Eleaml - Nuovi Eleatici



Analizzando, leggendo o semplicemente sfogliando decine di testi cartacei o in formato elettronico di pubblico dominio, ho constatato che nei primissimi anni post-unitari brandelli di verità o comunque una serie di informazioni interessanti si trovano anche nei libri scritti da liberali e da oppositori politici dei borboni.

La narrazione di Perini (1) offre una grande quantità di materiale e per questo la sua opera merita attenzione. Non possiamo affermarlo con certezza ma ci pare che le sue pagine inerenti la camorra siano state ampiamente saccheggiate da Monnier.

Dopo la promulgazione della legge Pica le posizioni si radicalizzano e la narrazione dei fatti inerenti le Provincie Napolitane diviene ancor più partigiana di prima. Si va verso quella santificazione del processo risorgimentale, anche la fine di creare un sentimento nazionale, un tentativo che trova il suo culmine in Crispi, un siciliano.

Dans cette entreprise de «nationalisation» des Italiens et d’enracinement du culte de la monarchie, de la nation, de la patrie, l’historiographie commence depuis quelques années seulement à étudier non plus seulement l’opposition au régime (républicains, mazziniens, socialistes etc) mais à tenter d’évaluer le travail mené par la classe dirigeante, accordant à l’œuvre de Crispi et à sa tentative de valoriser une «monarchia nazional-popolare» une importance particulière.

Il apparaît clairement que de nombreux obstacles se sont dressés face à cette entreprise, dont les résultats ne semblent pas concluants. Absence d’intérêt pour les masses, autoreprésentation froide, rhétorique et pédagogique de la classe dirigeante, absence d’enthousiasme et de participation; bref, autant d’élèments qui laissent entr’apercevoir plutôt une religion civile destinée aux élites qu’une pédagogie de masse susceptible de provoquer dévotion et attachement à la patrie.  (2)

Il tentativo non riusci. La separazione operata dalla guerra civile (brigantaggio), che per alcuni anni insanguinò le Provincie Napolitane, era divenuta insuperabile e nessuna civil religion avrebbe potuto amalgamare le due Italie che si erano contrapposte armi alla mano.

Buona lettura e tornate a trovarci

Zenone di Elea - 7 gennaio 2025


(1) Alcune notizie sull’autore le abbiamo trovate in: "Osvaldo Perini: l’irriducibile. Della “Gazzetta di Verona”, dell’ “Alleanza e dell’editore Civelli di Claudio Gallo &  Giuseppe Bonomi.

(2) B La «religion civile» dans l’Italie libérale (1860-1922). Premières approches [article] Catherine Brice Publications de l'École Française de Rome Année 2000 273 pp. 383-392. Fait partie d'un numéro thématique: Lieux sacrés, lieux de culte, sanctuaires. Approches terminologiques, méthodologiques, historiques et monographiques).

LA SPEDIZIONE DEI MILLE

STORIA DOCUMENTATA DELLA LIBERAZIONE DELLA BASSA ITALIA

Di

OSVALDO PERINI

ESULE VENETO

Egregia anima. qua. sanguine iiobis

Hanc istriani peperère suo. decorate supremi Mnnerihu.

P. Virg. M., ¿Etwid., lib. XI, 24 et ultra.

MILANO

EDITA DEH CURA DI F. CAMPANI

1801

(se vuoi, scarica il testo in formato ODT o PDF)


Dichiarazione preliminare

Libro I  — Insurrezione dell’ aprile 

Libro II  — Preparativi — Partenza da Genova — Viaggio

Libro III  —— Sbarco a Marsala — Battaglia di Calata li mi 

Libro IV  — Marcia da Calataiimi a Pioppo e Misi 1 meri 

Libro V  —— Assalto e resa di Palermo

Libro VI  — Tristi condizioni della Sicilia 

Libro VII  — Garibaldi in Sicilia — Successive spedizioni 

Libro VIII   — Ripresa delle ostilità — Battaglia di Milazzo

Libro IX  — Passaggio del Faro — Combattimento di Reggio

Libro X  — Marcia a Salerno — Entrata in Napoli

Libro XI Politica La-Fariniana

Libro XII  — Campagna delle Marche  — Vittoria di Castelfidardo

Libro XIII  —  Battaglia e vittoria del Volturno 

Libro XIV  —  Arrivo dei Sardi — Rinvio dei volontari

Appendice — Documenti e note


DICHIARAZIONE PRELIMINARE

É antica sentenza e generalmente adottata che vera storia non possa descriversi laddove la troppa vicinanza, o direm quasi, contemporaneità degli avvenimenti esercita una eccessiva influenza sui giudizii e sulle idee dell'autore. Per certo ella è cosa ben ardua nel bollore delle passioni e nell'agitarsi delle controversie politiche serbare un contegno freddo, dignitoso, imparziale. L'anima umana è così per natura costituita che non le è dato rimanere spettatrice inattiva in presenza d'una lotta qualsiasi, perocché un sentimento involontario di simpatia o d'avversione la trascina sempre e suo malgrado a preferire od a disapprovare l'una o l'altra delle cause in conflitto. Di qui avviene che il giudizio di due o più narratori d'un dato avvenimento giammai non si trova uniforme, essendo gli uomini per natura portati a mostrare le cose nel modo che più si conforma alle idee ed abitudini loro. Ma questo sentimento medesimo di simpatia od antipatia che determina i nostri giudizii sui fatti attuali esercita egli forse un'influenza minore nella disamina degli avvenimenti passati?

Dall'altra parte, se é cosa tanto difficile descrivere con fedeltà ed imparzialità gli avvenimenti, presenti come potremo noi lusingarci di conoscere ciò che accadde gli anni ed i secoli addietro? Egli è pur forza che lo scrittore che s'accinge a narrare una serie qualunque di falli si rapporti al giudizio dei contemporanei, giacché del passato non serberemmo memoria se non ci venisse tramandata dai nostri maggiori. Ora, se nei racconti di cose attuali non ci è dato mantenere quella fedeltà ed esattezza che in una storia precipuamente richieggonsi, come potranno gli autori avvenire, che pure dovranno servirsi delle memorie lasciate da noi, raggiungere il fine che alla storia è proposto? Delle due l'una: od è mestieri rassegnarci a nutrire un po' di fiducia per gli scrittori de' fatti attuali o devesi eziandio dubitare dell'autorità degli storici antichi, giacché le difficoltà che per narrare con verità ed esattezza gli avvenimenti vuoi passati o moderni sono comuni, generali ed inesorabili. In ogni caso l'ufficio nostro, vogliasi di cronisti o di storici, è necessario, come quello almeno che deve servire di luce e di guida agli scrittori che verranno. Senza punto decidere della validità delle suesposte teorie intendiamo offerire ai lettori benevoli questo nostro libro lasciandone ad essi libero il giudizio.

Abbiamo intrapreso la storia d'una gloriosa e brillante campagna, dal mondo intiero osservala, conosciuta, applaudita. Oseremo noi sperare che la nostra narrazione combini colle idee che i lettori se ne sono formati? Spingeremo noi la bonarietà fino a lusingarci di avere accontentato tutte le esigenze di quanti v'ebbero parte? Presumeremo noi credere che i nostri giudizii si conformino col criterio altrui, o per lo meno col criterio dei più?

Estraneo egualmente ai due partiti che si attribuiscono il merito delle glorie recenti, l'autore ha l'audacia di credersi giudice competente ed abbastanza imparziale delle pretensioni d'entrambi. Non appartenendo a nessuna consorteria, né mai avendo incensato i semidei del potere né gl'idoli dai piedi di creta che di quando in quando compaiono sulla scena politica, l'autore serberà nel suo racconto la stessa fredda riservatezza ed indipendenza che l'hanno tenuto mai sempre discosto dalle discussioni politiche, e dagli amori e dagli odii di parte. Se l'indipendenza personale basta a conciliar la fiducia dei lettori egli è certo che il suo libro verrà accolto con favorevole aspetto. Frattanto ci conforta il pensiero di non avere ommesso ricerca né fatica per rintracciare la verità e per adempiere il dover nostro di storici, o vogliasi pur di cronisti, fedell'ed esatti. Pure se talvolta siam caduti in errore non fu colpa del nostro volere ma effetto dell'impossibilità nostra o della nostra ignoranza.

