, ebbero morte coram-populo, issofatto; poscia tutta la famiglia e pur le donne scannate. Peggio nel Salernitano. In Olevano si predicò dal pergamo la comunella de' beni; e la plebe a suon di conche marine si lanciò su’ campi. In Novi uccisero chi supposero avverso. Stupri in Aquella e Zoppi. Masnadieri da Castellabate assalivan Cannella; e con le funi al collo, e uccidendo sforzavano i possidenti a dissotterrar moneta. A Matonti strapparon sin dall'altare il vecchio parroco; e inseguendoli il popolo, lui per più colpi semivivo lasciarono, subito morto. Ma a che moltiplicar racconti orrendi? Maschito, Castelvetere, e altri luoghi d’Abruzzo, Basilicata e Puglia videro altrettanto; armata mano presero terre demaniali e private, spesso divise, spesso con pretesto di mala divisione suddivise, con le coltella in pugno. Quella lettera fu scintilla gittata per ardere il reame. Ebbero a correr da per tutto soldatesche a tutela della proprietà.
In Napoli, ove non eran terre, si suscitava il socialismo. Gli stampatori vissuti senza scialo sin allora, or con quel primo empito di libertà lucraron bene, e alzaron le creste. Le teorie del dritto al lavoro, dell’ore da lavorare, della mercede fissa, fèr subito presa in quei cervelli, e invece di ringraziar la follia che straccava i torchi per tante scempiezze, instigati da' circoli, pensarono una dimostrazione, a simiglianza di quel che in febbraio avean fatto i muratori ed i sarti. Il mattino del 25 aprile un dugento, non tutti tipografi, molti intrusi per ingrossare, volsero al campo di Marte tumultuando; accorservi Lancieri, e Guardia nazionale col suo brigadiere Gabriele Pepe; il quale lor dimandò che volessero. Risposero: accrescimento di mercede, e diminuzione di lavoro. E mentre con nuove parole erano accommiatati, uscì un colpo di pistola a ferir uno; laonde la Guardia nazionale fe’ fuoco, e restò padrona del campo. Di ciò forte ripresela il comandante principe di Strongoli con ordine del giorno, perché forse ell’era stata mandata là a guardare e a legittimare le richieste, non a comprimer con l’arme i liberi voti de' cittadini. Di più si dimise; e ’l comando cadde in quel Pepe, un po’ ridicolo patriota. La dimane di quel fatto, correndone gli ordini segreti, fecero lo stesso gli operai di fabbriche di tele a Sarno e a Cava, con grida Pane e lavoro!
Di fatto comandava la piazza. A’ 28 aprile pochi studentelli strepitando sotto la Prefettura, chiesero e ottennero la libertà d’un loro compagno, ar-' restato nell’atto ch’appiccava accantoni cartelli sediziosi. Il giorno seguente una grande dimostrazione a Toledo sclamava: Mora la parìa! Viva la costituenti! Ogni dì rumori con abbasso. A’ 10 maggio udendosi il ministro di giustizia aver fatti nuovi magistrati, quelli che speravano e non eran entrati, mandarongli plebe a gridargli abbasso. L’altro dì in dogana fu gran fracasso contro Maurizio Dupont, francese fatto qui naturale, allora direttor generale, perché si disse aver egli preparate cose nuove, e vecchie nuovi impiegati gl’insorsero contro, quelli tementi esser Giacciati via, questi sclamanti aver poco.
Nelle provincie era sì piena anarchia, che il Vacca direttore del ministero dell’Interno, né fe’ alti lamenti con lettera circolare del 24 aprile, e ordinò in tutti i capiluoghi Consigli di pubblica sicurezza, dove l’intendente, il comandante le arme, il procurator generale del re, il sindaco e tre privati lavorassero a ristabilire l’ordine. Ciò non servì, né il poteva, invece in qualche regione, come nelle Calabrie, fece il contrario, ché quei Consigli diventarono comitati direttori di ribellamenti. Giunsero dalle provincie sì spaventosi rapporti di tumulti e anarchie, che quei medesimi ministri liberalissmi, tenuto consiglio il 29, stabiliron non muover più milizie dal regno, e più il Conforti s’avanzò a dimandar anche si richiamassero indietro quelle avviate a Bologna.
I ministri in quel poco di ministero s’erano avveduti potersi valere più de' soldati ubbidienti, che de' popoli da essi sfrenati, vedean questi tendere a reazione, e niuno se non le milizie col nome regio poterli contenere, però importava lor più il non farsi affogare dalla controrivoluzione che combatter Tedeschi. Perduto il morso governativo, ogni città e villa,senza forza pubblica,patia pravi attentati, i buoni sospiravan soldati per sicurar le persone e le robe; e si rispondeva quello esser tempo di libertà non di soldati. Dopo le proteste, i cittadini vista la cosa pubblica scompigliata, e cader più sempre ne’ peggiori, s’armaron essi per necessità di guardarsi; e presto la stizza volgea gli animi a reagire. I nostri provinciali non durano nelle illusioni di belle promesse, non han gli occhi alle idee ma alla materia,subito voltali carta, e ti spennacchiano i ciurmadori di politica. Sicché mentre Francia, Alemagna e Italia baccavan con la setta, noi primi disingannati reagimmo.
Negli Abruzzi s’era usata ogni arte a innestarvi la rivoluzione. Un Mariano d'Ayala, dimesso tenente, per aver in un libretto celebrato Murat, ora diventato italianissimo era inalzato a intendente d'Aquila; dove sono incredibili le stoltezze che fece,affratellandosi in piazza co' più bassi,stampando proclamazioni tronfie di turgidezze e concettini, lordando il giornale uffiziale dell'intendenza di matte e bugiarde notizie, e suonando la tromba di vituperi a principi e di vittorie rivoluzionarie. Faceva crear circoli e comitati, e dettarne scritti iniqui contro il re, scacciar magistrati, e indirizzar mandatarii ne’ distretti a fare altrettanto. In più paesi vedevi giudici espulsi, disarmati gendarmi, arsi archivii di polizia. A Chieti le cose andarmi più chete, per men numero di tristi, non ostante le virulenti scritte di giornali, come La Maiella, luridissimi. Ma in tutto Abruzzo le male arti avvizzivano; e più la gente contadina recalcitrava; onde qua è là era a dispetto un gridar viva il re, e il pigliar la nappa rossa. Principiando maggio, certi villani di Pescosansonesco nel Teramano tornando dalla fiera cantavan inni sacri con viva al re; mettevano un rosso grembiale di donna in cima a una pertica, e sì ex-abrupto inneggiando entravano in chiesa. Gridar re in regno costituzionale non è reità, né quei pochi villici davan ombra di pericolo; ma Podio liberalesco né fe’ una montagna,perlocché il sottintendente vi mandò un capitano nazionale;il quale prorompendo in vilipendi! al re, fu dal popolo sforzato a tacere, e a pigliar la nappa rossa. Rabbioso andò a Teramo; n’ebbe un Camillotti con nazionali, che ingrossato per via entrò in Pescosansonesco uccidendo e saccheggiando, sicché presi otto de' più rei li legò con la fune delle campane, e tornò con essi vittorioso a Teramo, ricevuto da' suoi confratelli con canti e fiori. Segui più brutta a Pratola, presso Sulmona, il 7 maggio. I contadini posersi ai cappelli i nastri rossi come prima;corse a strappameli la Guardia nazionale, e trovò coltelli sguainati; dier di piglio a' fucili, e quelli alle vanghe; quindi ferimenti spietati; ma le vanghe vinsero. Stracciata la bandiera dei tre colori, strascinata pel loto, sventolò sull’insanguinata piazza l’insegna borbonica fra mille viva.
Né mancavano spiriti reazionarii in Napoli, ch’ogni dì pur compressi qua e la sfavillavano. Crescendo sempre più i disinganni, si vedea patente ordita trama in quel continuo dimandare; perlocché molti (pur della Guardia, che fu coraggio a quei dì) sottoscrissero e mandar firmando attorno una supplica al re, che non piegasse ad altra concessione. Né mancava chi voleva il re si ripigliasse la costituzione largita, e raggiustasse o l’abolisse, per fare il bene piuttosto del paese che della setta. A’ 29 aprile una turba in piazza castello gridava Viva il re nostro! e la sera la popolazione di S. Lucia forte beffava e strapazzava chi portava il nastro a tre colori. La potestà regia in mano de' novatori schiacciava con la forza questi conati, cui i giornali per affievolirne l’importanza dicevan mossi da' cortegiani. Spaventati dalla confusione d’ogni ordine, e conscii delle tramate fellonie, per guardar gli eventi al sicuro, tre di quei ministri si dimisero, tassando felloni i compagni; e dopo pochi di si congiunsero a' felloni delle piazze. A’ 5 maggio scese l’Imbriani, poco stante il Ruggiero, e prima il Ferretti. A’ 10 Giovanni Manna surrogò il Ferretti; e il Troya e lo Scialoia presero i portafogli degli altri duc. Il Conforti né si dimise ne restò; ansio, trepidante, disertò da' consigli: aspettava.
Eppure, chi il crederia? quell’anarchia suscitata da' novatori, per malizia, dappocaggine, ignoranza di cose di stato, febbre di fare e guastare, non era farmaco a ravvedimento, ma veleno per accusar altri. Invece di star zitti e trovar rimedii, sentivi darne colpa a' retrogradi, a' Gesuiti e all’Austria. Il comunismo figliato dalla lettera del Conforti era mena tedesca; l’arme imperiali arse maneggio di Gesuiti, la cacciata di questi insidia di retrivi; il re s’era fatto a posta insultare dal Mammone, a posta non aver mandato soldati a punire gl’improperii lanciatigli sotto le finestre; i realisti aveano stuzzicato gli stampatori, sparata la pistola sul campo, mossi i filatori a Sarno e a Cava; la vecchia polizia far quel travaglio; essa insidiar la costituzione, essa fomentare al male la parte ladra e faziosa della Guardia nazionale; i ministri, i nuovi impiegati liberali non poter fare il bene, perché impacciali da colleghi gesuitanti. Tai discorsi che parran paradossi ripetevansi con santimonia; e il disordine compagno della rivoluzione procedente s’apponeva al passato che spento era. E mentre i settarii così preparavan la via a novelle calunnie ed agli attentati, e i generosi s’atteggiavan a difesa della società, i molti vigliacchi ed astuti si serravano in casa, aspettando l’avvenire, pronti a seguitar chi vincesse, come corvi sul campo di battaglia, siccome ha poi mostro il tempo, gran disvelatore del bene e del male.
Il parlamento dal 1 maggio fu prorogato a' 15. Preparavano la chiesa gotica di S. Lorenzo, sede di antichi seggi napolitani, con addobbamenti di drappi, e trofei e bandiere, oltre il trono e le tribune. Il re scelse a 13 i cinquanta pari, fra gli indicati dagli elettori, onde la fazione che non voleva i pari forte s’adirò, accusandone il Troya che non l'avrebbe dovuto fare. Accorrevan dalle provincie i deputati, e con essi uomini brutti, barbuti, con pugnali, pistole, archibugi, e boccacci, entranti in città per mare e per terra, mostri a dito per baldanza, e fogge brigantesche e luccicanti. Che avevano a fare co' parlamenti quei musi e quelle armi, quei forestieri, Ungavi, Galli, Polacchi, torbidi e biechi? Aggiunse trepidazioni la comparsa nel porto d’un’armata francese, a' 9 di quel mese, col vice-ammiraglio Baudin; ed ecco voce Francia repubblica soccorrere la rigenerazione napoletana. Subito in barca un centinaio de' piii arrabbiati intorniano le straniere navi, lor fan festa, e mandano a nome del popolo alcuni in deputazione sulla capitana (il vascello Freidland) con indirizzi e poesie, accolti mediocremente. La dimane vi vanno uffiziali di Guardia nazionale col Plutino colonnello; e vi fanno ampollosi discorsi allusivi alla libertà delle nazioni. Né tornano pettoruti, dicono aver avuto grandi promesse, udito il canto della Marsigliese, e che so altro, per dar sospetto a' regi e ardire a' faziosi. Così più divampate le speranze, decisero fieder la monarchia il di del parlamento, giorno rigeneratore della patria.
La premeditazione fu senza velo, ché sendo nelle mani loro la potestà governativa, non era pericolo a congiurare aperto. Appositi mandatari da' giorni innanzi ritessevan le vie delle provincie in calessi e cocchi, recanti migliaia d'esemplari d'una certa proclamazione intitolata Della suprema magistratura del regno, uscita dal circolo di questo nome, non firmata, scritta dal Saliceti, a modo turco. Dopo breve elogio alla libertà, chiamava i popoli ad armarsi, e unirsi incontanente a una sacra legione del riscatto, le cui fila stese in tutto il reame e attesterò dovean partorire in ogni parte governi provvisorii, e la costituzione del 1820, sinché il parlamento costituente non vi desse sanzione. Minacciava fucilazione immediata a qualunque ecclesiastico dissuadesse dal pigliar l’arme, fucilazione a qualunque comandante d'arme non sostenesse la sacra legione; fucilazione a qualunque capo della medesima legione, che per rubare si sbandasse; fucilazione a qualunque pensasse a vendette private, e fucilazione a tutta la parte profana della Guardia nazionale che ricusasse por giù l’arme. (Questo articolo dannava a morte la metà della popolazione). Giudici ed esecutori immediati ì buoni, i veri Guardie nazionali vestiti della loro sacra divisa. E prevedendo tai minacce non bastare, in ultimo prometteva impieghi, terre demaniali, promozioni e denari del Tesoro. Portava la data del 1 maggio; ma il bardano presidente del circolo il progresso, spacciavala verso l'8 e il 10; il Sodano segretario di tal circolo corse sulla via sannitica spargendola; e cui la dava aggiungeva: Accorrete a Napoli il 15, per inaffiar col sangue l'inaridita pianta della libertà. Ciò vidi io. Congiurato per aver la costituzione, ora congiuravano contro essa; gridavan libertà, e minacciavan morte non solo a chi libero lor contrastasse, ma anche a chi stava cheto. Oltre queste, usciron altre molte proclamazioni stampate, tutte veementissime, incitanti a ribellione.
Stese le branche in tutte provincia, i disegni de congiuratori eran questi. Rivoltarsi il Beneventano al papa e darsi, a Napoli. Colà lavorava un Salvatore Saberiani, che die pure una proclamazione a quei cittadini. Il Nisco e altri della Valle Caudina gli avrian dato mano; poi le schiere unite da essi avanzerebbero a sollevar le terre intorno Capua. Altri da Montesarchio scenderebbero a Solopaca a incontrar quei del Sannio. Nel Cilento i capi avean tenuto consulta a Diano; un Michele Auletta, stretto al Carducci, veniva in Napoli a rapportare tutto esser pronto, e a' 30 aprile stampava un editto anch’esso a Popoli del regno, in nome del Comitato generale; e finiva: Leviamoci come un sol uomo gridando Costituzione del 1820! Il Romeo intendente di Salerno quivi lasciava il Mambrini segretario generale, che mise alacremente le mani alla congiura. Dovevano i Cilentani levarsi primi, ingrossar per via, scansar Nocera stanza di soldati, e occupar Monterete, luogo sacro pe' ricordi del 20. Quei delle Puglie verrebbero per Ariano. Da Terra di Lavoro per tutte vie corressero a Napoli. Calabria già concia, incitala e soccorsa da Sicilia, tenevan pronta.
Per far ciò inviavan corsieri e mandatarii infiniti; moltiplicavano le proclamazioni. Una seconda ne dava il circolo dirigente della magistratura, che cominciava: Viva la costituzione del 20 su larghe basi, viva la Costituente, abbasso la parìa! e finiva: Correte, all’armi; il pericolo è imminente! non si perda tempo: all'Arme, per Dio, all'Arme! Un altra scritta uscì per Molise, intitolala: La voce del Sannio. Altra a 9 maggio anche a' Cilentani era firmata da Luigi e Gaetano Capozzoli (fratelli di quelli del 1828) appellanti al sangue e alle vendette! Altra de' 12 maggio a' Cittadini, seminava sospetti, e appellava all’armi a sostenere i decreti dell'assemblea, per allargare le libere istituzioni! Cotante mene apertissime, accennanti a ribellione pronta, non iscuotevano quei ministri; sol fecero il 15 una specie di protesta appellante all'ordine. Il Conforti sonnacchiava a disegno; poi temente l'avvenire e l’accusa di complicità, quando tutto era apparecchiato fe’ sostenere il Dardano; tardo, inutile rimedio, e non avvertito.
Né i congiurati tralasciarono iniquissimi mezzi. camorristi (de' quali parlerò poi) gente rolla a nefandezze, ladri, manutengoli, omicidiarii e accoltellanti, eran già dal governo a gran fatica messi in Tremiti isola, a lavorar da coloni. Venule le perdonanze a' rei di maestà, questi tornati vollero slargare le grazie, e s’aprirono carceri ed ergastoli per liberar assassini; poi gridarono inumana la pena di Tremiti, e così rivedemmo quelli innocentini in città, spavento e terrore ad ogni onesto. Di cotal melma sociale fecero schiere; divisorie in manipoli con capi, e teneanli disciplinati, ubbidienti e lesti, per isguinzagliarli, e farseli colleghi ad agguantar la cosa pubblica.
Tenevan la vittoria in pugno: ministero loro, guardia nazionale loro; tremanti i buoni, i tristi baldanzosi; padroni delle piazze, masnadieri accorrenti, repubblicani in rada, simpatie e braccia di forestieri; e visto sin allora tutto aversi senza sforzo, si credevano con tanto apparato irresistibili. Avean superate le soldatesche state irresolute e immote quando eran più; spregiavate ora ch’eran meno; degli Svizzeri non temevano, vi confidavan anzi, perché repubblicani, perché credeanli guadagnati co' plaudimenti; sentivan nel porto la Marsigliese, aiuto certo speravano. In quattro mesi cullati da tanti trionfi, pensavan dureria sempre quel vento.
Unica difficoltà trovar l'occasione per commuovere il popolo; le proclamazioni non producevan frutto; nondimeno cercavan da tumultuare a ogni costo. A 6 maggio per toccar la parte vitale della popolazione fecero gridare Abbasso i preti! La sera dell’11, mentre nel Gesù nuovo si celebravan le sacre funzioni, si gridò al ladro! e nello scompiglio il Pellicano, detto l'eroe di Reggio, allora coadiutore del ministero del culto, concionando fuori la porta fu ferito. Né più valsero gli articoli virulentissimi di giornali, minaccianti guerra civile; stomacò anzi una diatriba del Mondo vecchio e nuovo spingente a regicidio. I Napolitani erano stucchi di smargiasserie d'arme e parole. Impertanto unica speranza di ribellare fu ne’ deputati; costretti cotali eletti della nazione per discuter leggi, a far quello cui la plebe ricusava.
Usarono ogni arte per unir gente armata; altra per accamparsi a Monteforte, altra per accorrere sopra Napoli. Luigi Zuppetta di Castelnuovo di Lucerà, vecchio cospiratore, tornato di quei dì da Malta, avea scritto certo libercolo intitolato Le sette contradizioni capitali, per mostrar mala la costituzione; e pubblicamente minacciava che o il re concedesse altre larghezze, o egli proclamerebbe repubblica; e doverlo fare prima dell'8 maggio, o che non si saprebbe che potesse avvenire il 15. Aperto promettea repubblica, e guadagno a questo e a quello per far seguaci. Andò a Foggia col Barbarisi, e, sendo ambo deputati, vi tenner conventicole per proclamare una camera costituente. Il secondo corse nel Barese a reclutare; ma avversato dalla popolazione né ripartì di notte. Tornato il 12 a Foggia, poco mancò non iscoppiasse tumulto, perché i Foggiani, sospettando ei v’iniziasse la ribellione, si armarono, e’l fecero tirare dritto a Napoli. Le mene. stesse s’eran fatte in altre città di Puglia. Un parente del Romeo si cacciava in Terra d'Otranto; confabulava in Manduria, più in Lecce, e certezze di trionfo seminando, sollecitava armamenti, accogliendo pur disperati e malfattori. Negli Abruzzi il Pica eletto deputato lavorava; e l’intendente Ayala il lasciava co' suoi partigiani a tesser la sedizione. A Penne un De Cesaris andava reclutando. In Montorio e in altri di quei luoghi un Zilli; uno Sciabolone, un Martegiani raggranellavan uomini e denari. Un Andrea Saccone in Molise. Un bolognese Pacchione attorno Sessa. Certi Tavassi e Torricelli girarono pel Nolano; certi Piscicelli, Sagliani e Fabozzi nell'Aversano; il primo stendesi sino a Castelvolturno a chiamar quei mojanari, altri a Casal di Principe, a Caivano, ad Acerra, e a Maddaloni. A S. Maria di Capua un Carmelo Caruso ed altri ebbero il carico di rompere la strada ferrata, per impedir il pronto transito a' soldati. Nicola Nisco e Tommaso Manco nella valle Caudina univan masnade; altri nell'Avellinese, e altrove.
Certo tutti i paesi del reame da un sol motto contemporaneamente erano agitali: si gridava, minacciava, incitava; ma erano i pochi settarii; il popolo li guardava fremente, aspettando il cenno della punizione. Camorristi e masnadieri accorrevano alla spicciolata, non altri. Pochi soldatelli volti a Monteforte, bastarono a contener tutti. Il Torricelli il 13 con pochi v'andò, e sparse comprar neve; indarno confabulò co papi de' dintorni, e mandò corrieri; molte erano state le promesse e i vanti, poco fu l'effetto, ché in vero seguaci pochi avevano. Lo stesso avvenne in Terra di Lavoro, in Abruzzo e nel Sannio. Quivi un Achille Jacobelli di S. Lupo, maggiore nazionale, nel quale molto i novatori confidavano, astuto volteggiatore, vista la mala parata, s’assicurò correndo ab la reggia, a svelare al re i modi della congiura; e fu di scorta a' soldati accorrenti. Nel Cilento pochi capi di Diano e Vallo sul monte Raccio stettero ad aspettare indarno. La gente andava e si traeva, secondo speranza o timore. Udendo i Regi a Monteforte, primo a fuggire a Napoli fu l’Aletta. Allora accorse a Salerno il Carducci ad agitar gli spiriti. Al mattino del 15 die’ ordine stampato a tutta quella Guardia nazionale di tenersi pronta. L’aitò il Mambrini colà facente l’intendente: stampava lo stesso dì proclamazioni, e spargevate anche ne’ distretti di Sala, Vallo e Campagna, incitanti i patrioti ad armarsi, per assicurare la maestà de' decreti del parlamento; e con ordine uffiziale faceva dare a' militi la polvere da sparo del governo. Vedevi, sì armati, si davan vanti, gridavan repubblica, ma sprezzati dalle popolazioni, impotentissimi erano.
Partendo da Palmi di Calabria i congiurati, promettevan corampopulo di grandi cose; e qualcuno sguainando il pugnale gridava: Con questo gli andrò a trafiggere il cuore! E i rimasti andavano ogni dì al telegrafo, aspettando novelle della rivoluzione promessa. Il Romeo entrando in Napoli il 13, dava altra proclamazione a nome del comitato calabrese, dicendo netto come i deputati venissero a costituente, e conchiudeva: «Tutti i liberali a un primo segnale accorrano a ringagliardire la Guardia nazionale.» Quel dì stesso entrava nella città il resto de' congiurati, i fratelli Plutino, Antonino Cimino, Eugenio de Riso, Benedetto Musolino, Casimiro de Lieto, Silvio Spaventa, il Ricciardi, lo Zuppetta ed altri, tutti armati, con seguito di scherani alla calabrese. Non andavan circospetti, perché sicurissimi di vittoria, ciascuno facea di sé gran pompa, studioso d'aver la prima parte al trionfo. Congiuravano aperto nell’albergo di Ginevra a S. Giuseppe, dove accorrevano a confabulare il Petruccelli, il Settembrini, il Carducci, il La Cecilia, il Mileto, il De Dominicis, lo Zuppetta, e altri cosiffatti. Quell'uscio notte e di assiepato d'armati.
La congiura adunque parea contro la paria, per questo costituzione del che non aveva i pari, ma si lavorava per repubblica. La democrazia sdegnava pur l'ombra della nobiltà: questa nel reame non pili feudale, né più ricca, poco valea; nondimeno si volea combattere un corpo intermedio che sorgesse tra il popolo e il trono; quindi sarcasmi, oltraggi e minacce. Ma perché tant'ire? quei pari scelti fra gli eletti da' comizii, eran pur cosa loro, né tutti nobili, poco o nessuno impaccio a' loro fini. Ma quel fantasma della parìa servia di bersaglio a colpire il re.
Prima lo Zuppetta richiese a' ministri facessero decretare un suo progetto di legge concedente al parlamento la facoltà di decidere se convengano o no pari, e di modificare la costituzione. l'Imbriani e ’l Ruggiero, ministri dimessi, s’uniscono a' congiurati, e si fan belli della chiesta dimissione. Esso Ruggiero raduna a casa sua i deputati per discussioni preparatorie; comincian le battaglie, dove gli oratori, oregliando se s’udisse un grido da Monteforte, non potean venire a composizione. Venti deputati vanno a' ministri, parlano contro il giuramento che si stendeva, e protestano noi darebbero. Quelli conniventi o codardi, promettevano, e di fatto al re cominciavano a manifestar vaghe diffidenze e ombre di pericoli. Da ultimo tempestando in casa Ruggiero le discussioni a nulla concludenti, fu pensato unir numerosa assemblea, nella gran sala municipale a Montoliveto. Corsero inviti stampati a tutti i deputati per cotal sessione, a fin di fare, dissero, il regolamento per la verifica de' poteri, e le nomine degli uffizii. Elessero presidente d'età Luca Cagnazzi ottuagenario, vicepresidente Lanza medico, professore di patologia all'università. Aveva il ministero stampato il programma della cerimonia per aprire il parlamento a S. Lorenzo, dov'era fra l'altro: «Il re rinnoverà avanti alla camera il giuramento già dato per lo statuto, dopo giureranno i pari e i deputati: Di qua il pretesto alla lite. Alcuni osservarono il re aver giurato lo statuto del 10 febbraio, ma eglino essere stati eletti pel programma del 3 aprile, dov'era dichiarato aversi d'accordo col re a svolgere lo statuto, però aversi nel giuramento a far menzione di tal facoltà. Inoltre la formola di questo decretata costando di tre parti, sorsero opposizioni a tutte e tre: 1° giurare di professare e far professare la religione cattolica romana, disser contrario a libera coscienza, e putire d’inquisizione. 2° giurar fedeltà al re del regno delle due Sicilie, implicar la integrità della monarchia, e minacciar guerra fratricida ai Siciliani, già fatti indipendenti da' Borboni. E 3° il giurare osservanza alla costituzione di febbraio, che doveva essere scolla, esser cosa illogica e vana. La discussione mosse passioni indisciplinate, sali a clamori, perché fra quelli pur v'era, pochi, chi volea procedere con coscienza. I congiuratori tenuto conciliabolo la sera del 13 in casa il Lanza, tornarono a Montoliveto nelle ore vespertine del 14, dove il più de buoni non andarono; nondimeno fatti intorno a cento, ripigliarono i furenti propositi, con più veemenza; ché s’erano fatti afforzare da numerosi ceffi provinciali rumoreggianti dalla piazza. Onesti mandavan messaggi incitatori a ogni poco, e n’avean risposte arcane, sinché proruppero in grida: «Deputati, il re tradisce la nazione, v insidia; ma coraggio, noi siam per voi.» il deputato Zuppetta fattosi al balcone, come strione in commedia, sclamò: «Cittadini, i deputati non han mestieri d’incitamenti, morranno prima di permettere il re tradisca il dritto costituzionale, e Zuppetta ve ne dà parola! Quindi nella sala seguirono concioni superlative, magnificando le forze nazionali, e com’eglino investiti de' dritti del popolo sovrano, poter dar leggi, e doverlo per eseguire il mandato. In quella caldezza, ripigliata la quistione del giuramento, spiattellarono: «il pubblico voto non voler più saper nulla del 10 febbraio; quello statuto pel programma di aprile aversi a svolgere; non dover la camera legarsi l'avvenire, avendo essa a guidar gli eventi, seguitar la civiltà, e non restare stazionaria, vincolala da promesse inopportune. Illimitati i dritti del popolo, non poterli eglino limitare: non doversi giurar nulla.» Così i repubblicani; ma la maggioranza statuì si giurasse in qualche modo.
Allora ne surse un’altra: volersi due formolo di giuramento, una pel re, altra pe' deputati. Bene il re, siccome esecutore di legge, giurare d'osservare e rare osservare: non così la camera legislativa potrà con simil giuro por ceppi all'azione sua; ché altro è chi ubbidisce, altro chi comanda. A tanta argomentazione il senno della maggioranza cedette; dettarono una formola diversa di giuramento, e mandaronla al ministero, che l’approvò. Volevano il re giurasse di osservare e mantenere lo statuto politico della nazione, con le riforme e modificazioni che vi farebbe la rappresentanza nazionale, spezialmente sulla parìa. Se Ferdinando avesse ceduto, si sarebbe disfatto re, riconosciuta la sovranità nella sola assemblea, come in repubblica, e giurata cosa futura e incognita, giuro vano e senza coscienza. Quattro deputati, Capitelli, Baldacchini, Masi e Giuseppe Pica, andarono a casa il Troya presidente de' ministri; dove il Pica infuocandosi minacciò ch'avean forze per sostenere una lotta, e più anche la squadra francese per loro. E quei dolci ministri, assunto il carico di far calare il re, v'andarono, e forte perorarono. Ferdinando rispose: aver due volte giurato lo statuto di febbraio; ora alla formola scritta s’aggiungesse la facoltà alla camera dello svolgerlo; restasse il resto; non poter in altra guisa giurare. Il Conforti recando tal regia determinazione e Montoliveto, smascherandosi soggiungeva: «il ministero si dimetterebbe; l’assemblea provvedesse alla pace del paese e all'indipendenza d’Italia.» Questo legulejo voleva il potere esecutivo dato dal re al ministero, restituire non al re, ma a' deputati. Eppure mentiva, ché i ministri irresoluti restarono al posto. Egli fellone volse alla congrega nel palazzo Gravina.
I deputati in furia, unanimi rifiutarono la profferta regia, discordi nelle sentenze: chi volea s’andasse a S. Lorenzo, chi no; chi s’andasse senza giurare, chi si giurasse non la regia, ma la formola loro: tutti a sclamare, a perorare, a schiamazzare, niuno a intendere. Lo Zuppetta distese nuova sentenza, cosi: «Il parlamento, considerando che la capziosità del governo tende al disordine; che il regio rifiuto d’aderire a un atto costituzionale pone in pericolo la patria, dichiara non accettabile la formola del giuramento proposta dal re; tiene il rifiuto di lui come infrazione al dritto costituzionale; e per neutralizzarne la capziosità si sta unita in parlamento, pel solo mandato della nazione, fonte e principio d’ogni sorta di poteri.» Giù intanto ingrossava la turba, accorrendo da' caffé Donzelli, Testadoro, Buono e De Angelis, giovani indemoniati, gridanti: Abbasso la camera de' pari! Viva la costituente! E su eran salili sin nella sala molti non deputati, che vantando le forze plateali, accrescevano ardimento a' più focosi; però chi moderato non volea trascendere a partiti estremi, visto che si volea repubblica, obiettò. Segui un po’ di sospensione, per la chiamata alla reggia del deputato Teodorigo Cacace.
In quella il ministro Scialoia in nome del ministero si recava in casa di Maurizio Dupont, pregandolo persuadesse il re a mutar la formola; quegli v’andò, e trovò che il sovrano avea già scritto di sua mano avanti al Cacace: «acconsentire che i ministri e le camere concordassero una formola contenente l’articolo 5° del programma d’aprile.» Ciò subito approvarono i ministri; e mandarono a nunziarloa Montoliveto esso Cacace, il Dupont, e l’Abatemarco, direttore di ministero; i quali credendo finita la lite, lietissimi andarono. Mentre il Cacace leggeva a' deputati la proposta regia, il Romeo andava susurrando negli orecchi attorno; perlocché l’Abatemarco pacatamente dimostrava illegali le pretensioni, illegalissima l’adunanza, non agitassero il paese, né ruine estreme suscitassero. Allora il Lanza con isciocca veemenza levandosi in pie’, proruppe: «Il re è uno; noi rappresentati del popolo siamo sette milioni; e voi, signori Abatemarco e Dupont, voi non siete deputati, ritraetevi di qui.» Rimasti soli, mentre s’esaltavan le passioni, a rinciprignirle il La Cecilia affastellando spauracchi propose avi-si a dare i castelli alla Guardia nazionale. Faceva il furibondo; i suoi bravacci sulla porta schiamazzavano; appoggiavanlo i deputati Spaventa, Zuppetta e Ricciardi. Sicché tra gli strilli n’uscì la votazione, che a gran maggioranza rigettò la proposta regia approvata dal ministero. Di cotal borioso fatto i deputati, dopo la rotta, s’andavano scusando col dire aver avuto paura di mostrarsi paurosi.
Nella città visi stravolti, crocchi, arrivi continui di provinciali e stranieri, con armi luccicanti, e dimenaci e parlari superlativi, bugie, calunnie, imprecazioni, vanti feroci, sfide orgogliose. Le agitazioni dell’assemblea rapportate fuori ad ogni istante, rigonfiavan l'ire incessantemente; sozza plebe si gittava in mezzo, e sin sotto la reggia a spavento era spinta; i comitati, massime quello del palazzo Gravina, inviavan mandatarii di continuo a dominar corde ribelli lor soggette, e tenevan di fucili e stocchi asserragliato il palazzo municipale. Dalla via all’assemblea, da questa alla via, era un bollore, un riverbero, un ripercuotimento di passioni feroci. Ferdinando aveva in mano le divulgate proclamazioni, vedeva e udiva quei nuovi ospiti, quelle armature inusitate, e tutto suonar guerra; però a tutelar l’ordine nelle strade chiamò le milizie. Questa vista di soldati, cosa consuetissima, fu pretesto Scongiuratoci che ad ogni modo volean fare: fu un fremere, un accorrere, un ribollir d’ire e di grida. Era mezzanotte. Quand’ecco, come macchina in teatro, il Mileto irto d’arme da capo a' piè, con codazzo di sgherri armati, appare terribile sull’uscio della camera; indietro è il Saliceti; ed entra il La Cecilia pallido, precipitoso, tremebondo. L’atto, gli sguardi, le parole mozze accennano a sventure; tutti balzano in pie’, egli sclama: «Signori, ecco, il governo prepara e invia suoi satelliti per circondarvi e ammazzarvi; or ora sono assalite le milizie cittadine; non abbiamo altra salute che nelle barricate.» Barricate! replicarono ferocemente quei di fuori; il Saliceti, il Mileto, e i deputati Zuppetta, Petruccelli, Mauro, Carducci, Del Re, De Luca, Spaventa, e Romeo si fanno al balcone, e gridano: si fortificasse la città, si preparassero a combattere, occorrere la Costituente. Un eco spaventevole ripete Barricate! e la magica parola guizza come su filo elettrico in ogni strada. Il La Cecilia manda suoi barricatoci per ogni parte, ed egli stesso senza saputa de' superiori fa co' tamburi la chiamata generale. La Guardia nazionale scende dalle case, s’agglomera ne’ quartieri e per le vie, ignara del fare, divisa d'animi, diffidente l’un dell’altro, inobbediente, ed inerte; ma ottima a far numero e ingombro.
La Guardia avea tre parti: la vecchia civica, gente scelta, e devota all’ordin legale, con le antiche divise verdi; la nuova novatrice, co' gonnellini turchini; e gli ausiliarii alla borghese, con la piastra in fronte,cui non sapevi chi fossero. I primi amatori di pace, i secondi di progresso, gli ultimi di tumulti; comunque si facessero. Un decreto aveva a' primi permesso di conservare la divisa precedente sino a durata, chi ’l volesse, e 'l voller quasi tutti; chi la mutò fu vaghezza giovanile; però i verdi eran guardati, e ben si distinguevano, tenuti codini da' secondi; ma gli uni e gli altri mal sopportavan gli ultimi con le piastre, il più de' quali si davan gran datare. In questi era la rivoluzione, la repubblica, il socialismo, e peggio. Eran famose nelle menti le tre giornate di luglio a Parigi, con le barricate vincitrici; ei nostri italianizzanti, sempre scimmie d’oltremonti, si struggevo del far le barricate a Napoli. Ma non la Guardia nazionale parigina. sibbene il popolaccio l’avea fatte colà; e qui, per sopravanzare il modello, fecersi fare dalla Guardia nazionale, cioè da quella parte che n’aveva usurpato il nome e falsato Puffi zio. Il locandiere Carducci, quello famoso del Cilento, con ispallini di colonnello e seguito di masnadieri braveggiane!, mentre imitava il La Cecilia e faceva battere i tamburi, andava gettando attorno voci di Tradimento armi! barricate! Indarno s’opponevano altri uffiziali, chi davvero chi per forma; erari tacciati codardi, e minacciati. Poco innanzi sforzati i posti di polizia, toltene l’arme e le munizioni, s’eran pur disfatti i trofei d’arme preparati per la cerimonia a S. Lorenzo. Che parlamenti, che camere e rappresentanze! s’avea con la forza a conquistare la libertà.
Chiamarono popolani a far le barricate, e non vennero;n’ebbero pagando, ma pochi; cominciaron con questi ed Altri cialtroni ad asserragliar le vie con quanto veniva alle mani. Baracche d’acquafrescai, scranne, confessionali di chiesa,insegne di botteghe, banchi di mereiai,carri,tavole,travi,porle,cocchi, botti,che che si fosse;e su v’accatastavan terra,pietre, tegole, calcina, e le lastre delle strade. Davan la caccia a fabbri e artigiani;e come n’acchiappavano, sforzavanli a fare,con moneta in una mano e busse dall’altra; ma quelli di malissima voglia, come potean sperdersi nella folla, gittavan martelli e cazzuole, e spaiavano. Però l’opere procedevan lente. Dirigevanle e aiutavanle personaggi ignoti, barbe lunghe, linguaggi e vesti strane, poi il Mileto, il La Cecilia, qualche altro deputato, e altresì marinari, e uffiziali francesi scesi dalla flotta. Chi col consiglio, chi col braccio, chi a punzecchiar la moltitudine inerte, chi a portar tegole e pietre sulle case per lanciarle a' soldati, a cacciar materassi su’ ferri de' balconi, ad abbarcar usci e portoni. Intanto gran vociare, martellare, sfossare strade, schiodar botteghe e imposte, bravate, e iattanze, squilli e battiti di trombe e tamburi. Dove non si lavorava passeggiavan tamburini, suonando basso a funerale, e accanto voci lamentose: Fratelli, all'arme! siam traditi! Intanto in ogni casa paure: madri, donne, fanciulli, piangenti; chi rattenea il figlio, dii il germano, lo sposo o il padre, con supplici parole, e lagrime, in ginocchio vietando l’uscita. Altri inchiavava gli usci, puntellavali con panche e arnesi pesanti, altri accendea lampe a' santi; e tutti in pianto, in preghiere, e sospetti l’angosciala notte passavano.
La maggioranza de' deputati lamentavasi del fatto; e ad evitare i partiti estremi, inviava quattro de' suoi, il barone Galloni, De Luca, Jacampo e Piccolelli, in istrada a tentar di sospender l'opera; perlocché i faziosi a rassicurare la camera con isperanze di vittoria, vi fecero salire un uffiziale francese; il quale disse venire in nome di tutti i suoi camerati a offrire al parlamento il soccorso della flotta repubblicana. Impertanto le barricate s’ergevano. Le prime a S. Nicola la Carità, poi a S. Brigida, a S. Ferdinando, a S. Carlo, a Chiaia, a Mon Ioli veto, all’Infrascata, a S. Teresa, a Castelcapuano, a S. Maria Agnone, presso la Pace, e altrove. Ruppero i cancelli della gran piazza alla Carità, per Ionie i banchi de' pescivendoli e macellai; né bastando, picchiavan le grandi porte de' palagi, a trarne mobili e carrozze, quanto più ricche, prima prese. Fra esse capitavan male quelle del Ferri ex ministro. Al principe di S. Giacomo e al duca di Caianello che passavano? tolser le carrozze, per farne catasta. Passava quel tanto liberalissimo principe di Strongoli, autore del ministero Troya, che tornava dal palazzo Cariati oberano adunati i pari, e recava al presidente de' ministri la formola del giuramento adottata da quell'altro consesso: fermaronlo i barricatori, non vollero sentir ciarle, fecerlo scendere a pie’, né staccarono i cavalli, e capovolsero quella sua carrozza coll'altre. Ottuagenario, e fievole di corpo, voltò a minor cammino a Montoliveto, e die’ a' deputati la formola fatta da' pari, ch'era: osservare e fare osservare lo statuto del 10 febbraio, e svolgerlo a norma del decreto del 3 aprile. Il più de' deputati conveniva in tal sentenza; ma come non volevano i pari, per non accettarli col fatto d’un accordo con essi, rifiutarono.
Quando alla reggia seppesi delle barricate, era proposito mandar soldati a disfarle; ma il re abborrente i conflitti non volle; e anzi a contentare i deputati ordinò a' ministri annullassero con decreto la stampata formola di giuramento. Poi udendo ch’ove ritraesse le soldatesche, i 'contrarii disfarebbero ogni cosa, egli condiscendendo a cedere primo, rimandò alle caserme le truppe. Invece le barricate crebbero. Certi uffiziali nazionali, fatta indarno ogni possa a opporsi, udendosi derisi e minacciati, gittaron gli spallini, e si ritrassero a casa; lo stesso fecero i più de' buoni. Ma quei del Mileto e del Carducci risoluti a battaglia, con oltraggi e bravate, ratteneano i men cauti, proseguendo a fellonia aperta.
Pertanto il re chiamò il colonnello nazionale Piccolelli, e gli disse: «Ho tolta la formola del giuramento, allontanate le truppе, e ancora si fan barricate? che altro si vuole? Cosini promettendo scese, né fe’ nulla. Ferdinando trambasciato da inenarrabili ansie, mandò per l’altro colonnello nazionale Letizia, e ’I pregò s’adoprasse per la pace; questi dichiarò niente poter su’ ribelli; gli si dessero soldati, e disfarebbe l'opere ostili. Apparir soldati e venire a zolla era una; onde il re negolli, e aggiunsi? volersi villici, non militi per opera pacifica. Scendono il Letizia ed il sindaco di Napoli, e affrontano i barricatori con bei discorsi, per indurli a sostare: ben risposte dure e villane: Tradimento! qui, in queste barriere stanno le guarentigie nostre. Tornati a palazzo, confessano correr momenti supremi; le barricate non potersi disfare che a forza, la forza procedesse. No, sclama Ferdinando, avreste cuore di por mano ad arme? Il coraggio non sta nell'eseguirlo, ma nel comandarlo. Detto di magnanima pietà, cui la storia deve ricordare, a smaccar le calunnie poi cumulate su quest’uomo. Anzi gli operatori del male ebber viso di stampare non aver egli voluto usar la forza allora, per tuffare al mattino la costituzione nel sangue.
Il monarca risoluto d’evitar conflitti a qualunque costo, mandò il Piccolelli a Montoliveto, concedendo non si giurasse punto, purché disfatte le barricate s’aprisse il parlamento. Sonavan l’ore tre dopo la mezzanotte; e poco stante sopraggiungeva per ordine regio a riconfermarlo il ministro Manna co' direttori Abatemarco e Vacca. Ciò troncando lutte le quistioni, polca por fine al litigio, di che la maggioranza parca persuasa. A osteggiarla surse il Ricciardi a concionare: «Che io m’abbia pensieri repubblicani ciascuno il sa, eppure per moderazione non né feci mollo; ma in questa notte son di molto mutate le condizioni: il popolo non può più aver fede nel governo; voglionsi altre guarentigie, e certe, e presto; fra le quali prima la consegna delle castella a' nazionali, e lo scioglimento della Guardia reale,o rinviarla in Lombardia. Chiedendo io ciò nelle presenti condizioni nostre, trascendo da' miei sensi interni, e do’ prova di moderato.» Seguirono altercazioni, sfide, minacce, e sino balenar di pugnali. E vi s’aggiunse il Conforti, tornato a confabulare co' più rabbiosi. Ma o stanchezza, o noia pel Riccardi e pel Zuppetta, o anche la coscienza del torto manifesto, spinser la maggioranza ad assentire alla proposta regia. Né mandò Pannunzio ai ministri nominò una commissione per far togliere le barricate; e sospendendo il lunghissimo deliberare, si disciolse per un po’ di riposo.
Ma i commissarii, deputati Galletti, Capocci, De Luca, Spaventa e Barbarisi, trovate fiere opposizioni in istrada, dov’era corso il molto del Ricciardi e confratelli, tornaron su al vicepresidente Lanza rimasto con pochi; il quale dettò un manifesto, subito stampato; dove ringraziando la Guardia nazionale per la dignitosa e civile sua attitudine, diceva la controversia finita con decoro nazionale; e invitavala a disfare gli alzati ingombri, per dar adito al reale corteggio da recarsi al parlamento. Sorgeva già l’alba del 15 maggio. Sbarcavan da un legno a vapore trecento Siciliani; quindi aggiunte furie a furie, il fiotto plateale ribolliva; tenevan la vittoria certissima, fatto capitale il non ghermirla. Come i commessarii facevan per Toledo affiggere il manifesto, e alcun d’essi con buone ragioni tentava persuaderne la gente, avean dietro chi li svelleva, insinuava il contrario, e invece ponea la scritta del Ricciardi chiedente i castelli. Il Barbarisi stesso con occhiate e gesti inculcava a non ubbidire. Furiosi i circostanti levavan grida, e con la consueta formola è tardi pazzamente trionfavano.
Intanto il re in pieno consiglio dopo lunga discussione in quella trista notte, udita l'adesione de' deputati, sottoscriveva questo decreto. Veduto il programma per l’inaugurazione del parlamento; considerando che imprevedute circostanze né impediscono la pompa, decretiamo: «L’apertura delle camere riunite, e la lettura del discorso della corona faransi oggi all’ore due pomeridiane, nella sala de' deputati, alla regia università degli studii. Il giuramento prescritto con gli articoli 12 e 13 del programma del 14 maggio non avrà luogo. Le Camere cominceranno a procedere alla verificazione de' poteri. Dopo, i deputati ed i pari daran giuramento d'esser fedeli al re e alla costituzione; la quale sarà svolta e modificata dalle due Camere d'accordo col re, massime intorno a quella de' pari, coni’ è dello nel programma del 3 aprile.» Parendo adunque non esser più cagione né pretesto di lite, Gabriele Pepe comandante la Guardia nazionale e deputato salì alla reggia, dove per le durate ostilità eran tornate le milizie; e assicurando che le barricate si disfarebbero, chiese soldati senz’arme che insiem con esso facesser quell'opera, sendo i nazionali incapaci al faticoso lavoro. Ferdinando acconsentiva, rimandava via le soldatesche, concedeva cinquanta inermi, metà granatieri, metà cacciatori della guardia. Questi con due uffiziali, un capitano d’artiglieria, il sindaco e 'l Letizia s’appressarono alla prima barricata sul cantone di via Nardones per isgombrarla. Ma gli avversi, quanto men vedean periglio più baldanzosi, inferociti, puntarono i moschetti contro i soldati inermi, e con le baionette in canna li mandarono indietro. E a chi de loro superiori inculcava pace, gridavan abbasso, tacciavan codardo e traditore. Poi mandaron protestando a' deputati, che allora disfarebbero le barricate, unica guarentigia della nazione, quando avrebbero nelle mani le castella, e tutte le soldatesche uscissero dalla città. Eran le domande del Ricciardi, che perdente in parlamento faceva gridar le strade. Impertanto la Camera, unita illegalmente, non costituita, combattuta da' repubblicani nel suo seno, incapace a trovar salvezza,mandava imbasciate al ministero, e alle piazze; e ’I suo vano affacendarsi più inveleniva il tumulto. S’ alzava il sole, scendeva la popolazione, e vedeva nuovissimo spettacolo, le vie asserragliate. Calabresi e Siciliani, montanari e marinari, esteri ed ignoti, irti di tutte armi, con orribili dialetti imprecare e braveggiare, e già già guazzar nella fellonia e nel sangue.