Milano, 1.° marzo 1861.


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LIBRO I

INSURREZIONE DELL'APRILE

I. — Dirò come pochi volontari, usciti da libero porto e dopo una fortunosa navigazione di più giorni traverso le crociere nemiche felicemente approdati alle spiagge Siciliane, sconfissero intieri eserciti, ridonarono a libertà numerose provincie e snidarono dall'antico suo covo un'odiosa tirannide. Descriverò le gesta luminose d'un Eroe il cui nome risveglia in Europa i più vivi sentimenti di simpatia e di ammirazione, e che la patria riconoscente saluta col titolo di padre e ristauratore della libertà italiana. Descriverò le sostenute fatiche e i pericoli corsi, i piani abilmente tracciati, le battaglie ferocemente combattute e le vittorie gloriosamente acquistate. Avvenimenti memorandi e straordinarii a' quali, se non fossero compiuti a' nostri tempi e davanti agli occhi nostri, lo storico non oserebbe prestare credenza: avvenimenti al cui paragone s'ecclissano le glorie dell'Età favolosa ed eroica. Se non che la gravitàdella storia mai risponde all'intento di celebrare uomini e fatti a cui appena potrebbe bastare la magniloquenza dell'epopea.

II.— Durante la campagna lombarda la Bassa Italia pareva dormire in profondissimo sonno, in una dolorosa e letale apatia. Mentre il siciliano La Farina trovava nelle valli del Po e dell'Arno migliaia e milioni di adepti alla grande cospirazione unitaria, la sua voce non giungeva a risvegliare un eco su quelle ardenti regioni: e mentre dalla Toscana, dalle Romagne e dal Lombardo-Veneto la gioventù in folla accorreva ad aumentare le file dell'esercito liberatore, da Napoli e dalla Sicilia nessuno veniva o pochissimi. Molti già biasimavano l'incomprensibile indifferenza politica de' nostri fratelli meridionali, e molti disperavano dell'avvenire di quella eletta parte d'Italia. Ma quello per avventura non era già il sonno della morte, bensì il riposo del leone che raccoglie le forze attendendo l'ora dei vicini cimenti. Le insurrezioni dei popoli presentano un carattere cosi spontaneo ed in pari tempo cosi fatale che a definirlo non valgono né i raziocinii del filosofo, né le previsioni dell'uomo politico: come nessuna forza umana potrebbe impedirle o sospenderle, cosi nessuno varrebbe a determinarne od accelerarne lo scoppio.

III. —Nelle Due Sicilie il liberalismo, trionfante a Magenta e Solferino, dormiva infatti il suo ultimo sonno. Ciò che non potè il La Farina, malgrado la vantata sua cospirazione, lo fece il tempo e la maturità degli eventi. Oggi, dopo alcuni mesi di lotte accanite e dopo mille prove d'incredibile virtù ed audacia, il vessillo nazionale sventola dalle torri di Palermo e di Napoli; e questo è il risultato di vaste complicazioni politiche di cui il La Farina e gli altri settarii invano vorrebbero farsene un merito.

IV. —Già fino dagli ultimi giorni di Ferdinando a manifesti segni appariva che per tardare la rivoluzione non si rendeva che più inevitabile. Il malcontento era generale nel Regno, e il desiderio di farla finita coll'eterno alleato dell'Austria bolliva nel petto di tutti. Non era necessario che i cospiratori all'estero si addossassero il mandato d'insegnare agli oppressi che avevano una patria a redimere e la libertà a conquistare: all'uopo bastava la cieca tirannia d'una corte senza religione né fede. Le Calabrie, antico vivaio di volontari, sordamente fremevano:, gli Abbrnzzi agitatissimi; la Basilicata, la terra di Lavoro e la stessa capitale mostrava un aspetto minaccioso e terribile: e le provincie al di là del Faro, che più di tutte le altre ebbero a soffrire del feroce dispotismo Borbonico, più che tutte l'altre anelavano alla nazionale vendetta. I tentativi di Pisacane e di Bentivegna aveano fallito, colpa de' tempi piuttosto che del volere dei popoli: ma il sangue loro santificava l'esecrazione generale del nome e del dominio borbonico e preparava in silenzio la redenzione della terra natale.

V. —Francesco II, educato dai Gesuiti alla vecchia scuola della Santa Alleanza, saliva al trono nel momento, per la sua dinastia, più solenne e più critico: perciò era l'uomo men proprio a scongiurare la vicina e fremente procella. La buona stella d'Italia sull'orizzonte spargeva il più vivo splendore: la politica antinazionale e feroce della Santa Alleanza s'avvicinava al suo termine. Bisognava abbandonare i vecchi pregiudizii ed errori, romperla apertamente col passato e gettarsi con fiducia e fermezza in balia dell'avvenire: bisognava rinnegare gli antichi principii e senza esitazione e timore adottare le idee della nazione. Ma per far ciò era mestieri d'un altro uomo e ben altrimenti educato che non è Francesco Borbone. Nell'alta Italia il grido d'indipendenza veniva accolto con universale entusiasmo: nel centro e nel mezzodì della Penisola la tensione degli spiriti da un istante all'altro minacciava venire ad un'aperta sommossa. Al giovane Re non rimaneva che la doppia alternativa o di confederarsi coll'Austria e giuocare il tutto pel tutto, oppure, e stato sarebbe il suo meglio, abbracciare francamente la causa della indipendenza nazionale, accordare ai suoi popoli una moderata libertà e congiungere le sue armi agli eserciti di Francia e Piemonte. Delle due egli non seppe scegliere né l'una né l'altra: preferì le mezze misure, quelle che sempre conducono a rovina i governi ed i Regni. Nella guerra rimase neutrale; e mentre da una parte cercava di blandire i suoi popoli con vane promesse e lusinghe, dall'altra stendeva di soppiatto la mano fraterna ai marescialli dell'Austria, ai cardinali, ai sanfedisti, a tutti i campioni d'una causa perduta. Non seppe essere né francamente reazionario né onestamente liberale, e s'acquistò per tal guisa l''odio e l'avversione delle due parti belligeranti. Ciò nulla meno è d'uopo confessare che la politica da Francesco II adottata, comeché rovinosa ed assurda, era forse la sola che si conveniva alla falsa sua posizione. Chiunque in que' giorni avrebbe previsto che stringersi in alleanza coll'Austria valeva quanto esporsi ad una certa catastrofe. Né quand'anche si fosse messo a fare il liberale, aveavi probabilità che gl'Italiani prestassero fede alle sue dichiarazioni, ed a' suoi giuramenti. È troppo viva nel cuore di tutti la memoria del come i Borboni sappiano mantenerle promesse che l'infuriar del pericolo strappa loro dal labbro. Le sue concessioni potevano sembrare ispirate dal terrore più che dal desiderio di soddisfare i legittimi voti de' popoli. Forse delle concessioni medesime il paese giovato sarebbesi a sottrarsi dal lungo servaggio. Il popolo dovea diffidare del Re come il Re diffidava del popolo: erano due principii, l'uno a fronte dell'altro, fra i quali ogni accordo diveniva impossibile. Singolare sventura di Principi che dopo quasi due secoli di dominio non seppero cattivarsi la simpatia né la fiducia dei sudditi!

VI.— La verità di tali riflessioni risulta dal fatto che sebbene il governo di Napoli si mantenesse durante la guerra lombarda, neutrale, quella neutralità aveva un non so che di involontario e forzato che traspariva allo sguardo di tutti. E come non è a farsi illusione sulle vere tendenze della Corte borbonica, così si può credere che non siasi regolato in tal guisa per solo amore di tranquillità e di pace. Fu il timore d'interne complicazioni che lo distolse dal porsi coi nemici d'Italia: gli avvenimenti posteriori irrefragabilmente lo affermano. Venne diffatti il momento che il re Francesco pareva piegare a sentimenti guerreschi (1):, allarmato in vedere le idee nazionali propagarsi verso il centro ed il sud della penisola, ed invitato dalla Corte di Roma, concentrava negli Abbruzzi un forte nerbo di truppe, senza dubbio allo scopo di congiungersi col generale Lamoricière e tentare la riconquista delle pontificie Legazioni. Pare che animate trattative abbiano avuto luogo su tale oggetto tra le Corti di Roma e di Napoli, forse d'accordo con un'altra Potenza interessata a porre lo scompiglio nelle cose italiane. Ponendosi mente al linguaggio tenuto sul cominciar di quest'anno dai giornali o italiani o stranieri, sembra indubitabile che l'occupazione delle Marche e dell'Umbria fosse l'occulto pensiero del governo siciliano. Eppure, trascorsi appena due mesi, quell'esercito stesso che doveva riacquistare le Legazioni al Pontefice, non bastava a difendere la corona del proprio principe!

VII.— Malgrado però le vociferazioni del giornalismo ignoravasi qual fosse in Napoli il vero stato delle cose. Il primo segno di vita dato dal liberalismo partenopeo fu un'offerta in danaro pel milione di fucili-Garibaldi, alla quale offerta il generale rispose con una lettera (2) che può ritenersi come l'ordine del giorno dell'insurrezione. Sembra che in que' giorni il malcontento popolare avesse preso delle proporzioni ben gravi, mentre con inusitata insistenza a parlar cominciavasi di riforme e concessioni importanti. Le dicerie dei giornali, comeché contraddittorie talora ed assurde, erano ciò nullameno un manifesto sintomo di politici vicini sconvolgimenti. Il governo poggiava sopra un vulcano e la sua durata si faceva ogni di più precaria e difficile, talmente che la Corte si vide costretta a richiamare le truppe dagli Abbruzzi per averle pronte ad ogni emergenza. In Napoli era tutto confusione e disordine, e la perplessità e firresolulezza della Corte, sollevando le speranze e diminuendo le apprensioni dei liberali, concorreva essa pure a precipitare gli avvenimenti. Con tutto ciò l'insurrezione, sebben pronta a scoppiare, avrebbe forse tardato senza l'intervento di alcuni esuli che volonterosi accorsero a porre il fuoco alla mina di già preparata.

VIII. —Il pensiero d'una spedizione in Sicilia non era già nuovo come potrebbe supporsi. Nei giorni medesimi che a Villafranca segnavasi l'armistizio coll'Austria, alcuni patriotti radunatisi in Lugano formarono il progetto di recarsi in Sicilia a suscitarvi la rivoluzione. Era fra questi Rosolino Pilo dei Conti Capece, siciliano, antico soldato di libertà ed esule dal 1849. In quel convegno molto si parlò e si discusse, ma per allora il piano non ebbe alcun seguito, essendo gli animi troppo preoccupati dei fatti recenti per rivolgere l'attenzione alle cose di Napoli. Ma quel primo pensiero non fu dimenticato: un eroe lo raccolse e riuscì ad attuarlo. Il 22 marzo del 1860 anniversario d'una fra le più memorande glorie italiane, Rosolino Pilo con un solo compagno salpava dal porto di Genova e si recò in Sicilia a cercarvi la libertà ed una morte onorata.

IX. —In Sicilia trovò gli animi già pronti per un movimento rivoluzionario. Il giovine Re di Napoli non era punto migliore de' 'suoi predecessori. I suoi Luogotenenti, investiti d'un'autorità senza controllo, malmenavano quelle povere provincie nel modo il più iniquo e più barbaro. A misura che il malcontento generale aumentava la polizia più inferociva èd aggiungeva esca all'incendio che stava per divampare più tremendo che mai. La pazienza del popolo giunta all'estremo, tutti sentivano ch'era forza farla finita con un governo che per libidine di potenza calpestava i diritti, le leggi, e sino la propria sua dignità. Nelle città principali dell'Isola il fiore della popolazione, raccolto in secrete conventicole, divisava i mezzi per sottrarre il paese alla esecranda barbarie borbonica. Pure procrastinavasi sempre, temendo che un movimento troppo precipitoso facesse sventare il piano tracciato e ripiombasse l'Isola negli antichi suoi ceppi. Per buona ventura la polizia medesima sussunse il difficile compito di dare il segnale dell'armi.

X. —La vigile e cupa polizia di Maniscalco stava già in Palermo sulle traccie della vasta congiura, e i cittadini più noti per alto e liberale sentire erano, per ordine d'un cieco ed imprevidente governo, tenuti di vista e spiati co' modi i più vessatomi ed inurbani. E mentre ad iscongiurare la vicina procella non più facile né miglior via rimaneva che accedere ai legittimi voti delle popolazioni, la Corte di Napoli, accecata nei suoi veri interessi, preferì usare la prepotenza e la forza, e in tal guisa, provocando lo scoppio dell'ira comune, parve cospirare per la propria rovina. Perseguitate ne' pubblici convegni e tra le pareti domestiche le adunanze patriottiche tenevansi frequenti in luoghi appartati e remoti, per lo più appartenenti alle diverse comunità religiose di cui la Sicilia ha tanta dovizia. All'ombra dell'Altare e del Chiostro, e ne solitari recessi dalla pietà dei fedell'consacrati ai misteri della religione, la libertà proscritta e condannata trovava in tal modo sicurezza ed asilo. Quei luoghi stessi, che altrove costituiscono altrettanti focolari d'arti e maneggi a favore dei governi dispotici, divenivano nella Sicilia quasi nidi di congiurati e rivoluzionarii. E i frati ed i sacerdoti, che scagliano altrove l'anatema sulle idee di patria e nazione, benedicevano in Sicilia agli sforzi dei patriotti, cooperavano al nazionale riscatto e santificavano la rivolta.

XI.— Francesco Riso, giovane dotato d'un'anima generosa ed ardente, concepì il pensiero di riannodare le sparse fila della cospirazione nascente affine d'imprimerle un moto regolare ed uniforme. A tale oggetto prese dai Padri Minori Osservanti del convento della Gancia, situato all'estremità nord-ovest di Palermo, in affitto una casa la quale diventava in appresso l'arsenale ed il seggio dalla rivoluzione. E la gioventù liberale di Palermo e dei paesi circonvicini radunavasi nascostamente alla Gancia ove tenevasi quasi in permanenza a discutere, a stabilire ed apparecchiare i mezzi per una decisiva esplosione. I Padri stessi non rifiutavano far parte della cospirazione e vi si facevano rimarcare per la loro assiduità ed energia. Colà raccoglievansi armi e munizioni, di là si mandavano proclami ed avvisi per tutta l'Isola, cosicché per ogni rapporto il convento della Gancia poteva considerarsi come il quartier generale della insurrezione Siciliana.

XII.— Ma volle fortuna o il perverso destino che fra que' Padri, cotanto benemeriti della libertà e sì entusiasti amatori del nazionale riscatto, si trovasse un traditore, un Giuda, che dovesse venderli alla polizia del feroce Maniscalco. È voce generale in Palermo che l'autore dell'infame tradimento fosse appunto uno dei frati della Gancia. Per sua ventura il nome del vile è rimasto un secreto, cosicché la storia narrando l'orribile avvenimento non. è obbligata ad arrossire per dover imprimere il marchio del traditore sopra una fronte italiana.