Riuscite indarno tutte concessioni, s’eran richiamate le milizie. Stavan già due reggimenti svizzeri, due squadroni di lancieri e due compagnie di pontonieri al largo del castello, protetti da Castelnuovo. Al Mercatello un reggimento svizzero, uno squadrone lancieri e quattro cannoni; altro reggimento svizzero a S. Teresa con due cannoni; due cannoni e uno squadrone lancieri alla Vicaria; il 3.° ussari al Mercato presso il forte del Carmine; il primo granatieri a' Granili, un altro a Ferrantina. Era avanti la reggia un battaglione del 2. (e) granatieri, due di cacciatori della guardia. uno di marina, uno di pionieri, una batteria d'artiglieria a cavallo, e il 1 (0) ussari. Altra poca gente dentro il palazzo. Da ogni banda i soldati scorgeano contro di essi elevati ostacoli e barricate: diciassette sol per Toledo, altra sessantadue; altrove; la più gagliarda avanti la reggia a S. Ferdinando, fra via Nardonese ’l palazzo Girelli.
Gli Svizzeri e i Lancieri al Mercatello avean visto sul tardi alzarsi la barricata al canton delle Fosse del grano, ed accennava a rinchiuderli; eppur guardavanla immoti; ma la Guardia nazionale del 5.° battaglione stanziata colà appunto, malcontenta di questo chiudimento che serravala insieme a' soldati, e perché il più voleva pace, mandò officiali e guardie in deputazione a Montoliveto, chiedendo a che quell’altra barricata, a che farne tante, sì da vietar le comunicazioni Ira gli stessi drappelli nazionali, e a che tanta guerra? A stento fatti entrare, trovaron quel consesso di pareri e voglie disparatissime; e Gabriele Pepe colonnello o generale, spasseggiar nella sala con calzoni, sciabola, cappello militare, e giamberga nera da borghese alla grottesca, ridicolosamente. Chi gridò si tolgano le barricate, chi no, dobbiamo restare; da ultimo s’ordinò si soprassedesse a quella alle Fosse del grano, l'altre si facessero con adito stretto dà passarvi carpone un fante. Così rimasta allora incompiuta quella, gli Svizzeri e i Lancieri che la vedevan sospettosi, quand'ebbero la chiamata passarono liberi; se no, forse il conflitto cominciava là. Appresso ad essi sbiettarono parecchi nazionali; rimasti i pochi turibondi, rifecero la barricata, e vi si pararono a difesa.
L’esercito fremeva: Tonte di Sicilia, gl’insulti di quattro mesi, i vilipendii stampati, le sprezzate concessioni regie, quel lavorio di trincee avanti agii occhi, Tesser mandati via e richiamati più volte nella notte, la lunga pazienza, il ributtamento de' cinquanta inermi, il vedersi quasi in cerchio assediati, lo starsi per ubbidienza, l’udirsi dir codardi da quei ribelli risparmiati per sovrano comando, e ’l sentir che li voleano scacciati da Napoli, e rese con vergogna le castella, tutte cose gravissime da infocar gli spiriti, eran dispetti compressi troppo, già divampanti dagli sguardi e da' motti. S’aggiunse altra insolenza. Certi ufficiali nazionali dimandarono del comandante il battaglione granatieri stanziato a Ferrantina; e l’avvisarono aver eglino cominciata una barricata a Chiaia, però se avessero a ritrarsi pigliassero altra via. Fur rimandati con brevi e duri detti, ma corsane la voce, l’indignazione per l’insulto sublimò l'ire niuna avea più coraggio di contenersi, un’altra ed era finita.
Trascorse appena l'ore undici del mattino, partì un colpo di moschetto dal cantone di S. Brigida, e tosto altri due dalla prima barricata a S. Ferdinando, seguito da batter di mani universale, indi altri colpi, e una scarica piena che uccise qualche soldato avanti la reggia, e ferì un uffiziale. Le milizie sedenti per terra a riposo per l’insonnio della notte, all’improvvisa provocazione s’alzarono, e senza ordine né comando trassero agli aggressori quante avean arme cariche indi a torsi di bersaglio retrocessero verso la Paggeria per ordinarsi. Indarno accorsero uffiziali a rattenerli, ché vinta la disciplina dall’ira, sclamavano: avanti! acanti! non vogliamo esser traditi. Le fortezze sventolarono la bandiera rossa, dettero i segni d’allarme, e cominciò la guerra civile. Il re supplice nell’oratorio, scosso dal fragore, trasalì. Venutigli davanti i ministri, qualcun d’essi osò ancora proporre di cedere, Napoli pingendo straziata dal furor soldatesco. Il monarca allora, noto sol per pieghevolezza e clemenza, fiso mirandoli e severo, chiamolli responsabili delle preparate ruine al pacifico reame. Eglino supplicaronlo ordinasse la cessazione del fuoco, e Ferdinando assentiva, purché facessero incontanente disfar le barricate e posar l’arme ribelli, ma come risposero non averne la possa, nulla concluso, dichiararono dimettersi, quando già dal fatto eran dimessi.
Alquanti generali, poiché vider vano il rattener la tenzone, miser l’animo a vincere, e prepararon colonne d’assalto, mentre per l'improvviso caso non essendo ordinato chi comandasse, seguiva una confusione, ché chi voleva e chi non voleva pigliar l’incarico del comando, senza il regio permesso. I generali Ischitella e Carrascosa si lanciaron per impeto, e terzo s’aggiunse il Nunziante accorso a' colpi dalla sua casa a S. Lucia. Prima fur mandati cannoni della batteria a cavallo, i cui due tenenti Guglielmo De Sauget e il Bellelli per segreti patti co' ribelli non si fecer trovare, menatene con essi le chiavi de' cassoni delle munizioni; ma i soldati condotti dall’altro tenente de Merich spezzaron le serrature, caricarono i pezzi e trassero sulla barricata, con fero rimbombo che nunziò la trista giornata a' Napolitani. Il La Cecilia corse a Montoliveto a presentar due di quelle palle ancor calde. Il Zuppetta le ghermì rabbioso, e gridò concitato: «Ecco le risposte reali alle proposte de' rappresentanti la nazione; ecco il frutto della nazionale clemenza!» e dette in drammatico pianto.
Intanto i soldati investivano a petto scoperto la barricata, percossi da grandine di palle lanciate da persone ascose dietro finestre e materassi, i quali sull'esempio del fatto a Palermo, fidanti in quel combattere riparato, facevan prove di destrezza e frequenza di colpi alla sicura. Il general Nunziante vista la necessità del trovar altro modo di guerra per vincere, si lanciò con guastatori sulla gran porta puntellata del palagio detto Albergo reale; ma resistendo essa a' picconi, tolta non so donde un trave, né fe catapulta, e con grandi urti la rovesciò. Quindi mise una compagnia di marina su’ balconi e terrazzi, e di là prese a percussar gli avversi nelle case circostanti. Valse l’esempio, e montarmi granatieri su la Foresteria, e su’ più alti edilizii.
In quella sopraggiungevan gli Svizzeri. e alternavan co' granatieri lo schioppettare. Sovr’essi vomitano fuoco tutte le case dattorno; ferito è il generale Enrico Statella; e costretto a ritrarsi il battaglione granatieri, è surrogato da altro di cacciatori; e questo e gli Svizzeri e una compagnia di pionieri fatti venire a corsa, ripercuotono incessantemente la barricata, sorretti da' cannoni che dietro le inferrate della reggia con tiri alti davan ne’ cantoni de palagi. Questo, e più i soldati da' balconi de' propinqui edilizii spaventarono i faziosi, che non più incolumi dietro le materasse, ma colpiti anche sin dentro le stanze si sentian dall’alto; onde allentaron le offese, e anzi cominciarono a obiettare. Nella guerra siciliana i soldati erano stati sempre di bersaglio nelle vie; ora invece anch’essi dalle case bersagliavano. Come la difesa va più pigra, ecco Svizzeri, cacciatori e pionieri con martelli e picche e asce e braccia e calci di fucile, prima intronano, poi scuotono e arrovesciano gl’ingombri di quella barricata, la meglio fatta dell’altre. Seguita il grido di vittoria; ribatte il tamburo, si riordinano le colonne, e avanti a conquistar le barricate seguenti, e a pigliar le case da' lati una dopo l’altra, a vuotarla di nemici, e a mutarle da offesa a difesa. Prima quella Girelli due compagnie di cacciatori, spezzato il portone, superano a forza: chi combatte è morto, chi s’arrende, svestito dell’odiata divisa nazionale, va prigione alla Darsena. Colà è preso ferito il ballerino Giovanni Briol. Vi si trovano arme e munizioni assai; e si ripete il modo stesso sulle case seguenti. Così cadono altre due barricate men difese; e da Palazzo al Cammello la strada è dei regi. La plebe seguita, e saccheggia, dove può.
Più sanguinosa zuffa seguiva a S. Brigida. I reggimenti 2 e i° Svizzeri venendo dalla via del Carmine, come odono il cannone corrono su piazza Castello; dove il maresciallo Labrano governatore di Napoli ordina volgessero a S. Brigida. Al vederli i difensori di quella barricata battono le mani, e gl’invitano a unirsi ad essi; ché forse con tai speranze i congiuratori li avean pasciuti; ma i soldati tacenti s’avanzano coll’arme al braccio, e stendon le mani a disfar gl’ingombri. Cessa il plaudire, e si grida: Lasciate o siete morti; e confessi seguitano colpisconli da tutte le parti. Rispondono con fuochi di fila. Il primo uffiziale che salta la barricata è ucciso e molti altri uccisi o feriti gli cadon da presso. Il capitano Rodolfo Sturler che pochi dì prima in un caffè avea sfidati i ribelli, ora colto da tre colpi si sente chiamare a nome; alza gli occhi, ed è percosso in fronte e morto nelle braccia de' suoi. Il colonnello Ienjens visto il danno di tal guerra tra i petti e le mura chiama a ritratta; poi lancia innanzi due cannoni, pon le compagnie per fianco su’ lati della via, a trarre con fuochi incrociati sulle finestre, e con le cannonate da mezzo più sicurato procede. Piglia la barricata, e mentre lavora a sgombrarla è ferito esso, e cede altrui il comando. I ribelli traevano spessissimi colpi dall’alto, s’incoraggiavano, e plaudivano, e tra le fucilate, i gemiti e le strida facean sonar le campane a stormo. In quell’agone sendosi arsa la materia d’ingombro, il foco s’appiglia a’ puntelli d’una casetta in ricostruzione intorno la chiesa. Un secondo battaglione scambia il primo, investe le case laterali, sfonda i portoni, sale su, e furente per patite morti di molti uffiziali ammazza armati ed inermi. Si superando l’altre barricate, esce a Toledo. Né minor resistenza s’avean ne’ vicoli Chianche e Campane altri guidati dal Carrascosa; pari investimento e difesa, e uccisioni e vendette. Fuggono i faziosi; il reggimento, sboccando da tre vie, s’incontra a Toledo con quei che da S. Ferdinando procedean vincitori. Facea seguito a' soldati la popolazione di S. Lucia, accorsa con bandiera bianca e mazze e remi; ma fu spinta non a combattere, bensì a spazzar da' tanti ingombramenti le vie. Anche quei lazzari che a prezzo avean lavorato la notte, ora spontanei faticavano a disfare. Così con popolane braccia afforzati da ussari a cavallo e altre milizie nettaron le mezzo asserragliate vie di Chiaia e propinque, fuggiti i difensori; sicché la parte meridionale della città fe’ io stesso nelle strette vie di Napoli vecchio, né abbatté le bancate indifese, e assicurò pure la parte orientale.
Contemporaneo il 2° svizzero saliva per la Concezione, e pur da prima sforzato a piegare, occupava poscia per ordine del generale Élok al per l'edilizio de' ministeri, e co' fucili su’ balconi fugava gli avversarli sino a Toledo. Altre compagnie superavano il passo a' Fiorentini ove toccava lieve ferita al colonnello Brunner. Il 3° reggimento battea le case incontro Castellinovo, donde partian micidiali colpi; ed un battaglione con lo Stokalper saliva per S. Giacomo incontro alla gagliarda barricata avanti al palazzo Lieto. Quivi erano i più rabbiosi promotori delle napolitano orgie, e con lunghi archibugi fulminavano i soldati procedenti da S. Giacomo e da Palazzo. Moriva il maggior Salis-Solio, ferito era il colonnello Dufur, cadevan molti, però s’ordinò la fermata, e cavati i cannoni si trasse e sulla bancata e sul palazzo Lieto che n’ebbe danno. Quella superata, fu una fatica contro il portone del palazzo forte abbarrato, ma dopo più cannonate e molta forza, alfine aperselo il fuoco. I difensori, altri si collava dai balconi sulla via di dietro, altri s’ascondeva nelle cantine e ne’ pozzi; chi preso putiva le mani di polvere periva, chi no la scampava prigione.
Dopo questo, i Regi correan per Toledo in su a passo di carica, senza lotta, percuotendo solo su qualche balcone onde uscisser colpi, lasciando dietro i popolani a spazzare. Patì pena il caffè sotto il palazzo Buono alla madonna delle Grazie, nido demagogico, dove erano stati eletti ed abbassali i ministeri; ché i soldati passandovi né ruppero le porte e le masserizie a sfogo d’ira. Fu giustizia soldatesca il caso d’un Salvatore Toniabene siciliano. Questi già col marchese di S. Giuliano promotore della sedizione catanese nel 1837, s’era fuggito a Malta, a scrivervi un giornale contro il reame; ma lucrandovi poco, prese l’altra più lucrosa arte della spia, a danno de' compagni d’esilio, di che fattosi merito, tornò, e raccomandato dal Del Garretto s’ebbe pur la carica di controloro di dogana, e già era stato promosso ispettore. Nondimeno lavò quest’onta nel 18 rivoltando carta, e rifacendosi liberale, e de' più insigni schiamazzatori. Ora di su la locanda l'Allegria al largo della Carità, postato con una mano di Siciliani facea guerra, però i soldati sforzato il portone, e trovatigli diciasette fucili lordi e alquanti compagni, a questi ed a lui, cui fu vano ogni scampo, troncaron con la vita i tradimenti. Paura e non più ebbe il La Cecilia barricatore; perché si fuggì dal posto di guardia a lui fidato del famoso quarto battaglione nazionale, e rifugiò a Montoliveto. Così là dove s’aspettava maggior contrasto non se n’ebbe, e le milizie trascorser oltre.
D’altra parte i granatieri della Guardia reale con alquanti ussari guidati dal maggiore Alessandro Nunziante (tanto traditor dappoi!) scambiati pochi colpi a S. Giuseppe, e disfatte barricate per via, in vesti van quella a Montoliveto, appoggiala al palazzo Gravina. Quest'edilizio dei più belli di Napoli, già di casa Orsini duchi di Gravina, era ito da pochi anni ne’ Ricciardi, ond’erano compadrone quel Ricciardi deputato, non ultima cagione delle ruine di quel giorno. Colà era il capo de' circoli rivoluzionarii, e la stamperia della setta, il convegno di quanti avea faziosi il regno, centro onde partian per le provincie gli ordini di ribellioni, v’abitavano un Salvatore Ferrara segretario del circolo, e l’avvocato Galanti, pria creato de' ministri assoluti, ora liberalissimo. Colà stavan postati i più baldi Calabresi, il nerbo della fazione. Come i guastatori regi steser le mani a diroccar gli ammassati ingombramenti, venner dall'alto colpiti in frotta. Bisognò far guerra, e con l’usata strategia conquistar le case de' lati, scacciati i difensori, e imberciandoli di là sin dentro i loro parapetti sforzarli ad allentare. Eglino a difesa gittavan pur pietre e tegole e masserizie, nondimeno aperto il passo, i soldati spalancarono col petardo la gran porla del palagio, e dentro sempre combattendo di camera in camera s’avanzavano. Molti vi perirono, altri molti andar prigioni, fra quelli il Ferrara; altri scamparono in nascondigli, o per segreti usci, o pe' balconi della via opposta. Non so se caso o malizia appiccase il fuoco.° che accese le tendine, o che, come si disse, il frettoloso abbruciamento delle carte del circolo fatto da' fuggenti divampasse sulle travi, o che altro in quel furore, si l’incendio s’alzò, che presto il tetto minò sull’ultimo piano, e questo sul sottoposto orribilmente. In quella doppia distruzione di foco e di guerra, furono uffiziali a rischiar la vita per salvar persone e masserizie ed oro e gemme. Da ultimo il generale Ferdinando Nunziante ch’avea preso il comando chiamò pompieri e soldati a smorzar le vampe, e a fatica sul tardi vi pervenne.
Dopo questa fazione, si tolser quasi senza guerra l’ultime barricate, i granatieri seguitarmi franchi sino allo Spirito santo, dove s’incontraron con le colonne vegnenti da Toledo. L’incontro fu un’esultanza, la vittoria era certa, tutti usci e finestre sventolavano pannolini, e le grida di viva il re concordi tra soldati e popolazione echeggiavan da ogni banda. Durando il conflitto un Raffaele Piscicelli di A versa andò a concitare gli alunni del conservatorio di musica a S. Pietro a Maiella, né persuase venti, e li menò all’albergo de' poveri a fornirli d’arme, quindi tornò con essi nell’ore pomeridiane sulla barricata di S. Pietro a Maiella, ma udendo i soldati accostarsi, fuggirono, il Piscicelli ad Aversa, gli alunni alle camerate. I Regi disfecerla senza trar colpo. Poche schiopettate trassero all’altra a S. Teresa, dove i rivoltosi, veggendo le milizie accorrrere pur dalla Stella, tementi esser cinti in mezzo, lasciarono i posti, e anche il convento messo a difesa.
In frattanto diverso conflitto nella sala a Montoliveto, di passioni, speranze e timori. Al primo colpo di cannone i più giovani proruppero in invettive, tutti restarono commossi e perplessi, chi gioiva dell'opera sua, chi fremea del fatto, chi trepidante, chi furibondo; improvvisavano in varia guisa modi governativi, divisamenti e decreti. Accrescevan dubbiezze le spesse novelle della tendone; prima per alzar l'ire comparian le palle tratte, poi dicevan la popolazione levata come un sol uomo, poi voci di vittoria, vincitori i Nazionali, sbandate le truppe, il re fuggito, sbarcare i Francesi. Tai fallaci trionfi inventati a incoraggiarli, imbalordianti. Altri volea dichiarar decaduto il re, il trono vacante, sovrano il popolo, altri voleva issofatto governo provvisorio; e i proponitori Zuppetta e Spaventa, come fosse adottato annunziavanlo all’orde plateali, che di già approvarono. Ma ostando la maggioranza che a udir la battaglia avvicinarsi s’era fatta più prudente, il Ricciardi mise avanti la necessità d’un comitato di pubblica sicurezza; con potestà assoluta in quei momenti; e ciò afforzato al dirsi il re fuggito, ancora che parecchi s’astenesser dal votare, produsse senza forma parlamentare, quasi per grida, questa deliberazione: «commettere a un comitato di pubblica sicurezza il potere assoluto di tutelare l’ordine pubblico, e provvedere alle urgenze del momento; la Camera dichiararsi in seduta permanente; la Guardia nazionale dipendere dal Comitato, e questo riferire alla Camera.» Membri del comitato fecero il Tupputi (il graziato nel capo del 1821) il Giardini, il Lanza, il Bellelli, e ’l Petruccelli. Bandironlo da' balconi che danno alla Carità, e v’aggiunsero aver poteri assoluti, E dalla strada si rispose: Viva la camera e 'l governo provvisorio! Allora lo Zuppetta, il Barbarisi, lo Spaventa ed altri, tolte dalle sale le immagini del re, le arrovesciaron pe' balconi alla via, gridando: Morte a lui! Viva la repubblica! e quei di giù rispondendo, trafiggevante, spezzavanle, calpestavate. I più codardi, quanto più dalla zuffa lontani più facevano i feroci. I cinque ristretti in segreto, cominciarono a fare i re. Notificarono la deliberazione al ministero, e pel deputato Faccioli scrissero al Labrano comandante la piazza: «La Camera, unica rappresentante la nazione, in permanenza ha creato un comitato. Questo dimanda il perché surto il conflitto, e insiste che sul momento cessi ogni violenza. — Tupputi presidente.» il Labrano rispose: «La truppa cesserà dal fuoco, quando sarà cessato il fuoco dalle barricate e dalle finestre, e messe bandiere bianche in segno d’adesione.» Allora mandaron deputati alla reggia, non ricevuti.
Presto nella Camera l’appressarsi del cannone, e ’I diradarsi della moltitudine attestano la fallacia delle prime novelle. All'esultanza seguono angosce, diversi pensieri, diversi timori, scambievoli rampogne. Arriva nuova il Nunziante esser vicino; ed ecco alzarsi terribile l'idea della punizione, terribilissimo il generale cotanto insultato e depresso; già in ogni lesta si affaccia il pensiero di scampare. Ma il comitato non pago, fa volar messi a Salerno, chiamando a furia soccorso di Nazionali, già come dissi ne’ Principati e sino in Calabria tenuti in pronto; e il Carducci qual colonnello vi manda l’ordine d’avanzar sopra Napoli. Da ultimo con onesto colore s’allontana il Ricciardi col collega Giuliani, come in deputazione al ministro di Francia per mediazione, e al vice-ammiraglio Baudin per aiuto. Il La Cecilia che invece di combattere sulle barricate da esso fatte, s’era messo al men rischioso posto del custodir la Camera, ora tentando fuggirsi, è da un deputato trattenuto a forza. Altri cerca travestimenti, altri nascondigli, altri col Lanza s’assicura sulle navi francesi. I rimasti (che si sentivan men rei) licenziate la guardie nazionali, interdissero severamente ogni guerra da quella casa. Nulladimeno alquanti deputati prima di fuggire parlarono in fretta di stendere una protesta, ma non ebbero il capo a redigerla. Fu scritta poi con comodo all’estero; e si lesse dopo tredici giorni stampata, a 28 maggio, sull’Alba, giornale mazziniano di Firenze, con sessantaquattro firme di deputati, benché a Montoliveto né fossero stati 98, ed essi fossero 161. Quella protesta fu così: «La camera unita in sedute preparatorie, mentr’era intenta all’adempimento del suo mandato, veggendosi aggredire con inaudita infamia dalla violenza dell’arme regie nelle persone inviolabili de' suoi componenti, nella quale è la sovrana rappresentanza del la nazione, protesta in faccia all’Italia, l'opera del cui provvidenziale risorgimento si vuol turbare col nefando eccesso, in faccia all’Europa civile oggi ridesta a libertà, contro questo atto di cieco ed incorregibile dispotismo. Dichiara sospendere sue sessioni, sol perché costretta da forza brutale; ma lungi dall’abbandonare l’adempimento de' suoi solenni doveri, si scioglie momentaneamente, per unirsi di nuovo dove e appena il potrà, per prendere quelle determinazioni che son reclamate dal dritto de' popoli, e dalla conculcata umanità.» Dappoi dichiararono accedervi altri tre assenti: Pietro Leopardi, ito come dissi legato a Carlo Alberto, Girolamo Ulloa capitano ch’era col Pepe, e Giuseppe Massari.
Al cominciar della pugna gli ambasciatori esteri, e pur l’inglese Napier adunati attorno al Rivas ministro di Spagna, che per la parentela delle regie case di Napoli e Spagna uvea la prima parte, tutti recavansi a Palazzo per istar da presso al monarca in quei momenti solenni. Per via trovate barricate e barricatoci avean dovuto scendere a piè, e far con periglio e fastidio la lunga via della riviera di Chiaia. Il re trovaron nelle braccia della sua famiglia addoloratissimo, e la loro presenza che sanzionava la giustizia della sua parte, e le cortesi loro parole gli furon di sollievo. Mancava il ministro d'Austria, andato via per le abbruciate insegne, mancava il nunzio del papa, chiuso nel suo palagio, dove ferveva il conflitto; e mancava il repubblicano ministro di Francia. Era un Edmondo Levraud, surto allora di basso stato con la rivoluzione. Il Ricciardi scansando i luoghi combattuti era ito per la collina e sceso a Chiaia a cercar di lui, il quale presolo seco il menò sul Friedland capitana del Baudin, e molto perorò per indurre costui a puntare i cannoni su la reggia, o a far rimostranze per ottenere almeno una tregua. L’ammiraglio sbarcò uffiziali a terra per intendere il vero, e saputolo non fe’ altro; ond è fama il Levraud scontento tentasse le ciurme, e né venisse consigliato a ritrarsi; il che fu scritto; e considerato Gnomo e i tempi può esser vero. Il Baudin volse una lettera al re, raccomandando moderazione e clemenza. Da ultimo il Levraud, ebbe viso di presentarsi a Palazzo, a congratularsi della vittoria.
Il general Nunziante, giunto avanti la casa municipale, non fe’ muover soldato, e mandò l’aiutante di campo su alla trepidante assemblea, intimando disciogliessero l’illegale adunanza, ed ei lor darebbe militi di scorta. Così fecero, e menati a casa a uno a uno in fra i cadaveri e il sangue, non patiron molestia di sorta. Si salvarono fuggendo a’ legni francesi il Mileto, il Saliceti, il La Cecilia, e altri autori della pugna; de' quali parecchi stativi pochi dì, come videro le cose chete, tornarono a terra a casa loro. Altri si gittavan sulle vie delle province a sollecitare i ribellamenti preparati. De’ prigionieri fatti nel caldo del conflitto,s’ebbe a lamentar d’alcuni,che tratti a Castelnuovo nel primo empito d’ira, percossi da cannonieri del presidio, morirono; e fur cinque o sei; che accorso il generale Luigi Cosenz e altri uffiziali, tutti gli altri salvarono, fra' quali fu un Piria ricco calabrese, che pur molti anni poi visse. Né invero tutti i prigionieri eran rei; il più cittadini pacifici, presi nelle camere loro occupate a forza da' nazionali, che poi fuggenti al pericolo, lasciavan pericolare quelli innocenti. Però sovente, salvatisi i faziosi, s’eran visti uomini onesti e realisti, e sin gentiluomini del re, ligati da' soldati e mezzo vestiti, menati via prigioni miseramente.
Sull’imbrunire tutto era cheto: i soldati, accampati nelle vie, la città deserta, attonita, con lagrime e sangue, mura bucherate o crollanti, fumo in due parli, silenzio funereo e panni bianchi dalle finestre. Molti feriti, molti morti, intorno a quattrocento, più che metà soldati, parecchi innocenti vittime, scampati i più colpevoli, seicento prigionieri misti buoni e rei, un po’ di plebe avida, rattenuta a stento dal seguitare il sacco, e lo assedio militare, fecer più lugubre la seguente notte. Dì memorando a' Napolitani per infamia di mercatanti di libertà. L’ammiraglio di Francia accolse i fuggitivi con giuratori, i quali sullo stesso legno, e alla vista della città ch’avean sì concia, rugumavano attentati novelli. Molti tornarono subito alle ipocrisie, alcuni ebbero la viltà di mandar suppliche al re, esponendo non so quale fedeltà al trono, dimandando di tornare, e anche la continuazione de' grossi stipendii. Il Saliceti ebbe coraggio da supplicare d’aver il ritiro col soldo di magistrato. Il La Cecilia chiese di continuare nella carica d’uffiziale di ministero avuto di quei dì per merito di fazione. Il medico Lanza, stato del comitato sovrano, protestava con ipocrita lettera alla piena innocenza, e non so quale antica devozione a' Borboni. Ma di queste e d’altrettali inesaudite supplicazioni, fecero subita ammenda, narrando pel mondo i fatti a rovescio su’ napolitani eccidii, su Ferdinando bombardatore, su’ barbari saccheggiatori soldati, e se gloriando magnanimi propugnatori di popolo. E con quest’arti, quantunque poco stante rinnovate in peggio a Roma, in Toscana ed a Genova, si son fatti credere da chi il voleva, per preparar con l’aiuto straniero le riscosse. Hanno scritte memorie, novelle e storie, riprodotte, rilodate, e citate, ma la verità non perisce.
I seicento prigionieri, tenuti due dì nelle regie fregate, e trenta Guardie nazionali raccolti feriti con l’arme alla mano, e mandati all’ospedale della Trinità, fur tutti per real clemenza mandati liberi, quelli prima, questi il 19, salvo due che v’eran morti. Clemenza fu pericolosa, e quando già ribellavan le Calabrie: di fatto il più di essi ringraziarono col ricongiurare. Tra le menzogne stampate non vergognarono asserire il re autore delle barricate per uccidere la costituzione, aver liberati i prigionieri per non punire chi lui avea servito; aver egli fatto trarre da un creato di palazzo il primo colpo a S. Ferdinando. Nel giudizio solenne fattosene poi fu provato il primo colpo esser partito da una Guardia nazionale sulla barricata; chi si fosse niuno il disse, ché testimoni non v’era altri che correi; che il Romeo e il Mileto il postassero fu testificato. Quanto a' prigionieri liberati, benché moltissimi rei e fin iti combattendo sfuggissero la condanna, pur qualcuno d’essi ebbe pena; il che smonta la calunnia. Ma così allora i liberali accusavan Ferdinando, e sé piagnucolavano innocenti; dappoi nel 1860 questi innocenti vantarono la loro reità.
A’ 16 nelle combattute vie erano i tristi segni dell’umana rabbia. Le strade Toledo, S. Teresa, Montoliveto, S. Brigida, e piazza S. Ferdinando e Castello, avean vetri infranti, usci spezzati, mura bucate, imposte penzoloni, qualche cadavere ancora, e solitudine e silenzio terribile. Nell’altre parti della città la pace: fuggiti gli esteri e i provinciali, non più grida, non perorazioni, non armi sguainate, non minacce, non vanti; la popolazione sicura ripigliava sue industrie, benediceva le baionette ch’avean ridato Napoli a' Napolitani. Il popolo festante con bandiere bianche correva alla reggia, e di gran Viva al re e all’esercito era largo. Il re uscì a passate in rassegna le milizie in piazza reale, al largo del Castello, a' Granili ed a Portici, dovunque appariva salutato con entusiasmo ed affetto. Sventolavan fazzoletti, battean le mani, benedicevanlo, gremite le finestre e le vie, lungo la Marinella; e ringraziavano il Signore del vederlo incolume e vittorioso. Il corpo diplomatico ritornava alla reggia a festeggiarlo pel valor de' soldati, e per la riguadagnata pace.
Un fatto atroce e deplorabile seguì. Quel mattino fu mandata una compagnia svizzera a visitare il convento S. Teresa, ove si torneano ancora ribelli ascosi. niuno si trovò, ma in quei sospetti, sendosi messo a fuggire da una finestra un giovanetto sartore del convento, un soldato il fe’ cader morto nel giardino. Dopo un minuto altro Svizzero uccise senza ragione nella contigua cella il padre Rodio. Lamentevoli fatti a danno di due non liberali; che fur lunghissimo tema alle liberalesche accuse.
A raffermar l’ordine il Labrano governatore vietò per allora di stamparsi annunzii e giornali; ordinò il disarmamento in quattro giorni, non valere i precedenti permessi d’arme e delegò il nuovo prefetto di polizia a rinnovarne le licenze abbuoni cittadini. Vietò ragunanze e associazioni di persone, punibili secondo legge. A’ 18 volle gli spettacoli pubblici fossero autorizzati da esso. Dichiarò disfarebbe a forza ove vedesse assembramenti tumultuosi; ma non ve n’era mestieri, sendo spariti i tumultuanti.
Il 10 maggio di Napoli fu in Europa la prima opposizione vera alle sette, e chiuse nel reame il primo atto di turpe dramma, durato quattro mesi. In essi ogni eccesso e con tradizione. Predicazioni di civiltà ed esaltamenti di calunnie; vanti di fratellanza ed odii cittadini; promesse di pace, e schioppettate e guerra civile; pompa di leggi e spregio alla potestà; paroloni di patria, nazione, popolo, progresso, bene pubblico, e ingordigia di roba e onori altrui; suffragio universale e tirannide settaria; fumi alla capacità e busse agli ingegni veri; religione, papa, Dio, morale, e offese al culto, odio a' sacerdoti, ateismo ed infamie. Ipocrisie sfrontate nuove fra noi; tragedia lurida di passioni vili, di cui protasi fu l’inganno, e punizione la catastrofe.
Quel dì lo era preparato a rivoltamento, non solo fra noi, ma altresì in altre parti d’Europa, massime a Berlino, a Vienna e a Parigi. Dirò di questo. S’era dal 5 maggio colà stabilito a novecento il numero de' deputati; fatte l’elezioni a' 20 aprile, tumultuose in più luoghi, s’aperse a 4 maggio l’assemblea: a' 6 il governo provvisorio della repubblica depose la potestà, a 10 fecesi una commissione esecutiva e un ministero. Ma i socialisti non volendo ordine governativo, tenevano armata la plebe, però il dì 15 presa l’opportunità d’interpellanze a farsi per la Polonia, dov’era stata qualche sollevazione, volsero all’assemblea in numero di ventimila, diceno presentare una petizione pe' Polacchi. Entrati molti a forza, lessero quella carta, poi per bocca d’un deputato Barbès chiesero si facesse un prestito forzoso su’ ricchi d’un milione di milioni, e infra il gran tumulto che né seguì, sciolsero l’adunanza; e né scacciarono il presidente e i rappresentanti, preludio di tristo avvenire. La Guardia nazionale ottenne a stento che andassero via.
In Napoli fuggiti i ribelli, alquanti pervicaci, vistisi le persone sicurate ripreser animo; si ricacciarono nell’albergo di Ginevra, e la notte stessa mandavan chiamando i colleghi, massime il Carducci, nel quale speravan più, pel pronto risollevarsi del Cilento. Tenner nuova congrega, intervenuti pur non deputati. II Petruccelli di tutti il più furente accusava non so quai passati indugi, e mostrava star loro salvezza nel presto rialzar la ribellione in qualche città di provincia; ma il sonito orrendo del cannone aveva in molti quel dì scemato il fatuo ardimento, e cominciava a entrar la ragione ne’ cervelli; sicché quell'avventata proposta venia forte osteggiata da quelli stessi che la vigilia sicurissimi tenean fosse loro lo scettro del reame. Alle opposizioni il Petruccelli impazientissimo alzò la voce; e al deputato Amodio di Potenza furiando gridò: Verrà dì che vorrete la rivoluzione e non potrete farla. Egli invero non potean farla, né allora né poi. Ecco in sul bello entra a caso un uffiziale regio nell’albergo: allibiscono, e troncan le consulte, ciascuno cercando suo scampo. Nondimeno restar fermi di ragunarsi ove prima meglio potessero, perché dalle ben preparate mine supponevano già in pieno scoppio le provincie, i comitati aver presa la potestà, le Calabrie, il Sannio, i Principati, Potenza, Abruzzo in arme, il Raccio, Monteforte gremiti delle sacre legioni; onde altro non credevano che viaggiare a pigliarne il comando.
Similmente il Ricciardi che rifugiato con altri pochi sera sul Friediand incontanente propose d’alzar il vessillo della rivoluzione in Calabria, perché già più dell'altro regioni in balia de' comitati, perché con intendenti e altri uffiziali devoti alla setta, e perché provincia montagnosa, armigera. lontana da Napoli, e propinqua a Sicilia, donde si sperava aiuto grosso. Il Carducci fuggito pur là, propose anzi scender tosto sul Salernitano e rimaneggiar le note arme del Cilento. Altri spaurito della patita rotta, tutte e due case sconsigliava, onde vennero ad accusarsi a vicenda del fatto e del non fatto. Ma l’ammiraglio Baudin che mal vedeva quelle civili rabbie intente a rinsanguinar la patria, troncò le contese, negando di condurli sulle coste del reame. Concesse il Plutone legnetto a vapore che li sbarcò a Malta. Di là ritornarono all’impresa, come appresso dirò. Il Carducci rifugiò a Roma; dove pur si condussero il Saliceti, il Petruccelli, il Del Re, ed altri.
Grandi son sempre le speranze de' congiurati: ciascuno vanta seguenza di migliaia, al fatto come fortuna tentenna restali soli. Nelle provincie i moti fur questi. Terra di Lavoro più vicina più agitata. A S. Maria, udendosi il lontano cannone s’inferociva; i Nazionali pigliavan l'arme per accorrere; poi supponendo soldati sulla via ferrata partenti da Capua, ruppero le spranghe di ferro, facile vittoria, senza più. Da Castelvolturno pochi cacciatori d'anitre palliano e retrocedevan tosto. A Sessa arriva un prete di Latina a sollecitar l'armamento; ed è carcerato da' Nazionali stessi. In tutta Terra di Lavoro stando qua e là i pochi turbolenti in aspettazione. alla vista de' fuggiaschi di Napoli s’ascondevano.
Ma sul confine orientale a Monteforte, ove doveva agglomerarsi la sacra legione, il Torricelli capo designato com’ode le barricate fatte a Napoli comincia sull’alba del 15 a ragunar gente. Già n’aveva a Mugnano, e più centinaia a Galluccio, e n’aspettava da tutto il Nolano. Boiano stavasi dubbiosa, Sirignano pareva andasse; Nola, Saviano, Lauro, Quindici, Marigliano, Cimitile già univan bande. Avella avea dugento in ordine in un convento, quando la chiamata del Torricelli, e lettere del deputato Cicconi. assicurato l’aiuto della flotta francese, spinsero il capo a volgere a Monteforte. A Baiano s’ingrossarono co' carcerati cui dier la libertà. Se non che fermati due soldati con lettere uffiziali, vi lessero già un battaglione di Carabinieri aver preso l'alture di Monteforte e discenderne; laonde il capo gridando rabbiosamente postò i suoi su’ lati della via dietro mura e giardini a percussare i cavalli regi appena si vedessero. Ma gli Speronesi spaventati di quella preparata guerra nelle case loro, pria pregarono, poi minacciarono così, che i ribelli per non trovarsi tra' terrazzani e i soldati, infuriati volsero su, verso Mugnano.
In frattanto al Torricelli arrivati corrieri da Napoli, si turba, e sentendo i Carabinieri vicini fogge scompiglialo co' suoi a Mugnano. Qui grida all’arme; pigliassero fucili, scuri, vanghe e mazze, rompessero il cammino al nemico; tenta sforzare il parroco a sonar le campane, e il sindaco e il capo nazionale a battaglia. Questi contrastano, e conseguita gran tumulto; gli uomini chi perplessi, chi renitenti, chi risoluti; le donne a opporsi, grida, pianti, imprecazioni e minacce. In quella giungono gli Avellani, e ciò anzi che coraggio desta paura, ché costoro udendovi le novelle vere di Napoli, retrocedon di fretta, e fu segnale di sbandamento generale. Il Torricelli assottigliato, udendo le trombe de' Carabinieri, anch'esso pensa a suo scampo. A sera tutti i faziosi del Nolano, rimbucatisi ne’ loro focolari. ripreser l’aria d’innocenti.
Già nel 14 avean fatto un governo provvisorio ad Ariano di Puglia. Di là e da Greci e Savignano scesero i faziosi, con a capo un prete energumeno; a' quali s’unì il Porcaro poc’anzi graziato. Disarmavano i gendarmi pei viltà del comandante, abbattevano il telegrafo, guastavano un ponte, e pigliavano il procaccio e le poste. Si vantavano di scendere ad Avellino, ma udito Napoli perduto, prima si avvilirono gli Arianesi, poi retrocedettero (luci di Capitanala, e il prete tornato a Greci, per appagarsi la fantasia delle nelle campane, gridò vittoria, e che già proclamata fosse a Napoli la costituzione del 1820.
Dalla banda settentrionale di quei monti si dava da fare un Jacobucci malfattore, speranzoso dell’altrui, e già per iscendere a Solopaca, giusta il convegno, avea parecchi accozzati in S. Giorgio la montagna patria del Nisco. Questi fu guardia d’onore; debitore allo stato di parecchie migliaia, più volte impetrate con suppliche le grazie del re, avea per favore ritardato il pagamento; però volendo pagare con la rivoluzione s’era lanciato nella congiura. Fatte le barricate in Napoli, e cominciata la pugna, ci corse in patria, dove arrivò sul tardi, e in sul botto scrisse a' capi de' dintorni levasser l’arme, ma niuno n’ebbe l'animo. Egli al mattino del 16 congregati pochi in casa sua, e poscia in piazza, li arringò dicendo la rivoluzione vincitrice in Napoli, e dovervisi andare più a fruir della vittoria, che a sfidar pericoli. Così radunati forse cento, li spinse innanzi col Jacobucci,il quale mosse per Curciano, S. Martino, Terranova e altri luoghi, ma sendo silenzio da ogni parte, e più dal Sannio donde aspettavano la schiera, e sapute le notizie vere di Napoli si sbandarono, fuorché il Jacobucci ch’andò birboneggiando per quei paeselli alcun tempo, sino al 5 novembre, quando resistendo alla pubblica forza cadde morto.
Nel Sannio in certe terre s’era dato ne’ tamburi e nelle campane, chiamando all’arme, in Campobasso si radunaron nell’orto botanico, senza più. I più avventati della provincia, eran vicini a irrompere, quando ebber certezza de' cavalli regi guidati dal Jacobelli, e stettero cheti.
Dissi il Carducci aver ordinato alla Guardia nazionale del Salernitano si levasse in arme. N’arrivan le prime nuove a Pagani, e i faziosi si scaglian su’ gendarmi a torre l’arme, seguita tumultuando Scafati. Un Ovidio Senno prete agita S. Valentino e Sarno; un Lamberti il Cilento. Da Torchiara correan sopra il borgo Cicerale, torturavan gente per aver danari, e procedevano. In Postiglione si facea congrega in chiesa, si eleggevano i duci; disarmavan gendarmi, sforzavan con busse e minacce di morte i ritrosi, e s’avanzarono sino al Sele. In Buccino, gridandosi in Napoli proclamata la costituzione del 20, fu chi si doleva non fosse stata repubblica.
A Salerno ribollivan le passioni; i congiurati si uniscono nel quartiere di S. Benedetto, creano una commissione da guidar la rivoltura, stampano editti minaccianti pena capitale a chi non accorresse, e usciti conquistano il procaccio. Tosto mandano attorno divulgando i Regi vinti a Napoli, e i nazionali vincitori. Il Mambrini segretario generale chiama il consiglio di sicurezza in permanenza; come vede giunger gente de' dintorni, segnala a Napoli il mattino del 16 essere universal desiderio di accorrere; se non che il Morese capitano d’essi Nazionali, temente il Mambrini usurpasse i suoi vanti, segnalò anch’esso verrebber tosto diecimil'uomini; né pago, scrisse del pari a molte terre di Calabria accorressero incontanente a salvare la patria pericolante. Rispondean quelli che verrebbero. Intanto a pagar le bande arrivate, tolser danari dalle casse pubbliche; e il Mambrini ordinava a quei di Nocera e Scafati preparassero viveri alle vegnenti milizie. Il perché le soldatesche di Nocera si posero con artiglierie ad aspettare i ribelli sulla via consolare, in mentre a rafforzarle cavalcava una schiera di cavalli da Avellino. Questo bastò; ché tutti spauriti si ritrassero, fra le risa e i fremiti delle popolazioni.
In Potenza alle novelle di Napoli i congiurati davano in grida rabbiose. Il circolo con l’intendente e ’l ricevitor generale creò tosto due comitati di guerra e di finanze, deliberò mandar incontanente la Guardia nazionale; pertanto die’ fuori una proclamazione celando la disfatta, svelando il conflitto, assicurando l’aiuto di Plancia, e incitando all’arme: Venite libertà o morte! Corse in tutta Basilicata l’invito; ma fuorché Albano, e Pietragallo che spinsero i loro a Potenza, pochissimi si mossero; e ben presto i fuggiaschi da Napoli miser la prudenza in cuor di tutti.
A Foggia tentarono di fellonia i soldati; trovatili duri minacciarono, ma niente osarono. Fur tumulti a Cerignola e Manfredonia. Un Cozzoli agitò Molfetta. In Monopoli certi congregati entro un albergo istigali da persone venute di fuori, volean fare il governo provvisorio; mai cittadini ostarono, e scacciarono gli stranieri. In Lecce strepitò la piazza; fe’ un consiglio, un capo di milizie, vietò il telegrafo, prese danari delle casse pubbliche,distribuì munizioni da guerra. Altri fermava il telegrafo a Squinzano, ponea comitati in Torchiando, S. Pier Vernotico e Mesagne, tentava Brindisi senza fruito. Altri movea Manduria a rumore; e là ed a Sava disarmavan gendarmi. Monopoli stette cheta. In Gallipoli i gendarmi e le casse e gli archivii spogliavano. Cotai moti, surti per opera del Romeo e dei suoi parenti, caddero di per sé. Fuggirono i Romeo.
Negli Abruzzi i congiuratori passando per Tossiccia e Isola gridavan la costituzione del 20, ma seguiti da pochi si pentivano. A Cittaducate, movente il Falconi spintovi dall'Ayala intendente, fur tumulti e infranti i gigli, e anarchia, senza più. Pochi che s’eran calati a Casteldisangro, udita la congiura svanita, dettero indietro a furia. Ma il Saliceti, il Petruccelli ed altri fuggiti a Roma, designando mover contemporanea la rivoluzione dalle Calabrie e dagli Abruzzi, mandavano il Del Re alll’Ayala a sospingerlo. Questi avea già ricovrato in quel suo governo molti profughi, risponde che farebbe presto e bene, e di fatto cominciò col concertare co' profughi alla vicina Rieti, ed egli stesso poi v’andò, e accoglieali alla sua mensa in Aquila, apertamente favellando di sedizione. Si preparava a levare alto il vessillo. A Teramo i congiurati scodo pochi volevano e non poterono proclamare il governo provvisorio. Spargendo voci sinistre, e che i villani preparassero armi, ottennero d’entrare nel decurionato, per sospingerlo. Già in segreto avean fatti i capi del governo, destinati gli uffizii, subornati artegiani; tenner consulte in chiesa, poscia in teatro balzarono in pie’ e feron la proposta; più arrabbiato un prete Massei; seguì tumulto grande, contrasti, dileggi, minacce; ma non concluser nulla. Pensarono il 30 maggio, onomastico del re, destinato a festa, voltare a mortorio; e il Massei propeselo in decurionato: ostavano i più, onde anche si minacciò sangue e ribellione imminente. Non fu vinto il partito, ma strappato quasi a forza. Mandaron l’atto al vescovo e alle vicine città, stamparon firme per darvi aria di volontà generale; e insultato quel prelato che a possa s’opponeva, sonaron le campane a funerale, vestirono il duomo a lutto, cenotafio, trofei, iscrizioni, armati, orazioni funebri, a scorno del re. L’audacia de' pochi valse. Nell’altre terre non si vide nulla, fuorché a Molitorio un cartello di contumelie al sovrano, e a Bellante la vergognosa copia di Teramo col feretro in chiesa. In Chieli, ben s’agitarono i congiurati, ma forte la maggioranza ostando, non osarono.
Dirò per minuto le cose di Calabria, perché principio di nuova ribellione. Corsovi l’invito di Giovannandrea Romeo di volar sopra Napoli a sorreggere i deputati, tosto i telegrafi di Paola, S. Eufemia e S. Biase rispondevano verrebbero; ma gli stessi segnalatori non ne avean voglia, e le popolazioni né pur vi pensavano, in Cosenza le nuove napolitane diero ai congiurati pria stupore poi rabbia. Pochi e anche incitati cominciano a strepitare; arrivano i fuggiaschi del 15 maggio, partiti vanagloriosi,tornati vinti; accusano il re, diconlo spergiuro bombardatore, stampan racconti favolosi, capovolgono i fatti. Così se nel reo proposito incaponiscono, accendono gli altri, e aperto van parlando di repubblica. Da ultimo v'arriva il bolognese Pacchione, con ordini segreti del ricostituito comitato di Napoli.