XIII— La notte del 4 al 5 aprile 1860, era memorabile poiché da essa data il principio della emancipazione della Bassa Italia, grosse schiere di soldati e di sgherri capitanate da Maniscalco in persona tacitamente movevano a circondare il convento della Gancia e le abitazioni contigue, mentre appunto i cospiratori sedevano a consiglio e l'adunanza era più che mai numerosa. Assicuratosi che tutte le uscite fossero chiuse e guardate, e persuaso che nessuno oggimai potesse sfuggirli di mano, lo sgherro borbonico intimò ai liberali d'aprire e d'arrendersi. Colti all'improvviso i generosi si vider perduti: nell'interno per un istante fu tutto confusione e disordine, e come spesso avviene ne' casi più gravi che gli uomini smarriscono la coscienza del sovrastante pericolo, alcuni rassegnati ad una morte che parca inevitabile stavano già per sottoporsi alle intimazioni del feroce sicario, quando il giovane Riso con poche ed energiche parole infuse negli animi l'audacia perduta. Ogni via di salvezza era chiusa: una fitta selva di baionette circondava il vicinato: la congiura era scoperta ed il nemico assetato di vendetta e di strage. Non era a credersi che lo sgherro di Francesco Borbone volesse sotto qualunque pretesto lasciarsi sfuggire di mano le sue vittime. Impossibile era il fuggire e certa la morte: trattavasi solo di scegliere fra i due mali, o di lasciarsi tranquillamente sgozzare dagli sgherri della polizia o di perir combattendo almen vendicati. Di più eransi radunati in quel luogo appartato per deliberare sui mezzi di combattere e di vincere; né aveano essi aderito alla cospirazione se non nell'intento di farsene poscia i soldati. Inoltre, giacche la lotta diveniva di giorno in giorno più certa e vicina e la necessità imponeva che sfaccettasse la battaglia che presentavasi ancorché sotto auspicii non lieti, stata sarebbe inescusabile viltà declinare l'attacco. Forse il remore della zuffa poteva ridestare in Palermo ed in tutta l'Is Ja un incendio che tutte le forze borboniche non avrebbero poi saputo spegnere. Per tutte queste ragioni la difesa diveniva una necessità, e fu ben tosto di comune consenso abbracciata.

XIV.— Per somma ventura la casa, come sopra dicemmo, conteneva in gran copia armi e munizioni da guerra, statevi raccolte per la futura insurrezione di cui andavasi maturando il progetto, e poteva imperiamo porgere. i mezzi per una valida e lunga difesa. Dopo avere con poche ed acconcio parole ridestato il coraggio nelle anime dei compagni che l'improvviso terrore aveva prostrato, il giovane Riso si slanciò alla finestra intuonando con voce stentorea un evviva all'Italia, e spianò il fucile sulle masnade borboniche. Quel grido e lo scoppio della detonazione nel cupo silenzio della notte rimbombò con fracasso oltremodo terribile, ed annunciò ai Palermitani che il momento della pugna era finalmente venuto. Incontanente il grido di Morte ai Borboni eccheggiò nell'interno del vasto edificio e nel vicino convento, confuso colle imprecazioni dei poliziotti e dei soldati. Tutto ad un tratto la casa si trovò quasi involta in un globo di fiamme: un orribile fuoco di moschetteria cominciò egualmente sostenuto da ambe le parti. Le uscite dell'abitazione, già preventivamente chiuse e munite ad oggetto di sottrarsi ai pericolo d'una sorpresa, si rafforzarono in tutta fretta con nuove barricale: grosse travi, spranghe di ferro, casse, mobili ed utensili di casa, tutto fu posto a profitto. Quasi allo stesso punto la bandiera tricolore italiana sormontando la sommità dell'edificio sfidava la rabbia delle palle borboniche e ricolmava di ardire i patriotti. Nell'oscurità della notte il combattimento d'ambe le parti infieriva micidiale e terribile, e l'incertezza dell'esito pareva raddoppiare il furore degli assalitori e degli assaliti, 1 Borbonici però, essendo allo scoperto, erano eziandio più esposti alle offese, onde che dopo aver subite gravi perdite si trovarono costretti a piegare ed a retrocedere; ed i cittadini, fatti più arditi da quel primo vantaggio con inaudito valore li disfidavano. Accantonatisi nelle vicine abitazioni i Regii ricominciarono l'attacco più violento che mai, ed i cittadini dalle finestre e dai tetti con fuoco incessante rispondevano. La zuffa già prolungavasi senza che il nemico potesse ritrarne il benché minimo vantaggio; lo sgherro borboniano si avvide della difficoltà d'espugnare rediticio, di sua natura assai forte, ed inoltre cotanto validamente difeso. Ricorse allora ad altri mezzi per domare l'intrepido valore di quel pugno di patriotti: alcuni cannoni furono quindi puntati contro le porte e le massiccie muraglie della casa e del chiostro. Il cannone tuonò con ispaventevole rombo per alquanti minuti, quando le porte, svelte dai cardini loro e già scheggiale ed infrante, con orrendo fracasso piombarono al suolo. I Regii allora, sbucando da tutte le parti a passo di carica e sotto una grandine di palle, slanciavansi per la breccia già aperta, cercando penetrare nell'interno ed assalire i cittadini entro il recinto de' loro ripari. Allora cominciò una scena indescrivibile. Il fuoco, anzi che rallentare, crebbe d'intensità e di ferocia, imperciocché gli assaliti, perduta ogni speranza di vittoria, combattevano col coraggio della disperazione. Barricati sulle scale, dietro le porte e per le camere e facendosi schermo di tutto e persino delle macerie delle muraglie cadenti in frantumi, sostenevano l'urto con una intrepidezza degna di migliori destini. Riescirono i Regii a penetrare nell'interno dell'edificio, ma ne furono tosto respinti. Il teatro dell'azione era ingombro di morti e morenti, liberali e reazionarii, cittadini e soldati confusamente caduti in una spaventosa comunanza di ferite e di strage. Se non che l'assalto, come che fatale agli assalitori, lo era assai più agli assaliti: il loro numero, di già sì esiguo, sempre più assottigliavasi: i cittadini erano per la maggior parte caduti, ed il furore e la sete di vendetta che animava i superstiti tenevano soli in sospeso l'esito finale dell immane massacro. Si dovettero espugnare ad una ad una le scale, le porte e le stanze dell'edificio, e quando i Regii se ne resero padroni il numero dei difensori si trovò ridotto a soli tredici. Stanchi e rifiniti dal lungo combattimento ed in maggior parte feriti, quegl'infelici furono facile preda dell'irrompente nemico. Soli e miseri avanzi d'un eroico drappello di prodi scamparono da una morte gloriosa, tanto più infelici poiché il vincitore spietato serbatali ad un fine ancor più miserando. Il giovane Riso era morto: i Borbonici sfogarono sull'esangue sua spoglia la loro brutale vendetta, ma il generoso fu abbastanza fortunato di sfuggire con una morte gloriosa all'ignominia d'una lenta agonia e del supplizio.

XV.— Orribili a dirsi sono le profanazioni a cui si abbandonarono i Regii dopo l'ingloriosa vittoria. La loro vandalica rabbia si sfogò col saccheggio e l'incendio; la casa e il convento furono posti a sacco ed a fuoco. Le impure mani degli sgherri, sotto gli occhi stessi di Maniscalco, s'impadronirono delle munizioni, delle armi, degli effetti dei Padri, degli abiti frateschi e dei sacri arredi custoditi nel chiostro pe' servigi del culto. Le rovine della Gancia attestano al curioso visitatore qual sia la ferocia delle bande di sgherri che nella Bassa Italia dominavano in nome di Francesco II; Grave e disastroso avvenimento fu questo: ma fu ben anche il principio di una lotta gloriosa e della redenzione dell'Isola, poiché in quella notte fatale la rivoluzione di Sicilia fu cementata col sangue de' più generosi suoi propugnatoci.

XVI.— L'avvenimento della Gancia, avvenuto cosi all'improvviso, pose nella città sulle prime la costernazione e il terrore. Il fulminare delle artiglierie gettò per un istante l'allarme e lo sgomento nella popolazione, ma ben tosto gli animi si ridestarono alle più vaghe speranze. L'esempio dei forti della Gancia non andò perduto: ché dopo quel primo movimento di sorpresa alla titubanza sottentrò la risolutezza, l'azione all'inerzia, l'audacia al timore. I cittadini affollavansi per le vie e sulle piazze, l'ansietà era estrema; si domandavano notizie e si trasmettevano con una rapidità sorprendente. Com'è natura delle moltitudini, di già invase dalla febbre rivoluzionaria, entusiasmarsi ed accendersi davanti al pericolo, così il rombo del cannone borbonico agiva su quella folla disordinata ispirandole un desiderio universale di guerra. Alcuni fra i capi del movimento (appartenenti essi pure al Comitato della Gancia, ma che per provvidenziale fortuna quella notte non vi si erano recati) scorta la favorevole disposizione degli animi pensarono di trarne profitto e confusi col popolo si studiarono di trascinarlo alle barricate. Le pattuglie nemiche che percorrei vano numerose la città vennero accolte con urli, e con fischi: dalle finestre d'alcune case comparvero bandiere tricolori al grido di Viva l'Italia e mille fiaccole uscirono a rompere le tenebre della notte. In alcuni punti fu tentata l'erezione delle barricate, mentre per tutta Palermo risuonavano voci frementi di guerra. Al sorgere dell'alba la città presentava un aspetto oltremodo minaccioso, e tutto annunciava vicina la grande battaglia del popolo, quando la catastrofe della Gancia narrata co' sanguinosi suoi particolari e l'annuncio che la guarnigione del forte stava allestendo i cannoni per bombardare Palermo, intiepidì nuovamente il coraggio della folla. lì popolo si ricondusse triste e scorato alle sue abitazioni, ed i pochi generosi che tutto avean fatto per trascinarlo alla mischia, vedutisi abbandonati alla vendetta nemica, uscirono alla campagna ad ordinarvi le bande armate che furono in appresso sì fatali alla dominazione borbonica.

XVII.— Abbandonando Palermo gli ordinatori della insurrezione già, come sopra si disse, quasi per prodigio scampati al disastro della Gancia, si ripararono ne' villaggi che sormontano i colli vicini. Volle fortuna propizia alle sorti italiane che la notte medesima, e prima che il nemico assaltasse la Gancia, fossero dal comitato colà residente diramati proclami ed ordini per sollecitare nell'Isola un pronto armamento. Que' proclami e quelle esortazioni pervennero al loro destino, malgrado l'oculatezza della polizia. eì ottennero un pieno successo. Ordini consimili erano stati anteriormente comunicati alle città del centro e del litorale dell'Isola, e poich'era appunto fissato per l'universale insurrezione il giorno 5, così gli animi si trovavano di già apparecchiati alla lotta. La rivoluzione scoppiava allo stesso tempo a Caltanisetta, a Caltagirone, a Castrogiovanni, a Siracusa, a Trapani ed a Messina: ma fino al giorno 6 non oltrepassò le proporzioni di una vasta dimostrazione politica. Ma nei dintorni della capitale presentava un aspetto assai diverso: gli indirizzi del Comitato della Gancia misero in ebullizione le terre circostanti, cosicché la stessa notte numerose bande d'insorti s'avanzavano da tutte le parti ed avviluppavano la città da una rete di piccoli accampamenti. Le alture di Bagheria, di Monreale e San Lorenzo, alla distanza di poche miglia dalla città, formicolavano d'armati e costituivano quasi un triplice quartier generale della insurrezione. Colà rifugiaronsi i cittadini scampati dalla reazione che inferocivi a Palermo, e tosto si diedero a tracciare un piano d'attacco contro il vittorioso nemico.

XVIII.— Né i Borboniani in Palermo rimanevano già inoperosi. Il generale Salzano, comandante il presidio, fece incontanente armare i forti ed i pubblici stabilimenti occupati dalle truppe e minacciò la città di bombardamento al primo sintomo di nuove sommosse. Un proclama firmato dallo stesso Salzano comparve alla punta del giorno affisso ai canti di tutti i crocivii, col quale ponevasi la capitale in istato d'assedio. Neli interno della città le barricate erano già state prima di giorno distrutte: all'entusiasmo della notte era un'altra volta sotrentrato il disinganno e lo scoramento, e tutto annunciava che l'insurrezione era stata compressa. Numerose pattuglie coll'armi sul braccio in tutti i sensi la città percorrevano. I cittadini stavano rinchiusi nelle loro abitazioni, e benché il sole sorgesse non vedevasi aprire né una bottega né uno stabilimento pubblico: Palermo pareva un vasto accampamento militare. Tuttavolta i Borboniani nulla aveano di che insuperbire. Nell'interno della capitale dominavano coll'insolenza dei vincitori, ma la campagna era intanto perduta. Da tutte le parti pervenivano al generale novelle sempre più disastrose: gli insorti ingrossavano sino alle porte e minacciavano attaccare le truppe ne' loro proprii trinceramenti. Avrebbe Salzano voluto uscire dalla città e sbaragliare gli insorti prima che s'afforzassero co' nuovi vegnenti che dovean sopraggiungere dall'interno dell'Isola, ma temeva che abbandonando la capitale potesse questa dichiararsi per la rivoluzione e chiudergli a tergo le porte, locché sarebbe stata la sua rovina e quella dell'armata. Egli scelse impértanto rimanere in una completa inazione, pazientemente aspettando che gl'insorti venissero ad attaccarlo dietro il recinto delle militari difese di cui Palermo è oltremodo munita. Inoltre il generale, non certo senza ragione, dubitava del contegno che fuor delle mura avrebbero potuto i suoi soldati tenere, e temeva compromettere, avventurandosi in campo, e il proprio onore e la bandiera che aveva giuralo difendere. La Corte Borbonica, guidata dalla sua tradizionale abitudine, non considerava l'armata che come un sistema di polizia, mediante il quale potesse e bell'agio opprimere e frenare i suoi popoli, per cui, piuttosto che a formare dei buoni soldati, a fare mirava degli abili sgherri. Le truppe, non animate da sentimenti d'onore e di patria, non ordinate a difendere la nazione da un estero assalto, ma unicamente destinate a sostenere contro gli interni avversari un potere oppressivo ed ingiusto, appena potevano meritare il nome d'esercito. Di più negli ultimi tempi il governo, affine d'inasprire contro le popolazioni i soldati. ne uvea sguinzaglialo le più feroci passioni a scapito paranco del militare ordinamento. Cosicché all'avvicinarsi del pericolo si trovò per combattere l'insurrezione irrompente, non già un esercito agguerrito ed ordinato, ma una banda di sgherri indisciplinati, avidi solo di saccheggio e di strage, e tale che minacciava sfasciarsi al primo urto nemico. Il dispotismo rimase collo nelle proprie sue reti: avea creduto fondare la sua potenza sulla soppressione completa dei più nobili sentimenti che onorano fumana natura, e vi trovò la propria rovina.

XIX.— Né i direttori dell'insurrezione ignoravano punto questo stato di cose, né si fecero lungamente aspettare alle porte della vinta città. Riparatisi a Bagheria ed a Monreale s'affrettarono a raccogliere le bande di villici che sempre più ingrossavano dirigendole contro Palermo. Al levare del sole del giorno 5 numerose colonne d'insorti, armate alla meglio, ma ripiene di coraggio e baldanza e precedute dalla bandiera italiana s'avanzavano da più parti verso la capitale. Il pensiero dei condottieri non era tanto nello di assalire il nemico quanto di provocare con una dimostrazione armata l'insurrezione la nelle precedente abortita. Ma non per questo i Borboniani osarono uscir dalle porte: e solo una colonna di cittadini, avventuratasi troppo oltre, ebbe a sostenere al Piano dei Porazzi un attacco che durò circa un'ora e fini col ritiro della truppa.

XX.— Frattanto nuovi sciami d'armati discendevano dalle colline e dai vicini villaggi, e d'ogni parte Palermo già n'era investita. l'intiera mattina del 5 regnò nel presidio la massima costernazione. I Borboniani vincitori assediati vedevansi fra quelle mura orrendo teatro delle loro crudeltà, della loro ferocia: il superbo Salzano sentivasi oppresso dal proprio trionfo. Maniscalco aveva perduta la testa: la polizia aveva creduto soffocare l'insurrezione, mentre col fatto della Gancia non fece che accelerarne lo scoppio e renderla più generale e terribile. La campagna all'intorno era in balìa degli insorti, e rotta ogni comunicazione coll'interno dell'isola: la città, sebbene colpita di terrore, mostrava tuttavia un aspetto minaccioso ed altiero, e poteva da un istante all'altro risollevare le appena demolite barricate.