Subito con alle grida i più avventati, dicendo la patria in periglio, corrono il mattino del 18 in frolla sul palazzo dell’intendenza, e chiedono un governo provvisorio, sotto pretesto del guarentirsi la costituzione. Sendo il Cosentino intendente lor consettario, ancora che consigliato da altri a non farlo, accede; e crea egli stesso un comitato detto di salute pubblica, esso presidente,vicepresidente il tenente-colonnello Spina regio comandante le armi; e membri Giuseppe Pianell maggiore comandante il 1 battaglione cacciatori, ed altri undici de più noti rivoltosi. Costoro lo stesso dì mandaron persone a Salerno e a Napoli per conferir col Romeo e co' capi delle Guardie nazionali, a intendere il vero stato delle cose; incitarono i capi nazionali della provincia a tosto raggranellar bande da accorrere sopra la città, capitale, e in ogni paese vollero comitati che con esso loro corrispondessero. Ciò s’eseguiva o no, di buona o mala voglia, secondo gli umori nelle popolazioni amanti di pace, sospinte dagli agitatori molti. Talvolta sindaci e capitani nazionali scacciavan perché realisti, surrogandovi faziosi. Il comitato cosentino risoluto alla ribellione, per far danari ordinò un prestito forzoso detto volontario a carico de' ricchi, e un donativo da raccogliersi da' volenterosi; inoltre deputò commessarii a vigilar, diceva. l'ordine, e spiar gli avvenimenti; veramente per farli girare a tirar le terre calabresi nella rivoltura. Di ciò fece bullettini stampati; un bullettino uscì con racconto bugiardo del 15 maggio, incolpante il monarca, per coonestar la levata. Poscia comandò l’organamento e la mobilità della Guardia nazionale in ogni terra; scelti i capi, ordinati consigli d'amministrazione, e stato maggiore, designati luoghi di riunione in ciascun distretto. Duce creò un Saverio Altomare, già tenente nel 1820, poi destituito, ch'avea militato in Egitto; il quale vecchio, ricordandosi gli antichi fumi tolse quel carico periglioso. Già il 20 usciva i! cenno alle milizie d'andare agli assegnati accampamenti, un altro appello a' cittadini per danari, e l’ordine di riscuotersi a titolo di volontaria offerta l'anticipazione d'un bimestre di fondiaria.
In più comuni s’ergevano i comitati, e né capi distretti n eran capi i sottintendenti già messi da' ministri del 5 aprile. Si sorprendevan le casse pubbliche, si sforzavano i cittadini a cavar monetaci minacciavano o scacciavano i regi giudici, s’accoglievan tristi, si scarceravan delinquenti, si carceravano innocenti. Per torsi uno stecco dagli occhi fu cacciato via il segretario generale dell'intendenza Niccolò Doni marco.
I gendarmi, benché mutato nome e vestito, non ebber favore; e sendo qua e là per la provincia spartiti, perdettero l'arme. Lo stesso alle guardie doganali. Diversamente i gendarmi di Cosenza, s’atteggiava vo a difesa. Alla prima il comitato, giocando d'autorità pel nome del comandante Tarmi e del Pianelli, ordinò a quel capitano Bartolomucci si partisse incontanente; e sendo vane tutte suppliche, ebbe di ubbidire lo stesso dì, strapazzato, disarmato per via. Succedutogli il capitano Somma settario, questi usò ogni arte a persuadere quei pochi soldati, ma indarno. Bentosto i Nazionali a' 19 con ordine dello Spina tenente-colonnello vicepresidente del comitato, lor tolsero due cannoni e le palle dal quartiere, e recaronli al castello ch’era nelle loro mani;poscia a' 21 fatta moltitudine, cinsero il quartiere svillaneggiando e minacciando; ma indarno, ché malgrado i reiterati ordini dell'intendente dello Spina e del Pianelli, pur sempre risposero non voler lasciar l'arme. Allora questo Pianelli chiamò il suo battaglione 1.(e) cacciatori, e si pose avanti il quartiere per isforzarli; e sordo alle preghiere dei gendarmi che volevano evitare quello scorno, replicava dover seguire gli ordini del condì al o per giuramento prestato di difendere la nazione; perlocché quei miseri, traditi dal capo, per non iniziar la guerra civile, piangendo di rabbia, cedettero. A Castrovillari lo stesso sottintendente chiamava i faziosi; il capitano assediato in casa, ebbe a dar l’arme. Lo stesso a Spezzano, ed Amendolara, a Paola, a Montalto, a Rogliano e altrove. Poi volean quei disarmati servissero la rivoluzione; neppur uno il volle. Quel Pianelli non punito, anzi esaltato in breve a maresciallo e creato conte, surse poi nel 1860 insieme a Liborio Romano a scacciar proditoriamente dal trono re Francesco. Di quei fatti del 18 ben si fe’ processo; solo il Pianelli per favore né fu salvo. Lo si credè guadagnarlo col beneficio? Veggano i sovrani come la provvidenza smacca coteste politiche limane, e punisce le ingiuste grazie con l’ingratitudine. La vera politica de' re è la giustizia.
Arrivavan lettere di fuoco di Domenico Mauro e d'altri deputati; e qua e là i ribelli, senza opposizione gridando morte al tiranno, traevan con le funi al collo le statue regie, bruttavanle, fucilavanle, e aperto aspiravano a repubblica.
Nella Calabria di mezzo, già circoli stabiliti, uno ve n’era a Catanzaro, autori un Giovanni Seal faro e un Ignazio Donato artiere, diretto dai prete Domenico Angherà, congrega di artigiani detta Società Evangelica. A’ 17 maggio pubblicò il programma, cioè scopo politico la costituzione del 2o da riformarsi su basi democratiche; e scopo sociale il cooperare con l'altre società consorelle per accorrere con persone e roba alla chiamata della democrazia; poi segrete le radunanze e scrutinio di candidali. A quei dì per tutto il regno correano esemplari della costituzione pel 20; più in Calabria, ove da Sicilia venian milioni di carte stampate incitanti a ribellamenti. Cantavano una canzone con l’intercalare: Viva l'Italia, e viva Pio. — viva Sicilia, e morte al re!
A’ 19 maggio arrivarono a Catanzaro le novelle del 15, e incontanente i congiurati furibondi fecer come a Cosenza. Del pari corsero minacciosi all’intendenza; del pari l'intendente Vincenzo Marsico loro confratello creò il comitato di salute pubblica, esso capo; del pari stampò il consueto editto, mistificando vero e falso sul conflitto del 15, incolpando il re, dichiarando necessità prendere in quella guisa il governo; del pari mandò Commessarii pel buon ordine, cioè per guadagnare alla rivoltura le terre attorno: v’aggiunse deputati a Cosenza e a Salerno a concertare il modo da marciar in arme sopra Napoli.
Sopraggiungevano i fuggiaschi delle barricate; e concitatissimi concitavano: se non che veggendo la plebe lenta, pensarono spingerla a fatti che le vietassero tornare addietro. Valse la società evangelica, e il non evangelico prete Angherà, di costumi perdutissimo; il quale di leggieri mosse subuglio: rovesciavano i gigli da su il quartiere de' gendarmi, spezzavan, calpestavanli; poscia io stesso ove né vedessero; all’intendenza la statua del re percuotevano, mutilavano. Da ultimo il deputato Eugenio de Risoda un ha leone in piazza S. Rocco, detto il trascorso far la città incapace di regia clemenza, unica salvezza gridavala guerra aperta;tutte le provincie già farlo, non mancherian uomini e inonda; solo volersi un governo provvisorio da maneggiare la rivoluzione. Ornai si dava a chiamar sé ditta ture, e a sceglier compagni; ma la plebe stanca si diradava, i gentiluomini ostavano; e la proposta cadde. Ne’ dì seguenti, venuti a saper un ordine corso a' gendarmi di radunarsi a Catanzaro, tosto perdettero addosso, disarmaronli, scacciarono. Ultimamente correndo il 30 maggio onomastico del re, volean sonare a mortorio le campane, e impiccar il re in effigie; ma i cittadini serrarono i campanili, si posero a guardia della statua, e impedirono quest’altra vergogna.
Nel Reggiano, avvegna che in più partii semi della sedizione germogliassero, pur si rattennero alquanto, chè il presidio benché fievole vi affrenava gli spiriti. Non surse il comitato di salute pubblica; restava invece in pie’ il comitato di sicurezza ordinato già dal ministero,che con quella veste di magistrato legale, pur secondando in parte i faziosi, impediva almeno che fosse ribellione aperta. Nulladimeno quantunque lento e circospetto, aiutava la barca; però indirizzava suppliche al sovrano, per la riapertura del parlamento e ’l riordinamento della Guardia nazionale in Napoli battuta e disciolta.
In frattanto lo stesso intendente di Cosenza, o spaurito o pentito, rapportava a Napoli il fatto; s’aonestava con la necessità de' tempi, e promettala ubbidienza. Il ministero a vietar che la ribellione si spandesse, e con isperanza s’ammortisse da sé, risposegli sciogliesse il comitato, il Pianelli col! cacciatori richiamò. Ubbidirono. Il battaglione fe’ ritorno, l’intendente pubblicando l’ordine governativo, il suo e tutti i comitati della provincia abolì. Quello di Cassano resistette, dichiarando: creato per virtù del popolo solo il popolo poterlo disfare. Quel di Castrovillari aggiunsevi che sospenderebbe l’invio del pubblico danar0 in Napoli. Fremevano i congiurati al veder cadere tanto lavoro di setta; sendosi ordinati sotterraneamente, e guadagnato numero e forza, aspettavan le congiunture che sapean vicine, eia venuta de' deputati fuggiti a Roma ed a Malta. Di quel che s’ordisse appresso a lungo parlerò.
La congiura, malgrado i suoi sforzi, in nessuna parte del reame trionfò: molti erano i sollevatori, pochissimi i sollevati; e anzi le popolazioni uscendo dal letargo cominciavano ad alzare i pensieri a resistenza. Il 15 maggio preparato a trionfo di repubblica, riuscì al crollo della rivoluzione, e costrinse la tirannide liberalesca a cercare in altre italiane terre i suoi delittuosi imperli di sangue. Nondimeno Ferdinando non osò fare un altro passo per riguadagnar la pace piena: o si tenesse stretto dal giurato patto costituzionale; o stimassi? bene pe' popoli l’attuarlo anche dopo che la rivoluzione l’aveva infranto; o non sapesse il sentimento vero de' sudditi; o per fare un secondo esperimento delle franchigie, certo volle serbata la costituzione. La setta stampò poi la serbasse per paura, e a ingannare i popoli, sendo gli umori mossi, le Calabrie e i Principati pronti all’arme, e Sicilia nemica; ragioni che allo straniero ignaro delle cose nostre parran forse convincenti e vere. Mai Napolitani stati tant’anni cheti, pace volevano; e forse l’abolire allora subito quello statuto ch’avea lanciata la patria in mali non pria visti tira unica via di pace pronta perché toglievasi l’impunità a' congiuratori, e si saria vietato il versamento d’altro sangue. I tristi dal rigore son domi; nelle blandizie veggon temenza, e si riconfortano alla riscossa. Certo al mattino del 16 ogni persona s’aspettava l'abolizione dello statuto.
È pur da credere Ferdinando neanche il pensasse; ché ne’ solenni momenti della vita l'uomo di rado esco dalle idee e dalle cose che il circondano; una grande risoluzione non s’improvvisa, e senza maturità di concetto non si maturano imprese. Parecchi uomini costituzionali gli corsero accanto in quelle terribili ore del conflitto, che naturalmente gli si designarono al pensiero come opportuni ministri; in Ira' quali primo il Bozzelli, poscia il Ruggiero, che vistosi inviso e diffidalo da' ribelli, a tempo volteggiò alla reggia. Con questi presenti, con questi consigliatiti, non credo il re avesse mente e proposito di dare un colpo ardimentoso e definitivo: poteva pensare al dimani. non all’avvenire. Adunque fece nuovo ministero misto di personaggi dissimili, che rappresentando le aspirazioni di più moderati partiti, potessero attuar lo statuto con buona fede e con forza. Furono il principe di Torella ad Agricoltura e commercio, il Bozzelli a Interno, il Ruggiero a Finanze, uomini liberali; aggiunse il principe d'Ischitella alla guerra, e ’l Carrascosa a’ Lavori pubblici, generali allora vincitori delle barricate; presidente e ministro d’affari esteri prese il principe di Cariati d’animo moderato.
Questi quel di stesso 1(5 dettero una proclamazione: Accennavano alle cagioni del conflitto, alla lotta cominciata dalla guardia nazionale; dichiaravanla con decreto disciolta; assicuravan la conferma della costituzione, e promettevan riconvocare le camere legislative cui la vigilia s’era impedito l'adunamento. Il giorno appresso videsi decreto che considerando i deputati essersi dichiarati «assemblea, unica rappresentante della nazione, e proceduti a deliberare, e a creare un Comitato di sicurezza pubblica con comando assoluto sulla Guardia nazionale; considerando che senza prestar giuramento legale il potere assunto era arbitrario e sovversivo dell’ordine civile, e usciva dalle attribuzioni del potere legislativo, considerava ciò aver fatto per pravi fini, in opposizione d’altri deputati, per mutar lo Stato, e suscitar la guerra civile: visto l'articolo 64 della costituzione, scioglieva quella camera, e ordinava i ministri presentassero tosto alla regia sanzione altro decreto per la riconvocazione de' collegi elettorali.» A legger queste cose fuori d’ogni aspettazione, il più del popolo stordì; ché stanchi delle sfrenatezze, s’acconciavano anzi a governo di soldati che di setta.
Il general Labrano governatore di Napoli anche a' 17 die’ un’ordinanza, che posto lo stato d'assedio alla città,, instituiva una Commissione temporanea composta d'alti magistrati, col carico d’inquirere su’ reati di maestà perpetrati dal 1.° maggio, carcerare i rei, e mandarne gli atti alla potestà competente. Si ordinò la restituzione a' padroni di molti oggetti (e ve n’era di valore) involati nel calor della zuffa, e ricuperati. E fu scritto a' vescovi del reame, che rassicurassero gli animi, il governo ricondurrebbe le cose ad ordine e legalità.
Il ministero per decreto del 19 s’accresceva di due: Nicola Gigli a Grazia e giustizia, e ’l duca Serracapriola a vicepresidente del consiglio di stato.
M’è mestieri uscir dal regno. Carlo Alberto s’era lanciato a guerra contro il Tedesco senza denunziarla, il che s’è usato pur da suo figlio dappoi nelle Romagne e nel reame nostro;laonde si vede lo spregio del dritto delle genti essere appunto il dritto piemontese. Sin dagli antichissimi Etruschi si costumava in Italia il dichiarare la guerra; e i Romani n’ebbero magistrati a posta detti Feciali, presi da quelli, il cui uffizio era l'andare a denunziarl’ostilità all’avversario. Nel medio evo s’usarono araldi d'arme; ora si mandano legali e note scritte; però non so donde, se non dai selvaggi, i Sardi prendessero lo esempio dello assalire improvviso a tradimento, non fatto da Vandali e Goti. Cotesti ricostruttori d’italiana grandezza han quest'altra nuova onta messo in faccia alla misera Italia, già maestra di civiltà. Ma l'essersi collegata con la setta mondiale ch'è in guerra permanente con la società, mette la casa Sabauda sopra a tutte le leggi sociali.
Dirò de' Napolitani iti a quella guerra. I primi centoventi con la Belgioioso, volsero per Milano al Tirolo italiano; dove dopo una scaramuccia al villaggio Penale, bisticciandosi co' duci, si sbandarono, e alla spicciolala fecero ritorno. Reclutati nella melma, svergognavano il nome napolitano: passando commetteano ogni sorta d’eccessi per le terre italiane, e sin vuotavan gli scrigni degli ospiti cittadini. Dove arrivavano volevano a forza ogni cosa, vitto, casa, e danari pel viaggio,sicché il nostro consolo a Livorno, per torsi dagli occhi quella peste, die’ ducati tre per ciascuno, e gl’imbarcò. Il battaglione del Carrano s’unì a' Pontificii col Durando, e corse le sorti di questi. Partilo era poi a' 15 aprile il battaglione Rossaroll sull’Archimede, insieme al 2.° battaglione del 10.°( )di linea. Due battaglioni ultimi andarmi col Pepe, e poi con esso a Venezia, come dirò; gente bassa e senz’arte. Il 10.°( )di linea era ito in due volte. A 5 aprile il 1? battaglione col colonnello Giovanni Rodriguez sul Palinuro, navigò a Livorno; v’ebbe gran plausi, maggiori a Lucca; passava il confine toscano e l'Abetona nevosa, freddamente accolto a Modena e a Reggio; travarcava il Po a Brescello, e sulla terra lombarda il 25 s’univa in Bozzolo, presso Mantova, a cinquemila Toscani, cui reggeva il general Ferrari. il secondo battaglione co' citati volontarii del Rossaroll, partito il 15 per la stessa via, era a' 5 maggio a S. Silvestro, villaggio a due miglia da Mantova, dove il dì medesimo combatté i Tedeschi sin presso le mura della piazza. Il Rossaroll fermatosi un poco a Livorno né partì il 21, e giungeva a 5 maggio alle Grazie, quartier generale de' Toscani.
Dopo le cinque giornale di marzo, i Tedeschi s’erano messi nelle quattro fortezze che danno il dominio del Milanese a casa d'Austria. Mantova, Peschiera, Verona, e Legnago stanno intorno a una linea circolare. dove lunga stagione si può sfidar l’inimico. Peschiera è sul lato meridionale del lago di Garda; che con tre canali sega e circonda il forte, e noi aduna fuori sue acque, per dar vita al Mincio, fiume rapido e profondo, di strette e poco guadabili sponde. Questo scorrendo su’ ricchi piani lombardi, si fa due a Goito e uno di nuovo avanti Mantova, dove ridiventa lago ch’abbraccia tutta quella città, però quasi inespugnabile; da ultimo a Governolo si gitta in Po. Verona e Legnago stan poi sull’Adige, poco discosto a oriente. Sul Mincio eran quattro ponti: di legno a Salionzo, Monzabano e Borghetto, di pietra a Goito.
Il re Sardo passato il Ticino e ito a Milano, s’era avanzato per Cremona e Brescia, e superato a 8 aprile il ponte di Goito, avea steso i suoi cinquantamila Piemontesi lungo il Mincio con la destra a Mantova e la manca a Peschiera. Quivi fermò; che non polea procedere sulla linea dell’Adige, e porsi a tergo tali due fortezze, che gli avrian contrastato il passo alle vettovaglie ch’avea da Torino, e fors’anco il ritorno. Si volean due eserciti per investire il Mincio e l’Adige insieme, e porre a tutte e quattro le fortezze l’assedio. Inoltre Mantova può col presidio lavorare sovr’ambo le sponde, dove chi l'assale deve lasciar libera una banda, o spartirsi e restar lie vote in ambo, esposto a esser battuto alla spicciolala. Però Carlo Alberto con un sol corpo d’esercito non polea veder né Legnago né Verona; e s’ebbe a fermare avanti Mantova, questa bloccando da un lato solo. S’era accampalo a Grazie, Curtatone, Montanara e S. Silvestro, che le stan da manca di rimpetto.
Cotale ordinamento fu tassato di poco avveduto, ché sendo il Mincio difficile a guadare, e con fievoli ponti di legno, l’esercito invasore col nemico a fronte e ’l fiume a tergo, non ha altra ritirata certa che il ponte in pietra di Goito; il quale può essere assaltato da Mantova a un tratto da due bande; sicché perduto resterebbe vinta di rovescio tutta la linea, l’esercito tagliato dalla sua base, e stretto e affamato in paese contrario. Carlo Alberto prevista l’importanza di quel passo di Goito, misevi cinquemila uomini: poi si volse a espugnar Peschiera.
Questo forte eran il men gagliardo de' quattro; inoltre si sperava cedesse subito, per moto degli abitanti, e dei soldati italiani del presidio; però vi si fece una dimostrazione d’assalto a mezzo aprile, per averla con un colpo di mano, ma dopo inutili cannonate, non comparendo segno amico, se ne posò il pensiero. S’era mandato per divertire i Tedeschi una mano di volontari} Lombardi sulla sponda orientale del lago di Garda, verso Bardolino, occuparono il villaggio Castelnuovo; e vi furono investiti dal general Taxis con una brigata che li ruppe e arse la villa; onde a stento ripararono a Salò. A Mantova fu ordita una trama per mettervi dentro i Sardi, e i congiuratori avean anche in pronto le luminare; il re vi si accostò a' 19 aprile a tratta di cannone,indarno; e si ritrasse lasciandovi avamposti per vietare di foraggiare al nemico. In quella i volontarii tentarono di cacciarsi nel Tirolo italiano, dove avean partigiani. Colà il maresciallo Welden con ottomil’uomini, mentre li adunava lanciò un distaccamento sul villaggio Penale, e né scacciò i volontarii napoletani della Belgioioso. A’ 20 fu una zuffa presso Salemi, e i volontarii disfatti fuggirono a Tione. Altra colonna d'ottomila volontarii di tutte contrade, fra i quali una legione Polacca, comandata dal Durando e dal napolitano d'Apice, stette sull’alpi all'estrema sinistra de' Piemontesi; e vi si tenne con varia fortuna.
Carlo Alberto rivolto a Peschiera, lasciata una brigata sulla dritta del Mincio, passò a 26 aprile sulla sinistra, verso la riva orientale del lago di Garda; laonde seguirono il 28 certe avvisaglie presso Colà e Pacengo. Occorrendogli forza chiamò i cinquemila di Goito; e invece ordinò v’andasse il 4° battaglione del 40° di linea napolitano. Il colonnello non intendendo come un battaglione potesse surrogar cinquemila soldati, né mosse dubbio, ma il 29 n’ebbe l’ordine reiterato; e ubbidì il 50, occupando il ponte con animo di fare il debito suo. Compensò le poche forze con accrescimento di difesa; aggiustò a miglior regola d’arte la testa di ponte cominciata da' Sardi, scandagliò il fiume, dov’era basso alzò parapetti, abbatté alberi, e guastò o asserragliò le strade adiacenti. Il re a' 30 assaltò con ventiquattromil’uomini Pastrengo, ov’erano undicimila Austriaci, ch’ebbero a ritrarsi di là dall’Oglio, e a Verona. Stando a Sommacampagna ebbe altre proposte di darglisi Verona come si avvicinasse, per congiura di dentro; però a 6 maggio con tre divisioni s’avanzò, e prese la terra di S. Lucia; ma sendo la sua terza divisione rotta dal maresciallo d'Aspre, né apparendo segno di sollevamento nella città, die’ nel pomeriggio l’ordine della ritratta; la quale fu sanguinosa e disordinata, con perdita di millecinquecent'uomini. Si ripose intorno a Peschiera, dov’eran duemila Tedeschi col Rath tenente maresciallo.
Gli Austriaci usciti dalla porta mantovana detta Pradella assalirono a 5 maggio il campo toscano del Ferrari, dove ho detto prese parte al fuoco il nostro 2° battaglione del 10° appena arrivato. Respinti, tornaron più gagliardi la dimane con cavalli e cannoni. I nostri fecero il dovere; e avrebbero presi molti prigionieri in una casina Gardona già circondata, se il nemico non v’avesse alzata bandiera italiana, che spinse il Ferrari e sonar ritratta, supponendo fossero Italiani pronti a disertare, ma quei con tale stratagemma se la svignarono. Il 5 altri duemila occuparono Marmirolo villaggio presso Goito; perlocché i nostri dimandarono soccorso, ed ebbero il 2° battaglione; quindi insieme il dì 8 si avanzarono a sloggiameli; il che venne fatto, e il nemico lasciata la zuppa sul fuoco riparò a Mantova.
Il Ferrari fe’ altro errore. Per falsa voce che il nemico fosse ingrossato di quattordicimil’uomini in Mantova, abbandonò la posizione delle Grazie. e con tutta la gente piegò a Goito il 10 maggio, avvedutosi dei fallo, corse a ripigliare i posti, benché già occupati dal nemico; e mandò avanti un nostro battaglione col Viglia, due di volontari, fra' quali uno napolitano, e due di linea toscani. Questi giunti i primi, perderonvi il comandante Landucci, ma soccorsi da' nostri poteron respingere l’avversario. La notte si rioccupò Montanara, e il 12 già tutte erari riprese le posizioni. Allora il generale stabili tre accampamenti: il quartier generale alle Grazie, e gli altri a Curtatone e Montanara, de' quali due ritenne il comando, lasciato al primo il Belluomini maggiore toscano.
La dimane 15 vennero investiti sul mezzodì. Erano a Curtatone il battaglione volontarii napolitano, uno di Livornesi, altro di granatieri toscani, due compagnie bersaglieri, ventiquattro cavalli, e pochi artiglieri attorno a un obice e un cannoncino; poco più che duemila. L’inimico numeroso li assalì con granate e razzi, i Napolitani usciti dalle trincee l'affrontarono, seguiti dal resto del campo, il chi, parendo fossero più che non erano, sgominò gli Alemanni, che cedettero lasciando morti e prigioni. Cadde colà dei Livornesi il dottor Montanelli, poi famoso, menato a Mantova, e pianto allora per morto. De’ volontari nostri due uffiziali ebbero ferite: Enrico Poerio, e ì Rossaroll, cui il Gran Duca rimertò con la croce di S. Giuseppe.
Contemporanea zuffa seguiva a Montanara. V’eran due battaglioni di linea toscani,quattro compagnie del nostro 10°, di cui una a una casa presso S. Silvestro, due battaglioni volontarii, cinque cannoni, e pochi cavalli toscani, intorno a duemila. Il general De Laugier, udendo l’inimico, pose due cannoni sulla strada, fra due battaglioni di volontarii trincierati, sostenuti dalla linea toscana dietro il centro. I Napolitani da manca sulla via di Curtatone serbavan le comunicazioni con quest’altro campo, con a destra i cavalli ascosi da una casina. I Tedeschi assaltaron di fronte, lanciando tre battaglioni a molestar la sinistra; perlocché il De Laugier ordinò al tenente-colonnello Giovannetti di gittarsi per una viuzza co' Napolitani e due compagnie toscane sul destro fianco del nemico. La cosa riuscì; e una delle compagnie nostre col capitano Cantarella (soldato delle Spagne e d’Austerlitz) prese di forza una casina; questo e l'ardore primaticcio de' nostri avvisò lo assalitore del risico d’essere messo in mezzo;onde chiamò a raccolta, e via. Anche la compagnia presso S. Silvestro, investita più fiate, respinse: e il ministro toscano Corsini presente alla fazione battea le mani, dicendo: Viva i Napolitani!
Il Radetzki soccorso dal Nugent con ventimil’uomini che per Vicenza s'avanzaron su Verona, uscì di Mantova con quindici migliaia di soldati, per investire sull’ala dritta italiana i Napolitani e i Toscani, non più che seimila, divisi a Grazie, Curtatone e Montanara; schiacciarli, pigliar di fianco la linea del Mincio, e liberar d’assedio Peschiera. Era il 29 maggio. Curtatone primo assalito preparò la difesa così: un obice da 18 e un cannone da 12, infilando la strada di Mantova, eran sulla trincea semicircolare che da un punto del Mincio detto il molino stendeasi per seicento passi sino alla via che mena a Montanara; aveano a tergo un ponticciuolo sur un canale d’acqua profondo. La truppa si pose dietro la trincea, cominciando dal molino, con le tre prime compagnie de' nostri volontarii; né seguivano due di granatieri toscani a dritta, poi un battaglione di Livornesi, gli artiglieri co' due cannoni, due compagnie bersaglieri e due granatieri pur Toscani; e sull’ultima dritta altro battaglione Livornese. Fuor della trincea stavano sulla via di Montanara l’altro tre compagnie napolitane, e i pochi cavalli toscani dietro una casetta sul ponte di Curtatone. Il maresciallo d’Aspre co' Tedeschi investì gli avamposti sull'ore dieci matutine, li sopraffece, e cominciò il fuoco da tutte bande. Numerosi, con lunghe carabine tirolesi e razzi e granate semina van la morte fra gl’Italiani, che pur contrastavano. Dopo un’ora ardevano tutte le capanne dell’accampamento; e un razzo colte le casse di munizioni sul ponticello, ammazzò di molti artiglieri, e bruciò la casuccia che riparava i cavalli. Gl’Italiani erano in vortici di fumo e fiamme. Il generale per fare una diversione andò al corno dritto, e impose a' nostri volontarii di dare ne’ fianchi dell’avversario, per una via stretta che mena a una villa detta degli angeli. Andati, s’anronlarono con un battaglione tedesco: il quale forse a disegno retrocedette lasciò morti e feriti; ma presto fu sostenuto da sovraggiunti Croati; perlocché le tre compagnie spintesi troppo avanti, circondate, ebbero disperatamente ad aprirsi la ritirata. Durati così sino al l'ore tre vespertine, l’Austriaco volse sue forze alla sinistra del campo; respinto, riassali più volte; però il De Laugier sull'ore cinque, avendo i cannoni muti per morte d’artiglieri, la trincea tutta aperta non più valere, comandò la ritratta. Le compagnie di dritta, napolitano, di ciò ignare, si trovarono tra due fuochi, dopo che il campo e il ponte s’eran perduti; onde ebbero a gittarsi nell'acque e passaronle nuotando fra' colpi. Si ritrassero sopra Goito; ma un battaglione di volontarii Pisani comandati dal professore Pilla napolitano, postalo a Rivolta per sostenere la ritirata, ebbe danni assai, pochi scampati, il Pilla morto. Il battaglione napolitano men mezzo, perduti 250, tra morti e prigionieri e 86 feriti, ridotto a dugento appena, passò la notte a Goito, e la dimane andò a Brescia.
A Montanara comandava il Giovannetti. I nostri del 10° dì linea vi stavan dimisi così: la compagnia cacciatori a sinistra, l’ottava fucilieri al centro, e i granatieri e la quinta indietro. Il nemico cominciò all’undici ore del mattino con moschetti, razzi e mitraglie; occupò il camposanto e una casa sulla dritta, dose aggiustò due cannoni. Le quattro compagnie mandate a snidamelo ebbero in principio ferito il maggiore Spedicati, nondimeno guidati dal capitano Catalano sì rinvestirono, che quantunque noi discacciassero, vel contennero tanto da non farlo sboccare sulla dritta del campo. Vi combatterono sino al tardi patendo mollo; ma appressandosi la colonna d’Aspre che, grossa e vincitrice di Curtatone, accennava sulla sinistra dj Montanara, e là tutto accerchiare il campo, enne l’ordine del Giovannelli del ritrarsi per Castelluccio. I Napolitani stavano a retroguardia, ma già il nemico padrone della via li aveva con cavalli e cannoni circondati; però in quel brutto momento il comandante chiamandoli in lesta si gittò ne’ campi, là sforzando il passo; sicché con valore, ma con danno, sempre pugnando, pur salvando le bandiere, guadagnarono la via di Castelluccio e Spedaletto. Passato il ponte a Marcheria, di là dall’Oglio si fermarono. Quelle nostre compagnie ch’ai mattino eran 287 uomini, a sera si coniarono 185, mancati 104 fra morde prigioni, cinque uffiziali e il portabandiera. E questo misero avanzo fu messo a guardia del ponte, comandandovi il vecchio Caldarella, salvato sulle braccia de' soldati; al quale Carlo Alberto die’ allora la medaglia del valor militare, ch’egli accoppiò alla legion d’onore avuta sulla Beresina. La dimane volsero a Bozzolo, dove stati cinque dì, come s’apersero le vie per la vittoria di Goito, fur mandati a unirsi a' Toscani a Brescia.
Queste fazioni erano ignorate a Goito. V’arrivava sul tardi il general Bava, e inculcava al colonnello Rodriguez di tener fermo sul ponte a ogni possa, ch’ei lo soccorrerebbe. Poco stante giunsero carri di feriti e bagagli, cui volsero a Volta. Il colonnello arringò a' suoi: non prendessero sgomento delle sventure de' compagni, ma anzi ragione di mostrarsi prodi; stessero la notte animosi sul ponte, risoluti di difendere dal vicino e vittorioso nemico quel passo, chiave di tutta la linea del Mincio. All'alba lavorarono ad allestire batterie, rovesciar alberi, barricar sentieri, e altre difese.
La lentezza alemanna salvò gl’italiani; ché se proseguendo il vincere, avessero dopo Curtatone la sera stessa assalito Goito, certo avriano cacciati i Sardi dal Mincio, e soccorsa Peschiera. Ma tardarono sino al pomeriggio del 30; e trovar preparati a contrasto tutto il primo corpo d'esercito piemontese, molta artiglieria, e quattro reggimenti di cavalli. Il re visitò a mezzodì il ponte, e lodò le difese fatte e i soldati. Colà eran otto compagnie col Rodriguez e ’l maggiore Viglia: tre stavano sul parapetto deista di ponte, una presso un muro di giardino con feritoie, guardanti il fiume verso il molino, altra su due case dietro il ponte, e l’ultime tre a sinistra della linea di battaglia sarda, di costa alla riva destra del fiume. I Tedeschi investironli sulle ore tre, occupando una casino propinqua; però i nostri lasciato il parapetto per isloggiarneli, rischiarono di cader prigionieri, e fur salvi da un’altra compagnia mandata dal Viglia. Rinnovarmi Vassallo, e da ultimo aiutati da un battaglione sardo, a forze unite li respinsero.
Non è mio assunto narrar quel fatto d’arme: al centro la zuffa fu calda; e il re e il duca di Savoia ebbero ferite. Gli Austriaci si raggomitolarono sulla dritta, e grossi urlarono sulla sinistra avversa; ma patirono gravi danni dalle artiglierie, sicché disordinati retrocessero a Rivalta. Peschiera s’arrese. AI Rodriguez fu data la croce di S. Maurizio e Lazzaro; ad altri ufficiali medaglie del valor militare.
Con diversa fortuna le cose andaron nel Veneto. L’Austria, sebben dalia rivoluzione sconvolta, avea potuto su’ principii d'aprile unire ventiduemil’uomini con settanta cannoni sull’Isonzo, comandati dal Nugent, che il io entrato nel Friuli s’avanzò sopra Udine. L’italiano Zucchi con poche migliaia usci da Palmanova, e combatté col generale Schwartzemberg, ma oppresso ebbe a riserrarsi; però Udine s’arrese il 23 al Nugent, e Belluno fu occupato il 5 maggio. Il Durando avea mandato in aiuto quattro battaglioni romani a Treviso; v’arrivò esso a' 29 aprile con diecimila; giunsevi il Ferrari a' 6 maggio; e poi l'Antonini con la legione Polacca di seicento. Così il Durando sentendosi grosso procedé sopra Feltro; ma a Quero udendo quella già occupata dal nemico, retrocesse a Bastano. Intanto il Ferrari con quattromila, affrontatosi a Oniga co' Tedeschi ne’ dì 8 e 9, rollo, riparava a Montebelluno.
Questo scacco mise un disordine ne’ Romani, tementi che il nemico, come li avesse nelle mani, li passasse per le armi, non v’essendo dichiarazione di guerra. Peggio quando seppero dell’enciclica, e che il papa non volta guerra. Gli officiali di linea videro in dubbio i gradi e gli stipendii, laonde fra sospetti, mormorazioni e tumulti, ordinando il Ferrari l’andata avanti, non fu ubbidito. Ma venne a trovarli il nemico, che li sgominò tosto, e lor tolse un cannone; però fuggirono a Treviso, e anche di là, lasciata lieve guarnigione, si discostarono a Mestre. Qui tutti a tempestare, chi vuoi congedi, chi danari, chi bestemmia il papa, chi grida tradimento; e gli sfratati barnabiti Gavazzi e Bassi concionano contro il Papa e contro Carlo Alberto e tutti i prenci d’Italia, a pro' di repubblica. Tali ire e codardie ridussero a quasi niente quel corpo; i pochi superstiti s’unirono al Durando ch’entrò a Vicenza il 21 maggio. Là d'attorno ebbero scaramucce, dove [’Antonini perdè il braccio; nonpertanto a' 24 respinsero un colpo di mano tentato dal general Thurn per pigliar la città; il che li riamino alquanto.
Mentre si combatteva, i diplomatici lavoravano. Il ministero inglese a' 12 maggio avea mandato un insidioso dispaccio a Vienna. Parlava di nazionalità, degli sforzi della Giovine Italia, mostrava che per ragion politica, economica, militare e morale malamente l’Austria volea stare in Italia, meglio fidar nella gratitudine della nazione italiana, riconoscendola, bensì a condizione ch'essa dichiari la sua stretta e permanente neutralità in Europa, e che l’Europa cotale neutralità sanzioni, come nel 1815 fecelo per la Svizzera. In tal caso dovrebbero i comuni Lombardi e Veneti decidere per comizii se preferire un viceré sotto la sovranità austriaca costituzionale, ovvero l’indipendenza assoluta, pagando all’Austria il compenso al sagrifizio de' suoi dritti. Aggiungeva doversi credere che i comuni, memori del bene materiale lor fatto da Vienna, preferiscano il viceré; in contrario sempre l’Austria guadagnerebbe con lo spender meno, e per le simpatie d’Europa a vederla rispettare così i dritti de' popoli. Finiva dimostrando la proposta neutralità d’Italia giovare all’Europa, all’Austria e all'Italia, e sola spiacerebbe al Piemonte, e alla sua politica astuta e perfida del rendersi al maggior offerente. Ve' come a quel tempo l’Inghilterra appellala perfida la politica sarda, che tanto ha dappoi laudata e sorretta! Vienna travagliata allora dalle contemporanee sollevazioni di molte sue provincie, e più da temenza che i Francesi ridiscenderebbero in Italia, accolse la mediazione; e a' 25 maggio il suo ministro a Londra Hummelauer propose al Palmerston che il Lombardo-Veneto restasse all’imperatore, con amministrazione separata, e con basi stabilite da deputati del paese, un arciduca per viceré, ed esercito nazionale. Inoltre cassare i ducati di Parma e Modena, con indennità in danaro a' loro prenci; dar Piacenza al Piemonte, Parma e Modena al Lombardo-Veneto, cui si porrebbe viceré il germano del duca modanese. Tal proposta al Palmerston non piacque però l’Hummelauer la dimane 24 si calò a offerire altra concessione. Indipendenza piena di Lombardia, e amministrazione separata del Veneto, con un arciduca viceré. Impertanto quasi su queste basi convennero dappoi a 9 agosto Francia e Inghilterra, per offerire la loro mediazione. Ma la rivoluzione voleva altro.
Le milizie napolitano che passavan la frontiera avean nelle terre pontificie fiori e feste. I giornali ne lodavano a nausea le divise, la disciplina e la bellezza delle persone e dei cavalli. Al Pepe, giunto ad Ancona a 6 maggio, arrivava una lettera del Manin capo del governo surto a Venezia, con data dell’11. Diceva il Pontifico aver patito assai danni, il Friuli, Treviso e Vicenza invase. Venezia trovarsi circondata da terra, il blocco da mare dichiarato, in sì grave caso invocar l’ardore de' Napolitani, volasse il Pepe a soccorrerlo per terra e per mare, e meriterebbe la gloria di aver salvato Venezia ed Italia. Se il Pepe reggesse a tai sproni non serve a dire.
Intanto il nostro ministro Leopardi, e 'l ministro di guerra Sardo aveano ingiunto al generale Statella a Bologna, che tosto con la sua divisione marciasse a soccorrere il Durando, ed ei rispose a 14 maggio star sotto il Pepe, volgessersi a lui. Questi si stava ad Ancona, e aveva anzi ordinato che il 10° di linea tornasse a Bologna per passarlo a rassegna, perlocché il Leopardi e ’l ministro Sardo, sospettando ei volesse distaccarsi da Carlo Alberto, non fecero movere il reggimento, e invece a lui scrissero s’avanzasse. Ma ei celò quest’ordine, e aspettava lo effetto del mandato principe di Canino a quel re, itovi a patteggiare. Di fatto il Canino si vantò avergli detto: Sire, non più Tedeschi, non più Borboni, né preti, e la repubblica è a’ piedi vostri. Per la illegale venuta di costui il Leopardi protestò, dicendo egli e non altri esser legato napolitano per la guerra italiana. Il Pepe a giustificare la sua inazione inviò al campo sardo Girolamo Ulloa capitano d’artiglieria, con foglio nunziante aver ordine di re Ferdinando di fermarsi sul Po, né varcarlo senza il permesso di Napoli, ma ch’ei pel bene d’Italia non tentennerebbe a guadarlo e ad ubbidire a re Carlo, però dimandava se dovesse avanzare fra il Mincio e l’Adige, o verso Treviso.
Dappoi a' 20 fe’ da Bologna una proclamazione al suo esercito. Ricordava Masaniello, Velletri, Vigliena, le opposizioni de Lazzari e delle Calabrie a Championnet e a Massena, la guerra del incontro i Tedeschi, e la rivoltura del 20, viluppo strano di fatti onorevoli e vergognosi, opposti di parti e d’interessi. E finiva ricordando aversi a combattere contro l’Austria, però smentissero le passate calunnie all'arme napolitano. Fingeva ignorare fonte esser venute dagli inani sforzi delle sette, e l’onore aver seguito la difesa del dritto.
Il ministero napolitano vista la rivoluzione imminente nelle Calabrie, la Sicilia preparar milizie per soccorrerla, e tutto il continente del reame agitato da' congiuratori, risoluto a far contrasto, mutò parecchi uffiziali civili creati dal Troya, e mandò ordini gagliardi, ma veggendo rinvigorir la baldanza, né potendo per le inviolabilità, costituzionali agguantare i sommovitori, vide la necessità d’aver forza, pronta a domar la sedizione dove sorgesse. Questo male lamio le celebrate franchigie, che non lasciano modi di difesa a' governi leali, e sforzanti al punitore esperimento soldatesco. Già gli stessi ministri del 5 aprile avevano al 29 di quel mese come narrai dimandato di richiamar parte delle milizie ite fuori; ora il ministero conservatore n’avea doppio motivo. Sicilia ribelle e minacciosa, spiagge aperte e indifese, esercito lontano dipendente da altro re senza patti di federazione. Tai lampanti ragioni fur anco notificate al ministro sardo. Poi mandarono per la via d’Ancona il brigadiere Antonio Scala a richiamar indietro il Pepe. Per tal fatto la setta accusa Ferdinando d’aver disertata la causa nazionale, e preparate le vittorie tedesche, non accusa se stessa della suscitata guerra civile in Napoli e nelle provincie, delle non rattenute vampe repubblicane, delle svelate aspirazioni a fusione italiana, non dice aver essa sforzato il monarca a provvedere alla sua salute, e all’autonomia della patria, anzi che a trionfare i suoi scoperti nemici.
Il Pepe, mazziniano, non era uomo da ubbidire a re; e intento a infievolir Ferdinando, non volea certo restituirgli l’arme a lui fidate; ma previstasene l’opposizione, era ordinato ch'ov’egli ostasse, il surrogasse lo Statella. Adunque lo Scala correndo da Ancona a Bologna, raggiungendo per via qualche reggimento, gl’ingiungea che fermasse; ma già la prima divisione avea proceduto a Ferrara. Notificato l’ordine sovrano allo Statella, ambi la sera del 22 maggio si presentarono al Pepe, colà a Bologna, e gli dettero la lettera ministeriale, ch’enunciate le condizioni del regno minacciato di rivoluzione, gl’imponeva rientrar subito nelle frontiere; imbarcasse parte delle milizie a Rimini per Manfredonia, e parte ad Ancona per Pescara; chiamasse il 10° di linea da Goito, e nunziasse la sua partenza a Carlo Alberto. Egli fremitando s’ingegnò a indurre gli uffiziali circostanti a non ubbidire; poi vistili risoluti al dovere, lasciò il capitanato, cui prese lo Statella.
In quella giungeva a Bologna il Leopardi nostro ambasciatore a Torino; che quasi non servisse Napoli ma Sardegna, veniva dal re sardo inviato a indurre il Pepe a muovere in soccorso del Durando nel Veneziano. Con la veste di regio ministro costui magnificando suoi mandati segreti, cui fingea di pugno di re Ferdinando, fol te perorò a persuadere agli uffiziali star la salvezza del napolitano regno nella guerra lombarda, però si riponessero sotto il Pepe. Questi veggendo nicchiare qualcuno dei capi, e udendo il colonnello Cutrofiano a dire parergli vergogna il ritrarsi, prese animo a pregare prima a voce poi in iscritto lo Statella, a restituirgli il comando;e come quei ricusava, s’appigliò al partito di darne avviso a' faziosi di Bologna; i quali mossa a tumulto quella guardia civica, gridarono per le vie volersi duce il Pepe per guidare i Napolitani alla guerra. Lo Statella avea colà poco più d’un battaglione, e pur con esso poteva fare il debito suo, ma quello era tempo che s’udivan le piazze, ond’ebbe la debolezza di restituire l’autorità. In siffatta tempesta fremendo i soldati, il Leopardi s’accorse le truppe schifare quel duce, e anzi aver fiducia nello Statella; perlocché tentò di persuader costui, non abbandonasse l’esercito al solo Pepe, passasse il Po con esso. Quei rispose netto: L'esercito col Pepe non passerà il Po. E incontanente solo con un uffiziale prese la volta del regno, per la via di Firenze. Quivi arrivò la sera del 21. precorso dagli ordini settarii, sicché sebben mostrasse a quel governo il loglio del Pepe che gli comandava il ritorno, pur ebbe tumultuosamente insulti, minacce di morte, arsa la carrozza; e scampò nel buio della notte.
Quella sera stessa i Bolognesi dettero plausi infiniti al Pepe; quasi avesse vinto il Tedesco, ringraziandolo dell’inobbedienza al suo re. Ei mandò indietro lo Scala, e aggiungevi il maggiore Cirillo, che impetrassero la regia permissione d’andare avanti, e intanto senza aspettar la risposta (ch’era ben da prevedere) ordinò tosto l’andar avanti. Il colonnello Zola con la sua brigata da Ferrara per ordine corso dello Statella tornava a Bologna; ora per contrordine del Pepe ripassava a Ferrara. Similmente i battaglioni sostati nelle Romagne pel cenno dello Scala, ripigliavan la via; e si fecero firmare a' colonnelli obbliganze di responsabilità per l’ubbidienza de' loro reggimenti, cui alloggiarono attorno Bologna, aspettando il ritorno del Cirillo.
Parendo al Leopardi aver ben acconce le cose, uscendo affatto dal suo debito di ministro in Piemonte, s’avviò a Venezia, a preparare buon accoglimento alle soldatesche di là dal Po. E partendo lasciò ordine al duce di pigliar quella volta; così stranamente abusando del carpito uffizio, e più incontrando truppe per via, l’ordine stesso in nome del re andava confondendo per avviarle alla guerra. In Lombardia le cose volta van faccia, e venían calde richieste d’aiuto. Il Pepe a' 23 ebbe lettere scritte il 21 dal Franzini, ministro di guerra sardo, in nome di Carlo Alberto; nella prima gli ordinava menasse i suoi nel Veneziano contro il Nugent; nell’altra, dicendo il Nugent essersi congiunto al Radetzki, gl’ingiungeva accorresse alla dritta de' Sardi, sendo probabile una battaglia tra Mantova e Peschiera. E dopo due dì Io stesso ministro il sollecitava venisse in aita de' Piemontesi in caso di assalimento su Verona. Per contrario il Manin presidente della repubblica veneta gli scriveva sin da' 20: Venezia esser debole, soccomberebbe senza il soccorso; accorresse, urgere il tempo; doversi le razze italiane dar l’amplesso: il Quirinale, il campo di Verona, e Venezia essere i tre centri dove agitavansi i destini d’Italia; dalla loro armonia dipendere la salvezza. È con altra del 23 il sollecitava, perché il Durando aveva lasciato seguire la congiunzione del Nugent al Radetzki fra Vicenza e Verona; unica speme ne’ Napolitani; aver visto ne’ combattimenti di Treviso e Vicenza il valore de' volontarii, che non sarebbe quello dei soldati disciplinati? Anche il governo provvisorio di Milano con lettera appellantelo eroe l’incitava; e aggiungeva l’Italia a lui dover sua salute, e ’l poter vincere i vecchi pregiudizii (quelli della fede al sovrano). Altra né mandava il 24 a posta per Cesare Correnti segretario di quel governo; promettente a tutti gli uffiziali napolitani, che dove la loro patria facesseli decader da' gradi anderebbero a soldo in Lombardia; come di fatto per quei pochi che passeranno il Po né fe’ decreto a' 23 giugno. Ultimamente pur da Roma il Mamiani presidente del ministero gli scriveva disubbidisse.