XXI.— Gli insorti frattanto percorrevano la campagna e sollevavano da per tutto lo stendardo della rivolta. Fatti baldanzosi e pel numero e per l'inazione dei Regii si avanzavano da tutte le parti e stringevano la città quasi in una cerchia di ferro: né i Borboniani per ciò si movevano. l'obbietto precipuo delle evoluzioni guerriere dei Siculi visibilmente appariva dei lor movimenti. I condottieri del popolo miravano ad attirare il nemico dan suoi trinceramenti, poiché speravano, troppa forse presumendo del valore delle masse insorgenti, poterlo in campo aperto facilmente sbaragliare e sconfiggere. Ma per quante provocazioni e minaccio tentassero il generale Salzano non ardì cangiare la sua risoluzione. Visti uscir vani tutti gli sforzi i capi del popolo si rivolsero ad altri spedienti: diedero tosto ordine di assaltare i mulini che forniscono alla città le farine, e distruggerli o romperli. Nel medesimo tempo ordinarono di rompere gli acquidotti che dalle vicine colline recano l'acqua a Palermo, affine di costringere col timore della sete e della fame il presidio borbonico ad avventurarsi in aperta campagna. I liberali erano persuasi che Salzano non avrebbe potuto rimaner spettatore tranquillo di quelle operazioni che potevano spargere nei soldati l'allarme e provocare la dissoluzione dell'armata, né in ciò s'ingannarono.

XXII.— Erano circa le tre ore del pomeriggio quando si divulgò per Palermo la voce della perdita dei mulini e degli acquidotti, e vi sparse un vero terrore. I soldati mormoravano contro il lor generale che lasciava in tal modo compiere un attentato che mirava ad affamare la città. Salzano istesso ne rimase colpito e tosto s'avvide essere pur cosa necessaria addivenire ad altre misure. Egli quindi parte delle truppe diresse fuor delle mura, coll'ordine però di non discostarsene, e le schierò nei piani vicini al pomerio in situazione vantaggiosa a difendere da ulteriori attacchi gli acquidotti e i mulini. Mandò al tempo stesso parte del genio, scortato da numerosa schiera, a riparare i guasti fattivi dagli insorgenti. Questi impértanto, ottenuto l'intento di sforzare i Borbonici ad uscir dalle mura, li assalirono con impeto grande, ma furon respinti. Una serie di piccoli combattimenti, senza risultato veruno, cominciò verso le ore 4 pomeridiane e durò fino a sera: le tenebre vennero poscia a dividere la mischia: i Borboniani si ritirarono nella città e gl'insorgenti nei vicini villaggi.

XXIII.— Qualche lieve vantaggio dalle truppe ottenuto la sera del 5 ne' suddetti piccoli scontri, ne' quali furono i cittadini, abbenché senza gravi perdite, reiteratamente respinti, rilevò l'ardore dei soldati Borbonici, già abbattuto ed affranto dagli avvenimenti di quella memoranda giornata. Il generale Salzano, volendo approfittar del momento, ordinò la stessa notte la formazione di una colonna mobile, e la diresse alla punta del giorno 6 verso le alture di San Lorenzo, dove per mezzo de' suoi confidenti sapeva trovarsi accampato il nucleo principale degl'insorti. Questi, come accade sovente in un corpo non disciplinato né ordinato alle operazioni militari, stavano tranquillamente bivaccando nel villaggio, senza punto curarsi di fare una guardia conveniente. I Regii quindi favoriti dall'oscurità della notte e dalla negligenza dei cittadini, tacitamente avanzavansi e penetravano nel recinto delle abitazioni del paese, ed assaltavano all'improviso da tre lati diversi gl'insorti. Al tuonare della moschetteria i cittadini diedero di piglio alle armi e confusamente accorsero al luogo della mischia. Segui un combattimento sanguinoso e terribile, con gravi perdite dell'una parte e dell'altra, ma finalmente, oppressi dal valor personale più che dai movimenti strategici degl'insorti, I Borboniani furono costretti a voltare le spalle ed a fuggire ignominiosamente a Palermo in disordine.

XXIV.— Caduto quel primo tentativo Salzano adottò nuovi provvedimenti. Gl'insorti erano di gran lunga più numerosi di quello che dapprima credevasi, ma non sì bene armati e disciplinati da poter tener fronte all'intiero presidio Borbonico. Salzano pensò ad assicurarsi alle spalle la tranquillità di Palermo, per indi procedere con tutte le forze di che, poteva disporre contro i ribelli. Egli, forse non a torlo, credeva pervenir col terrore a conseguire l'intento: per il che nella notte del 6 al 7 aprile fece con grossa mano di soldati e di sgherri perquisire le abitazioni dei primari cittadini di Palermo e questi tradurre in arresto al castello. Quegl'infelici vennero per decine e centinaia sepolti ne' sotterranei del forte Galita, affatto segregati dai viventi e quali ostaggi, mallevadori inconscii ed innocenti della fede vacillante de' lor compaesani. Non è a descrivere quale desolazione invadesse l'afflittta Palermo al divulgarsi dell'orribile nuova: i popolani avvidero che privi de' naturali lor condottieri nulla oggimai poteano tentare e si rassegnarono al loro perverso destino (3). In tal guisa il generale Salzano aveva momentaneamente raggiunto il suo fine.

XXV.— Incontanente, ciò fatto, rivolse il pensiero alla guerra. Ordinale le sue numerose milizie in colonne serrale e munite di artiglierie e di razzi, le scagliò successivamente contro i vicini villaggi ove stavano trincierati gl'insorti. La mattina dell'8 la prima di dette colonne scontrò alla Favorita un grosso distaccamento di volontari, co' quali appiccò la battaglia. Dapprima i Borboniani ebbero a sostenere gravissime perdite e dovettero ritirarsi davanti all'impelo con cui gli insorti difendevano la lor posizione: ma bentosto soverchiandoli col peso del numero, ed avviluppandoli da tre lati ad un tempo, giunsero a snidameli. I popolani si ritrassero in ordine davanti le preponderanti forze nemiche e ripararonsi sull'erte e selvose pendici dei colli vicini, abbandonando al nemico ben anco il villaggio di San Lorenzo, obbietto principale della spedizione dei Regii. Questi entrati in San Lorenzo, sebbene indifeso il trovassero, lo posero a sacco ed a fuoco. Il furore dei soldati borbonici principalmente volgeasi contro le proprietà del convento dei Minori Osservanti della Gancia, da essi creduto causa efficiente e precipua della insurrezione dell’Isola. Le case appartenenti all'abate furono ridotte ad un mucchio di rottami e di ceneri, e le campagne devastate e distrutte: e quand'essi ritiraronsi il villaggio presentava un aspetto di nudità e desolazione come se non soldati italiani ma orde di vandali vi fosser passate.

XXVI.— Un'altra colonna borbonica spintasi fino ai colli, che dal mezzogiorno al levante cingono la capitale ed il porto, li percorse in gran parte con marcia incruenta, dappoiché i volontari li avevano abbandonati alle rapine nemiche. Ma que' valorosi eroi del saccheggio non voleano ritirarsi senza vittoria né senza bottino; ondeché, non incontrando nemico veruno, assalirono i cascinali isolati e le ville, siccome già Don Chisciotte il quale appiccava la zuffa co' mulini a vento imaginando che fosser giganti. Su que1 colli maestosi ed ameni si elevano le splendide villeggiature dei ricchi Palermitani, decorate di superbi edifici, di giardini e di selve, che ne rendono oltremodo gradito e piacevole l'estivo soggiorno. Quanto Parte può aggiunger di pregio alla lussureggiante e spontanea ricchezza del suolo v'era a piene mani profuso: l'amenità naturale del clima, la fertilità dei terreni e gli sforzi incessanti di più generazioni ne avean fatto un Eden di piaceri e delizie. Là i Borboniani sfogarono la feroce lor rabbia: poche ore bastarono a cangiare quell'ameno soggiorno in un deserto coperto di distruzione e rovine. Il guasto recato da quell'orda vandalica fu tale che il segno delle devastazioni borboniche vi rimarrà incancellato per molti e molti anni. Spogliarono le ville degli arredi preziosi e di tutto quello che all'avidità dei soldati poteva sembrare oggetto di lucro, e ciò che non poterono asportare o incendiarono o infransero. Ritornarono quindi in Palermo superbi e trionfanti come se fugata avessero l’intiera oste nemica, e tentarono giustificare i lor ladroneggi dando a credere d'aver dovuto espugnare le ville medesime difese dagli insorti che vi sperano accampati.