Quel Pepe vanitoso, burbanzando fra tante sollecitazioni, non dubitò punto per la disubbidienza al suo sovrano; solo tentennò tra Carlo Alberto e ’I Manin, se cioè accorrere alla chiamata di un re o d'una repubblica; vinse questa, e fermò voltare a Venezia. Il difficile era menarvi i soldati.
Stando sicuro su quei già iti a Ferrara, non né prese le obbliganze dei colonnelli, come avea fatto con la seconda divisione. Il comandante Zola stampò colà l'ordine scrittogli dal Leopardi da Padova per avanzare, col fine di persuaderne le milizie. Ma già le notizie del 15 maggio arrivate ai soldati avean prodotto un fermento. Pensavano alla patria in travaglio, alle famiglie tartassate da' faziosi; della guerra non vedean necessità, non avean fede nel duce; mulinavan sugli ordini di richiamo dati dallo Statella, tosto rivocati, e vi scorgevan malizia. Come il Zola aduna una brigata sulla piazza, ecco v’accorre l’altra dicendo voler andare insieme; ma dato il coniando di marcia, tutti al grido di uno posan l’arme a terra, e protestano non mover passo senza ordine del re. Mandano quattro uffiziali a Napoli. Due riuscirono a passare; gli altri due sostenuti dal Pepe a Bologna e minacciati di fucilazione quai disertori, ebbero a grazia il tornare indietro; ma i soldati al rivederli così, tenendo gli altri due per morti, si ammutinarono. Sorsero discussioni fra' sottufficiali: le parole, i voti, i sospetti, le fantasie calde, tutte cose insieme mosserli al grido patriotico Viva il re nostro! e unanimi senza pensar altro usciron da Ferrara. Il Zola s’ingegnò di condurli almeno a Bologna all’altra divisione; ma a un bivio presso Malalbergo, gridarono: A Napoli, dove il re ci chiama; e presero per Ravenna.
Il Pepe mandò una carta stampata dichiarante disertore avanti al nemico chiunque fra tre dì non tornasse a Ferrara; e fu peggio, ché subito gli raggiustarono il nome di traditore, rimastogli sin dal 1820 nella tradizione. Per aver almeno i tre bei reggimenti di cavalli, sciorinò a' 30 maggio altra proclamazione, ricordante le glorie de' cavalleggeri napolitani del 1796 in Lombardia (taceva che allora combattevano pel re coi Tedeschi contro la repubblicana Francia) e ordinò passassero il Po quel dì stesso presso Stella. Non gli ubbidirono; eccetto pochi uffiziali andati a lui.
Comandava colà la brigata il colonnello Lahalle, quel che poco innanzi avea spontaneo combattuto il Carducci nel Cilento, che però con la sopravvenuta costituzione molto era stato dalla stampa liberalesca insultato; onde ora avea chiesto d’andare a questa guerra per riguadagnar simpatie. Pertanto veggendosi da' soldati spinto indietro, e dal Pepe minacciato di disertore, si sperse di pensieri; temette nuovi vituperii di giornali, e uscì di cervello. A Bagnacavallo disse parole rotte, incoerenti a' suoi uffiziali; poi ito col destriero avanti alla colonna in punto di partenza, sé stesso con una pistolata nelle tempia uccise. La truppa partì; e il Leopardi mandò un tenente Camillo Boldoni, disertato allora, che si vantava di subornare e pigliarsi una batteria a coda della colonna, e gli fe’ dar danari dal segretario milanese Correnti; ma il Boldoni che ben sapeva i soldati l'avrebbero sbranato, non osò farsi vedere, e salvo che intascar la moneta non fe’ altro. Il Pepe inobbedito furiava, ma non ebbe core d’andar di persona; proclamò disertore l’esercito, e invitò le popolazioni a opporglisi con tutte armi e ostacoli. Egli disertore e inobbediente al suo re, cui avea giurato, dichiarava disertore l’esercito ubbidiente alla legittima potestà; egli Napolitano invitava le genti italiane a uccider Napolitani. Siffatta carità patria non trovò molto eco. E quantunque a quei di i Siciliani avesser già da per tutto sparso sospetti e odii contro i Napolitani, ed eglino con tutto io sforzo della setta lavorassero a commuovere le popolazioni e spingerle a percuoterli, pure niuno usò. Solo un Odinot bolognese fe’ le lustre d’opporsi con la forza alla ritratta, e accozzò un trozzo di marmaglia, ma schiamazzò da lontano.
La seconda divisione intanto aspettava attorno Bologna il ritorno del Cirillo ito a prender gli ordini dal re. Colà, la sera del 51 maggio un dragone uccise in rissa due militi finanzieri; onde i Bolognesi, tenentisi bravi per le grida poco prima valute con lo Statella, tumultuarono, e fer le viste d’assalire i nostri fuori porta Saragozza, ma da sol ventiquattro Lancieri caricati, sentilo sulle spalle lo sferzar dell’arme nude, non si videro più. La notte il Pepe fe' partire la 2. batteria di campagna e la sesta compagnia Zappatori per Malalbergo a sei miglia da Ferrara, donde dopo tre dì procedettero a Francolino, villaggio sul Po, verso il Veneziano. La dimane giunse pur là il resto della divisione, e si sparse su’ circostanti luoghi, aspettando le risposte da Napoli.
Venivano anche da Ferrara per passare il Po il 2° e 5° battaglione di volontarii nostri, i quali a Francolino dimandarono d’andare uniti agli artiglieri e zappatori, e concesselo il Pepe. Costui passato avanti di là dal fiume, mandò il capitano Ulloa del suo stato maggiore, dicente fugato il Radetzki davanti a Vicenza, quello essere il momento opportuno di travarcare il Po. Recava l’ordine stampato con le indicazioni de' passaggi da farsi in più palli, presso gli alloggiamenti di ciascun corpo, ordine con data del 10 giugno da Rovigo; ma veramente preparato a Ferrara. Vi lodava il 10° di linea, i volontarii, le vittorie sarde, prometteva abbondanza, cassa fornita da Lombardi e Veneti, e dichiarava ciascuno dover ubbidire al generale; il generale avere il dritto di modificare gli ordini del suo governo; soprattutto quando modificandoli provvegga all’onor nazionale e agli interessi del re. L’onor nazionale era nella rivoluzione che voleva dar Napoli al Piemonte; l’interesse del re stava nell'abbattimento della sua dinastia; ed egli invocava il dritto di generale, quando pel fatto dell'inobbedienza, l’ordine sovrano l’avea dimesso da generale.
Quest’ordine stampato, giunto in fretta, per eseguirsi subito, quando non era tornato il Cirillo, faceva manifesta l’opposizione alla volontà del re. Risorsero i sospetti sul Pepe, e i ricordi delle diffalte passate; si confrontavano con le presenti. Da' sospetti, a' motti, a' discorsi. I principali uffiziali tenner consigli segreti, ma nelle dubbiezze e discussioni scorrendo l’ore, i soldati levaron la voce, e unanimi per impelo cominciarono la ritirata senza aspettare i comandanti. Il colonnello Cutrofiano o che credesse vergogna il dare addietro, o gliene spiacesse il modo, o che (come altri scrisse) stimolato fosse da lettere della moglie a passare avanti, corse alla testa della colonna a fermare il suo reggimento; ma inubbidito, fremente, ebbe a porsi a retroguardia. Volsero a Cento presso il ducato di Modena, e di là presero la via del regno. La spontaneità dell'ubbidire al re, ne’ soldati, veri figli del popolo, mostra qual veramente fosse il sentimento de' regnicoli, malgrado le arti e le menzogne delle sette, che pingevano il regno tiranneggiato e oppresso.
Quell’ubbidire fu un sentimento. Né facile era il ritrarsi fra paesi sollevati avversi e armati, essi senza artiglieria e senza danari; ché il Pepe, seco menata la cassa militare, li avea lasciati vuoti. Il papa ordinò si soccorressero di moneta per le sue città, ma dove si, dove no se ne ebbe; forse era segreto desio che per fame si disciogliessero; nondimeno i soldati paghi del pochissimo, sin talvolta del mangiarsi l’erbe delle siepi, marciaron ben serrati sino a Lugo. Quivi certuni disarmarono un dragone rimasto un po’ indietro; i compagni ne preser vendetta e lor dettero la caccia; onde la sera i cittadini fecero qualche bravata; ma pochi colpi lor misero il senno in capo. A Ravenna trovaron chiuse le porte, più per paura che ostilità; però furo aperte sul tardi. Lasciata Ancona, venian giù, e i borghesi di Giulianova udendo le soldatesche tornar morte di fame, fer volontarie collette, e mandaron loro incontro una somma di colonnati. Così senz’altro intoppo, in punto di disciplina, entrarono a 12 giugno nelle frontiere, a Giulianova.
Fu anche tentato di far disertare la nostra flotta ch'era nell'acque dell’Adriatico. Il Leopardi arrivava il 21 maggio a Venezia; e confabulalo col Manin presidente, uscendo affatto dalle sue attribuzioni scriveva lo stesso dì al De Cosa comandante l'armata: «già il Pepe varcar con l’esercito il Po; egli pregar lui, e se occorre ordinargli di starsi nell’acque venete; chiamar esso e gli uffiziali responsabili innanzi alla nazione napolitana e a tutta Italia». E la stampava insieme ad altra lettera diretta al governo di Venezia. Parimente né usciva stampata un’altra del Manin ringraziatile il De Cosa d'interpetrare con la necessità dei popoli i regi voleri, e di dare esempio d'ubbidienza intelligente e di sudditanza dignitosa. Onesto dottore anzi dottorissimo in legge appellava il disubbidire ubbidienza intelligente. Il De Cosa si scontorceva, voleva meritare quelle lodi, e non perdere il posto; infine si risolse a cosa mezzana, scostandosi la stessa notte del 24 da avanti Trieste, e mandando due legni a Napoli, a chiedere ordini definitivi. Mentre si tratteneva in quelle acque, il Leopardi scrisse al Manin il 29, autorizzandolo a usare stratagemmi per guadagnar la flotta; per esempio sostenere uffiziali e marinari, e surrogarvi ciurme venete, in somma impossessateci di quanti più legni potete. Vedi ministro ordinare di rubar la flotta al suo paese! Ma questa fantasia non potè avere effetto, sebbene il Manin se ne struggesse; ché pochi uffiziali, ma non marinai scesero a terra. A 11 giugno arrivava sul Vesuvio il brigadiere Cavalcanti con l’ordine riciso del ritorno. Il Bua e l'Albini comandanti le squadre venete e sarde fecero grandi istanze a rattenerli; ma la notte partiano tre fregate con un Brik, e l'altre due la notte appresso.
Il ministero di Napoli sdegnato di tai sconvenevolezze del Leopardi, gli impose a' 4 giugno di tornare, lasciando il giovine Ludolf incaricato d'affari; ed egli ricusò d'obbedire, seguitò a far da ministro, e scrivea di continuo rapporti insolenti, anzi violenti accuse al governo. A lui non fu mai risposto sillaba. A’ 5 luglio s'ordinò al Ludolf di spedire esso le faccende della legazione, né più corrispondere col Leopardi. E costui durava a starsene da ministro di Napoli, pavoneggiando col vestito ricamato in mezzo agli accampamenti, in assai ridicola guisa, sino a' 25 di quel mese, quando per finirla gli mandarono il decreto di destituzione. Allora il ministro sardo gli scrisse: «sperare che tornerebbe presto; perché re Ferdinando non potrebbe trovar personaggio meglio pregevole di lui, più atto a rappresentarlo degnamente, e meglio accetto.»
Per questa ritratta di Napoli dalia guerra fu gran rumore. Dissero il non aver lato nelle spalle a' Tedeschi aver fatto perdere A(r )(V)icenza e tutto quello stato; noi disertori della causa italiana. infrangitori dello scettro d'Italia, fuggiti davanti al nemico. Anche i deputati romani nel progetto d’indirizzo al Santo Padre discusso a' 26 giugno, dissero al 7° paragrafo: «Ripugna invero la presente condizione del regno napolitano; dacché le truppe mal richiamate, perturbazione e danno e gravissimi scandali recano alle contrade nostre, dopo avere intralciata e quanto poteano risospinta l’impresa italiana. A quel popolo non preghiamo destini men lieti che a noi medesimi; ma se il vostro governo non ha potuto l'ignominiosa fuga, vorrà certo ragione di tante ingiurie da chi nc diede il comandamento». La logica liberale chiedeva al papa che dimandasse ragione a Ferdinando del non aver fatta quella guerra ch'egli stesso avea solennemente condannata. Inoltre il deputato Bonaparte nella tornata della dimane dimandava si mandassero soldatesche romane in aiuto della rediviva rivoluzione di Calabria, ed anzi tuonassero co’ fulmini della terra pur quelli del cielo; cuti voleva che il papa scomunicasse Ferdinando. Gente che non crede a scomunica l’invoca a suo pro contro un prence cristiano che difende da loro il trono e la nazione sua. E il Pepe stampò poi a proposito delle nostre milizie, deplorare che ne' vecchi soldati l'abitudine dell'ubbidire faccia perdere it sentimento nazionale. Capitano che sente male la ubbidienza militare, e appella sentimento nazionale la ribellione.
Veramente il nostro ritrarci lor fe’ gran danno. Il Radetzki mancato il colpo a Goito, perduta Peschiera, pensò subitamente a rifarsi su Vicenza, dove arrivò con trentanni’ uomini la sera del 9 giugno. Vi stava con novemila afforzato il Durando; ma uscito a incontrare i nemici, respinto ebbe a capitolare. Nondimeno v’era corso sangue: de' Tedeschi perirono un generale e un colonnello; degl'Italiani ebbero ferite i colonnelli Cialdini e Azeglio. Dopo Vicenza cadde Padova a' 15; e lo stesso dì Treviso, che con lievi scaramucce cedette al Welden.
Era riuscito al Pepe menarsi appresso un po' di militi e soldatesca. Passarono il Po il e 5° battaglione di volontari a Francolino insieme alla li(1 )compagnia Zappatori e alla 2(a) batteria di campagna, indottisi da un maggiore Sammartino del 7° di linea, rimasto fuor del suo reggimento. Il 2° battaglione cacciatori, comandato dal maggiore Giosuè Ritucci, fu fatto allontanare da Cento, e giunto a Pontelagoscuro gli si recò l'ordine di partenza stampato; il Ritucci dubbioso mandò attorno per udir le risoluzioni degli altri corpi; ma bugiardi corrieri e novelle giungendogli della andata degli altri, s’indusse a passare il Po l'41 giugno; e per Polesella giunse a Rovigo; ov’ebbe gran festeggiamenti. Il Pepe concionando in Venezia disse, e ’l confermò nella proclamazione data a' Bolognesi il 17, che il Ritucci mostrando il fiume a' suoi renitenti soldati sclamasse: Di là è l'onore, di qua il disonore! Dappoi avendone io dimandato al Ritucci. questi negò d'aver mai tali parole proferite.
Andò anche nel Veneto il 4° battaglione volontarii,che dopo la rotta del 29 maggio, s’era ritratto a Brescia co' Toscani. Era quivi giunto un Del Giudice nostro uffiziale del genio a richiamare i Napolitani in patria; ma il comandante Rossaroll, nascosto l'ordine, mostrò invece l'altro del Pepe. Tennero consiglio e decisero a questo ubbidire. Poi a Ravenna un mattino il Rossaroll e un Milesci aiutante maggiore s’imbarcarono soli. lasciando il battaglione senza duci e senza danari; onde il municipio lor dette un legno che li menò a Venezia. Colà il Pepe passandoli a rassegna si dolse della malversazione della cassa, e né invitò i militi a entrar nel secondo battaglione; ma ricusarono, e si sbandarono.
Oltre questa gente travarcarono il Po parecchi uffiziali alla spicciolata corsi alle idee nuove, e molti soldati di varii corpi, che rimasti per malattie in ospedali, presi, erari mandati a Venezia. Le prime truppe andar anche per Polesella a Rovigo; vi stettero tre dì, fu a Monselice varcato il canal di Padova, s’affrettarono a giungere a questa città, sull'alba, per evitare i Tedeschi padroni di Vicenza, che s’accostavano. Di fatto non potendo Padova esser difesa, benché avesse 22 cannoni, mancanti di munizioni, subito lasciaronla, e volsero a Mestre, indi a Venezia. Partivano il 12 da Rovigo il battaglione del Ritucci, il parco d'artiglieria, e i volontarii col Pepe stesso, alla volta di Chioggia, città marittima, discosta da Venezia venticinque miglia. Giunservi alla sera del 15, e non vi trovando barche non passarono la Brenta. Il generale con la cassa scortata dall'Ulloa e da' volontari andò innanzi, la dimane venne ordine che il Ritucci coi cacciatori presidiasse Chioggia, l'artiglieria s’imbarcò il 15 per Venezia. Quelli iti a Mestre non ebbero tempo di riposare, ché un messo del forte Malghera li avvertì lasciassero quel luogo minacciato da presso da' Tedeschi vegnenti da Treviso; però entrarono in quel forte, lontano cinque miglia da Venezia, presidiato da volontarii veneti. La dimane menarono le artiglierie, e anche quelle venute da Chioggia e i cavalli all'isola di Lido, a un miglio dalla città.
Il governo veneziano lieto del soccorso in una proclamazione enumerò i Napolitani esser mille tra linea e cacciatori, oltre 300 artiglieri; prezioso aiuto di gente esercitata; ed enfaticamente conchiudeva dessi tanto più cari quanto esser pochi volenterosi fra molti, quasi eletti di Gedeone. Il Manin con decreto del 15 fe’ il Pepe supremo duce nel Veneziano. V’eran venuti alquanti volontarii siciliani, e se ne aspettava altri col La Masa. Adoprarono i nostri uffiziali a fortificar le lagune.
Corse nel nostro esercito una persuasione (e venne stampato) che il Pepe derubasse la cassa. Ciò non è vero. Eran trecentomila ducati, cioè il terzo in moneta, e il resto in lettere credenziali; per via se n’erano spesi 61 mila; 26 fur lasciati in deposito a Bologna, al cardinale Amai, donde tornarono a Napoli; sicché le sole lettere di credito con diecimila ducati contanti varcarono il Po, non punto tocchi; che in agosto insieme agli uffiziali computisti si condussero nel regno. Il governo veneziano pagò del suo le soldatesche. Tanto é vero che talvolta i tristi patiscono calunnie per la loro mala fama.
Venne per la via del consolato l'ordine ministeriale di ritorno; e tosto il capitano Pedrinelli della batteria e il capitano Bardet de Zappatori andarono al Pepe dichiarando aver debito d'ubbidire; in risposta fur mandati al generale Antonini comandante la piazza, per andare in castello sotto giudizio. Ma questi usò modi carezzevoli, tenneli custoditi in cisa sua, e la dimane li rimandò. Il Ritucci protestò esso e i suoi uffiziali a' 9 giugno, che non essendo il Pepe più generale di Napoli, non potea serbar più potestà sul suo battaglione, che non poteva senza ledere l’onor militare disubbidire al regio comando; passando il Po non aveva iilleso andar a soldo straniero; però cintale va presto s'imbarcasse. Accorse un certo Fabrizii dicentesi colonnello, per tentarli; pi il 20. uscì ordine del giorno del Pepe con data del 15, lodandoli d’aver pensato esser prima virtù del soldato l’ubbidire (certo, ma a chi ha dritto di comandare); e Univa dicendo eglino non esser esuli della patria, perché avean per patria la terra dal Tronto all'alpi, dove avrebbero stipendio e ricompense. I settarii han per patria ogni paese, fuorché quello dove si nasce. Letto quel foglio a' soldati, restar mutoli, e disappravaronlo col cipiglio. Lo stesso dì un ordine tracotante e minaccioso dell’Antonini chiamava il battaglione a Venezia; e il Ritucci dichiarò andarvi per imbarcarsi. Colà si lamentò, e disse al Pepe che ove avesse avuto con seco l’artiglieria e i zappatori, avrebbe fatta la via per terra; però fu arrestato in risposta. Dappoi l’irritalo generale chiamò i capi de' corpi, e lor die’ il permesso d’andarsene senza i soldati; il che ricusarono. Fu tentato anche far dalla truppa prestar giuramento alla repubblica;e quando come dirò, smessa la repubblica, Venezia si dette a Carlo Alberto, pretesero il giuramento a costui; ambo negati. Anche presero a sedurli con false nuove. Dicevano il 10° di linea non aver danari da Napoli, Carlo aver dichiarato guerra a Ferdinando, scoppiata in giugno a Napoli altra rivoluzione vittoriosa, esser perduta la monarchia, vinti i Tedeschi tutta Italia trionfare, e correre sul regno ad assicurar la rivoluzione. E gli ufficiali disertali, cioè il Mezzacapo, l’Assanti, il Poerio e altri, ripetean tai novelle; ma non movevano i soldati, disingannali altresì dalle lettere de' loro parenti. Da ultimo a vincerli con avanzamenti, dettero un grado di più a tutti, e minacciavano se il ricusassero fregiarne i sottuffiziali; laonde a vietar tumulti li presero (di che non li lodo). Nondimeno gli uffiziali del 2.° cacciatori con lettera del 23 luglio, dichiarando non poter pigliar soldi di gradi non convalidati dal sovrano, nc ricusarono il più. Pure né fur guadagnati alquanti.
Lo Statella avea mandato di nascoso il capitano Sponsilli del genio al Rodriguez che tornasse col suo reggimento; arrivava quegli al campo il 25 maggio, e di là procedeva a Sommacampagna ov’era Carlo Alberto, a chiederne il permesso. Ma già il Pepe per corrieri avea nunziata la cosa al re; perlocché lo Sponsilli minacciato di prigionia,come poi disse, o il fingesse, come credo, se n’andò per altra via. Il Rodriguez stimò tacer la chiamata a' suoi, per non distrarli dai militari doveri; ma stupiva a non veder tornare lo Sponsilli. Gli giungeva il 25 la lettera ministeriale che il richiamava; onde s’avvisò ad impedire i rumori di preparar la partenza senza dirlo, sino al passo del Po. Così seguivano le fazioni di guerra ch’ho narrate. Poscia mandò dispaccio al comandante del 2° battaglione a Brescia, affinché si tenesse pronto a partire, senza dir più. Ma aperta la lettera dal capitano di guardia sul ponte svanì il segreto, e produsse fermento fra' nostri, dolore fra' Toscani. Incontanente i Piemontesi sospesero le paghe; né valsero reclamazioni, né il mostrar del mancar del modo da far tante centinaia di miglia tra popoli sollevati e irosi, costretti così a saccheggiare per sostentarsi; né valse a ricordare un regno di Napoli esser bastevole a restituire un imprestito lieve; e meno valse il fresco ricordo de' pericoli sfidati insieme, e del sangue napolitano versato largamente per la causa loro. I Piemontesi negarono a chi era stato lor compagno d'arme anche il sussidio che si dà a' prigionieri. Dissero esser clemenza il lasciarli andare. Corse al re il maggiore Viglia, e n’ebbe promesse, ma mancò di parola, e a stento vennero due razioni di pane. Siffatta riconoscenza s’ebbero le superstiti vittime di Goito, Curtatone e Montanara da quei rigeneratori.
Gli uffiziali fecero una massa del loro, venderono obbietti preziosi, ingiunsero a' soldati di raccogliersi attorno alla bandiera, non molestare i villici per via, sopportar costanti i disagi e i digiuni. La sera del 19 giugno, passando per mezzo a' Sardi, s’avviarono. Lasciarono un indirizzo d’addio ad essi ed a' Toscani; quelli tra’ superbi non risposero, rispose la gentilezza toscana aver ammirati prodi sul campo di battaglia quei soldati ora obbedienti alla forza del dovere. Altresì il municipio di Goito, lamentandone la partenza, ricordava averli veduti valorosamente pugnare sotto gli occhi loro dall'alto delle loro case. Ed il De Laugier lasciò attestato aver il reggimento serbalo contegno di prode, onesto e disciplinato soldato. Ma i giornali milanesi prorompevano: «Chi sa quali pericoli minacciano questi nostri fratelli vittime d’un re disertore della santa causa? Già correa voce che i civici Reggiani li avessero ributtati a colpi di fucili al ponte di Canneto sull'Oglio.» Così ipocritamente compiangendo i soldati incitavano ad ucciderli. E un giornale Parmense a 14 luglio, dicendo di non so qual disertore piglia la via del Lombardo, sclama: Vivano i soldati napolitani disubbidienti al loro re! Così credean far gloriosa la diserzione.
A Fano un mandatario del Pepe voleva indurre il colonnello a voltar per Venezia, respinto, osò tentare i soldati. Il reggimento varcò il Po presso Suzzara, ove si ricongiunsero i due battaglioni, poi per Mirandola e Finale furono il 15 luglio a Ravenna: e quindi giù per la bassa Romagna e le Marche. Quasi sempre accampando al sereno, ebbero dalle popolazioni agricole gioviali accoglienze, e festose poi a Giulianova nella frontiera nostra, giuntivi a' 29 di quel mese.
I provvisori governi surti in Italia, sentendo il bisogno d’unirsi a un centro, mandarono a Carlo Alberto. Già dal 6 aprile il ministro di guerra sardo avea scritta a Milano una nota maliziosa dichiarante spettare al popolo che gloriosamente s’era liberato dallo straniero il determinare la forma del suo governo, però dover convocare l’assemblea elettiva che decidesse su’ destini del paese; e trasmetter tal nota anco a' governi di Venezia, Parma, Piacenza, Reggio e degli altri Stati ch’avevano aderito a Milano; perché il re desiderava Milano sede dell’assemblea generale. Per l’effetto i Lombardi fecero la legge elettorale; e a' 10 aprile scrissero a quei paesi di mandare loro rappresentanti. Ciò intendeva a ingrandire il Piemonte.
Ma i repubblicani pensandola diversamente s’ingegnavano a prevalere. Il Mazzini dal principio dell’anno s’era impegnato col Gioberti a non turbare con mene repubblicane l’indirizzo costituzionale; ma vista la cosa pigliar fuoco, temente non forse Carlo Alberto s’ingrossasse troppo, da non poternelo poi sbalzare, era corso a Milano, giuntovi l'8 aprile. Subito qual presidente dell’assemblea italiana poco innanzi da esso fondata a Parigi, fe un indirizzo a' popoli; e parlò di sovranità popolare, di tradizioni patrie, di aspirazioni europee: «Scegliessero liberamente come debbe chi vinse senza aiuto altrui; si ricordassero la gloria loro essere italiana, e Italia non poter essere una, sinché l’assemblea nazionale non decreti il patto d’amore da annodare in concordia, in credenza, ed in opere tutti i cittadini. Lombardi e Siculi aversi a stringere le destre sull’altare della nazione nella città santa, centro della storia nostra e d’Europa, Roma.» Conseguitò la creazione d’un circolo, poi il giornale L'Italia del popolo. Mentre Carlo Alberto combatteva per cacciar l’Austria d’Italia, il Mazzini gli alzava la repubblica alle spalle.
Per contrabbattere questi spiriti accorse il Gioberti, e molto concionando, e trattando col re e co' settarii, lavorò a fare unire il paese lombardo agli Stati sardi. Noto che in quel viaggio trionfale ci si fe' accompagnare dal Leopardi allora ancora nostro ministro,il quale intervenne in consiglio coi governanti di Milano, e li confortò alla fusione; cosa di gran danno al nostro reame, e incompatibile con la veste di ministro napolitano. E ne’ pochi dì che stette nel veneziano fe’ la stessa ressa per la fusione al Piemonte. Il Gioberti volse a Roma, e vi cicalò sino al 10 giugno, cioè sino alla vigilia delle sessioni del corpo legislativo, poi nelle Marche, in Romagna, a Firenze, da per tutto predicò lega o fusione, plaudito a' cieli, e si tornò a Torino a 24 luglio, come da un trionfo. Parendo la via delle assemblee troppo lunga, l'accertarono aprendo registri per raccoglier firme. Primi furono i Piacentini, poi i Parmensi a 25 maggio, la dimane i ducati Estensi, Modena il 29. Il luogotenente di Carlo Alberto a Torino sciorinava decreti, dichiaranti tai paesi far palle della monarchia; e vi mandava commissarii a governo.
A Milano, presente il Mazzini, fur difficoltà maggiori. I governanti dettero a 12 maggio un manifesto invitando i cittadini da' ventun anni in su a sottoscrivere i registri nelle parrocchie aperti sino a' 29, o per l'adesione al Piemonte, o per la dilazione, all’opposto sforzandosi i repubblicani a frastornare le sottoscrizioni, sparsero il 27 certi viglietti d'invito per adunarsi la dimane in piazza S. Fedele, prossima al palazzo del comune, ove era anche il Mazzini. Furonvi schiamazzi, concioni, tumulti, nondimeno da quel garbuglio n’uscì una certa votazione, e a 8 giugno fu l'unione proclamata.
Maggiori le opposizioni a Venezia, pel non sopito ricordo dell'antica repubblica; eran vivi ancora chi avean visto il governo di S. Marco, aspirazioni, bisogni, interessi, storia e dritto volean repubblica, ma Carlo Alberto mercanteggiò l'aiuto, e strinseli a scegliere tra il padrone nuovo e il vecchio, quello sorridente, questo offeso e gridato implacabile. La paura consigliava quello,che che né sortisse. il Manin e il Tommaseo vedevano la impossibile unità, e volevano la possibile lega; eppure dopo molte pratiche, e la creazione d'un’assemblea, la guardia civica a' 29 giugno gridò fusione. Allora il Manin rispose che tra ventiquattro ore chiederebbe il voto de' rappresentanti, non meno maggiori grida a sera, tanto che i ministri arringando dichiararono il presidente stare a posto sol di nome sino alla convocazione dell’assemblea. Questa s’unì a 4 luglio, il Manin disser tutto esser provvisorio, il definitivo farebbesi a Roma, allora volersi pace, così dati i voti n'uscì la fusione. Il Pepe si dichiarò anch’esso per questa; il Manin si dimise; e un Castelli prese il governo provvisoriamente, sino all’arrivo del general Colli commissario sardo.
A’ dieci di giugno si presentò a re Carlo Alberto l’atto di fusion lombardo, e le camere di Torino 250 l'approvarono insieme a quelli delle provincie di Padova, Vicenza, Treviso e Rovigo. A’ 20 luglio approvaron quello di Venezia, dove già il 14 erano entrate le soldatesche sabaude.
La repubblica intanto mettea bande in Roma. Il ministro Mamiani imposto il voler della piazza al pontefice, osò leggere a 9 giugno al corpo legislativo un discorso che spiegava l’interno pensiero de' congiurati: «Un’opera vasta e feconda abbiamo cominciata, il cui risanamento riuscirà suggello alla civiltà de' moderni. Il nostro principe come capo dei fedeli, dimora nell’alta sfera della sua celeste autorità, vive nella serena pace de' dogmi, dispensa la parola di Dio, prega, benedice e perdona. Come sovrano costituzionale lascia a Voi provvedere al più delle faccende temporali. Voi siete chiamati a consumare cotal fatto profittevole a tutti i popoli. A noi toccherà lo abbattere gli ultimi avanzi del medio evo, e a perfezionare le forme nuove della vita pubblica odierna.» Poi parlava della guerra all'Austria, non agli Austriaci; co' quali sarebbero amicissimi quel dì che per sempre andasser d’Italia lontano.
Pio IX si lamentò co' ministri di quel separare il temporale dallo spirituale, e quando a' 10 luglio accolse la risposta de' deputati al discorso del trono, disse: «Se il pontefice prega, benedice e perdona, è anche in dovere di sciogliere e legare. Come principe ha chiamato i due consigli a cooperare con lui per raffermar la cosa pubblica; come principe sacerdote abbisogna di libertà che non inceppi l'azione sua negl'interessi della religione e dello Stato. Il mezzo da conseguire la grandezza italiana non è la guerra. Benedetto è il nostro nome per le prime nostre parole di pace; noi sarebbe se fossero guerresche. Unione fra principi e armonia fra popoli posson solo dare l’agognata felicità; e ricordatevi che Roma è grande non per dominio terreno, ma perché sede della cattolica Fede.» Quindi conseguitarono tumulti novelli; eia sera del 16 di quel mese, i faziosi fra le ovazioni al loro archimandrita Mamiani, e i Viva a Carlo Alberto, e al duca di Genova re dì Sicilia, aggiungevano: Morte al re di Napoli! giustamente, perché questo re solo non avean potuto vincere.
Il Radetzky vincitore nel Veneto, aveva a 11 luglio spinta una brigata a Ferrara per soccorrere il presidio di quella cittadella; perlocché il papa che sosteneva di non essere in guerra, fe’ protestar dal cardinale segretario di stato contro quel fatto, per la violazione del territorio. Ciò servi di pretesto ad altri rumori in Roma. Fecero petizione a' deputati, chiedente dichiarassero la patria in pericolo; e Ciceruacchio a capo di facinorosa bruzzaglia gridava armi. Oltracciò arrivata a' 25 la vinta legione, reduce per la capitolazione di Vicenza, lodaronla a festa della sua bravura, e mandaronla ad alloggio nella casa de' Gesuiti, il che spiacque molto al papa. La dimane fu assassinato il sacerdote Ximenes collaboratore d'un giornale conservatore detto il Labaro, mentre ascito dalla stamperia passava alla casa del Gesù a vedere due suoi fratelli legionarii tornati da Vicenza. Là da presso gli dettero una sbiettata al collo; cadde. e tratto semivivo entro quella casa religiosa, dopo cinque minuti, senza profferir sillaba spirò. Prova questo del come le set le rispettano la libertà di pensiero e di stampa cotanto da esse reclamata. Impertanto Pio IX scortosi in balia d’audacissima fazione, per provvedere alla quiete materiale volea i suoi reggimenti svizzeri stanziati nelle legazioni, e gli fu negato da' suoi ministri, il perché mandò a re Ferdinando il Cardinal Ferretti a dimandare aiuto. Ma il re tutto intento a ricuperar Calabria e Sicilia, e inoltre sendosi allora in gran sospetto delle risoluzioni che potesse l’assemblea francese adottare, e delle insidie del ministro brittanno, non potè entrar nell’impegno, di sorte che il papa restò nelle branche della rivoluzione indifeso.
Se Italia travagliava, non riposava Parigi, dove la rivoluzione ita più avanti, procedeva al suo ultimo fine. A 8 giugno s’eran fatte elezioni suppletorie di deputati, fra' quali apparso candidato Luigi Napoleone, fu eletto. Avean già instituite colà fabbriche nazionali da far lavorare gli operai, e da prima se ne scrissero tredicimila, tosto cresciuti a centomila, perché da tutta Francia v’accorsero proletarii oziosi, per mangiare a ufo, e mover le braccia nelle sedizioni plateali. A rimediarvi il governo repubblicano propose a' 19 giugno all’assemblea l’abolizione delle fabbriche, e assegnare invece cencinquanta milioni di franchi per promuovere il lavoro. Quindi ire: la sera del 22 s’accozzò moltissima marmaglia tumultuante, e fra le grida s’udiron la prima volta voci di Viva Napoleone, Viva l’Imperatore! La notte alzarono barricate in tutta la città, inalberarono bandiera rossa, e aperto proclamarono repubblica democratica e sociale. Allora l’assemblea spaventata fe' dittatore il generale Cavaignac, che il 25 sul tardi con soldatesche e guardie nazionali assalì le barricate. Durò quattro giorni il conflitto, mancaron d’ambo le parti diecimil’uomini, e l’arcivescovo di Parigi Dionisio Augusto Aftrè uscito a metter pace, colto da una moschettata, perì. Il Cavaignac vincitore carcerò seimila de' più tristi molti fucilò, molti mandò alle colonie. Luigi Blanc e Caussidière, rappresentanti, e autori di questi sollevamenti e di quelli del 15 maggio, fuggirono a Londra. Il Cavaignac fatto capo del potere esecutivo abolì le fabbriche nazionali, soppresse molti giornali, e con gagliardi provvedimenti ripose la quiete. In fine l'assemblea compilò e a 4 novembre approvò la costituzione repubblicana, ch'era parmi la decima colà inventata in sessant’anni.
La guerra Lombarda riusciva anch’essa a fiaccar la rivoluzione. Eran corse pratiche per armistizio, intermedia Inghilterra. Austria offeriva come dissi fare un regno Lombardo-Veneto indipendente, o anche la sola Venezia, ma ciò guastando i disegni sabaudi, fu tirato a lungo, sinché ingrossati i Tedeschi si tornò all'arme. Dall'altra forte i repubblicani sclamavano sull’inazione de' Piemontesi al Mincio, e spinsero Carlo Alberto a bloccar Mantova, però seguirono combattimenti a Governolo, a Rivoli, a Sommacampagna, a Sona, a Staffalo, e una quasi battaglia a Custoza, e poi a Volta, donde i Sardi rotti e sperperati ripararono sull’Oglio. Non riuscita una tregua, il re chiamò con un manifesto gl’Italiani all’arme, ma non gli arrivò uomo, anzi disertavagli la sua gente, ond'ebbe a lasciar anche Cremona, e a' 31 luglio ritrarsi all’Adda. Milano spaventata s’armò, chiamò il Garibaldi a unir volontari, fece quattordici milioni di debito forzoso e mise in vendita beni nazionali per tre milioni. Il re v’arrivò coll'esercito sgominato a 5 agosto, come a difender la città, ma aveva i battaglioni laceri e smilzi, il più sbandali per via, già ridotti a metà ed a terzo; giunti i Tedeschi tentò di resistere, e perduti sette cannoni, rifugiò dietro le barricate. A notte, sortita vana la difesa, cercò patti. Allora scoppiarono le passioni repubblicane. I tumultuanti circondarono il palazzo Greppi ove era il re; cui improperii, fischi e colpi di fucili dettero in pagamento d'aver combattuto unito alla setta. Anche adunarono fascine per arderlo entro al palagio. Egli e il duca di Genova furon salvi per fedeltà di pochi soldati. Allora allora firmò in fretta una capitolazione; e quella notte istessa del 5 agosto abbandonò Milano, fra gl’insulti e le schioppettate, sino a porta Vercellina. Così i Tedeschi entrarono vincitori in quella città donde cinque mesi innanzi erano usciti quasi fuggenti, cacciati si può dire dalle grida; ma soprastando alla passione la disciplina, non si vendicarono. Il Garibaldi che avea raccolti forse tremil’uomim dalla poltiglia sociale, scrisse una proclamazione contro Carlo Alberto, annunziò ridicolosamente la guerra del popolo, e fe una grottesca scorreria attorno a' laghi; ma tosto pria che urtato disfatto la scampò negli Svizzeri.
Il re savoiardo ripassò il Ticino a 7 agosto; e per non essere perseguitato nel regno suo, mandò a Milano il generale Salasco dimandando armistizio. Francia e Inghilterra offersero la mediazione, e il re la volea per aver non pace, ma tempi) da ripigliar forza; se non che il Gioberti e i suoi sviscerati baldi s’opposero, e rifiutaronla, dimandando invece lo intervento dell'esercito repubblicano di Francia. Anche Venezia mandava a Parigi il Tommaseo a chiedere aiuto di soldati. Ciò era chiaro un voler Italia repubblica; laonde Carlo Alberto spaventato per l'imminente perdita del trono, paventando più i Francesi che i Tedeschi, volle subito accomodarsi con questi. Il timore dello intervento francese pressando ambe le parti, riuscì al Salasco concludere con l'austriaco Hess un armistizio così: Le frontiere de' due Stati separare gli eserciti; restituirsi Peschiera, Rocca d'Anfo ed Asopo co' loro attrezzi; e ritrarre le genti sarde da Modena, Parma, Piacenza e Venezia. Così in un attimo svanirono i tanti brogli delle fusioni. I rivoluzionarii ch'avean tanto alzato Carlo Alberto spada d'Italia, tosto vituperatilo protestando in italiano e in francese, con migliaia di firme, dicendo egli non capitolazioni, ma resa aver pattuita col nemico. Lo stesso ministero suo coll'abate Gioberti si dimise; protestò per l’illegalità e la nullità dell'armistizio, e con una scritta al re dichiari) inetta la condotta della guerra, indisciplinati i soldati, sospetti i duci, vergognosi i patti. E in vero quella capitolazione ruppe i disegni della rivoluzione; e altresì quelli di Francia e Inghilterra, che a quei dì, come narrai, s’erano accordate sul modo da intramettersi fra' combattenti; e restaron deluse. Però il Bastide ministro francese, in un dispaccio del 21 agosto a Roma, con non celato dispetto disse il re aver concluso un inqualificabile armistizio, e però reso lor difficilissimo l’esercizio della mediazione. La repubblica aver sin dal principio offerta generosa assistenza all'Italia; questa averla respinta credendo bastare a sé stessa; ora che gravi avvenimenti sopravvenuti metteanla in trista condizione, la Francia esser nel dritto di consultare gl'interessi suoi proprii, e operare a seconda della pace europea. Con questo scopo s’intrametterebbe nelle cose italiane.
Tai vicende ho raccontate perché ne venissero chiariti i fatti de' nostri entro Venezia. Quivi mancando artiglieri buoni ai forti, v eran iti i napolitani; gli zappatori fur messi a restaurar le fortificazioni. In quella città già bloccata dal nemico ermi queste milizie: Di Napolitani il 2° battaglione cacciatori, la 2(a) batteria da campo, la sesta compagnia zappatori, due battaglioni volontarii, e quasi quattrocento uomini spicciolati d'altri corpi. de' quali pochi disertori, il resto usciti da ospedali, e mandati là da' municipi!. V’era di Piemontesi tre battaglioni, poi uno di volontarii Lombardi, uno civico di Bologna, uno di Romani, e due cannoni di Toscana; di Veneti v’eran quattro battaglioni presi a pagamento e di mala condotta, una compagnia di volontarii artiglieri, e un’altra pure d’artiglieri, detta Bandiera e Moro, a memoria di quei periti in Calabria.
I Napolitani sebbene scontenti del vedersi là costretti, pur non mancarono per l’onor della bandiera al debito di soldati. A’ 7 luglio in una sortita alle Cavanelle cent’uomini con due cannoni, a quindici tese da' parapetti nemici, e scoperti, durarono quattr’ore, e fecero danni all’avversario sì da esserne lodati nella proclamazione del generale. Al 9 quasi tutti i Napolitani fur mandati a presidiar Malghera. Di qua uscito a' 20 alquanti zappatori con due compagnie cacciatori, fecero mine in una casa alla strada ferrata di Padova, ch'era ricovero al nemico e di molestia a difensori del forte, poi combattendo vi detter foco, onde essa crollò da Ire bande, ma un soldato Biagio Veneroso ebbe ardimento d'accostarsi a ravvivarvi la quarta miccia, e vi stette da presso sin quasi allo scoppio.
Correva a' 25 luglio il quarto anniversario della fucilazione de' Bandiera; e si volle colà inneggiare a quei morti per la rivoluzione, con una messa di requie, e intervento di gente da Venezia. Fu ordinato che un drappello d’ogni corpo del presidio stesse al funerale, e volle che il caso fossevi presente un caporale ch’era stato de' primi ad arrestare in Calabria quei giovani, e tutta poi la banda dei trombettieri ch’avean sonato sul luogo della fucilazione. Vedi coincidenza, e incertezza delle umane vicissitudini! Di poi a mensa sbalestrando quei cervelli avvampati dal vino, detter quasi briachi in brindisi, dove un Veneziano uscì con certi versi contro i sudditi fedeli a' prenci, contro chi s’era allietalo della morte de' Bandiera, e anche contro chi non s’era levato a vendicarli. Plaudendo i circostanti, i nostri uffiziali sdegnati si tolsero da mensa. Poi il Ritucci, maggiore in grado, andò al comandante del forte, e ’l richiese convocasse i convitati, il che fatto, si volse al Veneziano millantatore, chiedendogli ragione dell’insulto scoccato al sovrano delle Sicilie. Si scusò dichiarando aver alluso al re non rigenerato, ma le donne presenti e le grida Viva Italia troncarono la quistione. Indi a pochi giorni tolsero da Malghera il battaglione cacciatori, dividendolo: Ire compagnie all’isola di Lido, e tre all’altra Murano.
Intanto giungendo da Napoli ordini reiterati di ritorno, gli uffiziali fecero ressa al consolo nostro, perché provvedesse all’imbarco, e andarono essi medesimi noleggiando navigli di nascoso. Inviarono a re Ferdinando una dichiarazione di fede e ubbidienza; e il Ritucci ogni dì faceva istanze al governo veneto per esser rimandato, e protestava non potere i Napolitani prender parlo a operazioni di guerra senza trasgredir gli ordini del sovrano. I soldati sparlavano in ogni parie. Tai cose, e il fatto del cercare i legni, insospettirono i Veneti, il Pepe e il Colli commissario sardo; temettero si volessero far padroni di Malghera, per darlo a' Tedeschi, o a patteggiare il ritorno; perciò v’avean tolto il battaglione cacciatori. Il Pepe a' 6 agosto, chiamati gli uffiziali a casa sua, prima a solo a solo, poi a tutti insieme disse la monarchia napolitana star per crollare, sovrana esserla camera de' deputati, servissero la nazione; e reggendoli duri, minacciò consigli di guerra, fucilazioni e disarmamento. Risposero volersene andare, aver serbata la disciplina, non voler posar l’arme, o si difenderebbero. Egli soggiunse risolverebbe tra due ore; poi richiamatili riminacciò, e indarno da ultimo andarono al Colli, e ottennero di partire alla dimane.
Il colonnello Mattei governatore di Malghera, cinto dagli uffiziali nostri disertori, parlò a' soldati promettendo compensi ed onori; tutti grida rono Napoli! L’imbarco era disposto fuori l’isola di Lido; invece fecero andare gli artiglieri e i Zappatori al lazzaretto, sotto il cannone delle barche cannoniere, donde non poterono uscire che lasciando artiglierie e cavalli, e divisi dagli ufficiali. A 154 soldati delle frazioni di linea, gli uffiziali disertori pria tentarono persuadere, poi indispettiti usarono uno stratagemma. L’aiutante maggiore Oliva, disertato dal 10® di linea, li mise in riga nella piazza del forte,quasi a passarli e rassegna; e quando ebber fatti i fasci d’arme, fe’ a un segno accorrere sua gente che tolsero i fucili. Così disarmati, e spogli pur del cuoiame e d’ogni arnese militare, li mandò a Venezia. Altresì tolsero l’arme a molti malati di febbre, e anche a sette Lancieri ch’avevano scortato e servito il Pepe, cui alleggerirono anche de' cappotti. Si tennero i carrettoni, i muli, i cavalli, e pur quelli privati di uffiziali. Per tai ruberie, e pe' tolti cannoni, il Ritucci e quei d’artiglieria fecero proteste solenni, e le stamparono. Il capitano Pedrinelli sì pe' rapiti suoi cannoni si accorò, che né perdè il senno, e ancora è pazzo.
I disarmati s'imbarcarono sur un trabaccolo, che fe’ vela per le bocche di Lido il 9 agosto, mentre i Tedeschi assaliva Malghera. La dimane si imbarcò armato il battaglione cacciatori. Similmente gli artiglieri e i Zappatori sopra altro trabaccolo; ma il fecero dare in secco, e cavaronlo l'altro giorno, volgendolo alle bocche di Malamocco. Colà tra due forti detti Alberone e Bastione, con a fronte una corvetta armata, sopraggiuuseli una piroga, il cui comandante notificò al capitano Bardet l'ordine che facesse posar l’arme a' suoi, o li colerebbe a fondo. Fu un grido d’indignazione: uffiziali e soldati sclamarono voler anzi annegarsi che soffrir quell’onta. Protestarono: «I Napolitani non tener guerra co' Veneti; leali soldati aver due mesi partecipato a' pericoli e a' disagi della guerra veneziana; il general Colli aver permesso d'andarsene armati, ora essere sforzati a lasciar l'onorate arme in luogo ove non è difesa; ma cinti da fortezze e cannoni preferir la morte al mirar vituperato l'onore napolitano.» Firmaronla i capitani Pedrinelli e Bardet, e i tenenti Guillamat, De Sauget, Fonzeca, Panico, Vernaux, Castellano, Presti e Dusmet; e mandaronla per un legnetto a vapore chiamato Pio IX. Essa per fortuna andò nelle mani del general Oraziani di marina; il quale sentendo la sconvenevolezza dell’atto, e la città in altri più gravi pensieri, li lasciò andare.
Per la capitolazione di Milano ricacciati i Sardi dietro il Ticino, il popolo veneziano tumultuando annullò la fusione, e abolì il governo piemontese; il perché cadevano il Colli, il Castelli, e il Librario a 15 agosto, e risaliva in seggio il Manin, col Oraziani e il Cavadoli. I nostri videro il Colli fuggente in una barca passar con gran remate avanti a loro, e raggiungere i suoi legni. Così dove la potestà sarda non fossi stata sullo stremo, forse quei soldati di Napoli avrebbero con morte in fondo al mare scontato l'errore d'aver combattuto a fianco de' Piemontesi fratelli. Il comandante veneto si scusò dell’iniqua domanda dicendo averla fatta per ingiunzione del Pepe, diesi sperava aver minacciando quell’arme; però era pure un Napolitano che voleva far onta ai Napolitani, ed era pure uno vantantesi patriota che ingiuriava la sua nazione.
Quei trabaccoli avean magrissime provvisioni; carne marcia, poca pasta, poca acqua, niente olio. Dopo otto giorni di penosa navigazione, giunsero il 17 agosto a sera a Pescara. L’altro legno co' disarmati e i malaticci, sospinto da fortuna di mare entrò il 19 a Manfredonia. Restavano a Venezia gli otto cannoni, i volontarii, quasi dugento soldati il più infermi, e venti uffiziali.
Fu sempre a operare più facile il male che il bene, e più comune lo sbrigliare le passioni che contenerle; perlocché raccontando i fatti umani s’ha men sovente a lodare che a vituperare. Soltanto gli scrittori settarii, sendo obbligati a ubbidir loro mastri, pongon nomi buoni al male, e fan di sfuriate passioni magnifici esaltamenti; onde i libri né riescono panegirici di ciò che in tutte età fu riprovato. Come s’è pervenuto a torre a' diritti governi le forche, così anche alle malvagità si dan corone ed incensi,cui suppongono duraturi ed eternali. Assassini e regicidi furo appellati Bruti e Timoleonti; ma questi antichi eroi non già ribelli erano, anzi ucciditori di ribelli tiranneggianti loro patrie; sicché tai sconforti paragoni son controsensi ad ogni sapiente. Dettate con tal metodo storie encomiastiche di turpezze, si contentano i molti. Per contrario lo scrittore libero ha per necessità pochi a lodare, molti a vituperare; perché la vera schietta storia non è panegirico, ma giudizio solenne de' pubblici fatti; dove per quanto mitighi la severità, pur sempre da molti guadagni odio e rancori.
Sta nel fatto perduta una monarchia benefattrice, saccheggialo un reame, versato mare di sangue, chiamati stranieri a sbranar la patria, ita la libertà, l’indipendenza, l’onore e la roba; eppure chi lunghi anni ha macchinato e congiurato per farlo, mal uso alle lodi settarie, vorria anco esserne ringraziato dalla posterità. Altri fu ribelle, altri disertore, altri traditole, altri codardo, altri tutte queste cose insieme, come tacerlo? il male è fatto; e se il vituperio deve cader su qualcuno, è giusto vada anzi a chi sei volle meritare che alla nazione napolitana; che dopo tradita e venduta, n’andrebbe per giunta dichiarata vile e trista. Oltracciò dappoiché più non v'han forche, resti almanco la memoria dell'infamia, e la peggio che forca pubblica esecrazione, esempio e ritegno a' traditori futuri.
V’ha pur di molti ora pentiti de' loro falli, di che certo van commendati, ma di cui non si posson celare i trascorsi. Eglino darian mala prova di pentimento, ove non li riprovassero eglino stessi, o che del sentirli scritti si spiacessero; quando il ricorvarli riesce ad ammaestramento altrui, e a scagionar la patria da ingiuste accuse d’iniqui. Pregio del pentimento è accontentarsi della gloria amara ma durevole dell’incolparsi, e il rifulgere anzi per umiltà d'accusa che per ostinatezza in impossibile giustificazione.
Certo la storia non tutte colpabilità registra, bensì quelle sole che son di scuola alle genti; né l'onesto scrittore le aggrava, ma le modera e sceglie; se non che innanzi allo interesse universale deve sparire la suscettibilità degl'individui; e sempre alquanti di questi van colpiti, siccome nelle battaglie la morte de' pochi assicura la vittoria de tutti. Ho la coscienza d'aver già ne’ passati racconti mitigato assai la severità sulle persone; e ancora il farò dove il possa senza mancare al debito mio, non ostanti i troppo spinti desiderii di chi vorria sentirne di più. Padroni o comandatoci non ho, non piaggio, non agogno, non temo, non ho stizze né simpatie, scrivo per dir vero. E questo per fermo prometto, che né suggerimenti, né incitamenti, né minacce ratterranmi dal seguire imperturbabile lo assunto del dire al cospetto de' contemporanei quella verità eh è da storia, cui tante cabale tentaron di mascherare e seppellire.
Ferocemente la setta travagliava il reame. In Sicilia il suo lavorio, l’arti del Mintho, il timore dei re offeso, le istigazioni faziose di Napoli e d’Italia, e le stesse offerte concessioni, tutte fur cagioni da tirare quei ribelli a partiti estremi, appunto quando pe' fatti del 15 maggio avrian dovuto metter senno. Abbruciati di denari, scialacquanti e sitibondi, si dettero a far moneta. Oltre il mezzo milione d’onze decretato a 15 aprile, il parlamento a 18 maggio ordinò porsene a disposizione de' ministri di guerra e finanze altre settecentomila, che si cavassero da affrancazioni di canoni, censi e rendile debite allo Stato, alle amministrazioni pubbliche, alle Beneficenze, e a' luoghi pii laicali, da nuovi imprestiti sul Gran libro, e da altre straordinarie tasse. Né posero sulle finestre, sulle botteghe, su’ soldi degl’impiegati. Da vendite, affrancazioni di censi e rendite ebbero in quei mesi di rivoltura un milione e centonovemila ducati. A 20 maggio decretarono che tutti i beni e rendite di commende e badie di regia collazione senza cura di anime, come venisser vacanti, s’aggregassero allo Stato; allo Stato andassero i beni della corona e di Casa reale, l’abbadia della Magione, quei dell’ordine Gerosolimitano, quei dei principi reali, di ordini cavallereschi, o altre simiglianti corporazioni non risiedenti nell’isola, e godute da persone non siciliane, le commende vacanti, e altri benefizii.
Re Ferdinando dolente d’avere a metter mano alle arme, non ismetteva le speranze di pace, né mancava tratto tratto di raccomandar moderazione. Tra l’altre un dì in aprile, ritraendosi in Sicilia l’intendente barone Malvica, avea mandato per esso insinuando al duca Serradifalco, allora presidente de' Pari, rattenesseli da partiti estremi, così da rendere impossibile ogni conciliazione, e sforzarlo a guerra. Questo duca già devotissimo, direttore generale delle dogane, poi consultore di stato, s’era gittato nella rivoluzione, per rabbia di non aver ottenuta la più volle chiesta fascia di S. Gennaro, e più anche codardia. All'ambasciata tremò tutto, si guardò attorno, temente le mura udissero, non volle finir di sentire; e lasciò andar per la china.
Dissi che dichiarato a 15 aprile la decadenza de' Borboni, avean preso a riformare la costituzione dei 1812, per porla come patto alla corona da concedere al nuovo re. I parlamenti fecero uno statuto quasi repubblica; i cui principali dogmi furon questi: «La sovranità è nell’università de' cittadini. Il potere di far leggi, interpetrarle, e dispensarne sta solo nel parlamento. Questo composto da rappresentanti del popolo è in due camere, deputati e senatori. Ogni cittadino maggiore di ventun’anni che sappia leggere è elettore. Compiuti i venticinque anni, possono esser deputati, e secondo otto classi indicate: compiuti i trentacinque, anche seder senatori, secondo altre otto classi. Un deputato per ogni comune di seimil’anime, due per quei di diciottomila, dieci per Palermo, cinque per Messina, cinque per Catania. I senatori centoventi, da eleggersi dalle associazioni distrettuali, secondo la popolazione. L’uffizio di deputato duran due anni, sei il senatore. Il parlamento unirsi di dritto a Palermo a' 11 gennaio in S. Domenico. La camera de' deputati, presenti sessanta, è legale, quella del senato con trenta. La sessione parlamentare durar tre anni. Tutte e due le camere aver l’iniziativa delle leggi, ciascun membro poterle proporre; poter essere sciolte dal re. Morendo il re, il successore pigliando il governo doversi far riconoscere dal parlamento, e giurare alle camere unite nel Duomo di Palermo, nelle mani dell’arcivescovo. Non poter esercitare nessuna potestà delegata ad esso dalla costituzione senza consultare il consiglio de' ministri. Poter far guerra e pace, trattati di alleanza e commercio, ma non avranno effetto senza l’assenso del parlamento. Egli non aver poteri fuori di quelli conferitigli dallo statuto, intitolarsi Re de' Siciliani per la costituzione del regno. La parola e la stampa libere, libero l’insegnamento, inviolabile il segreto delle lettere. Chiamati senatori a vita, oltre i centoventi; quei Pari temporali che siedono per la costituzione del 12, e che a' 15 aprile firmarono l’atto di decadenza de' Borboni.»
Cotale statuto che non s’appellava repubblicano, era ludibrio al nome di re; eppur non mancavano candidati. Fra gl’Italiani si nominavano Ferdinando di Savoia, Duca di Genova, secondogenito del Granduca Toscano, fanciullo di nove anni. E in giugno si sparsero per Palermo proclamazioni anonime a’ veri amanti della libertà, dove si mettevano innanzi tre di casa Bonaparte, cioè il repubblicano principe di Canino, il figlio di Beauharnais, Luigi Bonaparte; se non che notate parecchie eccezioni per tutti i suddetti primi quattro candidati, conchiudevasi a pro di quest’ultimo, liberale ramingo in Londra, dotto per lettere e scienze militari.
Benché quello stato fosse lana di regno, pur chi andava dritto alla mela non voleva sentir re; e gli altri volevanlo per ipocrisia, non per fede. Dissi esser iti commessarii per Europa, non riusciti a far riconoscere quel governo. La protettrice Albione avversava il nome di repubblica; e il Mintho sin da aprile avea scritto al Palmerston sulla necessità di far re il duca di Genova, e di sollecitare per evitar repubblica. Il Normanby ministro a Parigi scriveagli anche avvisar come il Mintho, e doversi presto riconoscere la indipendenza sicula venuta a monarchia; perocché, diceva, in quella lotta di repubblicani e costituzionali specchiarsi Francia dove molti s’esalterebbero d’un trionfo repubblicano. Dappoi il Palmerston con dispaccio al suo ministro in Napoli dichiarava: persuadessesi Ferdinando che qualunque re fosse scollo in Sicilia, o di Savoia o di Napoli, l’Inghilterra il riconoscerebbe appena salilo sul trono. A lord Abercombry ministro a Torino significava confidasse a quella corte, potere il duca di Genova accogliere o rifiutare la graziosa offerta, certo che la Gran Brettagna il saluterebbe re di Sicilia. E di tal dispaccio mandava copia al palermitano governo, per inanimarlo all’elezione.
Quindi i Pari a 16 giugno deliberarono dimandarsi a' ministri se avessero volte istanze a' principi italiani per concorrere al trono. Poscia comparse avanti Palermo due navi di Francia, i repubblicani speranzati brogliarono per differire l’elezione e guadagnar tempo, ma non riuscirono a muover la Guardia nazionale; ed anzi i contrarii tosto fecero una petizione, sollecitando il parlamento a nominare il sovrano. I dì 8 e 9 furon tumultuosi; ma a sera giunse il Fagan (Siciliano) intruso nella legazione inglese a Napoli; il quale con dispacci britanni affrettò l’elezione; e i repubblicani ebbero a cagliare. Gl’Inglesi temevan la repubblica, siccome quella che facilitava a re Ferdinando la riconquista.
Impertanto Mariano Stabile a 10 luglio nunziò a' Pari che Francia e Inghilterra riconoscerebbero l’indipendenza sicula appena eletto il re; ed esse consigliare prestezza; pertanto non essendo allora compiuto ancorato statuto, ambe le camere in sessioni permanenti compilaronlo e approvaronlo quel dì stesso e la notte seguente.
Prima la camera de' Pari, con più paura che fellonìa, senza votazione, con acclamazione; appresso quella de' deputati, proclamarono il duca di Genova e sua discendenza, secondo la statuto del 10 luglio, col titolo di Alberto Amedeo I. re de' Siciliani, per lo, costituzione del regno. Fu allora che (appellandosi Ferdinando quel Duca) il March. V. Mortillaro, Pari eletto gridò: Si tolga il nome Ferdinando perché Sicilia più non ricordi il nome del tiranno caduto. Sì fu fatto. Eran l’ore due dopo mezzanotte: incontanente campane a festa e luminarie; poi balli, parate civiche e militari, e Te Deum al mattino del 12 nella metropolitana. I vascelli francesi, alzata bandiera della rivoluzione italiana, fecero salve di cannoni. L’ammiraglio Parker dette il Porcospino, nave a vapore, per condurre l’Alliata a nunziare a Carlo Alberto l’elezione; onde ci potè passar per mezzo alla crociera napolitana impunemente. Nella stessa tornata dell’approvazione dello statuto e della elezione del sovrano scesero alla buffoneria di far la scimmia all'America, decretando che Ruggiero Settimo avesse franchigia del dritto postale sulle sue lettere private; e così fecero più ridicolo cotesto loro pupo assimiliate al Washington.
Ferdinando a 15 luglio con altro atto solenne rinnovò le proteste del 22 marzo, dichiarando nulli e illegali quelli atti del governo rivoluzionario. Poi al 20 pel mezzo del Ludolf nostro legato a Torino notificò: ch’ove contro il dritto il duca di Genova accettasse l’inconsiderata offerta, o che contribuisse a recarla ad effetto, egli re delle due Sicilie sarebbe nella necessità di troncar le relazioni col Piemonte, e fidando nel suo dritto si valerebbe di tutte sue forze, per sostenere l’integrità e il decoro della sua monarchia.
I ribelli procedettero ad assegnare al re eletto i beni de' Borboni, e scelsero personaggi che andassero a offerirgli la corona. Furono il presidente de' Pari duca di Serradifalco, il barone Riso, Pari e capo della guardia nazionale, il principe di Sangiuseppe, Pari, il marchese Spedalotto, podestà di Palermo, e i deputati Carnazza, Ferrara, Perez e Natoli. Il Baudin ammiraglio francese lor dette il Descartes piroscafo, col quale passarono avanti agli occhi di tre fregate napolitane. Sbarcarono a Genova li 21. Subito a Marmirolo ov'era Carlo Alberto, e quantunque non avessero udienza pubblica, pur furono bene accolti, e altresì convitati a regia mensa in Alessandria. Quel re s’apparecchiava già a presentarli al duca di Genova a Villafranca, quando appunto in quei dì la battitura di Custoza e la ritratta dal Ticino gh consigliarono prudenza. I commessarii voltarono a Torino, vezzeggiati da quei ministri, se non che, compresse dalle sconfitte le ambizioni, bisognò coprire il desio della sicula corona con modesti velamenti. Nondimeno non fu rifiutata. Il Sabaudo non osò stendervi il braccio, perché essa era troppo spinosa allora, quando non s’era ancora ben piantato il dritto nuovo, perché nel mondo pareva ancora turpe lo spogliare un re parente e italiano, mentre tanto si vagheggiava lega; e soprattutto perche il re da spogliare era forte, né s’erano per anco trovati i modi da far cadere a terra le baionette del dritto antico. Il Piemonte allora avea dodici anni di meno. Seguito l’armestizio di Salasco, e rientrati i Sardi nel loro territorio, tementi, non che pigliar lo altrui, perdere il loro, il duca di Genova si calò a 11 agosto a scrivere a' ministri torinesi: partecipassero a' Siciliani non poter egli accettar la corona, perché non si credea capace di cingerla: né voler provocare una guerra con Napoli, sì da dare all’Italia novelle calamità. Eppure tal lettera non andò comunicata; sì bene il Duca stesso disseto a voce il 27 di quel mese a' commessarii che gli presentarono l'atto d’elezione e lo statuto costituzionale. Non ardì pigliar con le mani quelli atti, quasi lo scottassero, e li fé dall'offerente Serradifalco deporre sulla tavola, infine per non romperla affatto conchiuse sottoporrebbesi alla decisione del padre suo.
Quell’atto del parlamento siculo dell’11 luglio infranse ogni pratica di conciliazione fra le due parti del regno, sbrigliò affatto le passioni rivoluzionarie nell’isola, e addoppiò l’indignazione de' soldati regi; che all’impazienza del vendicare l’offese, aggiunsero il desio di riporre il patrio Sovrano sul trono indivisibile degli avi suoi.
In Napoli si lavorava a ricostruire l’edilizio sociale quasi disfatto in quei pochi mesi. Il re a 24 maggio con una proclamazione a' Napoletani lamentava i fatti del 15. accennava a mitigarne le conseguenze, e invitava i cittadini a rinfrancar gli animi e a fidar nell'avvenire. Con decreto revocò quello dei 5 aprile ch’aveva alterato la legge elettorale del 29 febbraio, questa richiamò a vita; anche strinse a ducati centoventi il censo degli eligibili, e a dodici quello degli elettori, e die’ altre norme per lo squittinio e la pubblicità de' suffragi. Convocava pel 15 giugno i collegi elettorali; designava il 1 luglio per l’apertura delle camere legislative. Così non ostante la disfatta, la rivoluzione restava in piedi. Con altri decreti di quel dì si restituivano i seminarii a' vescovi, giusta il concordato con Roma, abrogato quello del 16 aprile; vietate le affissioni senza permesso per le mura di carte scritte o stampate, e lo spaccio di giornali e altri fogli non approvati.
Sciolta la Guardia Nazionale faziosa, dovea tosto farsene altra che fosse guarentigia di sicurezza,non cagione di pericolo; perocché prescritta dallo statuto, n’era necessaria la presenza a' collegi elettorali e alle camere; quindi a 8 giugno se ne decretò la formazione di dodici compagnie per Napoli, ciascuna di dugento uomini, divisa in tre battaglioni; da porvisi proprietarii, impiegati e maestri d’arti e di bottega, ch’avessero dato prova di devozione all’ordine legale; e fu ripigliata la stessa divisa ch’ebbe la Guardia di sicurezza, durata pacificamente tanti anni. Subito messa in atto, ai 14 di quel mese il Labrano governatore della città potè dichiarare ristabilito l’ordine, cessato lo stato d’assedio, e imperare le leggi. A’ 16 si nominò una giunta per discutere i reclami de' danneggiati al 15 maggio, e dar parere, per provvedere secondo giustizia a pro de' cittadini innocenti. Inoltre in quelle strette non aveva il governo abbandonato il commercio: a' 18 maggio s'era firmato un trattato col Belgio. Ma la fazione fiaccata sulle barricate, veggendo riconfermatala costituzione, e rispettate le franchigie, e quindi l’impunità, aderse le speranze; e dove ripigliò l’arme di ferro, dove quelle de' brogli.
Giuseppe Ricciardi sbarcato a Malta con altri fuggenti dalle barricate, si fe’ venir là a posta il Giglio delle onde, nave sicura, che li condusse a Messina. I siciliani avean fermato a 5 maggio l’armestizio con la cittadella messinese, ma vogliolosi d’averla, né osando lanciarvisi all’assalto, volevanla per blocco; onde avean necessità d’impedire a' legni regi di soccorrerla. Disegnarono pertanto di metter piede in Calabria, piantar cannoni sulle coste Reggiane, e sì dalle due bande dominare il Faro, da vietarlo ai Napolitani. Il parlamento avea già ordinato il passaggio in terraferma; già a 24 maggio quel ministro Paternò aveva ingiunto al Ribotti d’andarvi col Castiglia comandante la flotta sicula, per esplorare il paese e gli abitanti, e designare il luogo opportuno da sbarcare. Questo Ribotti, nato a Nizza, ebbe parte a' moti del 1831 nel Lombardo, del 45 ad Ancona, e del 45 a Rimini; condannato a morte, graziato e bandito, andò in Portogallo e Spagna a militare nelle legioni straniere; soldato di rivoluzione mondiale, accorreva dov’eran ribellamenti. Ottenne a Messina la cittadinanza insieme al Fabrizi, lancia del Mazzini; ma sendo egli uomo vanitoso e duro, incresceva anche al comitate palermitano, sopportato pel bisogno. Non se la sentiva di passare Io stretto; e sebben preparasse uomini e armi, e si vantasse aver promesso sin dal 43 a' Siciliani di correre in Calabria se ribellassero, pur cercava remore e dilazioni. Giungergli opportuni i fuorusciti da Malta, per lanciar sul continente il fuoco avanti a lui. Insieme al Piraino altro duce settario discusse col Ricciardi e suoi colleghi il da fare; ma ci restò fermo al non muoversi se prima non udisse Calabria sollevata. Il perché bisognò i congiuratori napolitani s’avventurassero innanzi.
Frattanto taluni volgean misteriosamente in fretta da Cosenza a Reggiti, e imo anzi tirò a Messina, dove confabulato col Ricciardi, riportò a suoi la certezza di pronto aiuto. S’era accozzata un po’ di gente a Melazzo. quando i fuorusciti traversarono il Faro, tra essi il Romeo, il Mileto, iI Torricelli, Eugenio de Riso, e ’l Plutino, quello che poco prima il ministero regio avea mandato pacificatore a Messina, ora andava sollevatore in Calabria. Ultimo il Ricciardi in barchetta passò a' 31 maggio, accolto a Villa S. Giovanni da venuti da Cosenza, e da' consapevoli di Reggio, guardato male da' paesani, che memori delle sventure dell’ultimo settembre pronosticavan peggio. Restò stupito che niuno al vederlo si levasse armato a seguitarlo; onde volse a Monteleone la dimane, dove trovò pur meno. Udì poche grida di favore a Nicastro, e corse a sera a Catanzaro. Quivi il comitato di sicurezza proibito da' ministri non s’era sciolto, sornione anima il Marsico intendente; v’era inoltre la società evangelica degli artigiani; però gli fecero rumore attorno. Nulladimanco dichiarato il proposito del l’alzar lo stendardo, gli dissero andasse a Cosenza: Cosenza cominciasse, Catanzaro seguiterebbe. Così cospiralo alla sicura nelle mura dell’intendenza, ei lasciò colà il Torricelli, e col Riso e ’l Mileto volse a Cosenza. V’entrò sull’imbrunire del 2 giugno, festeggiato da fuor delle porte, e poi con fiori e luminarie; ei dal balcone dell’intendenza concionò alla piazza, assicurando trionfo certo; scagliando ingiurie al re, tutte cosi ottime promettendo. Poco stante il sindaco e altre persone sentiate pregáronlo sostasse dall’impresa rischiosa e ingiusta. Rispose: rischio o non rischio, giusto o non giusto, farebbe; non saper neanche se l’altre provincie si moverebbero, ci si moverebbe solo, tratto il dado. E per questa gente che vuol redimere l’umanità che è l’umano sangue.
Incontanente creò nuovo Comitato di salute pubblica, cioè esso, Raffaele Valentini, Domenico Mauro, ed Eugenio de Riso. Dettero questa proclamazione: «Gli enormi fatti del 15 maggio, e i conseguitali atti distrutturi della costituzione han rotto ogni patto fra principe e popolo. Però noi, vostri rappresentanti, ci facciam capi del movimento calabrese; e afforzati dal volontario soccorso de' nostri fratelli di Sicilia, incuorati dal grido unanime d’indignazione contro il pessimo de' governi certissimi d’essere interpetri del pubblico voto, memori della solenne promessa fatta dal parlamento nella sua nobile protesta del 15 maggio. cioè di riunirsi di nuovo come il potesse, crediamo debito invitare i nostri colleghi a convenire il 15 giugno a Cosenza, per riprendere le deliberazioni interrotte da forza brutale, e porre sollo l'egida della assemblea nazionale i sacri dritti del popolo napolitano. Mandatarii della nazione, chiamiamo intorno a noi, invochiamo a sostegno della libertà la fede e lo zelo delle milizie civili, che sostenendo la santa causa. per la cui tutela siam costretti ricorrere alla suprema ragione dell’arme sapran mantenere la sicurezza de' cittadini, e ’l rispetto alla proprietà.» Riprodussero quest'alto gli altri comitati calabresi, quel di Catanzaro, e quello poi ch'eressero a S. Eufemia Casimiro de Lieto, Antonino Plutino e Stefano Romeo; ma quei deputati sognatori della protesta detta del 15 maggio non si mossero; e anzi ubbidirono dappoi al decreto regio. elio convocava le camere pel 1 luglio.
I Cosentini a quell'editto dolenti del vedere la città sede di ribellione, la dimane 3 giugno mandarono personaggi de' principali a quei del comitato, pregandolo il disciogliessero; ma con mali modi, massime dal Valentini, furon respinti. Oltre i quattro detti, s’aggiunsero al comitato altri quattro, Stanislao Lupinacci, Francesco Federici, Giovanni Mosciari e Benedetto Musolino, con segretarii Biagio Miraglia, Giulio Medaglia, Domenico Campagna, Luigi Miceli e altri. Primo presidente fu il Valentini, ma ito egli il 4 a far l’intendente col titolo di Commessane del potere esecutivo, il surrogò il Ricciardi. A’ 9, diviso il comitato in quattro dicasteri, Guerra, Interno, Giustizia e Finanze, andarono al primo il Ricciardi e ’l Musolino, al secondo il Mauro, al terzo il Federici, all’ultimo il Lupinacci. Questi sovraneggiavano, tenendo giù a difesa una mano de' più arrabbiali, con un Bruno de Simone a capo. Fecero un giornale L'Italiano delle Calabrie compilatore il Miraglia, comandata l’associazione accomuni; il quale portava i bullettini del comitato, filippiche contro il governo regio, notizie bugiarde di rivolture in tutto il regno, di liberali da ogni provincia accorrenti, di sedizioni europee, cose sacrileghe dette sante, sicurezza di vittoria, turgidezza di parole, traffico di menzogne. Per imbertonire il popolo. ribassarono d'un quarto il prezzo del sale, abolirono il gioco del lotto; quello piacque, questo no. Rompevano i telegrafi, impedivan le poste, e facevan credere loro invenzioni. Deponevano, creavano impiegati civili, militari e giudiziarii, scarceravan delinquenti, carceravano o bandivano realisti, e sinanche autorizzavan nozze contro legge. Ordinarono al sindaco di Sicigliano sposasse certi Carmine Bruni e Carolina d’Elia, dispensando dal consenso de' genitori. Con tutte spezie d'illegalità, spingendo le popolazioni a ribellare di buona o mala voglia, temendone reazioni,mandavan masnadieri in colonne mobili per contenerle e costringerle al voler loro.
Presero quant’era moneta nelle casse pubbliche e di Beneficenze e mense vescovili. Al vescovo di Cassano presero cinquemila ducati, altro ad altri, minacce di carceri a tutti. Riscossero le fondiarie, chiesero danari a' cittadini agiati, poi taglie, requisizioni, aperte rapine a' danarosi, con busse, sequestri, carcerazioni e peggio. Arme pigliavano dove né vedevano, spogliavan gendarmi, doganieri, littorali; e udito star intatti i magazzini del partito 2.° battaglione cacciatori, il Mileto con sozza bordaglia andò ad aggraffarli, dove il più andò a ruba per uso privato. Egli pure a' 4 giugno si cacciò nell’ospedale civile, aggredendo quanti eran rimasti soldati infermi. Vuotarono di polveri e altre munizioni tutti i luoghi di deposito. Per aver nomini, seduzioni e violenze d’ogni maniera; presero Guardie nazionali e guardaboschi, richiamarono soldati congedati, ordinarono l'armamento generale, prescrissero a tutti i comuni mandar la gente a Cosenza e Catanzaro. Giravano commessarii a posta; entravan ne’ paesi, gettavano il bando, congregavan la popolazione in piazza, sorteggiavan gli uomini, promettevan terree danari, pigliavanli, a furia spedivanli al campo. Chi a liberarsi pagava, chi non poteva patia violenza; madri, figli, fratelli a piangere, a strillare; abbracciamenti, imprecazioni, bestemmie; donne carcerate, padri battuti, feriti,qua e là minacce di fuoco alle case. Così di mal volonterosi facevan moltitudine ambigua o nemica. I caporioni menavanli a suon di tamburi, con bandiere a tre colori, schieravanli in piazza a Cosenza; e il Ricciardi dal balcone salutavan fra gridi d’Italia e libertà. Unirono nelle Calabrie ottomil'uomini, con un battaglione di Greci Albanesi. E il Ricciardi infatuato si voleva dichiarare dittatore; ma non vennegli consentito.
A sic tirare il popolo dicevano e stampavano morto il re,caduto il governo; e a mostrarlo vero, da per tutto spezzavano stemmi e statue regie, talvolta con beffardi e osceni modi. In Pedace, condannale a fucilazione le statue, vollero un frate cappuccino facesse l'alto del confessarle; sacrileghe e giocose efferatezze, in Saracena medesimo supplizio di statue, e processioni mortuarie con miserere. In ogni terra Morte al tiranno! Chi ricusava dirlo carcerato o morto; se fuggiva, carcerati i parenti, malmenata roba e casa. Sevizie e morti a realisti. In Cassano due mendichi, dicendoli spie, uccisero, mentre fingean portarli in prigione. In Rossano certi perversi a infierire contro famiglie agiate sparsero voci di veleno; a 11 giugno imbeccano a un fanciullo aver trovata una cartolina di tossico sotto le finestre de' Mariucci, questi a scamparla fan rumore, e il fanciullo volta a dire averla avuta da un Vincenzo Federico. Ecco a furia di popolo è preso costui; né sene protestare innocenza avanti la croce; martoriato non regge, e per salvar se nomina altri due, che incontanente presi, pesti, seviziali. negan forte. Anche il Federico si disdice, dichiara svelerebbe il vero, ma che vale? Chi non volea la verità si sapesse, commove la plebe; esce il grido Morte agli avvelenatori, e tutti e tre, rei o non rei, strascinati fuor delle mura son morti, e lasciati cadaveri insepolti. La guardia nazionale promotrice, esecutrice, e divulgante quei tre aver dal governo regio il mandato d'avvelenare Rossano. In S. Demetrio poco mancò fucilassero l'arciprete ch'avea dal pergamo predicato pace; il salvò la popolazione commossa a furore. Del resto ogni libito lecito, di tutto impunità; e 'l Ricciardi a chi si lamentava rispondeva storcendosi quella esser Evoluzione.
A Catanzaro per fare lo stesso che a Cosenza, chiamaron gente nella chiesa dell’Immacolata, e proposero governo provvisorio: chi plaudì, chi negò, chi tacque. Sorse un Gaetano Pugliese a mostrar danno e fatto il lanciar la città nella rivoluzione; ma i congiurati con alte grida gli puntarono gli schioppi al viso, e fu fatica a salvarlo; però il tumulto fugando la gente fe cadere il disegno. Invece convocarono moltitudine a i giugno avanti il palazzo dell’intendenza; e fatte arrivare mentre concionavano le novelle di Cosenza ribellata, rompon le chiacchiere, e fra' plausi n’esce il comitato. Il Marsico intendente, mutando mantello, né capo; secondo il Morelli ricevitor generale. Richiamati congedati, ordinano bande, accampamenti a Maida, a Curinga, e su’ lidi di Pizzo e Tropea, capo un Francesco Stocco da Nicastro. Medesimo modo di far uomini, arme e danari come Cosenza; stesse tasse, violenze e rapine. Ma riluttati molti. Il distretto di Cotrone va lento; moltissimi paeselli scacciano i commessarii, i presi a forza disertano; i comitati eletti per paura non fan nulla, e si sciolgono. Credeva rimediare Eugenio de Riso con prediche nel duomo di Catanzaro e stampe virulenti.
Nel Reggiano più fiaccamente. Volevano i graziati pe' falli dell’anno innanzi tentar cose grandi, ma non trovarono seguenza. Vennevi da Palermo di disertore Giacomo Longo fatto colonnello; il quale sbarcato a Villa San Giovanni, e congregati i faziosi, vide niente esser da sperare in Reggio, contenuto da fievolissimo presidio. Di nascoso i congiurati piegarono a Filadelfia, dove s’andava ragunando tutto lo sforzo della setta. Giunti i fuorusciti da Roma, a S. Eufemia s’atteggiarono a governo, ed elessero un Commessario generale, il quale per non avventurarsi ricusò. Minacciavan gli abitanti, ordinavan sequestri di casse pubbliche, dispregiati da tutte bande con nessuna ubbidienza. Quindi lamentanze e rimprocci; e da Sicilia e da' nostri fuorusciti piovevano indarno stampate querimonie. Le munizioni mandate dall'isola andavan respinte indietro dagli abitanti a Castelnuovo. Non riuscirono a subornare né a sforzare gli artiglieri littorali. Bensì dove potevano abbattevan gigli, frangevan e stilettavano statue, con condanne burlesche; disarmavano realisti, battevanli, ferivanli, e ligati mandavanli a Messina. Fecero una scorreria sull’Aspromonte, in non più che quattrocento,Raggranellati qua e là,quindi piantaronsi a campo sui piani della Corona. V’andaron pochi tristi prezzolati da Villa S. Giovanni, Oppido, Fiumara (tolta la cassa comunale) Pezzo, Gallico, Sinopoli, S. Stefano, Plaisano e S. Alessio, pochissimi da Reggio, e cauti, di notte titubanti, e chi a mezza via retrocedeva, chi dal campo disertava.
I ministri del re a spegner presto quel fuoco pensarono mandar soldati, quei più che si potessero in quelle angustie; mancando gli andati in Lombardia, e gli sparpagliati per le provincie. Risolsero volgere due schiere per terra, da tenere in riguardo, passando, il Salernitano e Basilicata; e altra per mare, da urtar nel mezzo Calabria. L’ultima era capitanata dal brigadiere Ferdinando Nunziante, ch’andava a porsi sotto il comando del maresciallo Palma sedente a Reggio. Aveva poca gente: il 5° di linea, un battaglione del 6.°, il 6.° battaglione cacciatori, e quattro cannoncini da montagna, men che tremil’uomini. Partito da Napoli a 1° giugno, sbarcò il dì appresso a Pizzo; e corse a Monteleone, dove si fermò a studiar lo stato del paese. Altra schiera di duemila col brigadiere Busacca sbarcava a Sapri nel Salernitano il 10; e mossa per Campotenese e Castrovillari, l’occupò senza colpo; che bene il fellone sottintendente co' pochi faziosi vi volea far le barricate; ma il popolo forte ostando, lui e quelli fece fuggire. E altri duemila col brigadiere Ferdinando Lanza scendevano a Lagonegro nel Pontentino. Il Nunziante avea dato fuori un editto il 7, promettente perdono a chi posasse l’arme, e ne fe' altro il 16, senza frutto.
L’arrivo de' Borboniani fu un fulmine a capi de' Calabresi; ché mentre si preparavano ad aggredire Napoli, si trovavano aggrediti. Con ogni sforzo s’ingegnarono a rivoltar Potenza e Salerno alle spalle de' regi; volevan mandare il Carducci a sollevare il Cilento, s’arrabattavano con danari e promesse a far disertare i soldati, temean de' realisti del paese, e della contrarietà o inerzia del popolo; però a sospingerlo non risparmiaron promesse di larghezze e di terre; e a torgli ogni speranza di perdono fean trascendere le plebi ad atti sozzi ed efferati contro il nome e le immagini del re, dove acciecate, dove trafitte, dove trascinate pel loto e seppellite. Poi alla caccia d'uomini per case e campi: de' fuggiti pigliavan le donne; chi trovavan celati in monti e boschi quasi sbranavano. Con minacce di fuoco e morte aggraffavan giovani e vecchi, e in frolla spingevano agli accampamenti, ch'eran molli: uno a Paola, duce il Mileto, altro con un Lamenza a Tiriolo, altri a Campotenese; i più ingrossavano nel distretto di Nicastro. a Filadelfia, a Curinga, e in quei paeselli sulla via sino all'Angitola.
Pochi Siciliani scesi alla spicciolata nel Reggiano seguirono il Longo, che pei’ le coste di Tropea s’era condotto a Cosenza a far da duce. Accorsero numerosi su’ piani della Corona alloggiati a serrare il Nunziante, ca dargli nelle reni ov’ei voltasse ver Cosenza. Traevan cannoni da S. Lucido, da Cetraro, da Amantea, Tiriolo, Gizzeria, Caposuero, Squillace e altre parti, benché vecchi e maladatti, bastava il dir d’averli. Saccheggiarono io stabilimento alla Mongiana, sopraffatte le poche guardie, malmenato ogni cosa. Posero quella gente ragunaticcia su per le rupi, dietro muricce e ripari, ad aspettarvi i Regi; e non è da dire quanti ne’ dintorni facessero sperperi e devastamenti. A preparar difese tagliavan alberi, guastavano strade, abbattevano ponti, insaccavan terre di fertili campi, pretesto la necessità, ragione la forza, scelta la rabbia. Denari a carra arrivavan da Cosenza, e sparivano, e se ne richiedevan sempre; e il comitato con tutte le sue estorsioni non avea più dove dar del capo. Il più ladro fu il Mileto. Poi con busse, ferite e male parole spingevano i villani a lavorare, e al guasto del proprio paese. Contro i temuti realisti ogni persecuzione eccellente; in ciò spietatissimi quei commessarii. Quel Vito Porcaro, ribelle di Ariano, venuto con gli ausiliarii di Sicilia, chiamavan Maggiore, col carico di vigilar le strade, e della presidenza d’un tribunale straordinario; pelò carceri, esilii, morti, con giudizii sommarli, per sospetti, per vendette, per libidini e ferinità. Inoltre il Valentini commessario del potere esecutivo stese una lista di settanta da sterminare; e perché i colleghi non volentisi macchiar di quel sangue ostavano, egli lasciò il maneggio a' 25 giugno; e ’l surrogò Gaspare Marsico. Le proclamazioni del Nunziante proibivano, confiscavano; e lui ingiuriavano e infamavano con gli scritti: dicevanlo belva accovacciata in Monteleone.
Questo generale aspettava colà, che non gli parea con sue poche forze cinger tanto paese; laonde chiese più gente al governo, e indicò i luoghi dove mandarne. Oltracciò udendo la ragunata de' Siciliani a Melazzo, scrisse al general Palma in Reggio, che impedisse il passo, e inculcasse alle nostre fregate in crociera di catturare ogni legno avverso; ma fu indarno.
Quei di Catanzaro allibiti per la vicinanza de' Regi, scrivevano acremente a Cosenza mandassero aiuti, la sorte decidersi sulle pianure, qui la guerra farebbesi grossa: poi lor parendo che poco si provvedesse, volser gli occhi all'aiuto di Sicilia, nel quale soltanto speravano salvezza. I fuorusciti spezialmente sì le pratiche strinsero, che tirarono il Ribotti con tutte le sue trepidarle ad avventurarsi. S’imbarcò a Melazzo il 12 giugno con seicent'uomini e sette cannoni, in due legni a vapore, il Vesuvio e ’l Giglio delle onde; ma scorte navi regie a guardia sulla costa calabresi, die’ ratto indietro a Stromboli. Quivi tumultuarono parecchi de' Palermitani, che non avean voglia di far guerra, pur forte sconsigliati del farla da un Bruni; onde se ne tornarono a casa. S’aggiunse il ciel turbato e ’l mar grosso, tristi presagi: e fu a un pelo che tutto il resto non si ritraesse in Sicilia; se non che calmati a un tratto i venti, istigati da' fuorusciti. si spinsero. Giunsero avanti Paola senza sinistro all'alba del 15, dove con gran festa presero terra; con essi il Carducci, il Petruccelli e altri de' congiurati. Ed ecco il comitato cosentino te né strombetta così lo arrivo: «Una gran nuova! esultate. Questo amplesso santissimo de' due popoli, che poca acqua divide, farà fremere di gioia ogni cuore italiano, e farà tremare sul trono insanguinato e vacillante il tiranno di Napoli.»
Il Ribotti giunse a Cosenza la sera seguente, e fu in piazza un baccanale di Viva e di Morte. In Catanzaro sonarono le campane a festa. Con l’arrivo di quelli eroi si tennero già vincitori; e infatti riuscirono a tirar altri a loro. Corse in quei festeggiamenti una voce del proclamarsi la costituzione del 1812; e forse fu (come si disse) ciò sparso da' realisti, per divertire le idee repubblicane; certo il comitato l'ebbe a male, e stampò un bullettaio assicurando fermo il programma dato. La dimane, che fu il 16, dettero al Ribotti il capitanato di tutto l'esercito calabro; così col nome di uno straniero attutendo le gelosie di parecchi indigeni che v'aspiravano. Egli quel mattino stesso fece una proclamazione. il giorno dopo celebrarono funerali a' morti del 15 maggio; e su’ feretri de' Bandiera giurarono vendetta, e di vincere o morire: cose sceniche, speciali di questa età. Un Micieli prete apostata disse una orazione concitatissima, tutta vilipendio al re; però colà molto laudata come santissima.
Fu capo dello stato maggiore Mariano delli Franci altro disertore. Fecero dell’esercito due divisioni in quattro brigate e un corpo d'artiglieria; una ebbe il Longo ch’ordìnavala già nel Catanzarese; l’altra mosse coi Ribotti incontro al Busacca verso Castrovillari. Partendo la sera del 17, lasciò altra scritta a' Cosentini: «Voi desiderate tenerci in mezzo a voi; anche noi Siciliani forte il vorremmo; ma la comune causa né impone dilazione breve, che sarà consacrata all'esterminio d’una delle falange del tiranno. Combatteremo e vinceremo; poi torneremo a voi,o generosi, e daremo il più sacro giuramento de' popoli, sulle nostre arme fumanti del sangue de' realisti.» Andò co' suoi e con altri cinquecento Calabri verso Spezzano Albanese, ch’è in alto tra Cosenza e Castrovillari; occupò le gole di Lungro e Cassano, e così credette aver serrato il Busacca. Ma egli avea gente si svogliata e mala che il Fardella palermitano né volle lasciare il comando, perché, disse, indisciplinata, inobbediente, e non sapersi che valore se ne potesse sperare nella pugna. Presto lo stesso Ribotti né fu stracco. Lasciati i gridi di piazza, e visti i campi, s’accorse tosto del mal passo, e cercò Mandarsene via; il perché scrisse rapporti neri a Palermo: «I Calabresi non voler sapere di rivoluzioni, starsi coll’arme al braccio a guarii dar chi venisse, sendo guardie nazionali sospinti a forza, non uomini decisi a liberare la patria; il paese quieto, i retrogradi alzar le creste, i Regi ingagliardirsi, egli mancar di simpatie, d’aiuti e di munizioni. Volersi ritirare, ma difficile in luoghi avversi e per mar nemico il passaggio. Mandassero legni a pigliarlo sulle spiagge di Corigliano, per salvar sua gente e altri capi della rivoluzione dalla collera del deposto regnante su quelle belle e maltrattate contrade. In tal guisa la consueta logica settati ria diceva i sudditi maltrattati e comenti, e il re despota; poco dopo sperimentò con non meritato perdono la collera di lui.» Né stando a lettere solo, mandò un certo Scalia detto maggiore in Sicilia, come andasse ad affrettar gli aiuti, invero a sollecitar la richiamata. E intorno a quei dì, in tanto disordine d’arme e pensieri,il comitato gli impone ad assalire i Borboniani; dicente sgomentato il re, propensi i soldati a gittar l'arme, e che, dopo la vittoria certa, esso proclamerebbe sul campo il governo provvisorio, e marcerebbe sopra Napoli.
Colà erano intorno a quattromila co' principali capi, il Mauro, il Petruccelli, il Mileto e i più arrabbiati; arme a dovizia, barricate da tutte vie, vettovaglie abbondantissime, ché rubavan mandre d’armenti, né le mangiavan solo, ma le vendevano, in questo bravissimo come in tutte rapine il Mileto. Tanto eran cotti dalle loro fantasie che il Mauro sovente co' suoi favellava sul modo da spartirsi l’alte cariche della repubblica da proclamare. Poi del Ribotti, che si stringea nelle spalle, prese sospetto, e l’accusò. Fortuna a meglio infatuarli lor die un favore. Il Busacca stampò un editto richiamante all’ordine, poi come a' 21 giugno i ribelli depredarono una casa presso Castrovillari, egli n’uscì la notte con una colonna, e assali alla carlona Spezzano Albanese; dove, sendo gli avversi asserragliati e postati, e forti di numero e artiglierie, ebbe a dare addietro.
Pochi giorni appresso giungeva il brigadiere Lanza con l’altra schiera; perlocché i sollevati s’ingegnarono a impedirgli d’unirsi al Busacca; ruppero il ponte sul Cornuto nella via consolare, sfossarono i passaggi per la valle S. Martino. Il generale a' 30 spinse un reggimento sopra Mormanno, ed ei fingendo valicare il fiume gli die’ tempo d’occuparlo, indi lanciandosi avanti, superò le gole di S. Martino, e sboccò a Campotenese. I ribelli fatta un po’ di testa, fuggirono alle vette. Un’altra avvisaglia era seguita il 26, e un’altra il 27, ambe presso Castrovillari, di poca importanza, ma statovi rotto il Mileto, questi, tenuto il Rodomonte, non si fe’ più vedere, il che svogliò tutti gli altri dal fare a schioppettate. I Calabresi colla scusa della ricolta del grano se n’andarono pe fatti loro. Ciò, e quelle scaramucce spaurirono i più spavaldi. Il Mauro sparlava forte del Ribotti, accusavalo di non essersi valso del primo ardore, e anzi dopo ributtati i Regi aver chiamato a raccolta, ma egli tanto di sé vantatore che dicea voler co' suoi Albanesi accoppar l’infamissima truppa del Busacca, si die’ per malato, e cedé il comando al Fardella. Il Carducci raggranellò un cento uomini, cui appellò Compagnia della morte, con croce rossa al petto e nera al braccio, e si ridusse a Lungro, come per passare in Basilicata, ma pur da quelli abbandonato, navigò invece quasi solo, come dirò, alle per lui infauste spiagge di Sapri. Tutto l’accampamento di Campotenese sparve, e i generali Lanza e Busacca si congiunsero il 3 luglio a Castrovillari.
Anche senza questo le popolazioni tentennavano, e reagivano. Primi a disertare dagli accampamenti furono quei di S. Giovanni in Fiore alla svelata, altri di nascoso; quei che restavano traevan colpi addosso a' partenti. I Sangiovannesi biechi rugumavan moti reazionarii, rattenuti con qualche assassinio da' rivoltosi; i quali istituirono un tribunale da condannare i realisti, e fucilarli in ventiquattr’ore. Per contrario in Castiglione i villani a suon di campane a stormo disarmarono i Nazionali. I fuggenti da Campotenese con paure, rapine e vendette, addoppiavan la contusione e l’anarchia in quei miseri paesi, e chi di quelli vedea minar le cose, e sé perduto, volea i vescovi ne’ duomi bandissero la guerra al re, come si pretese a Cosenza e a Rossano. Impotenti le efferatezze, ricorrevano alle ipocrisie.
Intanto a rovescio i giornali napolitani predicavano prodigiosa la rivoltura, unanimi all’arme i popoli, disertare i soldati, afforzavanlo con finte lettere di Calabria, e menzogne di telegrafi. Il Governo scontento che il Nunziante stessesi immoto a Monleone, forte il sollecitava. Questi aveva avuto a' 16 giugno altri due cannoni da campo, a' 23 gli arrivò un battaglione di fanti carabinieri, e la dimane quattro battaglioni da Giulianova,dì quei tornati d’Italia; cioè i due del 7. di linea, uno del 5° e il 5.° cacciatori. Egli molto accusato dalla stampa pe' fatti dell'anno innanzi, se n’era impensierito; stavasi perplesso, avria voluto anzi con dolcezza che con arme vincere; e conoscitore de' luoghi e degli abitanti, e della natura delle bande a massa, quelli volea rassicurare, queste stancare. Aspettato venti giorni, da ultimo si levò designando scacciare il nemico, congiungersi a' generali Busacca e Lanza, e movere insieme sopra Nicastro.