Ridicoli pretesti e menzogne che ormai, non ingannavan nessuno (4).

XXVII. Altre spedizioni in diversi punti delle circostanti colline sortirono il giorno dopo il medesimo effetto. Ma l'11 successivo le truppe furono dirette contro la borgata di Misilmeri, posta sulle rive del mare, dove i volontari pretendevansi in gran numero concentrati e muniti. Due vapori napoletani da guerra ricevettero contemporaneamente l'ordine di recarsi, radendo la costa, a tiro di cannone dalla stessa borgata e di appoggiare energicamente le operazioni dell'armata terrestre. Volevasi porre l'avversano cosi tra due fuochi ma i popolani presentirono il colpo e, trovandosi insufficienti a resistere al doppio attacco di terra e di mare, abbandonarono le posizioni occupate ritraendosi a salvamento verso le cime dei monti, ove potea presupporsi il nemico non avrebbe osato, almeno per allora, assalirli. I Regii penetrarono quindi nel villaggio con aria trionfante e proterva, e se ne impadronirono, e come al solito lo posero a sacco e vi appiccarono il fuoco. La sorte medesima toccò pure al cascinale soprannominato la Guadagna, nell'agro palermitano, cui i volontari, dopo una breve quanto generosa difesa, soprafatti dal numero, abbandonarono alla rapacità degli sgherri borbonici.

XXVIII.— Dall'esame dei fatti in que' giorni avvenuti chiaramente si scorse che intenzione del generale Salzano era appunto di elevare tra cittadini e soldati una barriera d'odio e di sangue, onde ogni accordo, ogni conciliazione divenisse impossibile. Ci consta pur troppo che la carnificine, le spogliazioni e gl'incendii, di cui fu la Sicilia in que' giorni miserando teatro, furono tollerati non solo, ma eziandio provocati dalle pubbliche autorità che vi dominavano in nome di Francesco II, della legittimità e dell'ordine (5). Il governo unicamente mirava a suscitare fra popolo e truppe un abborrimento profondo, compiuto, implacabile. I soldati trovandosi isolati dai loro fratelli, fra mezzo una popolazione nemica ed infamati agli occhi d'Italia e del mondo per le lor turpitudini, dovevano per necessità farsi sostenitori fedell'della vacillante Corona borbonica. Era l'unica via di salvezza che un governo, più che altri mai corruttore e corrotto, potesse tentare. Coll'amor del saccheggio soltanto lusingavasi trascinare quell'orde brutali a combattere ed a spegnere una insurrezione il cui trionfo dalle circostanze era reso oggimai inevitabile. Strana situazione invero per un generate fu quella di vedersi costretto a confidare unicamente nella indisciplina dell'armata e di dovere ad una militare anarchia domandare il sostegno delle leggi e dell'ordine.

XXIX.— Varie altre fazioni ebbero luogo nei giorni successivi in diversi punti della pianura e dei colli, ma con risultato precario ed incerto. Gli insorti tenevano tuttavia la campagna e, benché talvolta battuti e respinti, ritornavano ognora più arditi e più numerosi all’attacco. Un combattimento di qualche importanza s'impegnò pure intorno al monastero di Baida, sulle prime, con dubbio vantaggio: ma bentosto gl'insorti, sovverchiati dalle preponderanti forze nemiche, furono costretti alla ritirata che venne eseguita con ordine mirabile. Il monastero, prima saccheggiato, fu dato in appresso alle fiamme.

XXX.— Gli insorti frattanto, sia nell'assalire sia nel ritirarsi, serbavano un contegno si ordinato e si fermo che non poco sbilanciava le speranze del generale Salzano. Dalla franchezza dei lor movimenti manifestamente appariva esser eglino guidati, non come i primi giorni, da un entusiasmo irreflessivo e sbrigliato, ma dal genio guerriero di capi avveduti e sagaci. L'ardore rinascente dai soldati borbonici, effetto, come si disse, dei turpi maneggi di una polizia meschina quanto feroce, fece ben tosto comprendere quanto difficile fosse, con truppe raccogliticcio e male armate, resistere a lungo ad un'armata munita ad esuberanza di tutto il necessario di guerra. Avventurarsi ad una decisiva battaglia sarebbe stata, più che errore, follia: valeva quanto giuncare sopra una sola carta la libertà e l’avvenire della. Sicilia e forse anche d'Italia. La vittoria, per lo meno assai dubbia, non poteva, quand'anche ottenuta, apportare vantaggi immediati e sicuri, mentre una rotta avrebbe recato conseguenze fatali, irreparabili. Vinti, i Borboniani possedevano un asilo inespugnabile dietro i bastioni delle loro fortezze, ove il popolo senza artiglierie e munizioni non poteva seriamente attaccarli: vincitori avrebbero gettato lo sgomento nell'Isola e la rivoluzione stata sarebbe irremisibilmente perduta. La prudenza consigliava frattanto a temporeggiare, a condurre le cose più in lungo che fosse possibile, e ad attendere soccorso dalle circostanze e dal tempo. Bisognava dar campo alla rivoluzione di riconoscersi, di calcolare le sue forze, di espandersi e consolidarsi prima di trascinarla a corpo perduto contro le falangi borboniche. Dall'altra parte, se la situazione dei popolani era triste, quella dei Regii non era punto migliore. La disciplina delle truppe nemiche sempre più rilasciavasi a misura che aumentava lo sgomento ne' lor condottieri, né un'armata indisciplinata poteva a lungo durare senza dissolversi. Era di somma convenienza aspettare che il tarlo della corruzione ed il disordine avesse corroso gli ultimi vincoli che legavano i soldati all'autorità di un fittizio comando. E bene l'istante appressavasi in cui quell'accozzaglia di bande senza pudore né legge doveva disciórsi al primo urto di un picciol drappello di prodi abilmente ordinati e condotti.

XXXI.— Fra i principali condottieri, che tenevano in quei giorni il supremo comando de' varii corpi d'insorti accampati intorno a Palermo, meritano particolare menzione Rosolino Pilo, Francesco Crispi e Corrao. Antichi soldati di libertà combatterono nel 1859 per l’indipendenza della Sicilia, e quando la sorte dell’armi si volse propizia al tiranno di Napoli esularono dalla terra natale, recando seco in un lungo pellegrinaggio di undici anni una fede incorrotta ed una viva speranza di migliori destini. Misconosciuti dagli amici, calunniati dai despoti, perseguitati e reietti dovunque, trassero traverso i due mondi una vita di stenti e dolori, senza che la sventura mai pervenisse a domare ed indebolire la loro costanza. Ramingando fra popoli e genti diverse serbarono vivo nell'anima il culto alla libertà ed alla patria a cui tutto avevano sagri Acato, sempre pronti a ripigliare la spada per la liberazione d'Italia. Educati alle battaglie del popolo recarono fra i volontari del 1860 fusata valentia e la provetta esperienza acquistata in due lustri di stenti e fatiche. All’opera loro ed al loro consiglio deve la Sicilia i successi ottenuti in que' giorni e l'indipendenza conseguita più tardi.