Monteleone sta in cima d’alta collina. Di là vedi a tramontana la linea del telegrafo per ampio vallone risalire su vecchia non carreggiabile strada alla catena di monti, ove sono Francavilla, Curinga, Filadelfia, e poi Maida, e S. Pietro. Vedi a oriente quello stesso vallone circuire il paese, e giù verso nord-est Monterosso, e più da vicino S. Onofrio, Stefanaconi, Piscopia, ed altre ville. A mezzodì sta la via consolare per Mileto. Uscendo dalla città a ponente, dopo sei tortuose miglia, scendi al sentiero traverso che va a Pizzo; donde la strada maestra seguita sino al passo del Calderaio, ov’è un ponte, e si divide da destra a Catanzaro, e da manca a Nicastro. Uscendo a settentrione nelle sottoposte spiagge, vedi in basso Bivona e Pizzo; di quà si arriva al ponte sul fiume Angitola, di là alla banda occidentale de' colli di Curinga, Francavilla e Filadelfia. In somma la via consolare, e quella vecchia interna, partendo da Monteleone, son da tenere come due linee di operazioni guerresche idealmente parallele, o come una linea d’operazioni doppie. Quindi il Nunziante volle movere per quelle due bande a Filadelfia, primo quartier generale de' ribelli, a guadagnare i piani di Maida.
Uscì la sera del 26 in due colonne: esso con duemila verso Pizzo, accampò avanti l’Angitola; altri mille e dugento, cioè il 6.° battaglione cacciatori, e un del 6° di linea fidò al maggiore Grossi, per la strada vecchia, ad assalire da tergo Filadelfia; ambo, spazzato tutto il paese, dovean ricongiungersi a Maida. Il generale all’alba del 27 con pochi colpi rovesciò gli avamposti avversi su’ monti, e prese due cannoni ch’avean dietro il fiume postati fra le fratte; poi i cacciatori perseguitandoli li snidarono da ogni greppo; così proteggendo il grosso della colonna procedente sulla strada, mentre l’Archimede e l’Antelope navi a vapore lentamente dal mare costeggiavano. I ribelli fer testa un po’ ad Apostoliti; incalzati indietreggiarono a Curinga, dove pur alquanto si difesero; ma più gagliardemente a Campolongo presso Bevilacqua, ché pel soprastante bosco, e per la scabra collina avevano vantaggio. I soldati stanchi del cammino e pel meriggio pur reggevano, per disciplina, per onore, per amore al dritto, quantunque fieramente da reiterali colpi sulla via percossi; ma i faziosi imbaldanziti per quel po’ di ventura osarono scendere al piano, e vi trovarono morte quasi tutti, fra' quali un Mazzei noto repubblicano, e il Morelli ricevitor generale di Catanzaro. In quella stretta avvenne che un tenente Zupi, già carbonaro del 1820, e dimesso, richiamato allora per sollecitazione del Nunziante, sia viltà,sia ubbidienza alla setta, trasse con seco una mano di soldatesche, e coi cavalli del generale e del suo stato maggiore uscì di strada, e per la sinistra fuggì a Pizzo, dove mostrando i cavalli vuoti, divulgò disfatta la schiera, morto il generale, tutto perduto. Questo fu un saggio delle tante vittorie strepitose delle rivoluzioni viste da' nostri genitori e da noi. Ma frattanto i Regi superati gli ostacoli, scacciavan gli avversi di balza in balza; e bravamente fugatili affatto,sull’imbrunire sostavano a Maida. Quivi s’accamparono all’aperto; ché il duce per umanità, non volle entrare nel paesetto co' soldati inferociti da lunga pugna. S’era combattuto ne’ luoghi stessi dove i Francesi col Regnier nel 1806 fur vinti dagli Anglo-Siciliani; ma allora i Calabresi avean pugnato pe' Borboni.
Invece il Grossi non bene si portò. Senza opposizione sino a Filadelfia, di quà ebbe anzi deputazioni paesane con belle parole; perlocché mandò gente ad occuparlo; ma entrati appena, vennero percossi da finestre e da usci, e cominciò una lotta col danno de' faziosi. Presi cinque cannoni e molte arme e munizioni, anche il paese ebbe alquanto fra quelle stuzzicale passioni a patire. Poi per la stanchezza e l'ora bruna si riposò sul luogo; e al mattino il Grossi che dovea proseguire la via, s’intrattenne invece tutto quel dì 28 cercando vettovaglie; a sera sentendo aver mancato, anzi che avanzar verso Maida com'era ordinato, senza cagione rivoltò indietro a Pizzo; e vi trovò le false nuove di Nunziante disfallo, cui, veggendo i fuggiti e i cavalli, tenne per vero. Peggio che mentre i soldati dentro la città riposavano, partì un colpo da una casa presso la piazza, che uccise la sentinella del 6.° di linea. Si seppe dappoi traesselo un fatto prigione a Filadelfia, creato di certo Stillitano possidente in quei luoghi. Fu scintilla per incendio. Al vedere il morto, i soldati inviperiti pel fresco caso di Filadelfia, gridando tradimento, detter di piglio a' ferri. Trista ora per Pizzo: case e masserizie manomesse, gl'infelici abitatori tremanti, fuggenti, in balia di cieca, furibonda soldatesca, patirono ogni danno. Gli uffiziali con pericolo tra' colpi, lanciandosi tra percussori e vittime, più tempo s’affaticarono, e a stento salvarono la città da ruina. Ta' fatti di Filadelfia e Pizzo dettero lungo terna di lamentazioni a' veri colpevoli, cioè a quelli che con sedizioni avean turbato la pace di quiete contrade.
I fuggiti da Campolongo sparpagliati pe' campi d’attorno andavan predando alla grossa. Anco a S. Severina tolsero danari dall'azienda vescovile, e intanto si van lavan di vittoria; ma smentivanli i volti. Il Nunziante aspettato a Maida tutto il 28, né veggendo il Grossi, né tampoco per corrieri avendone nuove, temé di sventure, e mutò il divisamento primiero. Già le popolazioni allo sbandamento de' ribelli cominciavano a levare il capo; ond'egli scorta la rivoluzione ita via da quel territorio, scrisse al vescovo di Nicastro, compiesse con la pietosa parola cristiana ciò che Marte aveva iniziato, e persuadesse i faziosi unica via di scampo esser la clemenza regia, non lanciassero sulla misera patria maggiori mali. Al mattino, 29 giugno, ricalcò in pace la strada fatta combattendo due dì prima, tornò la sera a Pizzo, cui trovò atterrilo, il Grossi fuori a campo, i soldati irati, le male nuove a cento a cento, e i giornali a gridargli la croce, e a sfatarlo disfatto e morto. Seppi inoltre esser iti a Monteleone ed a Mileto agitatori per reclutarvi soccorsi; il perché stimò riprendere la posizione di Monteleone; fecelo, e vi disarmò la guardia nazionale.
I capi della rivoluzione sentendo la ritratta di esso da Maida, dettero credenza alle voci di vittoria sparse da' fuggitivi; e sicurati d’avvantaggio dalla falsa nuova che lor né recò un Gabriele Gatti, né stamparono i bollettini a Cosenza, e fecero luminarie. Ma mentre festeggiavano si compieva lo sbandamento del loro esercito. Il Ribotti, restato quasi solo co' suoi Siciliani, scrisse la sera del 1.° luglio al comitato, dover egli abbandonare Spezzano Albanese; perché spariti i Calabri da Campotenese, poteva esser schiacciato da' Lanza e Busacca congiunti, e incontanente si mosse. Giunta tal lettera a Cosenza il 2, mentre ancora durava la letizia, fu grande sbigottimento. Tentarono alzar barricate e altre difese, e sollevar la popolazione, gridando per le vie morte al tiranno, e a' realisti! Barricate in fatti cominciarono la dimane, e posero guardie a spaurire l'arcivescovo, che per salvare la città dalla guerra civile sclamava pace, ma potendo più la paura che la rabbia, il comitato lo stesso dì 3 sloggiò da Cosenza, rapinata tutta la polvere da sparo del castello. che valea quasi ottomila ducati. Fu chi voleva armare i carcerati, e dicevalo carità patria; fra' primi il Mosciari, perché col ritorno del dritto temeva finir come il padre per furti impiccato. Però contese, accuse vicendevoli, improperii, come sogliono i rei nelle avversità. Ma curioso fatto fu, e deriso, che il comitato fuggendo die’ l'ultimo editto trionfatore, promettendo seguitar nella rivoluzione, e costituirsi governo provvisorio a Catanzaro. Ora caduto dicea fare ciò che non aveva osato sul bollor delle speranze, l'arroganza nauseò. Con le forze superstite si ridusse a Tirioio. Per l'opposto in Catanzaro la sconfitta dell'Angitola atterrito appieno i ribelli, chi davvero amava la patria temente l'anarchia, s’armò a guardar le carceri, il comitato cheto si sciolse, e i più pervicaci rubate le munizioni, voltarono anche a Tiriolo, per farvi l'estreme prove. Tostò la città alzò i gigli, fece un capo nazionale di parte regia, e mandò deputati al Nunziante, acciò il re la ricevesse in grazia, ma vennero respinti indietro da quei di Tiriolo. Quivi accozzali i capi rivoluzionarli di Cosenza e Catanzaro si dettero furibondi a chiappar gendarmi, a riproclamar menzogne, a far fossi e barricate. Sopraggiungevano i Siciliani sbladanziti che volean partire, i quali mentre fean le lustre di pronti a combattere, scrivevano segretamente in Messina al Piraino ed a' consoli americano e francese, pregandoli mandassero tosto vapori a prenderli nell'acque di Catanzaro. Passale tai lettere per la via de' monti, il consolo di Francia Mericourt impegnatissimo per la rivoluzione spedì il Brazier; e il governo siculo mandò anche un bastimento con bandiera Prussiana, per cercar di salvarli dalla via dell'Adriatico. Ma né l'uno né altro giunse a tempo; e il Ribotti sul timor d'esser preso si raccomandò al vescovo di Nicastro.
Il Nunziante supponendo tutti i ribelli si concentrassero a Nicastro, per contrastare il passo del Calderaio e Tiriolo, divisava imbarcar truppe a Pizzo, sbarcarle a Paola, ed entrar nel Cosentino con le colonne de' Lanza e Busacca, quindi ripartì da Monteleone il 5 luglio con tutte sue schiere, e dovea la dimane imbarcarsi, quando sopra sera gli arrivava la risposta del vescovo di Nicastro, per mano del vicario e del segretario della curia; i quali dimandarono perdono per quei cittadini, e permesso di farne andare senza modestia i Siciliani. Rispose: il re grazierebbe i sudditi, il Ribotti co' suoi doversi dare a discrezione, intanto i generali Lanza e Busacca chiamati dalle popolazioni di Cassano, Saracena, Lungro, Firmo ed altre de' distretti di Castrovillari e di Cosenza, invocanti il braccio regio contro i ribelli, s’erano avanzati a Cosenza; e v'entrarono il 7 con gran festa,accolti fuor delle mura da deputazioni, con l'arcivescovo a capo. Allora il Nunziante, veggendo non più servire l'imbarcarsi per Paola, corse sopra Tiriolo, il 6 rifece la via di Maida, e ’l di appresso occupò il Calderaio abbandonato in fretta da' Siciliani. Questi dopo la risposta negativa tentarono sommuovere il distretto Nicastrese; non riuscirono, e rimandarono altra supplica pel vicario, firmata dal Ribotti e dal Mileto; ma n’ebbero la stessa intima del rendersi senza patti. La ripulsa, e 'l sentirsi i Borboniani addosso produsse uno spavento. I capi ribelli comandano al Ribotti combattesse, questi nega, quindi male parole acerbissime e scambievoli, e si scioglie a precipizio quell'ultimo campo di Tiriolo. Sparito era anche il fievole accampamento su’ piani della Corona. I più rei de' Calabresi rifugiarono nelle Sile, i Siculi e i capi congiurati volsero a Catanzaro, ma i cittadini negarono l'entrata, sol dettero pane e quasi duemila ducati, però abbandonati animali e munizioni, piegarono alla marina.
Dalla banda opposta il Nunziante sperandosi di coglierli correva a Catanzaro; per via avea deputazioni con ulivi e bandiere bianche, gridanti Viva il re, intanto i Siculi, trovati sulle spiagge del Ionio certi trabaccoli che vi caricavan sale e ferroliti, vi s’imbarcarono a furia co' loro sette cannoni, e la sera del 6 si fuggirono. Il comitato riparato nelle Sile, avrebbe voluto iniziare la guerra brigntesca:a ma non potè, ché le popolazioni furon sempre co' Borboni. Nulladimeno parecchi de' loro seguaci disperanti di grazia s’unirono in bande, e in quelle boscaglie fecero guerra per qualche tempo alla roba altrui. Il Ricciardi con altri quindici, fra' quali quelli de' comitati di Catanzaro e Cosenza, la scamparono la sera del 9, in una barca peschereccia sulle spiagge di Patricello verso Cotrone, mentre a quell’ora stessa i Regi entravano in Catanzaro. Tutta notte pel grosso mare errarono per le coste; la dimane presero a forza una feluchetta da pesca, e si volsero all'isole Ionie, senza bussola alla ventura.
Non avrian potuto i Siciliani imbarcarsi, se il brigadiere Nicoletti ch’era ito sul Reggiano a scambiare il vecchio Palma, e parve favorisse di nascoso i ribelli, non avesse volto a Reggio il battaglione del 5° dì linea, cui con ordine di sbarcare a Bagnara gli avea mandato il Nunziante. Questi subito a' 10 luglio scrisse al Salazar comandante la nave Stromboli, allora al capo Sparti vento, di correr su’ fuggiaschi ver l’isole Ionie. Vi mosse, e per via vide la feluchetta ch’aveva i sedici de' comitati, che credendo dì pescatori lasciò andare, poi sull’alba, ch’era l'11, scorse un legno de' Siciliani, e per non dar sospetto pose bandiera inglese sinché gli fu addosso, allora alzò la napolitana, e ’l chiamò ad ubbidienza, lontano da Corfù intorno a venti miglia. Pria trasse un colpo a polvere, e com’ei non ubbidiva tirò a palla, ma da non colpirlo, perlocché il bastimento, che si chiamava Gesù e Maria, ammainò le vele, e mandò una barchetta col padrone Salvatore Ancella e ’l Ribotti. Gli altri a poco a poco vennero assicurali. Poco stante comparve l’altro trabaccolo detto S. Maria di Porto Salvo, che tosto ubbidì, mandando il padrone Vincenzo Accaldi. Disarmati tutti, lo Stromboli rimorchiò il 12 ambo i legnetti a Reggio, dove sbarcò i prigionieri, intorno a seicento; indi a Napoli presentò il 15 le prese munizioni, 560 fucili, sette cannoni, la bandiera e trenta uffiziali; fra' quali il generalissimo Ribotti, e quattro de' nostri disertori: Longo, Belli Franti, Guiccione e Angherà.
Quei dei comitati, salvi a Corfù, dettarono una proclamazione, fatta stampare a Roma. Dicevano: «Ferdinando invece di fare obbliare le nefandigie del 15 maggio, col richiamare attorno a sé il Parlamento e le milizie civili, mandar suoi satelliti con artiglierie in Calabria. Nunziante riuscito buon carnefice l’anno innanzi, e sì buona guida il 15 maggio al saccheggio e alle stragi di Napoli, aver fatti eccidii a Filadelfia e Pizzo, paesi inermi e innocenti. E ciò, distraendo i soldati dalla santa guerra. Eglino protestare per la patria infelice, e promettere di fare ogni sforzo per sottrarla dall’insopportabile giogo, e di serva mutarla in parte nobilissima dell’italica nazione.» Mentre costoro accusavano Ferdinando de' mali da essi evocati, e cadeva affatto la rivoltura, videsi urta curiosa antitesi nell’ordine del giorno del 10 luglio dato dal Pepe a Venezia, dove facea voto: «che i Napolitani cancellerebbero la vergogna dell'aver deviato dal cammino dell’onore, e tornerebbero in Lombardia: tanto ri promettersi dalle Calabrie che con isforzi magnanimi stan per abbattere quel governo stolto e malvagio, conculcatore di dritti, rotto ad ogni ne tondezza, si da non poter essere più da uomini tollerato, né restar dalla Provvidenza impunito». Intanto le Calabrie con gli ulivi nelle mani echeggiavano di Viva al re. Ma colui vano sempre, allora tutto vento, andava promettendo trentamila Calabresi per combattere il Tedesco.
Il governo siculo rabbioso per la cattura de' suoi, ricorse a' protettori. L’ammiraglio inglese Parker si pose in mezzo. Primieramente il console britanno e ’l comandante la fregata Gladiator andarono a Reggio, a verificare il numero e i nomi de' prigionieri,. e veder come eran trattati, intervenendo così quali giudici in fatti interni di regno indipendente. Poscia il Napier ministro a Napoli, con nota del 15 giugno reclama contro l’offesa fatta alla bandiera e al territorio inglese; e trasmette sul proposito una lettera del capitano Codrington, dove il re era appellato re di Napoli, Anche il Palmerston disselo re di Napoli nel discorso d’apertura al parlamento: tale che il deputato Disraeli gli dimandò qual fosse il nuovo Stato di cui il re del regno delle due Sicilie avesse trono, il Napier a' 17 ritornando con altra lettera, chiese di conferire co' prigionieri, per intendere il fatto della bandiera alzata dal Salazar nelle acque di Corfù. Gli fu risposto lo stesso dì: nostre leggi proibire a qualsivoglia persona il parlare ad accusati prima dell’interrogatorio. Susseguirono molte note. Dal regio ministero si dimostrò la cattura esser seguita a venti miglia da Corfù, però fuori il tiro del cannone, in mare neutro; e l’alzata bandiera aliena essere stratagemma di navi da guerra, secondo la consuetudine, purché prima d’assalire s’alzi stendardo proprio. Non pago il Parker, venne a 19 luglio, si parò avanti Napoli, vicinissimo, fuor leggi marittime, senza neppure salutare la bandiera nostra; scrisse al Napier: «sperare i captivi fosser trattati da prigionieri di guerra, né patissero violenza; il che giustificherebbe l’uso della bandiera; e credere che il suo governo udrebbe dolente alti severi associati alto abuso del vessillo inglese.» Questa lettera mandaronla trascritta al governo napolitano.
Dappoi concordando i rapporti del Salazar ch’avea catturati i due trabaccoli, e i giornali di questi, e le risposte giuridiche date da' rei, neanche il Napier fu sodisfatto, e mandò per informazioni a Corfù; dopo di che si scusò con dispaccio allo Stabile ministro rivoluzionario siculo, assicurandolo aver tentato ogni possa per liberare i prigionieri, ma sembragli essere stati legalmente catturati.
Questa gente era la spuma della rivoluzione, parecchi avevano a Palermo, a Catania ed altrove all’uscir dell’arme regie scannato realisti, derubato e stuprato famiglie d’uffiziali; v’eran di molti testimoni che indicavanli a dito, e molti uffiziali e soldati frementi dimandavano giustizia e restituzione del rubato. Nondimeno il re non volle torto un capello a nessuno. A 2 luglio s’unì un consiglio di guerra in castel S. Elmo, preseduto dal Tenente-colonnello Carafa di Noia, per giudicare i soli disertori scesi sul continente a combattere i loro fratelli d’arme e connazionali. Agli avvocati difensori s’aggiunse volontario il Poerio. Ebbero condanna capitale il Longo e il Delli Franci, libertà il Guiccione; e ’l consiglio si dichiarò incompetente per l’Angherà, congedato prima di servire i ribelli. La sentenza, correndo il venerdì, non fu eseguita, perché giorno fra noi vietalo ad esecuzioni di morte. Gli avvocati si volsero al re per grazia, e deputati della Camera cineseria al ministero. Fu fatta. E subito la setta per malignare fe’ scrivere dal Maricourt viceconsole francese a Messina una lettera stampata, dove dava al ministro di Francia De Bois-le-Comte merito di pressione diplomatica a quella grazia; però questo ministro indignalo forte lui riprese, e stampò: la grazia doversi al cuore del re, che libero e spontaneo la largì.
I prigionieri in S. Elmo, e gli altri menati da Reggio a Nisita, vi stellerò poco più d’un anno, indi liberati. Il Longo e il Delli Franci salvi del capo, fur chiusi nella torre a Gaeta, e v’aspettarono il 1860, per ricombattere contro il figlio di chi avea lor donata la vita. Il Guiccione riposto anche nel grado, e promosso, poi nel 60 ridisertò. Il Ribotti straniero, venuto a capitanare la rivoluzione in casa altrui ebbe pur grazia, e nel 1851 libertà piena da quello ch’aveva egli spacciato despota è tiranno. Dappoi nel 1861 gli usurpatori Piemontesi fucilarono senza legale giudizio il Borjes, perché pugnante pel legittimo sovrano. La storia deve porre in bilancia la tirannide del graziare e la libertà del fucilare.
Gli altri capi ribelli in vario modo si salvarono, fuorché il Mileto e il Carducci. Il primo errando per monti e boschi, cercò rifugio in una capanna di Zingani nel bosco di Grimaldi. Accerchiato dagli Urbani del luogo non si volle rendere, la sua testa fu menata a Cosenza. Il Petruccelli s’era ascoso a' 6 di quel mese in casa certi Cupido a Scalea, dove dal popolo che il credea Ribotti venne gridato a morte; ond’egli a scamparla disse suo nome, invocando l’inviolabilità di deputato. Non l’uccisero, ma per grazia il carcerarono. Se non che dopo pochi dì valendosi d'una proclamazione del brigadiere Busacca esortante i traviati a quietare, ingannò o subornò i custodi; e fattasi aprir la porta si salvò in Basilicata, ove a lungo stette ben ascoso. Il Carducci prima di essi, credè la sollevazione fiaccata in Calabria ripigliar nel Cilento: v’avea nome e seguaci, e il fresco ricordo della venturosa rivolta dell’anno prima, e tuttavia le cariche di colonnello nazionale e deputato; e pur vi tenea gente pronta e levata. Dall’altra parte quella sperimentata libertà avea dissonnati già parecchi uomini dell’ordine su’ pericoli sovrastanti, e tenevansi uniti e decisi di mostrare il muso; tra' quali era un Vincenzo Peluso di Sapri vecchio prete, di casa devotissima a' Borboni. Il Carducci veggendo in lui un ostacolo alla rivoltura, avea scritto a uno de' suoi il disegno della sua venuta per iniziare la riscossa, e comandò l’ammazzassero. Volle fortuna che poco innanzi sendo carcerato per debiti quello cui la lettera era volta, il Peluso per carità gli avea pagato il debito; il perché colui ripugnando di rispondere con assassinio al fresco benefizio, aperse al Peluso il periglio che gli soprastava e lo imminente arrivo del Carducci, acciò si salvasse. Ma il prete (invero non troppo buon prete) colleroso, vecchio ed obeso, sentendo mal sicura la roba e la cassa, e incerta e difficile la fuga, e che il paese quieto avesse da quei tristi a rinsanguinarsi, risolse piuttosto pugnare che fuggire; e chiamatisi attorno un nerbo d’uomini fidi, prese ben armato le poste sulla spiaggia che fu ad Acquafredda, tra Sapri e Maratea. Quivi la notte sbarcò il Carducci con solo dieci compagni, credendo trovarvi sua gente per iniziare la sollevazione. Al grido Chi vive? risponde Italia e repubblica: si controrisponde Viva Ferdinando e schioppettate. Egli con qualch’altro riman ferito, il resto fugge pe' campi, ascosi dal buio. Si gitta a' pie’ del Peluso invocando la vita; quegli il traggo a casa sua, gli fascia la ferita, poi tel manda al magistrato; ma quei che lo scortano, considerando ch’ci qual deputato e colonnello saria tosto liberato, e certo si vendicherebbe atrocemente come l’anno innanzi, l’accoppano per via, e ’l dirupano in un burrone. Un Ginnari fuggì a Lagonegro, un Lamberti nel distretto di Sala, dove si pose a far gente per dare addosso al Peluso, e osteggiar le regie truppe sfilanti in Calabria. Infatti assalirono un luogo ove credeano stesse quel prete; e non trovatolo si sfogarono gridando repubblica, percuotendo e menando tutto a ruba e a male.
Là dove le guardie nazionali s’eran mostre avverse o ribelli, venian sciolte ne’ modi costituzionali; a' 7 agosto in Calabria ritrae nel 2.° Abruzzo, a' 25 nel Reggiano, con altri decreti poi altrove. Il Nunziante da Catanzaro prese a riordinar le Calabrie: restituì in uffizio gl'impiegati regi, rialzò i telegrafi, ripose le poste, e con blandi modi risparmiò altro versamento di sangue. Anche si vietò che le popolazioni, reagendo, si vendicassero delle offese rivoluzionarie su’ ribelli e loro robe. Subito si rifecero le guardie nazionali con persone provate e quiete, ristabilironsi i governi, le amministrazioni e i tribunali; si riscossero i tributi non pagati; e in breve senza soprusi né rappresaglie ritornò l’ordine e la tranquillità. I processi contro i sommovitori si fecero poi, anzi con troppa tardezza. Le popolazioni respiravano.
Eppure i ribaldi cavati di carcere, e sospinti a misfatti dall’anarchia, non potendo tornare a riposo s’eran gittati nelle Sile, campando alla brigantesca, con ricatti, incendii e uccisioni d’uomini e bestiami. V’andò poi in ottobre il maresciallo Enrico Statella, che molti ne prese e uccise, credo intorno a seicento; sicché per la fine dell’anno rimanean sol poche fiacche comitive di masnadieri, frequente piaga di quei monti boscosi.
Come s’è visto, anche allora nell’esercito regio era il seme settario, li Zupi fuggito nell’atto della pugna da Campolongo, il Nicoletti che contro di ordini volse a Reggio il battaglione che dovea chiudere il passo a' Siciliani, i parecchi uffiziali disertati al nemico, mostrarono già la setta aver sue branche nella milizia. Si vinse per virtù di soldati e di qualche generale fedele; e il vincere in Calabria fu pietra fondamentale che rassodò il trono e preparò la riconquista di Sicilia. Perduto in Calabria sariasi perduto il tutto. Se quei generali avessero fatto come fecero poi i generali del 1860, la rivoluzione trionfava allora, né avea da lavorare altri dodici anni. Ma i servigi resi in tempi di tempeste da Ferdinando Nunziante, sconosciuti in tempo di bonaccia, partorirongli odio liberalesco e amarezze molle; né ad esso solo, ma a quanti s’eran portali da uomini fidi e di cuore, però in breve spenti per cordogli e peggio, mancarono d’imitatori al tornar del turbine. Imparino i regnatori e i loro ministri che i valorosi van rispettati in pace, perché si trovin pronti alla pugna, quando poi la folgore percuote governanti e governati.
Munire si combatteva in Calabria, i consultarli lavoravano a sollevar l’altre provincie. Basilicata e Salerno più vicine, e sollecitato come narrai dai ribelli per movere i paesi alle spalle de' regi, fur molto agitate. Da Potenza volevano impedire il passo di Campistrino, e minare il ponte, mandarono a Molfetta per cannoni, e n’ebbero quattro inadatti, bastavano a farne pompa. Furono tumulti adunane a Campistrino, Abriola, Calvello, S. Angelo delle Fratte, Genzano, e altri luoghi, sempre chiedenti danari e arme. Volevano supplicar Pio IX che scomunicasse il re. Gli agitatori principiali, Cozzoli, Caputo e Pessolano, corsi molti paesi, tornavausene con parole assai e fatti pochi. A Potenza fecero una congrega appellata Dieta di cinque provincie, dalla quale uscì una scritta intitolata tronfiamente Memorandum Lucano a' 25 giugno, firmata da ventitré persone, dicentisi delegati delle provincie confederate di Potenza, Lecce, Bari, Foggia e Campobasso. Dichiaravano voler l’attuazione del programma del 4 aprile, l’annullamento degli alti dopo il fa maggio, Guardia nazionale armata di cannoni, e i castelli disarmati,0 che essi (ventitré) sosterrebbero tai dimande a qualunque costo. Ma le provincie di cui si facevan delegati eran ebete. Volevan fare un governo provvisorio, mancò l’animo: eglino s’arrabattavano, i popoli li beffavano. Anche fra loro eran bisticci e male parole. In Potenza parteggiavano chi per un Errico, chi per un Maffei, chi volea meno, chi più, ambo impotenti anche uniti, non feron nulla.
A quei dì era ucciso il Carducci. Già l’aspettavano nel Cilento, e i capi eran corsi a S. Venere presso Polla a consulta. Sommovevano Postiglione, assalivano Brienza, rapivan l’arme a' gendarmi ch’andavano a Salerno, e altre cose volean fare che non poterono. Il Lamberti s’appellò commessario civile, scrisse un editto smentente la morte del Carducci, promettea diecimila Calabri in soccorso. Così ne' primi di luglio cominciò un po’ di sollevazione da Torchiara ad figliastro, poi Lustra, Agropoli, Aquella. Vuotan le casse, sorteggian uomini, rubano i voti d’oro e argento nelle chiese, stupran donne di realisti, né saccheggian le case. S’uniscono sulle alture d’Ogliastro poche centinaia, poi in due bande scorazzano pe' campi, una ver Postiglione, altra ver Capaccio, pigliando casse comunali, espilando i ricchi, scarcerando ribaldi, spezzando gigli, vietando telegrafi, birboneggiando in tutte maniere. Imperlante a' 9 luglio v’accorse da Napoli un reggimento di granatieri, e quattro compagnie di cacciatori della guardia, chiamati da' Capaccesi; sbarcavano a Sapri ed a Pesto, coglievano i faziosi a Trentinara, che favoriti da rupi e vette volean contrastare, ma a' primi colpi fuggirono a nascondersi. L’ordine fu issofatto riposto.
Nel Sannio un giornale, Il Sannita, propagava gli ordini e i motti settarii; molti girovaghi andavan susurrando nelle orecchie i cenni del segreto comitato di Napoli: i disegni dell’Ayala in Abruzzo, le Calabrie vincitrici, presto sarebbe repubblica;s’armassero,affrontassero i soldati reduci da Lombardia, facesserli a pezzi nelle gole di Casacalenda. Altri a cavallo andavan descrivendo uomini da armi. Parecchi di questi fur visti a' 2 luglio in Campobasso, con altri accorsi da' dintorni, ruminanti qualche colpo; si celaron nell’orto botanico, poi a sera, correndo la festa della Vergine, fra l’esultanze religiose e suoni e canti, sentisti qua e là gridar Calabria e repubblica! Morte al rei Fuggissi il popolo spaventato; i congiuratori rimasti soli, vedendo soldati non li aspettarono; né fu altro.
In Capitanata tumulti a Cerignola; respinsero indietro i congedati accorrenti al richiamo ministeriale, rubarono il procaccio, disarmarono gendarmi. In Manfredonia fingendo temere che in chiesa proclamasscsi abolito lo statuto, s’armarono rumorosamente. In Viesti non so chi instigasse i villani a temere per le loro donne; pigliano a sassate quanti incontrano A Bari rifanno la Dieta di Potenza; parole assaissimo, più contese; in fine cavano un altro Memorandum sullo stampo di quello Lucano. Alle nuove di Calabria doma infuriano; volean suonar le campane, sollevar la provincia, percussar la cavalleria regia tornante d’Italia. Riescono in Andria a decapitare una statua di gesso, e ’l capo conficcano a un palo. Simiglianti cicalate nel Leccese: stabiliscono un Comitato Salentino, capo un Mazzarella, che ai 23 giugno si dichiara in permanenza, tassando nulli gli atti governativi dopo il 13 maggio; poi accedendo alla federazione con Potenza, strombazzano vittorie Calabre, descrivon militi, si tengon pronti, e sperati depredare le casse comunali e vescovili: intanto feste, canti, e proponimenti di pigliarsi i demanii. In Torchiarolo gridati repubblica in chiesa e per le vie, preparano a difesa un logoro cannone trovato sulla spiaggia. In Brindisi e Gallipoli congreghe e chiacchiere; vulcano artiglierie dal forte d’Otranto; ricusate, imprecavano a quel comandante: cose ridicole e pazze, cui le popolazioni guardavan bieche. Pria che arrivassero soldati tornò la quiete.
In Abruzzo l’Ajala come artista senza materia volea fare, e mancava del come. Avea promesso, s’era vantato, s’era gittato nelle bettole per guadagnar popolo, eppur non potea niente. Prese la congiuntura de' comizii pe' nuovi deputati, e ne fe’ una che gli parve da Spartano. Il ministro scrissegli si governasse con senno, impegnasse con persuasioni gli elettori a eleggere uomini savii, onde maggior effetto e minori contese sortissero dal mandato; rispose svillaneggiando ministri e re, tacciandoli tiranni e insidiosi; e fe’ stampare cotale risposta, quasi vanto d’animo indipendente. Era insidia ministeriale il desiderare che gli uffiziali persuadessero la gente a mandar Bennati al parlamento;e non era insidia il lasciar la briglia a' congiuratori per mandarvi dissennati. Oltreché l’uffiziale che non pago di disubbidire al superiore,il combatte eil vituperale stesso vitupera, sconoscendo il dritto di potestà che il tiene in seggio. Nulladimeno i settarii celebraronlo uomo insigne. Però egli più invanito procedé anche a ingiuriare i suoi subordinati, dove non volessero aiutar la congiura; talvolta con lettere di fiele invelenite trasmetteva ammaestramenti intorno a' modi d’elezione, si facendo egli a rovescio ciò che aveva al ministro rintuzzato. Né ciò gli bastando, volendo schizzar quel tossico pur nelle campagne, vennegli la matta idea di fingersi fautore di missioni religiose; e scrissene al vescovo, indicando i missionari. L’indiscreta proposta, le persone accennale, la cosa e il modo schiaravano l’insidia; il prelato ricusò, egli controrispose acerbo e minaccioso: stolto, che volea la rivoluzione per man del vescovo!
Dopo i fatti che narrai di Pescosansonesco e Piatola, dove per cagion delle nappe era scorso sangue, non mancarono per la causa stessa tumulti in altre terre; il perché i ministri a torre quelle occasioni al delinquere, ordinarono si ripigliassero i nastri rossi, non aboliti mai, si smettessero i tricolorati, non mai con legge permessi. Ciò l’intendente non volle eseguire. Mentre ruminava sul come attuare la ribellione promessa a' fuorusciti, udì il ritorno delle soldatesche da Romagna; negò i denari, e a un sindaco chiedentegli consiglio, gridò rompesse il ponte sull’Aterno, asserragliasse Popoli, tagliasse i soldati a pezzi. Passati i soldati, i confratelli da Napoli sollecitavanlo; quei di Calabria il rimprocciavan di trepido, i giornalacci l’infatuavano con lodi; ond’egli ristrette le pratiche co' fuorusciti di Rieti, feceli entrare in Cittaducale. In Aquila accolse Nazionali, e li stanziò in castello, mandò i gendarmi ad Antrodoco, così in sua balia lasciando le prigioni; la sera del 22 giugno entrovvi ad arringare i carcerati, e a nunziar loro che presto quelle sale appigionerebbe; quindi gioia pazza d’assassini, spavento di cittadini.
Il governo sapea tutto: richieselo se volesse soldati a tener cheta la provincia; rispose non abbisognare. Intanto ponea suoi cagnotti armati a guardar le porle, disegnava stecconati, passava a rassegna Nazionali, preparava editti, e già la notte del 24 s’aveva a dichiarar decaduto il re, proclamar governo provvisorio con esso Ayala, capo, e tutta chiamar la provincia all’arme. Correan voci spaventose: i realisti, i ricchi, il vescovo segnali d’eccidio. Da tutte parti volaron lettere a Napoli, e al brigadiere Zola in Popoli. Questi prestissimo e silente corse sopra Aquila, e giunsevi la notte del 25. L’Ayala sbalordito si risolse a tingere e a uscirgli incontro; ma sentendolo padrone della città, temé restar prigione, però cacciato dalla mala coscienza, lasciati moglie e figli, fuggì a Rieti, seguito da' congiurati esteri e regnicoli. E fu questa Pinella congiura, aborto di quel capo sciacqualo dell’Ayala, gridato eroe dalla setta,ch’a rialzarlo in fama poselo indi a poco ministro in Toscana.
La vera libertà lamenterà sempre il mal talento settario che non quieta né fa quietare, e rende impossibile il godimento di franchigie modeste e sicuratrici. Della sciolta camera accusarono il re; s’ei l’avesse serbala, avrebberglielo apposto a timore. Così a timore apposergli la costituzione riconfermata. Aprendosi i nuovi comizii, volevansi uomini dotti di leggi e d'economia, d'animo giusti e moderati, amanti veri della patria felicità; ciò inculcava il governo, eglino (come avea fatto l’Ayala) dicevanla colpa grande. I congiurati per contrario da Napoli co’ le file tenebrose della setta rifecero quello de' primi comizii; imbeccavano i nomi e i modi; e come che ne’ collegi elettorali mancò la gran maggioranza de' cittadini, stracchi e stucchi di quelle menzogne parlamentari, i liberticidi padroni del campo acconciarono le elezioni a modo loro. Dove fecero proteste illegali, e dove rielessero gli uomini stessi di prima; fra gli altri i profughi Lanza e Scialoia, il Ricciardi e gli altri ribellanti delle Calabrie, il Petruccelli minacciatore di regicidio, e i barricatori di Toledo. In Foggia quel magro collegio elettorale protestò non voler nuovi deputati, sendo eletti gli antichi, si ribellando allo statuto dante al re facoltà di sciogliere la camera. Protestarono con la stessa convenuta formola tredici circondarii di Basilicata, i circondarti d’Agnone e Nardò in ferra d'Otranto, ed altri. Protestarono parecchi contro gli atti del ministero del 16 maggio, e per l’illegalità dello scioglimento d’una camera non ancora costituita. Per costoro la camera era costituita per usurpare la potestà, non costituita per essere sciolta. A Bari, a Viggiano, ad Avigliano e altrove né pure elezioni si fecero. La maggioranza della nazione s’asteneva: non fidando in quelli ordini, lasciavali andare alla china in balia de' tristi; quasi prevedendo così più presto tornerebbe la pace. intanto i congiuratori menavan vanti magni della non contrastata vittoria. Ma quell’abbandono fu gran fatto nazionale; e tanto maggiore che rinnovato nel 1860, quando già compri eran molti capi delle soldatesche, lasciò il paese nelle branche de' settari, che venderonlo allo straniero.
Com’era ordinato s’aperse a 1. luglio nella biblioteca al museo borbonico, con pochi deputati la camera, sospettosa e mesta. Soltanto accolse come non altri mai un Ignazio Turco, lezzo di trivio, farinaio, fatto deputato a vezzeggiar la plebe, ignorantissimo buffone comparso in carrozza splendida, fra plaudimenti, quasi Cincinnato in trionfo; che fu parlante condanna di quelle vantate franchigie. Andovvi delegato regio con due carrozze di corte il duca di Serracapriola a leggervi il discorso della corona. Lamentava il disastro del 15 maggio; confortavasi al veder riuniti i deputati della nazione, per averne aita a far rifiorire la prosperità vera del popolo; però né invocava sollecite proposte di leggi opportune alle libere largite instituzioni, massime per l’amministrazione, finanze, e Guardia nazionale, il cui dovere è la tutela dell'ordine legale. Li invitava a smascherare coraggiosamente le cagioni e i pretesti delle perturbazioni nel regno, e sì provvedere da non farli rinnovare. Da ultimo dichiarato non esser turbate le relazioni di pace con gli esteri,si mostrava fermo a voler sicurare il bene del paese, nel godimento di vera libertà, di cui farebbe l’occupazione della vita, e né chiamava giudice Iddio, e testimone la storia e la nazione.
Sin da' primi dì furon tumulti nella camera. A’ 3 eran presenti non più che settantadue deputati, né prima degli otto giunsero a ottantanove, appena in numero da poter cominciare la verifica de' poteri. Le tribune eran prese da camorristi e faziosi, iti a posta per imporre con plausi e fischi sugli arringatori e su’ votanti. Il primo giorno uno di quei barbuti levò nel più bello sua voce: Iddio potente minaccia questa città, ora scoppia il fulmine, non profanate questo luogo. E gli altri a dir bene, e a batter le mani! Così sempre turbavano le discussioni; chiamati più fiate e invano all’ordine, fu provveduto al silenzio con ordinanza del presidente; e poi la camera fe’ apposito regolamento; ma spregiavan coteste minacce in carta. Fu eletto presidente l’avvocato Domenico Capitelli di Terra di Lavoro, vicepresidente Roberto Bavarese. Quei deputati avean sospetti grandi e fieri odii contro il Bozzelli e il Ruggiero, tenentili per disertori della setta, guadagnati co' seggi ministeriali a fermar la rivoluzione, e chi di essi erano stati prima ministri n’eran gelosi a vederli negli ambiti seggi, fermi per legalità e forza; abborrivanli per la sciolta camera, per le dome Calabrie, pel compresso Cilento, per la intraveduta riconquista di Sicilia. Al mattino del 12 seguirono gravi altercazioni tra il Bozzelli e il Troya; ché quegli avea detto il programma di costui al 5 aprile esserci stato imposto da una fazione, verità dispiacevolissima; e vennero a male parole sì che il presidente s’ebbe a coprire col cappello. Poi uscirono interpellanze e critiche intorno a' fatti guerreschi del Nunziante, e a' Calabresi e Siciliani fatti prigionieri; se ben trattati, se avessero sale spaziose, se buoni letti, se presto o no giudicati. Disse un deputato: non sapere egli ancora se quelli fossero da addimandarsi prigionieri di guerra, giudicabili, giudicanti o giudicati. E chiedeva una commissione d’inchiesta. Alto si lamentò il Nunziante: «maravigliarsi che i deputati difendessero la ribellione vinta; e accusassero non i conculcatori ma i propugnatori delle leggi.» Ma eglino intenti a osteggiare la potestà regia, concionavano or sull’abolizione della pena di morte, or su’ modi d’udir ne’ giudizii le difese de' litiganti, or sul perché si fosse tolta la bandiera de' tre colori dalla camera; or lamentavano la morte del Carducci, or dimandavano punizioni per gli uccisori. Gran tempo perdettero in iracondie e futilità. Meglio rifulse la simpatia alla rivoluzione, e 'l dispetto del vederla schiacciata, quando a' 27 luglio proposero il progetto d’indirizzo al re. Qui niuna parola di lode a' soldati, molte di compianto a' vinti. Censura al monarca pel passato suo governare, lode per la concessa costituzione. Disservi il 15 maggio essere stato giorno interrompitore della confidenza tra popolo e sovrano, disapprovaronvi lo scioglimento della camera, siccome atto che agitando la pubblica opinione nuocesse alla pacificazione del regno; il richiamo delle truppe da Lombardia biasimavano, e facevan voti s’affrettasse l’era dell’italiano riscatto. Ciò dicevano impudentemente a quell’ora in che Sicilia con superbo voto si dava al figlio di Carlo Alberto. Eppure cosiffatto indirizzo non parendo progressivo abbastanza, ebbe discussioni e assalti molti, né il direttore di polizia valse con bei modi a far calare quelli animi a prudenza: che valean ragioni a chi avea la visiera agli occhi, o a chi mirava a più segreto scopo? quella stoltezza dicevan costanza; però l'approvarono i 105 deputati presenti. Sendo non decoroso per la regia maestà né prudente lo accogliere quell’indirizzo insultante, quando dodici di essi recaronlo alla reggia, non vennero ammessi.
Al 1.° agosto il Bozzelli presentò il progetto di legge per la guardia nazionale, ed ebbe fischi dalle tribune, e da' deputati stessi. Nella camera e ne’ giornali diatribe veementi. «Non esser bastevoli, dicevano, poche migliaia di Guardie ad una Napoli popolosa, dove sogliono stare ventimila soldati regi; malamente volersi uomini da' 26 a' 60 anni; tirannia l'alto censo di ducati dieci all'anno, la nazione abbisognar di molti e giovani, e senza censo. A torto prescriversi la divisa a volontà del principe; il progetto alterare lo scopo della Guardia nazionale là dove dice essa dover con l'esercito cooperare all'ordine, tacendo poi il suo intrinseco e principale obbietto stare nel difendere le guarentigie costituzionali.» Siffatti errori volontarii di chi volea conflitti e rivalità di forze e poteri astiavano l'esercito, uscito per coscrizioni da tutti ordini sociali; perlocché vidimi in quel torno per le stampe a nome dell'esercito una scritta, chiedente si bandissero dal parlamento gli autori delle barricate, e de' moti Calabresi e Cilentani; o che si provvederebbe con la forza. Ma i deputati, che tementi per la Sicilia intendevano a tener vivo il fuoco sul continente, perseveravano, sicuri che il real governo vieterebbe lo scoppio di quelle minacce. Al 1.° agosto proposero legge per rifar le prigioni a modo cellulare, e fu presa in considerazione.
S’era provveduto alla camera de' Pari con due decreti; uno del 26 giugno n’avea creati ventisei, altro a 11 luglio ventuno. A’ 49 di questo mese fu pienamente costituita. A’ 2 agosto propose e a' 5 approvò l’indirizzo alla corona, con sensi di gratitudine per l'ordine sicurato e promettente aita al braccio governativo. Uomini essendo ricchi, e il più tranquilli e savii, dier prova di senno e sapienza, e taluno anche d'eloquenza; ma v’era pur di qualche progressista, il vecchio ribelle, principe di Strangoli, in quella tornata del 5, avversava il progetto, con lunga imbeccata diceria: «Esser male a lodare il rovesciamento delle promesse del 3 aprile, e la mutata legge elettorale dal 5, e 'l non aver indicato le cagioni vere del 15 maggio. L’abolizione di quelle promesse aver partorito la ribellione calabra, siccome la minaccia dell'abolizione e non il programma del 3 aprile essere stata la madre delle barricate. Già la nazione nominando gli stessi deputati aver condannalo il governo. Inopportuno l’aver richiamate le soldatesche da Lombardia, danneggiata Italia; malcontentate le Calabrie. Ecco il ministero a non vedere, dopo fatta Francia repubblica, la necessità d'unirsi a' prenci italiani per sostenere qui le monarchie. Male la Guardia nazionale fievole, fatta per comparsa, male essersi sciolta l'antica, cui bastava rettificare.» E sebbene lo indirizzo tacesse di Sicilia, ci non volle lasciar da ultimo d'aspreggiare la condotta politica e militare de' ministri, cui accusò d'aver fatto svanire ogni possibilità di conciliazione co' fratelli Siciliani. E i giornali faziosi la sera stampavano: le parole di lui esser suonate belle tra quelle mura, e averle seguitato un triuwMlo»nodo d'approvazione. Per l'opposto gli altri pari mal sopportavano quello sboccato discorso, a pro delle ribellioni. Indi a poco declamando lo Strangoli contro i soldati pel gran disordine messo nelle Calabrie. Che dite? gridò il barone Rodinò: «Jer l'altro son tornato di Calabria, e le lasciai tranquille e plaudenti a' soldati che le han liberate da' soprusi e dalle tasse de' rivoltosi.»
E veramente la rivoluzione facea debiti e ponea balzelli, e la potestà legittima quelli pagava, questi aboliva. Un decreto del 24 luglio annullava quel del 26 aprile per la parte circa al debito forzoso da' mercanti e professori, il quale aggravando il commercio e le arti era duro a tutti; e ordinava altresì la restituzione del riscosso. Appresso a 12 settembre s’aboliva il dritto di piazza in Napoli, cui pagavano i venditori ambulanti, poverissima gente.
In quella i giornali si valevano della restituita liberà di stampa col malignare ogni atto di governo, e vilipendere l'esercito. Era fra gli altri certo Silvio Spaventa, Teramano, ignoto e misero, uscito deputato, scribente in un giornale detto Il Nazionale; questi ne’ fogli 60 e 61 schizzò veleno si oltraggi a' soldati e ai duci. La sera del 5 luglio certi giovani uffiziali lo andaron cercando nel caffè De-Angelis alla Carità per isforzarlo a ritrattazione, ei s’ascose sotto il pancone, e avvegna che uno di quelli uffiziali il vedesse, pur tacquelo per pietà. Nientedimanco sebben non più che paura patisse, ci la sera stessa con più studiato spavento fuggì a ricovero nella casa della legazione francese, sì atteggiandosi a vittima avanti allo straniero, quando poteva adire il magistrato. Costui dopo dodici anni, vista per arme straniere serva la patria, diventato capo poliziotto, popolò le carceri d'uffiziali regi, senza ragione e fuor di legge, così da codardo vendicando oltremisura su mille l'oltraggio tentato da pochi.
Il mattino uscì una protesta in nome dell’esercito, dove citato l’articolo 50 della costituzione, che sottoponeva a legge repressiva la libera stampa, si traeva conseguenza che mancando quella non ancor fatta legge, dovessero valere gli articoli 314 e 565 della legge penale, quindi lamentata la sfrontatezza giornalistica, concludeva l’esercito essere stanco di sopportare insulti che sotto spezie di libertà promovevano lo stato selvaggio, dove ciascuno provvede a sua difesa; e protestava che nessuna altra offesa anderebbe impunita. Né dettero saggio la sera stessa: iti alla stamperia d’altro giornale Il parlamento, con isconcio atto rovesciarono i torchi, sparnazzarono i caratteri, fugarono i garzoni. E passando il generale Giuseppe Statella col capitano conte Giacomo Gaetani avanti al caffè sul cantone del Teatro nuovo, sentendosi segni a motteggi, alzarono le fruste; il che bastò a far serrare quella sera parecchi caffè di studenti.
I popolani del mercato e de' dintorni alt agosto percorsero in frotta le vie Montoliveto, S. Maria la nuova, S. Giovanni maggiore ed altre, gridando Viva il re! abbasso la costituzione! mandarono deputazioni a pregai né il sovrano, e senza più si ritrassero quieti. I ministri costituzionali, stretti co' deputati in segreto, decisero reprimere sul principio quei moti; e però un ordine spiccato all’esercito vietò a' militari qualsivoglia alto diretto o indiretto contro lo statuto.
Il ministero chetala terraferma aveva il pensiero alla riconquista di Sicilia. Sin da' principii d’agosto s’era nel regio consiglio discussa e fermata la spedizione, ma si trovavan sulle braccia il carico della guerra, e la repressione depravagli interni. Imperocché la stampa di proposito lanciava dardi contro tutti, per istuzzicar ire e tumulti, le concioni parlamentari intendevano a infocolar le passioni e movere il paese; mandatarii appositi per le provincie recavan nuove false e incitamenti veri; tutto per isforzar le soldatesche a stare, e a impedire l’andata nell’isola. Questa predicavano fortissima, invincibile; e dove si venisse alle mani speravan farla vincitrice, e sì dappoi anche in Napoli abbattere affatto la regia potestà. Dall'altra la gente buona guardava indignata tai mene; né maravigliava già dell’ostinatezza detenutati, sibbene del governo che sopportava. Finalmente i ministri tratti dalla vera opinione universale, sentendo non poter combattere le trame continentali e l’arme insulari insieme, proposero al governo di rimuovere il focolare delle sedizioni, le camere. Cosi egli a 1° settembre, per le facoltà vegnenti dall’articolo 64 dello statuto, prorogavai parlamenti pel 30 novembre. Questo fiaccò la congiura.
Per riconquistar l’isola le maggiori difficoltà non erano nell’arme. Già s’eran fatti molti e vani sperimenti di conciliazione; come li maneggiasse il Mintho detto è. Ora avendo Inghilterra, Francia e America riconosciuta l’indipendenza di essa per darle forza morale; così fu mestieri interpellare tai nazioni a dichiararsi neutrali. Era ito a posta il conte Ludolf a Parigi col principe Petrulla, siciliano, (però questi dal parlamento dichiarato traditore della patria); ed il governo insulare anch’esso avea colà mandato I A mari, per far ressa ad aver tosto il Duca di Genova o un prence toscano a re. Intanto da Napoli si preparava in segreto l’impresa; s’era ordinato al Nunziante pigliasse il capitanato di tutte le soldatesche in Calabria, e ne concentrasse a poco a poco il nerbo nel Reggiano: però a 20 agosto i battaglioni eran pronti sulle spiagge, fra Palmi, Bagnare, Scilla, Villa S. Giovanni e Reggio. Sia questo, sia altro né spillasse, ecco i legali francesi e inglesi sforzarsi a impedir la passata, o almanco a ritardarla. A 28 agosto il Rayneval scrivea una nota lunghissima: «Osservava che mentre di accordo con l’Inghilterra si trattava pace, usar la forza era accrescere difficoltà; dubbia assai la vittoria, certissimo il ringrandirsi l’ire. Esser due partiti estremi: quelli indipendenza assoluta, noi la fusione in una corona: tra questi stare un mezzo, per esempio un re di Sicilia figlio di Ferdinando? La spedizione guerresca farebbe perdere al re le simpatie francesi ed inglesi.» Ve’ che simpatie! Il giorno seguente il Napier mandava la sua nota, le stesse cose dicendo, e aggiungeva: non aver potestà da far conoscere le intenzioni del suo governo, ma deplorare l'effusione del sangue per premature ostilità. Per sovrappiù si volse aìV ammiraglio Parker, il quale rispondeva mancar di ordini per opporsi all’armata nostra: laonde egli non potendo altro, inviò il Porcospino a Messina e a Palermo con dispacci, nunzianti il re aver di nascoso allestito l’esercito invaditore; si preparassero. A’ 31 con altre lettere li avvisava partir da Napoli nove fregate a vapore, una a vela, 2500 Svizzeri, e artiglieri; e non saper bene se scenderebbero a Milazzo, o a Scaletta, o a Messina. In tal guisa questi umanitari conciliatori abborrenti dal sangue, incitavano i ribelli a far contrasto.
Pertanto il governo persuaso ch’ove tardasse qualche dì sarebbegli intimidito d'operare, mise ingegno a far prestissimo. A 30 agosto partían da Napoli tre fregate a vela, sei a vapore, cinque altri vaporetti, due corvette, e altri legni coi reggimenti 3.° e 4.° svizzero, da unirsi alla truppa di Calabria; con esse duce supremo Carlo Filangieri principe di Satriano. Lenta fu la traversata, ché bisognò rimorchiare i legnetti minori; si giunse a 1° settembre sopra sera avanti Reggio; e il duce disbarcata la gente, ordinò il corpo d’esercito assalitore, e porse al Nunziante il regio brevetto di maresciallo.
I capi ribelli di Sicilia, non gli bastando confische e debiti fatti, avean chiesto a 7 agosto facoltà di pigliare a prestanza per un milione e mezzo d’onze; lo stesso di aderiva la camera bassa; quella de' Pari a' 9 il limitò ad un milione, con certe condizioni che il rendean difficile; però i ministri rinunziaron l'uffizio. A’ 15 ne sorsero altri: il Torrearsa presidente della camera andò agli affari esteri, il Viola al culto, Filippo Cordova alle finanze, La Farina all’istruzione; rimase il Paternò alla guerra. Fu direttore dall'interno un Gaetano Catalano, e poco stante ministro l’Ondes. Mariano Stabile ebbe la presidenza della camera lasciata dal Torrearsa. Giro e rigiro d’uomini stessi. Quell’Ondes era stato regio procuratore a Chieti; ora antiregio s’affaccia al balcone del palazzo, e grida: «Popolo, m’accuserai d’aver tant’anni servito il Borbone; si, ma 'l feci per istudiar le condizioni del governo, e poter meglio farlo abbonire, e congiurar contro a esso.» Tanto cinicamente vantava sue infamie.
Questo ministero nuovo ottenne a' 17 del mese di poter cercar danari anche fuor del regno, per un milione a mezzo d’onze in valore effettivo, ipotecando beni nazionali, con altre facilitazioni. Per avere un milione e mezzo s’aveva a far debiti per tre. A maggior aiuto si decretò a 5 settembre si dessero in pegno argenti, gemme, e altri obbietti preziosi di chiese, conventi, monasteri, e luoghi pii clericali e laicali, con l’usura del sette per cento. Ma Catania, Messina e Siracusa, città grosse, non permisero lo spoglio. Palermo e l’altre città il soffrirono; e fu dappoi computato le chiese aver perduto ottantaquattromil’onze d’obbietti preziosi. Inoltre a 8 settembre il parlamento permise darsi a' banchi di Palermo in pegno metalli lavorati e pigliarsi la moneta. Allo scoppiar della rivoluzione si trovavano in quei banchi 875 mila ducati di privati, e 304 mila di depositi giudiziarii; tutto preso già a mutuo da' sopravvenuti ministri di finanze.
I ribelli trepidavano: non sapeano se venisse re il duca di Genova; le disfatte Sarde sul Mincio, l’armestizio, la ritratta al Ticino, il trionfo de' Borboniani in Calabria, la cattura del Ribotti co' Siculi, facean presagire vicino assalimento. Allestiron farmaci e letti per feriti, ebber fucili da Malta e da Tolone, e altri per conto del comune di Catania. Assegnarono, tre tari ai giorno a' patriotti che non potevano avere uffizii militari, e il soldo intiero a' corsi in Lombardia. Per questi il padre Ventura fe' in parlamento una mozione, ben accolta, per una medaglia d’onore. Esentavan Messina dal contributo fondiario.
Nella città anarchia piena. Furti, assassinii, vendette, catture, rappresaglie, misfatti per ogni dove. La stampa era briaca. Anche quei liberalissimi uffiziali della rivoluzione, in pieno giorno, aggraffarono e strascinarono come belva per via Toledo un Giordano giornalista, dal quale si credevano offesi; poi se ne fe’ l'umore in parlamento a 5 agosto, ma non ne seguì giustizia nessuna. Per cagion di certi cannoni s’ingrossaron gli umori tra Siracusa ed Augusta. E il 26 dentro Palermo in piazza Bologna, lucente il sole, i malfattori assaltarono una casa, trasservi moschettate, e accorrendo i birri ripararono nel convento del Carminello, ove aveano una masnada assoldata; e bisognò una zuffa per farli prigioni. Frattanto inquietudini e paure: ciascuno si lamentava d’Inghilterra. larga in promesse, misera in soccorsi.
Ancoraché si sentissero ruinati dal mal governo, e presentissero la punizione imminente, pur quando a' 31 agosto, pel dispaccio del Napier, il ministro Torrearsa nunziò al parlamento la spedizione assalitrice da Napoli partita, quella nuova con plausi grandi ricevettero, e a sera illuminarono la città. Al mattino rassegne di milizie e guardie nazionali. Ogni cosa era piena di guerra, ogni paesello parato a difesa; vecchi e fanciulli armavano, esercitavano a pugna. Con decreto mobilitarono le guardie nazionali, con baiocchi ventiquattro a ciascuno, sicché né fecero ventiquattromila, in sei divisioni, a Palermo, Trapani, Girgenti, Siracusa, Catania e Messina. Sin dal 1.° luglio stavan comitati da difesa in ogni capoluogo. Arme a tutti, ancora che non guardie mobili, tale che nell’isola almanco eran dugentomila armati. Archi tetti militari avean fortificate le coste e le città, con artiglierie, trincee, zolle bastionate, asserragliamenti e telegrafi per avvisi; con ordine che allo stormire delle campane ogni uomo scendesse coll’arma in piazza. A Palermo restaurate le mura, murate le porte, eccetto due; e in ogni terra s’erano bucate feritoie segrete alle case, chiusi a fabbrica i portoni, aperti aditi fra casa e casa. Commestibili e munizioni larghissime in tutte parti. Prevedendo i primi colpi a Messina, mandami il più gente che si potesse da' luoghi vicini pe’ il 5 settembre da Palermo truppe di linea e volontarie con danari e arnesi da guerra.
I Messinesi durante la tregua preparate contro i patti opere d’offesa e di difesa, già la notte del 5 giugno avean senza avviso rotto l’armestizio, traendo con moschetti e cannoni sull’opere accessorie della piazza. Dalla batteria a Torre di Faro davan su’ nostri navigli da guerra e da merci, quantunque per patto fosse libero l'approvigionamento; e costruita con grosse artiglierie altra batteria alle Mescile, avean di continuo percossate le fortificazioni; bisognò star sempre sulle micce. E il console francese Maricourt che s'era taciuto vedendo i ribelli alzar trincee gagliarde in mezzo alla città, e tutta cingere la cittadella, ora scriveva al Pronio la Francia terrebbe un bombardamento come violazione a' patti. Oltracciò a 2 luglio celebrandosi l’elezione del nuovo re, primi ad alzarne la bandiera furono una corvetta da guerra francese e un vapore inglese, con fuochi festosi, cui risposero gl’isolani; il perché non potendo il Pronio tollerar quest’oltraggio avanti agli occhi suoi, trasse cannonate dal bastione Norinberg sulla batteria avversa a Matagrifone, e la fe’ tacere. Ma fu atto efferato quello del 22 agosto; quando arrenata la regia fregata Guiscardo, mentre i marinai lavoravano a rimetterla a galla, eglino spietatamente cannoneggiavan la nave e la gente per più ore; ma a loro vergogna, addoppiando il pericolo gli sforzi, protetta la fregata da cannoni regi che superaron gli avversi, si salvò. Eppure il comandante la squadra inglese avanti Messina sfrontatamente accusava il Pronio; dicevate cagione d’ogni male, Messina città senz'arme, e pacifici e innocenti gli abitanti!
I ribelli nondimeno al primo indizio d’aver a essere assaliti s’atterrirono; sonaron le campane a stormo, chiamarono guardie nazionali e soldatesche da' dintorni. Avean certe milizie dette squadre armate in dodici migliaia, comandate dal Pracanica e dal La Masa; quasi altrettanti a masse accorrenti, centoventi cannoni e trenta mortai, il più comprati a Tolone, e a Woolich, puntati contro la cittadella, il bastione Don Blasco, e i forti S. Salvatore e Lanterna. Tenevano armate le vecchie batterie di costa e altre nuove, massime una detta La Sicilia sulla spiaggia di Maregrosso. Sedici barche cannoniere avevano, cui soprastava Vincenzo Meloro, spavaldo, il quale a' 6 agosto mandò a pompa un ridicolo cartello di sfida a' legni napolitani. La città serragliata, fortezza ogni casa, feritoie cieche, tutte porte murate, e anche mine pronte a scoppiare sotto i piedi degli assalitori. Invincibili si credevano, invincibili i giornali, e i pacificatori inglesi e francesi li predicavano.
Dall'altra la cittadella, benché assediata otto mesi, in continuo fuoco, pur s’era afforzata: fatte vie traverse, alzati terrapieni e gabbioni e sguanci, postate cannoniere, e con sacchi a terra coperte le muraglie; tutte cose costruite fra' disagi, spesso di notte, più spesso sotto mortifero fuoco, fra le vampe e i colpi. Ove la fortezza avesse ceduto, sarebbe stata impossibile la riconquista dell'isola, perché perdutosi quell’ultimo piede, le corti straniere avrebbero messo in mezzo la bella teoria del fatto compiuto, e impedita la forza del dritto. Perciò quei diplomatici ponean sempre per pegno di conciliazione cedere la cittadella; perciò i demagoghi consigliavanlo a bocca e in istampa, sì con lustre d'umanità coprendo la perfidia.
Il Filangieri avea fama d'uomo di guerra. Disegnò a base d'operazione Reggio, perché in punta alle Calabrie, con Sicilia a un dito di mare, la cittadella di rimpetto, e faciltà di relazioni Ira questa e il regno. Però sbarcato con la truppa colà, e passatala a rassegna con quella del Nunziante, trovò d'aver novemiladugent’uomini di tutte arme, e dieci cannoni. Parte né mandò alla cittadella, poi di queste e quelle fe’ due divisioni, cui ii repose i marescialli Pronio e Nunziante; ambi cari al soldato, quegli pel limi difeso forte, questi per la di fresco pacificala Calabria. La prima divisione col Pronio si componeva del presidio ch’avea 142 uffiziali e 5918 soldati; cioè nove compagnie del 1.° di linea, quattro del 5.°, un battaglione del 6.°, tre compagnie zappatori e pionieri, e sei d'artiglieri; ciò facea la prima brigata col brigadiere Fridolino Schmid; l'altra venuta da Reggio col brigadiere Giuseppe Diversi, avea 106 uffiziali e 3071 soldati, ossia un battaglione carabinieri, due del 13.° di linea, il 4.° cacciatori, uno del 3.° svizzero, e quattro obici da montagna. La seconda divisione dei Nunziante era pur di due brigate: una col brigadiere Francesco Lanza ebbe 118 uffiziali e 3253 fanti, cioè il 7. di linea, e i battaglioni 1.° 3.° 5.° 6.° cacciatori, e quattro obici da montagna; l'altra del brigadiere Carlo Busacca ebbe 157 uffiziali e 5275 uomini; cioè il 3.° reggimento di linea, un battaglione pionieri, uno del 5.° e due del 4.° svizzeri, e due cannoni. In tutto dieci obici cannoni e quattordicimilavent'uomini, ansiosi di rivendicare l'onore della bandiera vilipesa a Palermo. L’armata, duce il brigadiere Cavalcanti, avea tre fregate a vela: Regina, Isabella e Amalia;sei a vapore: Sannita, Roberto, Ruggiero, Archimede, Carlo III, ed Ercole; due cunette a vapore, Stromboli e Nettuno; cinque legnetti anche a vapore, Maria Cristina, Capri, Ercolano, Polifemo e Duca di Calabria; otto cannoniere, dodici paranzelli armati, quattro scorridoie e venti barche. Il generale statuì pigliar Messina, e da questa base procedere alla riconquista dell'isola.
Messina è l'aulica Zancle, divisa pel vorticoso faro da Reggio. Cinta da verdi colli, è come anfiteatro fra quelli e il mare, in cerchio di cinque miglia. L’è a piè sur un’isola il lazzaretto. Quasi minata pe' tremuoti del 1785, risurse più bella, con sei porte, Imperiale, Nuova, Portalegni, Boccetta, Ferdinanda e Realbassa; ma ora n’ha solo le due prime da mezzodì, con ponti di pietra ch'unisconla al sobborgo Zaera; nondimeno serba sue vecchie mura con tredici bastioni latti a tempo di Carlo I dal viceré Gonzaga. Ove è il piano Terranova fu rione popoloso, abbattuto nel 1674; ora è spianala di due miglia di giro, messa tra i bastioni Don Blasco e S. Chiara, la cittadella, e la città. Fra questa e Torre di Faro è il monastero S. Salvatore de' Greci, con una via lungo la spiaggia. Dentro Messina è la strada Ferdinanda parallela al mare, e pur quasi parallela è l’altra del Corso che sparlo a mezzo la città, e va per Portanuova verso Catania. Queste due vie son tagliate a sghembo da quella dell'Austria ch'è al sud-est, e dall'altra Giudecca ad angolo retto, che per porla imperiale s’unisce all’aulica strada romana. Su questa è l’ospizio de' poverelli, creato nel 1827 dal principe Collereale; dopo è Gazzi, paesello segalo da un torrente, con una bella chiesa e ’I campanile allo, però detto Campanaro lungo o primo Campanaro seguita il torrente Bordonaro, e ultimo l'altro casale Contessa. Per tai villaggi passa la via regia, costeggiale il mare a un trar d'archibugio, con case e mura di giardini. Andando per essa in città, dopo Contessa e Gazzi trovi Zaera, sobborgo che piglia il nome dal suo torrente; poi la strada partesi in due, per le porte Imperiale e Portanuova. Qui sulla dritta è il convento della Maddalena de' Benedettini, con due campanili dominanti il paese, postovisi il nerbo delle forze siciliane; il quale è per un miglio separato dal vicino lido di Maregrosso da' giardinetti Moselli.
La cittadella costruita nel 1647 per ordine di Carlo II, da un Nurnberg olandesi, è un pentagono fabbricalo entro al porto, sull'istmo che unisce il piano Terranova alla penisoletta 5. Raniera; può tenere quattromil'uomini, e combatte la più gran parte di Messina. I cinque bastioni S. Stefano, S. Carlo, Norinberg, S. Francesco e S. Diego, han due cavalieri col telegrafo e la bandiera, cinti da una falsabraca, e il mare vi batte di qua e là verso la lanterna. Il fronte di terra, il solo donde può avere offesa, ha un rivellino S. Teresa, e due lunette, Carolina e S. Francesco con ponti in legno. Sulla punta di terra che chiude il porto sta il forte S. Salvatore più aulico della cittadella, che vieta l'entrata a navi nemiche, con bella batteria di trenta cannoni: esso in quelli otto mesi avea patito molto, e pur quasi rovinato resisteva. I forti Gonzaga, Castelluccio e Matagrifone son sulle colline a sud-ovest della città. V’erano allora (poi demolite) sul vecchio bastione Portoreale due batterie, Real-alto e Real-basso a difesa del porto. Il quale ampio 1700 passi per 1400, è per natura bellissimo e sicurissimo, con l'entrata passi 650 larga, tra S. Salvatore e la città. Il nuovo faro La Lanterna, bastionato, vedesi tra esso S. Salvatore e la cittadella. Questa è la chiave de' mari Jonio e Tirreno.
I Siciliani con errore adottarono gli stessi provvedimenti difensivi che già nel decennio gl'Inglesi. Costoro tementi allora l’assalto Murattiano dal continente, non avendo a prevedere sbarchi presso la cittadella che era in mano loro, avean fortificato Torre di Faro e Scaletta, punii lontani e opposti. Ora i capitani siculi non s’accorsero esser diverse le condizioni; cioè ch'essendo non loro ma nostra la fortezza, lo sbarco si potea fare vicino ad essa; il perché non ci badando punto, rafforzarono quelle vecchie opere di difesa, Scaletta ed Ali, Spuria e il Faro vanamente; né là da presso prepararono altro ostacolo, eccetto la batteria a Maregrosso sulla foce del torrente Zaera, ne’ giardini Moschi, a trecento tese dal bastione Don Blasco, non pur fatta a difensione, ma a noiare i navigli che s’accostassero alla fortezza. Imperlante il Filangieri, ponderalo il luogo, le forze e le posizioni de' combattenti, si consigliò di sbarcare sulla spiaggia propinqua al forte, e per averne ausilio, e perché più gagliardo e simultaneo riuscisse poi lo assalimento alla città, stringendola col presidio e co' sbarcanti a un tempo. Se non che gli era necessario prima distruggere la batteria ne’ Moselli e Maregrosso.
Chiamato a Reggio il capo dello stato maggiore della cittadella, e dategli opportune istruzioni, mandò colà a rafforzarlo il 13° di linea, un battaglione carabinieri, il primo del 3° svizzero, il 4.° cacciatori, e quattro obici. La notte seguente al 2 settembre mossero da Reggio la fregata a vela Regina, sedici barche cannoniere e cinque scorridoie, rimorchiate da piroscafi Roberto, Ruggiero, Carlo III, e Sannita, con ordine d’ammortire la detta batteria, e spazzar tutta la costa, dal bastione Don Blasco al villaggio Contessa, poco più che due miglia. Sull’alba i piccoli legni si trovarono in battaglia a mo’ di scacchi a fronte e a lato della batteria, co' quattro piroscafi dietro, e la fregata a retroguardia; e subito secondati dal bastione Don Blasco, apersero vivissimo fuoco. I Siciliani risposero alacremente, e dalla batteria e dal Noviziato; ma in breve i nostri, rovesciate le gabbionate di quella, costrinserla a tacere. Allora il Roberto s’accostò alla cittadella, e die' un segnale convenuto. Eran l'ore otto matutine; ecco dalla postierla di Don Blasco escono a corsa quattro compagnie scelte e artiglierie pionieri con istrumenti; in tutto 1985 uomini, e ottanta uffiziali col colonnello Rossaro 11; l’avanguardia si precipita a inchiodare i cannoni dalla bai; feria nemica, il resto combatte per far tacere i colpi spessissimi e non visti partenti di dietro case e giardini. Contemporanei sbarcano dalle cannoniere i marinai a piantare il vessillo regio; e gli alivi inchiodano i sette grossi cannoni, ardono gli affusti, ardono una scorridoia trovata sulla spiaggia, se ne pigliano il pezzo, e lietissimi gridando i viva al re, in men di due ore se ne tornano al bastione e alle navi. Frattanto il Roberto va' co' colpi spazzando i giardini sulla costa, e tutta sin oltre Contessa scorrendola, s’assicura non v’essere impedimento. Le piccole navi all’ore tre vespertine, eran già parte alla Calona, e parte nella rada di Reggio, senza danno.
Ciò felicemente per gli assalitori, infelicemente per la città si compieva. Il Filangieri il giorno prima aveva invitato il comandante della squadra inglese a trasmettere avvisi uffiziali a' consoli esteri in tutte città marittime di Sicilia, ch’avendo i Napolitani a ripigliar quelle terre, e forse con ostilità, bene sarebbe che gli stranieri, e i commercianti e viaggiatori ponessero loro beni e persone in sicuro. Inoltre i Siciliani durante l’armestizio avean, con pensiero piuttosto iniquo che considerato, eretti fortini e trincee e batterie dentro la città, e sulle circostanti alture; onde era molto difficile a non danneggiar duella, messa in mezzo; dove se avesser fatto approcci a regola d’arte dal Pai tre bande, Messina sarebbe rimasta incolume. Eppure il Filangieri a salvarla ordinò al comandante, la cittadella di non trarre se non provocalo. Poteva il cannoneggiamento esser circoscritto alle Mosche; i Siculi postali presso il Noviziato in gran numero colpendo a salvaniano i Regi scoperti, ben si potevano accontentare, ma eglino senza disciplina, senza unità di comando, uditi appena i primi colpi, scopersero da tutte bande i preparati cannoni a fulminar la cittadella, e dai monti e dalla città. Di questo il general Pronio fece stendere processo verbale, in prova della provocazione; quindi co' suoi cannoni controrispose. Vedesti colpi terribili e micidiali distruggere e rovesciare; dovunque guardavi era caligine e fumo, e fiamme e palle; le case de' cittadini pativan leggio de' combattenti, ché il più de' colpi pria d'arrivare agli avversarli cadevan per via; e sendo i ribelli meno esperti, men davan nel segno, e avendo più artiglierie, eran quasi sempre siciliane braccia che le robe e le vite siciliane malmenavano. L’acre suonava strida, tuoni, lagni, imprecazioni. Fuggivano i cittadini a stuolo alla campagna, fugandovi quanto avean più prezioso, e figli, donne, vecchi e malati; n’eran gremite le strade, pieno il mare, barche a vele e a remi, fuggitivi in ogni dove. E i difensori di Messina, non Messinesi, ma Trapanesi e Palermitani e altra masnada senza patria, ciechi, all’impazzata, gittavan bombe e palle; e invece di volgere i tiri sugli assalitori della batteria alle Mosche sparavano vanamente sulla cittadella imprendibile. Quei loro capitani eran sì boriosi ed ignari, che al vedere dopo distrutta la batteria ritrarsi i Regi, si tennero vincitori, e né fecero rapporti uffiziali. Vittoria fu l’aver presi alquanti feriti rimasti addietro, cui trucidavano. Il Miloro che si firmava colonnello, chiede con lettera a un suo collega mandassegli uno Svizzero prigioniero di quei baffuti, o un Napolitano, per metterlo alla catena, e dargli la baiata, E un A. Savoia rispondeva a margine. Quanti se ne son presi s'hanno massacrati! E il corrispondente al giornale Débats scrivea da Messina: «I Napolitani han tentato uno sbarco, e sono stati respinti; i combattenti siculi portavano a' bottoni delle loro divise, e orecchie e altri pezzi di carne umana; i fanciulli vendevano la carne napolitana sulle graticole.»
Tenentisi scioccamente vittoriosi, quando distrutta la loro batteria restava libero lo sbarco, credettero assicurare la vittoria col costringere. prima che movessero le schiere da Reggio, la cittadella al silenzio, però il dimane 4 settembre da tutte loro artiglierie saettaronla, sostarono a notte buia, ripresero con l’alba, e tutto il dì, e 'l seguente; sicché per tre giorni alla fila, rispondendo il Pronio con più misurali colpi, il maggior danno di quella pazza furia toccava alla povera Messina, colpita dalle due parti, miseranda vittima d’inutile battaglia. Molte case s’abbruciarono e caddero, massime quelle vicine agli eretti fortini; e arse il palazzo comunale bellissimo. D’ogni cosa accusavano i Napolitani.
Cominciò a' 4 settembre in Reggio l’imbarco delle soldatesche. Gli uffiziali passavanle a rassegna sulla spiaggia, diligenti, le più minute cose scrutavano, se acconce le pietre focaie, se ben ne corressero i fucili, se ciascuno avesse quanto era d’ordinanza, se fanne, se le munizioni fosser sane e compiute, se le vesti e sin le scarpe all’uomo in niente difettassero. Giulivo era il soldato, ansioso l'uffiziale, tutti anelanti vendicar l'offese, ripigliar l’isola per traditori consigli abbandonata, riporre la pace ne’ conterranei Siciliani, e soprattutto riguadagnare alla bandiera napolitana l’onore, insozzato da quel De Sauget, ed allora si fingeva sventurato, e che altri tempi aspettava. Sul meriggio presero a salire in nave, ma trattenneli un uragano; ricominciarono dopo cinque ore, e duraron tutta notte. Fu uno stento a imbarcare i cavalli in ispiaggia aperta senza ponti, onde s’avevano a menare a nuoto, il che fe’ perder tempo. La spedizione lascia Reggio all’ore 6 del 6 settembre, e si divide in due; una tira a Messina, l’altra a dritta volta alla spiaggia, e comincia a trai vi colpi sull'ore otto, poi quella ripiega le prue, e le si riunisce, stendendo incontro alla ma cannoniere e scorridoie; sicché tutta l’armata in battaglia su distesa linea spazza co' colpi quei vigneti e siepi e fratte che potean celale imboscate. Più in là era il caseggiato frammisto a mura di giardini, in due grandi ali, tutto voltato a uso di guerra, ogni casuccia acconcia a difesa, murali usci e porte, bucherate feritoie, sollevate tegole, sì da dar l'imbercio all’archibuso; ogni muretto o siepe o fosso avea nemici dietro; s’era tratto partito del terreno in tutte sue più minute parli, per riparare e ascondere i difensori. Adunque s’aveva scoperti a sfidar nemici coperti e invisibili. di numero ignoto,conquistare ad una ad una migliaia di case e fratte e macerie, su suolo ondeggiante; per vie strette e torte, ov'era difficilissimo serbar le norme di tattica ordinanza.
Lo sbarco cominciò all’ore nove, a tre miglia a mezzodì dalla città, al primo campanaro verso le Moselle, protetto dal fuoco delle cannoniere, che tenean netta la spiaggia. Discesero in quattr’ore 6407 soldati e 255 uffiziali, tra' quali il Filangieri, il Nunziante e lo stato maggiore, con poca opposizione; tenendosi i Siciliani al coperto negli agguati. Ma s’aveano a conquistare le tre miglia di quella strada che da Catania mena a Messina, preparate ad acerrima difesa.
Stati primi a pigliar terra i marinari, apersero il fuoco contro le fratte della campagna; li segui il 1.° cacciatori lanciandosi in ordine aperto nelle vigne propinque, senza aspettar la discesa del 6.° cacciatori ch’avea ordine di assaltare dalla dritta; però non potettero guadagnar la strada percossi, presi a bersaglio da tutte bande, e perdettero i più ardimentosi, che troppo corso avanti, venian da' nemici trucidati e mutilali oscenamente. Non per questo retrocedevano; ma il duce scorta la lotta ineguale, sbarca a terra, manda a sostenerli il 6.° cacciatori, fa avanzare il 5.° a manca, e poco stante lancia anche il 5.° La pugna s’ingrossa, i navigli gittan granate su’ tetti delle case combattenti, e sulle chine de' colli occupati da' Siciliani. Come sbarcano un battaglione del 3.° svizzero, e uno del 5.° di linea, volgonsi a dritta del 1.° cacciatori; né ancora era tutta la divisione a terra, che il maresciallo Nunziante dall’estrema sinistra girando urlò nella dritta del nemico, e dopo generale e dura zuffa, giuntagli l'artiglieria a tempo guadagna la via consolare. V’era ferito il brigadiere Lanza. Allora gli avversarli indietreggiano e per la via e per le sovrastanti colline, sempre percussando i regi, e con più frutto, in luogo stretto, fra le due ali di case fortificate, laonde il Filangieri s’avvisò di mutar la linea di battaglia, facendola obbliqua: stende la sinistra su’ colli, sì dominando il caseggiato, e ciò tutta impegna la divisione. Si pigliai) le colline sino alle creste, s’arrovesciano sull’qpposte chine i contrari, dove questi si raggranellano e ritornano a zuffa. Intanto le piccole artiglierie spazzavano la strada si. ma le case de' lati facean fiero fuoco, e ritardavano e fean sanguinosa la marcia a' soldati; onde bisognò assalirle a una a una, scalar finestre, perforar uscì, abbatter mura, e con baionette e incendi). trista necessità, discacciar via via i già sicurati combattitori. Così s’arrivava al torrente Borbonaro, tra' villaggi Contessa e Gazzi, a un miglio da Messina; ove fu più duro conflitto, sendo i Siciliani postati dietro il muro della sponda sinistra, e nelle prime case di Gazzi. Di quattro cannoni da montagna, uno fu reso inutile; cadder morti e feriti capitani e uffiziali, artiglieri e cavalli: a sforzar quel passo fu opera di valore. E peggio avanti la chiesa: questa, le case, e l'alto campanile irti d’armati s’ebbero ad assaltar tutti insieme, sfondar a cannonate le porte del tempio, investire il campanile, e combattere sotto una pioggia di palle, più molti ricevendo che dando: stretto il luogo, larghe le offese, impossibile il far presto.
Il duce a divertir la pugna spicca due battaglioni del 5.° di linea e del i.° svizzero con quattro cannoni pe' giardini sottoposti, con ordine di protrarsi il più che potesser lontano sulla sinistra de' difensori, e circuirli; ma non riescono, ché verso il monastero della Maddalena trovan sì poderose forze e difese, che indarno sino a sera caldamente vi fan guerra. Nondimeno basta a far tentennare i difenditori di Gazzi, che sforzati van rinculando su Messina. Quivi men caseggiato il luogo, né valendola tattica del combatter coperti, avrian dovuto dar battaglia in linea, che non osarono. La notte allentò i colpi, non l’ire: i Borboniani stettero sull’insanguinato campo, la sinistra appoggiata a’ colli, la dritta al bastione Don Blasco, il centro a un quarto di miglio da porta Zaera. Il Filangieri fra' suoi, provvedendo a' morti e a' feriti, aspettava la dimane.
Era stato suo disegno le due divisioni operassero simultanee. Pugnando la seconda, dovea la prima a un segnale uscir dalla cittadella al piano Terranova, occupare il portofranco a S. Chiara, qui sfondare un muro, e con un colpo di mano pigliar i cannoni che percuotean la faccia dritta di Don Blasco, cosi far libero il passo del torrente Portalegni, superar di rovescio le batterie S. Elia e Mezzomondello, sforzar Portanova e Porta imperiale, per agevolarvi l’entrata alla seconda divisione, da ultimo distruggere la batteria al Noviziato. Se il disegno avesse avuto effetto, sarebbesi evitato l’inutile fuoco tra la cittadella e le trincee messinesi, menata la zuffa fuor della città, evitato il danno di questa, e costretto il nemico a uscire in campo: ciò vietarono i fati.
Imperciocché mentre la divisione del Nunziante lavorava, non minori, ma più disgraziati perigli incontrava quella del Pronio. Il quale sull’alba di quel di 6 settembre preparò la prima brigata dietro Punirne mura; e come vide l’assalto volgere a dritta, ed ebbe da una fregata il convenuto segnale, cacciò in avanguardia quattro compagnie del 4° di linea, tre del 6°, una compagnia pionieri, e quattro obici. Incontanente fur colti da moschettate dagli edilizii circostanti, e a scaglia dalla batteria sullo sbocco della strada d’Austria; nondimeno correndo investono i primi quartieri, e se ne fan padroni. Una compagnia del 4.° si posta presso S. Chiara, centotremil’uomini del 1.° entrano nel Portofranco, e i pionieri dansi a forare il grosso muro che divide quelle caserme dal convento S. Chiara. Sopraggiungono cinque compagnie del 4° e del 5.° cacciatori, e serransi dietro il casamento a oriente di Terranova. In quella fur visti indietreggiare i Siciliani dalla strada d’Austria, e issofatto alzarsi colonne di fumo avanti al Portofranco; avean messo foco a una mina d’otto fornelli, per lanciare all’aria caserme, portofranco, soldati regi, e fors’anco molte case; ma le polveri guaste dalle piogge non iscoppiarono; questo risparmiò a Messina un’immensa ruina. Se non che i soldati, salvi dallo spaventoso pericolo, temendone un secondo, dettero addietro; laonde poco stante i nemici inondarono il portofranco, e di là percuotevano alla gagliarda nella dritta della regia brigata stretta in massa. Vi caddero per mortali ferite il Mori, colonnello del 4.° di linea e il Pellegrino, capitano d’artiglieri.
Lavoravano i pionieri nel muro del convento, che grosso e di mattoni resisteva; eppur s’era quasi aperto il varco, quando una sventura rese vani i perigli di quel giorno, e ritardò la vittoria. Cadde una bomba nella soldatesca a massa sotto le caserme, né solo alla prima uccise dodici uomini e altri molti ferì, ma impigliato il foco alle cartucce di cui ciascuno aveva copia ne’ sacchi a pane, parve infernali fiamme tra quelle umane membra divampassero. Due compagnie del 6.° di linea caddero orribilmente; e vedesti per terra centinaia di corpi scottati, anneriti, laceri, dibattersi come percosse serpi fra gli aneliti di terribile morte. I nemici se ne valsero a ripigliare il perduto; e benché il Pronio mandasse il 1° di linea a rinfrancare gli spaventati, pur retrocessero, non valendo sforzi d’uffiziali a rattenere quelle meridionali fantasie, che credeano veder mine e voragini in ogni intorno. Già il tramonto con le tenebre aggravava nelle giovanili menti i sospetti; onde fu necessità far rientrare i soldati, per toni alla vista di tanti cadaveri. Nondimeno a tarda Sera una mano di guastatori svizzeri e artiglieri fur mandati a distruggere la batteria del monastero S. Chiara; in breve n’inchiodarono i pezzi, e presero ventiquattro barili di polvere.
Cotal disastro fe’ mancare il disegno del Filangieri ch’avria salvato la città; e rese necessaria la seconda lotta del domani. A lui giunse a notte alta il capitano Geci inviato dal Pronio, a dirgli il perché non aveva cooperato alla battaglia. Ordinò a costui non fiatasse, e volto agli astanti disse: «Domani entreremo in Messina.» Ben sentiva fallito il suo proposto, sofferti molti danni, trovarsi impegnato con una sola divisione, ma senza darne sentore, imperturbato mutò incontanente il disegno. Rimandò il Ceci con ordine al Pronio che al mattino girando pel bastione Don Blasco investisse a tutta forza l'edifizio della Maddalena, dove troverebbe i due battaglioni da esso mandati: starsi colà la chiave ultima della giornata. Oltracciò a mostrar sicurezza di vittoria rimandò la flotta a Reggio, così rimanendo nell’alternativa di vincere o morire.
I Siciliani già pel numero credentisi sicuri, vistisi ributtati per tre miglia da luoghi stimati insuperabili, cominciarono a dubitare; nondimeno non cessaron tutta notte di scambiar colpi agli avamposti, per tener desti e stanchi gli assalitori; all’alba si riprese la zuffa. Ma i capi loro, mentre a parole incitavanli, or l’uno or l’altro sbiettavano. Primo il La Massa con la schiera d’ottocento Palermitani lasciò Messina, dicendo andare a colpir nelle spalle de' Regi, veramente per salvar la pelle: ché fuggito pe' colli di S. Rizzo, vedea di là ricominciata la pugna, e spietato e codardo s’allontanava. Gli altri visto lui, pensarono a sé. I cittadini rimasti in città, all'avvicinarsi de' colpi, presentono il conflitto dover seguir nelle mura, e fuggono a campi per la parte opposta. Uomini e donne d’ogni e tà e condizioni, con fanciulli, malati e masserizie, allenati per valli e greppi, senza saper dove, preganti il Signore, trascorrono atterriti e pallidi in balia del caso. Ed ecco sopravviene altra schiera d’armati, che inviata da Palermo, sbarcata a Melazzo, accorreva in aiuto: odono i casi della guerra, veggono i fuggitivi piangenti, onusti d’arnesi e robe; li piglia il demone della cupidigia; e assalgonli infamemente, inseguonli, spoglianli di quanto nella infelice partenza avean potuto di prezioso recar con seco. Li avean chiamati fratelli, arrivavano in soccorso, e lascianli percossi, nudati, senza tetto, senza pane, in fra tutte maniere di disagi e paure. Meno sventurato chi ripara a' vascelli stranieri: quei di Francia raccolgono con carità; il comandante inglese da pria li scaccia, li chiama vili, gl'incita a tornare in città per combattere, quasi i pacifici cittadini vittime di macchinazioni altrui fossero atti a guerra. Appresso li accoglie, ma tra' primi i capi ribelli che danno l’esempio brutto di primaticcia fuga. Il Piraino capo del potere esecutivo in Messina v’era ito per protezione sin dalla sera, col suo segretario, dicendo disperse le squadre siciliane, disertati i Nazionali. Dimandato dal capitano quali condizioni offrisse, rispose non poter niente senza il comitato; ond’ei gli disse tornasse a terra a consultarlo, che non volle, temente le vendette de' cittadini. Così più ore trascorsero; in fine incitato da' suoi andò e dopo poco ricomparve col generale de' Nazionali e altri della potestà civile, dichiaranti che per la fuga delle milizie, e più pel tradimento de' Palermitani non credere si potesse alla dimane battagliare. Lo spavento li acciecava.
Allora i capitani Roob e Nonay de' vascelli inglese e francese, quegli del Gladiatore, questi dell'Ercole, mandano ai Filangieri una lettera per la via della cittadella: «Non poter loro navi contener più famiglie, fuggenti il temuto saccheggio. Eglino in nome del Dio di misericordia fare appello a' sensi d'umanità del duce napolitano, perché concedesse tregua da far sostare il già troppo sangue, e stringere una capitolazione fra' legati delle due parti sul vascello francese.» Questa giunse al generale all'ore sette del mattino, però incontanente mandò il Tenente-colonnello Picenna suo capo di stato maggiore significando egli tosto l'arme poserebbe che gli avversarii le posassero, cedendo la città al legittimo signore; intanto proseguirebbe avanti, sinché non avesse certezza di sottomissione. Anche per la via della cittadella giunse all'ore otto, e trovò tutti i capi rivoluzionarii rifugiati sull'Ercole: il Pracanica comandante le armi, il Piraino già detto, l'Orsini comandante le artiglierie, e altrettali; dove alla sicura,mentre ferveva micidiale il combattimento, discussero due ore la proposta, e orgogliosamente la rigettarono. Invece dettero un foglio, che intitolarono Basi di capitolazione. «I regi sarebbero ricevuti in Messina, a condizione che la potestà restasse in seggio, e la quistione di governo si decidesse dalle camere palermitane. Restituirsi i prigionieri.» Tanto erano stolti per libidine di comando,che speravano ritenerlo anche perdendo. I Roob e Nonay tentarono indarno a torre da quei cervelli cotesta sciocchezza, e dando la carta al Picenna nol celarono, ma chiesero risposta scritta, per corrispondere alle prescrizioni de' loro governi. Il Filangieri l’ebbe ch’era già sulle mura di Messina; restituì con lettera la scritta; e volto a' suoi disse: «Scoraggiato è il nemico; un ultimo sforzo, e abbiamo vinto.»
Quei capi della ribellione furono spietati e codardi; ché o volevano guerra, e dovevano combattere in mezzo a quelli ch'avevano armati contro il trono; o volevan pace e dovevano far cessare l’inutile carneficina; ma eglino solleciti soltanto delle persone loro, al primo pericolo si rifugiarci! sui legni, abbandonando le torme de' sedotti a morir per causa perduta, e Messina e i Messinesi esposti a soldatesche rabbie, e a patire estremi danni dai vincitori e da' vinti. Viltà e mala coscienza suscitarono paure premature in quei burbanzosi, e lor fean parere tutto perduto, quando la prolungala resistenza mostrava ancora incerta la sorte. Non facean guerra, e compilavano inaccettabili proposte, non facevan pace e fuggivan dalla guerra; e senza pietà per la città cui erano stranieri, lasciavanla da lontano saccheggiare, parlando da vincitori. Mercanti di falsa libertà, voleano aspettare gli eventi, per raccogliere l'eredità dell'altrui sangue. Il Piraino nel suo rapporto a Palermo scrisse: «non aver potuto approvare condizioni cui non era facilitato, e che poteano porre a rischio l’onore del paese, e la santa causa: aver fatto proseguire la disperata lotta, sicuro che se era mortifera per Messina, era onorevolissima per Sicilia.»
Seguitando la battaglia, forte contrasto seguiva al borgo S. Clemente, ché bisognò vincere e sforzare ogni casuccia; più forte a porta Zaera. Abbarrato affatto con enormi ingombri e sabbia e fossi lo stretto sentiero che di dietro l'ospizio Collereale vi menava, non si poteva altrimenti farsi alla città che per la grande via. Quivi avanti la forta era una barricata, con largo fosso prima, bastionata di zolle, arena, fascine, e pali confitti ai suolo, con sullo spaldo quattro cannoni che spazzavan la strada; e le case da' lati pur fortificate e difese; mentre da destra i forti poco discosti del Noviziato fulminavano per fianco. Non si poteva sbarrar quel passo da fronte, per mancanza di grossi cannoni da contrabbattere gli avversi; il perché a tenerli a bada, il duce fa continuare il fuoco de' fucilieri e di due obici, e manda a girar la posizione. Vanno dalla sinistra i cacciatori del 3.° di linea e un battaglione svizzero del 4.°: parte deve occupare l’ospizio Collereale, e parte lanciarsi nel torrente Zaera, per pigliar di sorpresa i difensori della batteria. Colti dalle artiglierie del Noviziato e dalle case dintorno pur con impeto si caccian davanti gli avversi, gl'inseguono, s’inerpicano pe' colli, e pugnano ad ogni greppo, qua e là, sparsi da per tutto. Dalla dritta soldati del 7.° di linea e pochi del 3.° svizzero pe' giardini assaltan le case alle spalle, piglianle, e dalle finestre traggono su’ Siciliani. Il centro intanto per dar tempo a queste evoluzioni, intrattiene il nemico di fronte, soffrendone le scaglie.
Venticinque del 1.° cacciatori, due Svizzeri con un sergente Mast, e tre zappatori travarcano il torrente, salgono sull'opposto colle a investire il forte Gonzaga, spaventano con l’audacia il presidio, e ‘l pigliano; né paghi, lasciati i più a guardarlo, nove di essi col sergente scendono dietro la batteria Noviziato, montanvi per una sdruscita rampa di legno, e con le grida spaventano gli artiglieri, che credendoli un reggimento si fuggono. Dall'altra il capitano Grafienried con una compagnia del 4.° svizzero pur da' giardini entra di rovescio nell'ospizio Collereale, fa a pezzi gli oppositori, e dalle finestre percuote anch'esso i difensori della barricata a Zaera. Questi impertanto stretti da manca e da dritta, decimati, rimasti soli, veggono i vessilli regi sventolar sul Noviziato e su Gonzaga, eglino non bastare a' cannoni, né avere scampo; eppure facean fuoco. Ma venti soldati, sboccati da un cancello, e ricevuto il colpo a scaglia, non dan tempo a ricaricare, si cacciano a furia, e dan con le nude daghe sugli artiglieri, sinché arrivato il grosso delle truppe dalla strada conficcano la bandiera sul conquistato spaldo fra i viva al re. Tutta la divisione, compiuto quest'ultimo affronto, fu dal duce chiamata a raccolta e riordinata sulle alture di Porta imperiale, per aspettar l'arrivo della prima divisione, di cui il cannoneggiamento vicino nunziava la lotta.
I) Pronio era uscito per la postierla di Don Blasco, pria rasente la spiaggia, poi a dritta pe' giardini Mosche appressandosi alla Maddalena. Era d’avanguardia il brigadiere Zola con quasi quattro battaglioni, una compagnia zappatori, e quattro obici. Bisognò scacciar il nemico da ogni muro, aprirsi il passo con cannoni, picconi e daghe: eran chiusi gli edifizii adiacenti al monastero con triplici fortificazioni; a ciascuna cinta stavano difensori ascosi, che sforzati ripiegavan sull’altra. Superato il primo muro, gli assalitori son colti da finestre e tetti e campanili; non retrocedono, fan breccia nel secondo, slargante con baionette, ed entrati voltano a sinistra, perché più coperti, perché di là s’appressano alla seconda divisione combattente. Il 3.° e 4.° di linea con altri Svizzeri dopo lungo contrasto pigliano i mortai colà piantali contro la cittadella, e invece pongonvi quattro obici a contrarrispondere all’altre combattenti batterie avverse. Seguirono quattro reiterali assalimenti a edifizii chiusi e gremiti di difensori. Aperta la breccia al terzo recinto, gli zappatori lavoraronvi a farla praticabile sotto gl’incessanti colpi, quindi il battaglione del 13.° di linea e i due svizzeri, si lanciaron dentro, e presero d’ogni intorno i giardini. Restava la Maddalena, isolata, ultimo ostacolo avanti alle porte della città; certa, imminente era la vittoria, ma grave per danni; morivano il capitano Demetrio Andruzzi d'artiglieria, l’altro Marmel del 4.° svizzero, e ‘l tenente Rossi aiutante di campo del Zola. Stretti in quell'ultimo baluardo i più pertinaci pugnavano da disperati; i soldati del genio benché colpiti, sfondano ratti con asce e picche le porte del concento, scelgono cancelli e imposte, invadonlo a mo’ di torrente, e per corridori e stanze combattono corpo a corpo, i difensori vanno a pezzi. Gli echi di quelle solinghe sale usi a cantici sacri, suonano urla feroci, gemiti e bestemmie, chi avean volte in castelli pugnaci quelle mura di penitenza, ora bruttanli col sangue, terribilmente puniti. Pochi fuggono per Portauova, l'ultimo avanzo con sei cannoni tentano ancora rifar testa, ma investiti a corsa dileguansi. Le due divisioni si congiungono sulla strada fra le due porte; e lor davanti aperta sta Messina.
I Siciliani abbandonarono le navi armate, le batterie del Faro, e quelle donde il giorno prima avean saettata la cittadella. Da ogni banda vedesi numerosi gruppi di fuggenti per la città, pel mare, pe' campi, pe' monti. Così cadeva dopo trent’ore di pugna, per isforzo di poche migliaia d'uomini quella città, dove per otto mesi la rivoluzione avea cumulate sue posse, e dove sei secoli avanti Carlo d’Angiò contro altra rivoluzione spuntò la sua spada. S’eran lanciati da due bande diciottomila colpi di bombarde, de' ribelli combatteron dodicimila, de' Borboniani 333 uffiziali e 8818 soldati, questi col danno di otto uffiziali morti e 38 feriti, e di 181 soldati morti e 871 feriti, in tutti 1098 rimasti fuor di combattimento, cioè quasi l’ottava parte, perdita da paragonarsi alle maggiori delle mortifere battaglie di questo secolo. Presero 64 cannoni, 12 mortai, 21 bandiere, tutti i fortini, e prigionieri e munizioni senza numero. Degli avversarti ch'avean pugnato da' ripari, sembra da atti uffiziali che assai meno perissero. I feriti regi fur condotti a Reggio, e là curati con carità da quei cittadini.
Il Filangieri dopo il mezzodì segnalava per telegrafo a Napoli: Messina è conquistata. Essa inoltre fu quasi tutta preservata dal saccheggio e dall’incendio; che il duce, considerando l’ebbrezza della vittoria, il furore pei superati rischi e patiti danni acciecare il soldato, a tener quel primo empito, mise guardie alle porte, rannodò fuor delle mura le due divisioni, e le fece riposare, poi nel pomeriggio ordinatamente entrò per porta imperiale. Quivi nuove fatiche alle stanche milizie: spegnere il foco appreso in molte case, pel feroce e vano duello fra le batterie e la cittadella, e pericoli nuovi, ché le preparate mine, e i gran cumuli di polvere ad ogni passo tra quelli incendi! potevano scoppiare. Ne’ dì 9 e 10 si scopersero dieci mine, e lavorandosi a smorzar il foco nel convento de' Domenicani fatto arsenale, vi scoppiò la riserva delle bombe, con all’aria una parte dell'edilizio. Deserta era la città, qua e là fumante, case murate, strade asserragliate, ingombri, insidie, mine per ogni canto. Con trombe fatte venire dalla cittadella e dalla flotta, si die’ nelle fiamme, si lavorò a puntellar case, sgombrar vie, rifar selciati, ricolmar fossi e mine, rifabbricar muraglie crollate e crollanti. Presto gli spauriti cittadini ritornarono, fur rifatte la potestà ecclesiastica e civile, la municipalità, le poste, le amministrazioni diverse, le contribuzioni daziarie, il servizio sanitario e le dogane. Allora andò lodato assai l’atto del Filangieri che non solo gl'impiegati antichi richiamò a posto, ma tennevi altresì molti di quelli messi dalla rivoluzione; ciò parve prova di forza e di sicurezza, e fu ingiustizia che agguagliava nel dritto e nelle rimunerazioni i fedeli e i ribelli. Non dovrebbesi dar mai, per fine politico, lo spettacolo del premiare la colpa. E che politica? fidarsi al nemico? parve magnanimo allora, partorì amari frutti Magnanimo fu il perdonare; ne usci la proclamazione a' 10 settembre pel sindaco marchese Cassibile; si bandì: assoluti i passati traviamenti, sospeso il dazio al macino. Messina co' suoi trentasei casali aver porto franco in avvenire. Fur prorogate di due mesi le scadenze de' debiti commerciali, aperti i banchi, l’uffizio d’ipoteche, i tribunali, il commercio. A richiesta de' comuni vicini andar soldati sicurando le campagne infestate di fuggiaschi. Esenzione d’imposte agli edifizii danneggiati, tenuti validi i pagamenti di contribuzioni fatti a' ribelli. Il re a 16 del mese conferiva al Fi langieri la Gran Croce di S. Ferdinando; e di quella stessa in diamanti usata da lui gli facea presente.
Ma gli stranieri ch'aveano spinto Sicilia a ribellare, e v'avean lasciato andare la spedizione regia, pensandosi che sarebbe respinta, vistala vincitrice, ripresero l’arme vecchie della calunnia. Dissero i Napolitani Unni e Vandali, rovesciatori della poetica Sicilia; Messina saccheggiata, arsa, bombardata per altre otto ore dopo presa; non denunziato armestizio, non intima di resa, i soldati rubare, uccidere, stuprare. Eppure l'armestizio era già da due mesi rotto da' ribelli, la città avea patito per cagion delle batterie costruite da essi nelle vie, s’era impedito il sacco, i soldati tenuti fuori, poi entrati in ordine, il foco spento, dopo la pugna nessun colpo; e molti giorni prima da Reggio s’era a' consoli esteri lo assalimento nunziato. Quelle accuse a disegno sin nelle camere inglesi il Palmerston faceva ripetere, non provate mai, anzi provate contradittorie e mendaci.
Mentre s’inventavan colpe borboniane; e con ipocrisia ripetevansi a nome dell’umanità, si ponea velo alle vere infami orgie de' faziosi. Costoro per ferina rabbia aveano il 3, come ho detto, mangiato umana carne da cannibali, vendutala a pezzi in piazza; né mancarono strazii ne’ dì seguenti: quando potean cogliere qualche ferito soldato, strascinavanlo semivivo, facevanlo a brani, e delle membra mercato e pasto. Usavano il nome napolitano come suprema ingiuria; anche fuggiti su’ legni esteri, tacciavan vili i Napolitani, che a petto scoperto li avean vinti ne’ loro ridotti. Messina per essi guasta, patì saccheggio per le mani loro. La banda del La Masa di ottocento, corsa da Palermo in soccorso, fuggendo la notte dopo il 6 avea manomessi magazzini e case nel lato settentrionale della città; poi sui monti al vedere l’altra schiera palermitana a spogliare i fuggenti cittadini per invidia di rapina fecero altrettanto; e indi a poco incontrato chi recava trentamila ducati da Palermo glieli tolsero, e se li spartirono al villaggio Divieto. Congiunte le due masnade, rifuggirono a Melazzo, ov’era un campo e castello munito di cannoni grossi, e diciottomila ducati. Vi stettero la notte; il domani non vi si credendo sicuri, si presero quest’altro denaro, e abbandonarono il luogo. Il La Masa scrisse per telegrafo a Palermo ragunerebbe sue genti a Noara, poi scrisse farlo a Montalbano, e da ultimo a Randazzo, sempre allontanandosi, inseguito non da truppe ma da paura. Rifugiò in Palermo, e favellando in parlamento disse con prosopopea: «La nostra caduta non fu disfatta, fu vittoria ammirevole, e unica forse nella storia delle battaglie.» crederei piuttosto cotal fatto unico nella storia delle sanguinose buffonerie. Prima di esso il ministero n inizia lido al mattino delizia perdita di Messina avea sclamato: «Se innanzi il trattare coi Borboni saria stato fallo ed onta, ora dopo il sagrifizio di tanta città sarebbe tradimento e infamia.» Poi ‘l ministro d’istruzione pubblica disse a quella camera: «Messina non fu abbandonata, ma ridotta in cenere; i nostri non sono stati vinti, ma si son ritirati.» Lo stesso giorno della disfatta quei deputati votarono un tempio a Nostra Donna della Vittoria. Contradizioni impudenti.
Per l’opposto i capi facienti il governo provvisorio a Messina, quando nella notte del 6 si sentirono i Borboniani alle porte, e pensavano a scampare, si tolsero diecimila ducati del banco de' privati. Né quelli erano i primi; fattasene verifica, si trovò mancanza illegale di ducati 108,837, laonde a ravviare quello spogliato banco bisognò che a 28 settembre v’andassero da Napoli novantatremila ducati. Quei liberaloni giunti a Palermo dettero un solennissimo spettacolo di discordia; l’un l’altro a bisticciarsi e accusarsi in pieno parlamento, il dì 13 si spiattellarono improperii incredibili e recriminazioni, tassavansi di tradimenti, calunnie, ruberie; ciascuno a scagionar sé e a rovesciar sugli altri la impunita colpa de' danni enormi fatti patire a Messina.
Sull'alba dell’8 le fregate Ercole, Ruggiero, Sannita e Archimede, postesi avanti al porto per vietar l’uscita a' legni siculi ricovrali sotto le bandiere de' vascelli Anglo-Francesi, significavano a' capitani di questi li facessero scostare avendoli a combattere; seppero esser vuoti, e preserli, ch’eran sedici barche cannoniere e una scorridoia, tutte nuove, con gran munizioni da guerra. Il Roberto fregata comandata dal Marselli ch’era la sera innanzi ita alla cerca del Vesuvio, nave a vapore nostra predata da' Siciliani, il sorprese che carco d’armati s’ingegnava a uscir da Melazzo; i quali subito scesero a terra sotto la protezione del castello, che trasse tre colpi al Roberto; con tre bombe gli rispose. Stette pertanto tutta notte a guardia che non isfuggisse; al mattino intimò la resa; e tosto, sendo i faziosi, abbandonalo il forte, fuggiti pe' monti, i Melazzesi con bandiere regie e gridando Viva Ferdinando, mandarono una barca co' primarii cittadini, attestanti devozione al trono, e chiedenti soldati a difesa. Il Vesuvio, ov’era rimasta la ciurma, esso stesso si presentò. E un tenente Armenio sbarcato con pochi uomini, fu preso sulle braccia della popolazione, condotto quasi in trionfo al municipio. Dappoi vennervi quattro compagnie di fanti.
Il Ruggiero col capitano Lettieri andò a Lipari, e, anche invitato, prese l’isola, plaudente il popolo; cui fur date patenti per libera navigazione. Molti paeselli mandaron deputati, e tutte le coste sino all’acque di Siracusa avean bandiere bianche. A Barcellona si recò da Melazzo l’Armenio con quaranta soldatelli, ed ebbevi festa. S’occupò inoltre Scaletta, S. Lucia, S. Piero di Monforte, Gesso, Spadafora, Larderia e Galati, con ottima accoglienza; e una colonna mobile andò attorno sicurando cotesti paesi obbedienti. Anche Catania inviò cittadini a sottomettersi, ma gli ammiragli Francese e Inglese, nell’atto che imponean come ora dirò sosta all'arme napolitano, sfacciati condussero a Catania con l’Ellesponto i ribelli ricovrati su’ loro legni; ciò contro ogni dritto internazionale, rattenendo una parte, afforzando l’altra. Quelli presero le porte, sventarono la sottomissione, e dannarono fatalmente la città a non lontane percosse.
I regi guardavan la linea da Milazzo a Messina, e di qua a Scaletta. I Siculi ordinarci! tosto sei campi d’osservazione, a Taormina, Catania, Siracusa, Girgenti, Trapani e Palermo; così guardati i limiti della provincia messinese, teneva Patti, Castroreale e il capo Alì, e messa a difesa la linea da questo capo per S. Alessio, Taormina, Acireale e Catania. Intanto il Filangieri, sollecito di procedere innanzi, lavorò in pochi dì a rifar l'artiglierie; ché de' dieci pezzi da montagna ch’avea, v’erano nove guasti; fe’ curare i feriti, riordinare i battaglioni, e lasciata guarnigione a Messina, spartì il resto di sue genti: Munita Melazzo di presidio e viveri, la fe’ piazza di deposito di tutte munizioni; restaurò i forti Gonzaga e Castelluccio sui colli messinesi, e l’altro S. Salvatore, rimasti malconci. Dopo cinque dì era già pronto a riconquistare l’isola; che assalita allora avria risparmiato gran sangue.
Quantunque il parlamento di Palermo decretasse il tempio alla madonna della vittoria, invero quel cader Messina fuor d’ogni loro pensiero, fu fulmine improvviso: vedevan sé e il paese precipitato in tanta ruina; spaventavansi de' Regi, più anche de' galeotti e masnadieri loro difenditori. Trista condizione avea Palermo con tali ospiti padroni, tristissima le provincie taglieggiate. In ogni parte potestà dispotiche, indipendenti. Costretti a correr sempre avanti nella rivoluzione senza fermata, facevano i baldanzosi per necessità. Per lo sbandamento tra Messina e Melazzo avean perduti cencinquanta cannoni, seimila fucili, quattromila quintali di polvere, proiettili senza fine, tutto il naviglio, e più che tutto riputazione. Nunziata con tanta iattanza ai mondo la guerra del popolo, la setta era rimasta sola;la guardia nazionale non combattente, le città darsi spontanee, le popolazioni gridar Re, impetrar soldati a difesa. Se i Borboniani fosser venuti avanti, la guerra era finita.
Impertanto corsero a protettori per patrocinio. Gli ammiragli Boudin e Parker si volsero a rappresentanti de' loro governi; e costoro, Rayneval e Napier, a 10 settembre lanciarmi noie al nostro ministro Cariati. Diceva il Napier: «Le milizie condursi con rigore eccessivo; la incontrata resistenza provar che il resto della guerra apporterebbe gran sangue e nessuna condizione di pace duratura. Tale trista alternativa tra sforzi soldateschi per soggiogare un popolo infelice a un governo contro cui a ogni occasione si rivolterebbe, aver fatto doloroso senso ad esso e al Parker; perlocché volgevasi con fermezza al re, chiedendo ordinasse la sospensione d’arme, e formasse armestizio da durare sino alle decisioni de' governi inglese e francese.» Il Parker soggiungeva: sperare il re nol riducesse a domandare l'armestizio a forza. Né meno alto il Rayneval: dichiarava do l’ordine al comandante la flotta d'ottenere dal governo napolitano, e d'imporre la sospensione dell'ostilità. Sarei lungo a tutto raccontar quell’andirivieni semidiplomatico. Rispondevamo: «Tutte guerre far sangue, non vere le atrocità, essersi con colpi risposto a colpi; i popoli voler pace, sottomettersi spontanei, contrasto aver fatto i faziosi, ora disfatti; la sospensione dar loro tempo da ripigliar lena, la protezione straniera ringagliardirli, sospingerli a rinnovar la lotta e le morti degli uomini. Assurdo desiderare il bene dell’umanità, e far ammiserire le popolazioni da settarii sitibondi di potere e roba; paradosso voler pace, e far preparar arme e guerra. Gli stati neutri violare i diritti d’indipendenza d’altro stato, e i riguardi debiti a governo amico, usando forza per costruiserlo a decisioni di stranieri; le corone secondarie vedrebbero con sorpresa e dolore, in questo sforzare il regno delle Sicilie, il danno minacciante tutti, in tempi proclamatori di rispetto a libertà e indipendenze di nazioni.» Ragioni vere, perciò vane. Il Parker ordinò in iscritto a' suoi capitani usassero forza contro i Regi ove assalissero Siciliani, né fu possibili ottenerne la rivoca, né valsero proteste e rimostranze. E perché sappiano i posteri quanto abbietta politica s’usi a' tempi nostri, noto che a Parigi si dichiarava: Francia voler restar fuori quistione; e il Palmerston a Londra assicurava non opporsi a niente, in Parlamento negò esservi ordini d’opposizione alla guerra sicula, e aggiunse non aver il Parker fatto dimostrazioni contrarie. Questi piccoli grandi uomini avean bisogno di mentire.
Adunque gli ammiragli operando di loro testa significarono al Filangieri aver ordine d’impegnarlo a non mover passo avanti, sinché loro governi riuscissero a pacificare le parti. Rispose rapporterebbe al sovrano. A’ 13 settembre un legno brittanno nunziò a Palermo l’Inghilterra offerir mediazione; e subito quel parlamento l’accettò; anzi mandò il Peloro, vaporetto a Messina, proponendo patti; cui il generale disse voler sommissione non patti. Invero s’avria potuto continuar la guerra dentro terra, fuor dalle molestie de' vascelli stranieri; ma Ferdinando saldo sulla quistione del dritto, volle mostrarsi cedevole su’ modi; però non accettò formalmente la mediazione, per non sopportar quasi dritto l’intervento estero nel reame indipendente; ma a schivar controversie non mandò ordine di ripigliar l’arme. Così benché a parole si fingesse non ubbidire, pur di fatto s’ubbidiva alle illegali intimazioni de' due ammiragli, e si venne a contraltare una specie d’armestizio. Il capitano Roob del Gladiatore per parte del Parker, e ’l contrammiraglio Trehouarl pel Baudin, determinarono una zona di terra neutrale, tra regi e ribelli. Si disse linea napoletana la congiunzione delle strade di Barcellona e Patti, compreso S. Antonio e ’l telegrafo, Barcellona, Contineo, Pozzodigotto, e per le vette de' monti di Rosimanno ad Artalia e a Scaletta sino a mare. La linea siciliana fu dal capo Tindaro a Taormina, con dentro Casalnuovo, Tripi, Noara, Graniti e Molo. Neutrale dichiararono la contrade in mezzo, dove nessun armato entrasse, o che l’armestizio s’intendesse rotto; ministrarvisi giustizia a nome di Sicilia; la guardia nazionale guardarvi l’ordine, non mostrarsi bandiera sicula in qua da quindici miglia dalla linea napolitana. Firmarono il Filangieri, e il Torrearsa. Ma costui stampando quell’atto a Palermo misevi con mala fede due patti: non riprendersi le ostilità se non dieci giorni dopo fattane denunzia a Palermo pel mezzo de' comandanti Anglo-francesi; e lo armestizio esser garentito da Francia e Inghilterra. Contro ciò protestò il Filangieri, perché ledeva la dignità reale lo intervento estero in fatti interni. Infine dopo un po’ di polemica, gli ammiragli dichiararono avere bensì Palermo proposto quei due articoli, ma eglino non averli presentati al duce napolitano, perché dal re non accettata la mediazione.
Dopo questo, non si può seguir senza noia lunga il laberinto delle uraliche corse tra Palermo, Napoli, Parigi e Londra. Queste due accoriate a favorir la rivoltola, non concordavan sul fine. Londra non volea repubblica, Parigi vi s’acconciava. Il ministro Bastide dava speranze a' legati siculi Amari e Friddani; il Cavaignac, alla soldatesca li mandava via. I legali proposero la repubblica al Bastide; questi rispose: Fate presto che v'aiuterò: proposerla al Cavaignac, questi disse; Aggiustatevi col Re. Un momento sullo scorcio di settembre parvero Francia e Inghilterra convenire nella costituzione del 1812, con viceré mandato dal re, e amministrazione, parlamento ed esercito separato: ma come Francia allora stava su’ trampoli, e Londra agognava ad avere un regno siciliano col suo protettorato, nulla si fece. Ferdinando sollecitava indarno che non s’impacciassero dei fatti suoi, e passò l’inverno.
Per mostrar co' fatti i Siciliani non esser rivoluzionarii fur messi su battaglioni di volontarii, e il capitano Armonio e 'l tenente Cosenza in pochi di ne feron cinque, un colle stanze a Scaletta, gli altri a Buso, circa mille. Armati e vestiti vennero poi il 21 gennaio seguente a Messina per la benedizione delle bandiere, fatta con pompa, presente la guarnigione, e gli ammiragli Parker e Nonay. Oltre a questa gran prova, la mala fede de' protettori risfavillò pel buon governo de' vincitori. Messina presto rividesi in calma e in maggiore prosperità. Si creò una commessione severa investigatrice e restitutrice degli obbietti derubati in quei subbugli; si rianimò il traffico interno, né solo con la contrada neutrale,altresì con tutta l’isola, per non impacciare l’industria, e mostrar moderazione. Libertà ampia di commercio, abolizione dell’imposta addizionale per la rettifica del catasto, ridotta a metà anche la tassa fondiaria risultante dal nuovo censimento. Vietate le vendette reazionarie, sicurati tutti, lo stato d’assedio, rimasto per ispauracchio a faziosi, non turbò l’esecuzione delle leggi, rinacquero l’ordine, la fidanza e la giustizia.
Il parlamento sicuro di non essere assalito decretava a libito: a’ 18 settembre dichiarava nemico della patria chi accettasse uffizio dal governo legittimo in Messina, ma pochi ebbero paura della vendetta impossibile. Fu visto il vincitore usar idiligenza somma, e 1 perditori trascendere sino a minacce di morte. Dalla legittima potestà si lasciava libera l’entrata e l’uscita, dalla ribelle partian commessarii inquisitori d’ogni corrispondenza, per tradurre i colpevoli a consigli di guerra. Quella col benefizio dell’ordine intendeva dissuggellar gli occhi agl’ingannati, questa tirannissima voleva imporre quella libertà a forza. E mentre tanto rigore contro la reazione, rilassamento pieno a pro de' nemici della società. Mancando nell’isola ogni sicurezza, questa confidavano a ministro speciale; e non meno di sette ministri alla fila vi sedettero ne’ sedici mesi della rivoluzione, tutti soccombenti sotto l'impossibilità dell’uffizio in quell'anarchia. Non cosa né persona sicura; né in campagne né in città, più popolo, e più misfatti; società segrete di malfattori s’organarono, per furti, uccisioni e catture. Acchiappavano personaggi danarosi, e a prezzi alti liberavanli. E più tai delitti spesseggiavano ov’era più forza pubblica, ché questi stessi armati a difesa maciullavano a offesa della società. La camera dei pari ne’ 8, 9 e 10 ottobre volle ridurre a sole seicento le squadriglie palermitane, e per obbligar all’esecuzione, decretò che l’erario non né pagasse di più. Allora diventarono grassatori scoperti. Però la statistica penale ne’ sedici mesi die’ ottomila cinquecento delitti, de' soli denunziati a' tribunali, che per la generale paura erano i meno. A Palermo si proibì con editto lo uscire dalla città; e in tanta libertà non s’era libero a uscir dalle mure.
La protezione straniera lor valse per armarsi a oltranza, comprando tutte maniere d’arme in Francia e Inghilterra col permesso uffiziale di quei governi. Il Cavaignac fe’ più, che ordinò lor s’aprisse un piccolo credito per arme e munizioni, e ’l suo ministro Bastide disse a' legati: «Non possiamo darvi uffiziali attivi, ma non impediremo a' dimissionarii o ritirati d’andare in Sicilia; arme e munizioni ve ne daremo.» Il Palmerston a 16 settembre die’ facoltà in iscritto di darsi ventiquattro cannoni di ferro dell’artiglierie reali. Tai fatti patenti, e altri molti che taccio, mostrano qual sorta di filantropia movesse quei due umanitarii governi a dar ferri per la guerra civile, quando imponeano l’armestizio a forza. Ben è vero che il Palmerston a' 26 gennaio 1849 scrisse al Temple ministro in Napoli, ch’ove il re si lamentasse, rispondesse essersi dato il permesso de' cannoni per inavvertenza, né, interpellato in parlamento, seppe trovare scusa migliore. Avea già detto in settembre a' legati siciliani: «La mediazione nostra è un favore alla Sicilia, per sottrarla al pericolo.» E il Bastide in novembre; «Noi continuando la mediazione, sapremo avviluppare il re di Napoli d’ostacoli tali che non si concluderà niente, che gli sarà impossibile d’accettare, che si manterrà l’armestizio, e così si continuerà sino a primavera.» Ciò han palesato gli stessi legati ne’ loro dispacci.
Intanto gl’isolani rifacevano l'esercito, ponevanvi uffiziali francesi, inglesi e d’altre nazioni, reclutavano militi in Francia, Svizzera, Alemagna e altre parti; cavavan arme da' porti di Francia e Belgio, fortificavano loro posizioni, e si preparavano a nuova lotta. Ogni dì esercizii e riviste. Strappavan cancelli, candelabri e spranghe di ferro da' pubblici edifizii per farne ventimila picche pel volgo; chiamavano I preti e i monaci a unirsi in ischiere per difendere le città, quando uscissero i nazionali a combattere; ordinavano a' predicatori di correr l’isola, per muovere co' sensi religiosi gli spiriti a guerra. Il parlamento decretava un progetto di prestito nazionale; ma non riuscendo farlo all’estero, bisognò smungere il paese il più possibile, sospendere i pagamenti de' banchi, crear carta moneta subito per diecimil’onze; e poi sino a tre milioni e seicentomila ducati; imporre a' denarosi un prestito forzoso in ventiquattr’ore, cui appellaron volontario: vendere a precipizio beni nazionali e chiesastici, impadronirsi delle argenterie e gemme di monasteri e chiese; e su questi conquistati pegni cavar danari a forza da' mercatanti. Dappoi concludevano col banchiere Blanqui di Parigi un debito di quattro milioni e mezzo.
Il parlamento, messo a' 15 settembre in vendita i beni nazionali, avea dato, in aspettazione del prezzo, facoltà alle finanze d'emettere trecentomila biglietti, ciascuno di quattr’ouze, portanti interessi del 4 per cento, comandando che pubbliche casse e privati fossero obbligati a pigliarli come moneta. Più tardi a 20 dicembre prescrisse un mutuo nazionale di cinquecentomil’onze fra quindici giorni, da pagarsi da' comuni; e altro decreto del 17 crebbelo a un milione, da ripartirsi fra' personaggi opulenti. Fu calcolato né riscuotessero 890 migliaia.
Davan gli argenti de' monasteri in pegno anche all'estero. Con essi ebbero munizioni da guerra caricate a Livorno dal Peloro; altre da Marsiglia con l’Amari dal Bosforo nave francese; e l'altro pur francese battello l’Ellesponto portava a 14 settembre quattordicimila fucili a Palermo, sotto gli occhi della crociera napolitana. Simiglianti cose accadevano ogni dì. Intanto le faccende colavan nelle mani dei più concitatori. Lo Spedalotto ministro di guerra fu quasi per essere ucciso; rinunziava la sedia, pigliavasi il congedo da colonnello, e si fuggiva in Toscana. Surrogavalo il La Farina buono a tutto, già ministro d’istruzione pubblica, uomo non militare; l’Amari afferrava l’Interno. Appresso il parlamento a' 14 novembre decretò che seguirebbe sue sessioni sino alla venuta del re nuovo, e sin dopo ch'avesse giurato lo statuto. A’ 18 dicembre proclamava l'adesione alla costituente italiana, della quale parlerò or ora; e il domani riconfermava con decreto quello del 13 aprile sul decadimento de' Borboni. Così rispondeva alla conciliazione proposta da' pacificatori Anglo-Francesi.
La rivoluzione mondiale che degl'indigeni sospettava, vollevi anche i suoi generali a comandare. Andò pel mondo il Modenese Mazziniano Fabrizi, e prima volsesi al Garibaldi, poi all'Antonini, questi venne con un Mieroslawski polacco, ambo creati marescialli. Rafforzarono Taormina, trincieraron Catania, v’accrebbero la guarnigione, vi ripigliarono i lavori ne’ tre forti Armisi, Palermo e S. Agata, compraron cavalli, muli, vesti, arnesi militari, e ingrossaron l'esercito con uomini di tutte lingue e nazioni, educati a ribellamenti, e a sperar ne’ garbugli fortuna e quattrini. La rivoluzione in Sicilia e in Lombardia procedeva equabile. Percossa qua e là fa imporre armestizii, mediazioni e interventi stranieri, per aver tempo da riprepararsi e sul Ticino e sotto l’Etna a più feroci falli. Una è, benché sembri voler cose opposte: indipendenza in Sicilia, unità in Italia, far la monarchia a Palermo, scacciar la monarchia dal continente. Mai non cede; con doppie divise ha una idea motrice; stesse finzioni, diversi lamenti, uno Podio implacabile al. dritto, una l'ingordigia, e la baldanza della colpa.
Nell’Alta Italia si procedeva così. Il Gioberti con programma del 7 settembre proclamava un comitato per la italica confederazione, e fra gli stati da confederare enunciava il regno di Napoli e il regno di Sicilia distinti; |K>i subito cominciate le sessioni pubbliche del comitato, a' 23 vi protestò alto contro la guerra siciliana. Uomini privati, senza veste uffiziale, trinciavano a modo loro l’Italia. Proseguì con lettere circolari a invitare i uomini della penisola ad assembrarsi a Torino in congresso federativo. Il Manin l’avrebbe voluto a Venezia, ma seguì in Torino, più sicuro luogo, con intervento di trecento nel teatro nazionale, aperto il 10, chiuso il 30 ottobre. Sapemmo allora che l'Italia aveva trecento uomini sommi; che Sicilia poverella n’avea solo due, Perez e Barrara; e Napoli appena sei, Pieragnolo Fiorentino, Giannandrea Romeo, Giuseppe Massari, Silvio Spaventa, Pietro Leopardi e Giuseppe Ricciardi, gente innanzi chi ignota, chi poco nota, de' quali nostri il Gioberti concionando disse: nomi eroici e cari, da movere ammirazione e tenerezza. Cotesti congregati dicentisi cima d’Italiani, invece scimmie di stranieri, copiata Francia, copiavano Inghilterra del 1638, perché quest'ultima servitità non mancasse all’Italia.
Nella prima adunanza del 40, dopo il discorso inaugurale, sorgeva il palermitano Perez con una diceria; dicente Sicilia voler dar uomini e denari, appena il Borbone fosse cacciato dal mal occupato seggio, e tutti proruppero: Viva Sicilia! poi protestarono contro la guerra sicula, invocando principi e popoli a pro de' ribelli. In quell’orgia i sedicenti costituzionali di Napoli propugnavan Sicilia divisa, riluttante allo statuto, plaudivan tronfii a una designata decadenza di re patrio, a eletto re straniero servilmente sulla terra a lui soggetta facevano osanna; e sendo Napolitani beffavano i soldati napolitani, e spregiavanli, quasi lo spregio fosse vittoria. Cotali congressanti sceltisi da sé, senza mandato di persona, assembratisi illegalmente cicalarono molto, e qualcuno propose costituente alla maniera tedesca di Heidelberga. Contrassegnarono tre già belli e preparati progetti: uno di legge elettorale per convocare l’assemblea costituente degli stati italiani, per asservirseli tutti; uno schema d’atto federale compilato dal Mamiani presidente e relatore; e un indirizzo a' principi e a' parlamenti di Italia; dove della fallita guerra accusavano i governi, ma questi poter riparare il fatto col pronto aderire all’assemblea costituente. Nell’atto federale stabilivan fra le tante un potere legislativo indipendente e sovrano, e un potere centrate permanente, rappresentato da un presidente eletto dal corpo legislativo, e da un consiglio di ministri con esercito, armata, erario e rappresentanza all'estero; statuivan le facoltà del congresso, bandiera una, e massime une di dritto in tutti i territori!. Da ultimo dicevan costituente il congresso. Ciò era repubblica unitaria, con peggio dualità di governo, conflitto e guerra civile.
Tali atti con data del 30 ottobre, preparati molto prima, rappresentati come in commedia, eran firmati da tre presidenti,Terenzio Mamiani, Vincenzo Gioberti, Giannandrea Romeo, da' vicepresidenti Francesco Perez, Don Carlo Bonaparte e Pietro Leopardi, e da tre segretarii. Indi a poco questi stessi firmanti della confederazione si fecero campioni della costituente italiana promossa in Toscana, che accennava netto a unità. Il governo di Torino permetteva questo in casa sua, sperando cavarne frutto in casa d’altri. Poi quando quel Leopardi, che ministro di Napoli avea lavorato pel Piemonte, ebbe pel fatto appunto dell’illegale congresso la condanna d’esilio, meritò dalla corte savoiarda in guiderdone la croce de' SS. Maurizio e Lazzaro, designata da' cieli a diventar insegna di traditori. Sebbene quella congrega non partorisse effetto, pur le copie delle dicerie e de' progetti sparse a migliaia risoffiavan nelle passioni; ma nel regno nostro non facevan breccia.
Per la fievolezza del Gran Duca Tosco, la rivoluzione colà s’ingagliardiva. V’eran circoli politici, presidente il Guerrazzi, che governavano il governo. Già a' 30 luglio s’era gridato Abbasso la dinastia; né la forza pubblica fe’ cosa di momento; per aver tregua si concedette Guardia nazionale mobile. Mentre la guerra era perduta, si parlava sempre d'armarsi per iscacciare il Tedesco, veramente per iscacciare il sovrano. Se il Tedesco li avesse aiutati a ribellare si sarian congiunti ad esso, come poi si congiunsero al Francese. A’ 18 agosto era surto il nuovo ministero Capponi, e fu più disordine. A Livorno giuntovi lo sfratato Gavazzi in settembre seguirono tumulti e scaramucce, armamento di canaglia, cacciamenti di soldati, e anarchia. Il Montanelli v’inaugurò governo democratico e la costituente italiana. Leopoldo calò a far ministri suoi i caporioni Guerrazzi e Montanelli; i quali a' 28 ottobre proclamarono la costituente;e a 7 novembre invitarono gli altri stati della penisola a rispondere a tre quesiti: se convenisse iniziar la costituente per provvedere alla guerra dell'indipendenza; se i deputati s’avessero a scegliere con suffragi universali; e se volessero aggiornare la quistione d’ordinamento sino alla cacciata dello straniero. Napoli e Roma non risposero; Torino rispose volervi battaglie non assemblee; e sul finir del mese propose lega. Inoltre quei toscani ministri permisero che il legato siciliano alzasse stemma in Firenze; perlocché il nostro governo ruppe ogni relazione con quello stato.
In contrario le cose di Napoli retrocedevano a ordine, non ostante gli sforzi della setta. Visto il popolo avverso, s’erano ingegnati a farsi un popolo. Col denaro, onnipossente in plebe, assoldarono come dissi i camorristi tornati da Tremiti non solo, ma anche facchini e vagabondi. Né aveau riempiute le tribune della camera; sciolta questa, restarono a spasso, e tennerli come scherani e bravacci a comprimere, a svoltare, a indirizzare il popolo, e più sovente a simularlo. Vi davan la mano alquanti uffiziali civili surti con la rivoluzione, tementi di cader con essa, interessati a tenerla viva per restare in piè con essa. Laonde sendo patente la voglianza popolare a gridar monarchia e re, si prepararono a contradirle; ne’ popolani eran tradizioni e sentimenti, ne’ contradicenti eran moti compri, e voglie di scellerati guadagni.
A 5 settembre uscivan dal rione S. Lucia gente inerme, marinai, artefici, donne e ragazzi, gridanti per Toledo viva il re; e mentre accorrevan pattuglie per rimandarli indietro, sopraggiungevano in frotta gli assoldati camorristi della piazza Barracche con pietre, stocchi, bastoni e coltelli, a percuoter quelli inermi. I soldati giunti in punto volean far giustizia, ma rattenuti dagli stessi uffiziali di polizia che li guidavano ebbero a star per poco frementi testimoni della sconcia zuffa; se non che arrivando da via S. Giacomo altra pattuglia, questa con pochi colpi all’aria fugò i ribaldi. Allora vennero arrestati il San Donato e Filippo Cappelli. Dopo poco d'ora i popolani del Mercato e di Porto s’assembrarono in aiuto di quei di S. Lucia, ma furo da uffiziali regi acchetati. Impertanto, disarmato il quartiere Montecalvario, uscì ordinanza vietante qualsivoglia grido o tumulto in piazza, sotto qualsisia bandiera,con severi ordini da non far rinnovar quei suhugli.
Non pertanto i congiuratori volendo a ogni modo soccorrere i Siciliani, in quel dì appunto che si combatteva a Messina, spinsero disperatamente loro seguaci a far capannello qua e là la sera del 7, con l’egida della bandiera de' tre colori, al Largo delle Pigne, Toledo e Montecalvario. Qualcuno in veste di guardia nazionale trasse archibugiate da una finestra in via Fiorentini; ma al comparir di soldati svani tutto. Tentaron di simiglianti disordini ne’ paesi vicini, attorno Caserta e altrove, risolti in nulla. Quella stessa sera del 7 il telegrafo nunzia Messina presa.
Era tempo che il governo aveva a mostrar forza e alacrità: guerra in Sicilia, Ungheria ribelle, Savoia rifornendo arme nuove, il Mamiani tutto in Roma, il Montanelli in Firenze. Quel giorno il Bozzelli passò a ministro d’istruzione, lasciando l’Interno; dove andò il cavaliere Longobardi, stato Massone in gioventù, poi buon prefetto di polizia nel 1828, allora avvocato generale in Corte Suprema di giustizia. Fu scelto prefetto un altro massone, vecchio creato del famoso Saliceti pel decennio, certo Gaetano Peccheneda; il quale la imparata dalla setta arte poliziesca usò contro la setta. Celebrandosi l'8 settembre la consueta festa di Piedigrotta, a impedir radunamento di moltitudine, quell’anno il re senza pompa andò per mare alla Madonna. Indi a pochi dì carcerati i camorristi, fur rimandati a Tremiti, e con essi i più protervi de' compri plebei, chi in prigione, chi confinato; Napoli tornò quieto. Si sciolsero con decreti le guardie nazionali di Vallo, Pozzuolo, Greci, Orsara, e Lavignano. Ultimamente un’ordinanza del 13 proibì bastoni con entro stocchi, e pistole e tutte arme ascose.
In quel di 13 periva sull’ore undici matutine Isabella Borbone madre del re, nel palazzo di Portici, per lunga malattia umorale scesa alle viscere. Nata da Carlo I di Spagna, figlia, sorella, consorte, suocera, madre ed avola di re e regine, temprò spesso la maestà con la pietà. Presi i conforti della religione, benedetto la nuora, i figliuoli e i nipoti nell’ultima ora, finiva col coma vigile, nell’età d’anni cinquantanove. Mancavano per mal sottile Cesare Malpica poeta di bell’ingegno, ma di falsa scuola, e Giuseppina Guacci buona poetessa, nell’anno quarantesimo di vita;questa a 25 novembre, quello a 12 dicembre.
Il ministero fu a quel tempo operosissimo e forte. A 21 settembre si sospese il dazio d’un ducato a cantaio su’ grani esteri, perché scarso era stato il ricolto. A’ due del seguente mese creossi una rendita di ducati seicentomila, pari al capitale di dodici milioni, per colmare i fossi fatti dalla rivoluzione nel tesoro, e col decreto s’ordinò non si ponessero gravezze nuove per pagar l’interesse di tal debito nuovo, ma si supplisse dal milione e seicentomila che la Cassa d’Ammortizzazione pagava ogni anno in estinzione del debito pubblico, perché il riprovalo governo assoluto pensava a levare i debiti al popolo. Altresì in ottobre uscì altro ordinamento pe' giovani pensionati a studiar arti belle in Roma, cresciute le piazze, e la dote annuale da ducati 3781 a 4960. S’instìtuiva a' 2 altro uffizio di scrittore di lingue orientali, oltre i tre che v’erano,col carico di continuare le stampe e le illustrazioni de' codici del museo. E provvedendosi alle finanze, all'arti e alle lettere, pur si pensava a sicurar la cosa pubblica. Scioglievansi in quel mese certe guardie nazionali mal connesse a Spinazzola, Andria, Avella, Pietrafessa e altri paeselli; e si mandava in Calabria il generale Enrico Statella a tutelar le proprietà dalle aggressioni de' masnadieri, che dalle Sile sbucavano alle arsioni e a' ricatti.
La setta in Napoli s’era ricostituita di nascoso col nome d’Unitaria, dì che meglio narrerò appresso. Essa in tutte provincie mandava novelle false di trionfi imminenti, e sì spingeva a fatti di sangue. Ne’ boschi di Cosenza si rapinava, ricattava e stuprava; un Domenico Falco rumoreggiava in quel di Corigliano. Presso Spezzano in giorno di fiera un trozzo di tristi, traendo schioppettate, gridò repubblica; e ’l medesimo lo stesso dì presso Castrovillari; acchetati gli uni e gli altri da pochi soldati. In Oria nel Leccese fur canti repubblicani, senza più.
Mali maggiori negli Abbruzzi, soffiati dal Saliceti da Roma, e da' fuorusciti da Ascoli. I faziosi di Teramo al vedervi entrar soldati n uscirono occulti, fecero numero a S. Angelo ov’era popolo per festa del santo, né riusciti a muoverlo, tornaron sull’imbrunire in due bande per vie diverse nella città, dando grida sediziose. Una sparpagliarono i soldati, imprigionato il capo. I capi dell’altra, fra' quali uno reduce di Lombardia, furiosi corsero all’intendenza chiedendo la libertà di quello; e scontenti d’udir solo buone parole, ridiscesero in piazza, e sostennero il comandante dell’arme. Però le milizie temendo colpir lui, non fecero fuoco; e si scese alla dappocaggine di rilasciare il capo prigione. Ma il generale comandante gli Abruzzi accorse presto e severo: i congiurati volean far lesta, poi vistisi soli, e anzi il popolo guardarli biechi, non aspettarono; e a Fano Adriano, indi nel Pontificio ripararono.
Grande ostacolo alla potestà era la forma costituzionale per porre la quiete, veder tessere le sedizioni, né poterle impedire, veder i macchinatori tronfii, e non ghermirli prima dello scoppio, il governo in tale vicenda era costretto a star coll’arme al braccio per dopo punire, così obbligato a vincere sempre, o cadere.
Appressandosi il 30 novembre fermato al ricominciamento delle sessio ni legislative, e sendo la camera de' 164 deputati incompiuta, per pronunziate esclusioni, e morti e rinunzie e mancanze d'elezioni in più distretti, si decretò a' 14 ottobre che a' 15 novembre si convocassero i collegi elettorali da elegger trentasei deputati, cioè sei per Napoli e trenta per le provincie. Subito gli usati brogli. La nazione stomacata, e per la sentita mala prova abborrente d’altra sperienza, si tenne da canto, e i collegi fur preda della fazione, vistasi però allora quanto piccola fosse. Ad Aversa sendovi 2822 elettori, v’intervennero 185. Nel distretto di Lagonegro di 5448 v’andarono 654. A Catanzaro di 5855 soli 140. A Nicastro di 5625 appena 425. A Lecce di 5568 soli 508. A Bari, di 9652, 2175. Ad Altamura di 2801, soli 178; e così di altri. E nel distretto di Napoli ov’eran 9584 elettori, votarono 1491, né concordi. Pertanto da quell’urne uscirono i più famosissimi: il Pepe disertato a Venezia, eletto con appena 477; Aurelio Saliceti profugo, né scritto nelle liste, n’ebbe 659, il farinaio Ignazio Turco 687. Soltanto Luigi Settembrini ne raggranellò 708, e fu il più alto. Ciò mostra quanta popolarità s’avessero cotali archimandriti della rivoluzione; ché non poteron trovare più di sette centinaia d’adepti e infatuati nel popolosissimo distretto di Napoli. Or questi pochi non paghi di turbar la pace di tutti, a compensar la pochezza con pompa d’offese al governo, mandarono a 14 ottobre una spada al Pepe. Gliela recò in Venezia un certo Montuoro schiamazzatore di strada, cui in premio fecero colà tenente delle milizie repubblicane.
Il Ministero da cotai lampi, vide che con le camere s’aprirebbe altra porta alle turbolenze allora con sangue attutite; considerò Sicilia da domare, masnadieri nelle Sile, Alemagna in foco, Francia scandalo di repubblica, Lombardia prossima a nuova guerra. Genova e Toscana apprestar costituenti, il romano rumoreggiar repubblica, e fra noi surti deputati i barricatori servi del Mazzini. Seguitava la nefanda uccisione del Rossi dentro Roma. Con decreto del 25 novembre si prorogò il parlamento pel 1 febbraio.
Pio IX avea sperato con le grazie vincere le fazioni, e i faziosi sperarono ci fosse rivoluzionario come loro. Sue concessioni accolsero plaudendo; e come ei si fermò giuraron vendetta, e ’l gridarono traditore. Giunta a Roma a 51 luglio notizia della sconfitta a Custoza, deputati e plebe dimandarono minacciando arme, soldati, volontarii e denari per far guerra; e come il Papa rispondeva guerra difensiva sì, d’offesa no, gridarono avanti al Quirinale Morte a’ preti, viva il governo provvisorio. Si depose il Ministero Mamiani, e né sorse altro pur col Galletti. Ma il pontefice non potendo fidare in costui sempre perdonato e sempre fellone, fece nuovo ministero. Pellegrino Rossi Carrarese, nato a' 3 luglio 1787, pubblicista succeduto al Sav nella cattedra d’economia al collegio di Francia, perche amico del Guizot, era stato dal 1844 ministro di re Luigi Filippo alla S. Sede; caduto in febbraio quel re, ei cessato d’uffizio si vivea privato a Frascati. Volle Pio valersi di lui, e fecelo ministro di Finanze d’Interno e Polizia. Il Rossi provvide all’esercito, all'amministrazione civile, all’erario, e mosse pratiche per lega italiana difensiva, secondo il pensiero del papa; onde venne da Torino a Roma l’abate Rosmini. Ma ciò accennando ad ordine scontentava chi per via di disordine volea repubblica unitaria; né un ministro costituzionale, non istrumento ma avversatore di setta, potea piacere a questa.
Era il nodo de' congiuratori nel circolo popolare, al palazzo Fiani. presidente lo Sterbini, assistente fra gli altri il Canino. Anche con lo Sterbini manovrava una commessione segreta; e certi dipendenti dal circolo stavano in altre conventicole, dov’eran Masanielli il Ciceruacchio, e altri tornati di Lombardia, più atti a garbugli che a schioppettate guerresche. Il già ministro Galletti avea favorite cotali adunanze, il Rossi si studiava a comprimerle. Impertanto fermato d’uccider lui, si cominciò a infamarlo: straniero, retrogrado, traditore; e nell’orgoglio del premeditato colpo minacciavanlo, né gittavan lampi ne’ giornali, dove aperto gli profetavan morte. L