XXXII.— Dopo gli avvenimenti di Misilmeri, di Monreale e di Baida, i popolani guidati con migliore consiglio si ritrassero alle cime dei colli e ne occuparono i punti più atti alle operazioni strategiche. Quella ritirata parve agli occhi dei Regii una compiuta sconfitta e se ne gloriavano quasi opera fosse del loro valore. Raddoppiarono pertanto in Palermo di baldanza è ferocia, volendo far credere l'insurrezione dell'Isola già pienamente soffocata e compressa. Ma i palermitani erano abbastanza istrutti del vero stato delle cose per lasciarsi illudere e sgomentare dalle manovre nemiche. La città era tuttavia circondata all'intorno dalla rivoluzione irrompente: solamente l’assedio era cangiato in un blocco lontano. Cosi popolo e truppe, agitati da opposti pensieri, stavano gli uni e gli altri in apprensione di nuove complicazioni future.

XXIII.— Dal canto loro i palermitani, benché sotto l’incubo dello stato d'assedio, s adoperavano con ogni possa a sostenere il movimento dei loro fratelli. Danari e munizioni uscivano di Palermo ogni notte, dirette ai condottieri del popolo insorto. Oggetti di vestiario, rapporti ed avvisi continuamente passavano dalla capitale al campo e dal campo alla capitale, né i Regii pervennero quasi mai ad intercettarli e sorprenderli.

XXXIV.— Così saggiamente guidata ne' suoi movimenti l'insurrezione si faceva di giorno in giorno più minacciosa e più seria, mentre appunto ne’ Borbonici aumentava la speranza di stringerla e debellarla. Già, sebbene la battaglia non fosse ancora impegnata, la rivoluzione signoreggiava l'isola intiera, imperocché nelle città dell’interno e della costa le regie autorità ogni prestigio, ogni forza avevano perduta. A Noto, a Girgenti ed a Trapani avvennero dimostrazioni cotanto imponenti che le truppe non osarono attaccarle e disperderle. A Catania il principe di Fitalia (nipote del venerando Ruggero Settimo ed uno dei capi del movimento del 1848, né per questo meno ligio sicario del governo borbonico) altra via non iscorse a scongiurare l’imminente pericolo se non quella di accedere alle domande del popolo. In conseguenza venne tra popolo e truppe, tra la polizia ed il municipio, firmata una specie di compromesso, col quale le due parti scambievolmente si obbligarono a guardare una stretta neutralità, finché dalla capitale pervenissero ordini ed istruzioni atte a calmare l'effervescenza degli animi.

XXXV.— Messina, la città la più esposta agli assalti ed alle vendette borboniche, sebbene minacciosa e fremente, non osava avventurarsi in una lotta che forse poteva riuscirle fatale. Le atrocità ed i guasti cagionatile dal bombardamento del 1849 erano troppo freschi nella memoria di tutti perché i cittadini un'altra volta s'arrischiassero a dichiararsi apertamente per la rivoluzione. L'antica cittadella che domina la città ed il porto fu sempre il propugnacolo della dominazione borbonica ed il perno di tutte le operazioni militari nell’isola. E i Borboniani che, attesa la situazione inattaccabile della cittadella, ivi teneansi più che altrove sicuri, ivi più che altrove lasciavano libero sfogo alle loro crudeltà e prepotenze. Il general Russo e l'intendente D'Artale gareggiavano di ferocia e perfidia e vilmente si vendicavano dei rovesci ai Regii toccati sugli altri punti del Pisola. Una pacifica dimostrazione avvenuta il giorno 10 fu soffocata nel sangue: i soldati inaspriti dalle disastrose novelle provenienti da Palermo, da Siracusa e Catania, ed attizzati dai loro capi, non si vergognarono di caricare coll'armi una popolazione inerme ed immobile (6). E ai massacri del 10succedettero perquisizioni ed arresti senza numero. Finché la ribalderia poliziesca di D’Artale giunse al punto che il medesimo generale Russo fu costretto a provocare il suo richiamo da Napoli.

XXXVI.— La gioventù di Messina, esasperata dalle vessazioni poliziesche di D'Artale e dalle barbare esecuzioni militari di Russo, abbandonò la città e si ritrasse sui colli vicini, ordinandosi in bande armate e guerriere. Ad esempio del suo confratello, il generale Salzano, Russo tantosto fece ordinare una colonna mobile e la spinse contro gl'insorti: ma dopo alcuni piccoli scontri di nessun risultato assalita dai popolani a Galati ed alla Scaletta venne con gravi perdite battuta e respinta. L'insurrezione così ordinavasi in tutti i comuni limitrofi e poneva trionfante il suo quartier generale sui monti sorgenti dirimpetto a Messina in una situazione strategica pressoché invulnerabile.

XXXVII.— Né in Palermo la popolazione giacca inoperosa o dimentica del debito che in que' frangenti solenni incombe ai cittadini d'un guerreggiato paese. Le novelle degli ultimi giorni avevano esaltato gli animi e risuscitata la speranza duna finale vittoria. Non valendo ad insorgere, perché oppressi da un numeroso presidio e perché privi dorrai e munizioni, i palermitani provocarono un'imponente dimostrazione pel 13, quasi per protestare nella sola guisa che loro era possibile contro il dispotismo de loro dominatori. La dimostrazione ebbe luogo con grande stupore del generale Salzano, il quale credeva aver già fatto abbastanza per impedire nella città ov'egli risiedeva ogni tentativo consimile. Egli credette pertanto arrivato il momento opportuno per raddoppiare di zelo e ferocia e, come per vendicarsi del mal talento dei palermitani, ordinò pél giorno successivo l'esecuzione dei 13 già presi nel fatto della Gancia. In conseguenza di tali disposizioni la sera del 14 quegli sventurati furono tolti dai sotterranei del forte Galita e trascinati al luogo del supplizio. Eglino caddero senza emettere un lamento, con eroica costanza (7): né già furono soldati ma sgherri della polizia i carnefici destinati dal generale a questa nuova effusione di sangue fraterno. Né pago di ciò Salzano diede ordine che i cadaveri degli uccisi fossero sopra un carro scoperto trascinati per le vie di Palermo, come se con quest'atto di inutile barbarie avesse voluto gettare sul fronte di un popolo mulo ed inerme il guanto di minaccia e di sfida.

XXXVIII.— Indi nuove proscrizioni ed arresti. Ma tanto sfoggio di brutalità nulla valse a domare la costanza dei cittadini come non servì ad allontanare dalla Corona borbonica fatti oggimai divenuti irreparabili. Fu emanato un decreto dì togliere alle campane i battenti e di murare le porle dei campanili. Allo stesso tempo fu tutto disposto perché la numerosa guarnigione si accampasse ne' punti più importanti di Palermo affine di avvolgerla, quando il caso venisse, in un vortice di fiamme e di stragi. Con tutto ciò il successivo giorno 15 una nuova dimostrazione ebbe luogo, consistente in una processione recantesi alla Piana di Terranova ove il giorno prima erano stati fucilati i tredici della Gancia. Il popolo portavasi colà in atto mesto e solenne siccome ad un santuario, e pubbliche preci in suffragio degli estinti furono udite perfino dai soldati borbonici. Al mattino erasi trovato il sepolcro delle vittime adorno e coperto da ghirlande e da innumerevoli mazzi di fiori.

XXXIX.— La fucilazione del 14 produsse nell'Isola un fermento indicibile. Erasi Salzano lusingato come sempre d'incutere terrore ed altro non fece che provocare un’esplosione di popolare vendetta. Dopo il ritiro dei volontari dai dintorni di Palermo le truppe borboniche posero de' piccoli distaccamenti ne' principali villaggi e nelle città vicine ad oggetto di allargare la sfera delle operazioni militari e di riaprire le comunicazioni coi capoluoghi dell'interno e della costa. Uno di codesti distaccamenti occupava la piccola città di Carini, patria anticamente della celebre Laide, situata sopra un colle amenissimo a 15 miglia nord-ovest da Palermo. I volontari, esasperati. dal massacro dei patrioti, la assalirono il mattino del 17 e dopo breve combattimento se ne reser padroni. Ventisei Borboniani furono, in vendetta degli estinti fratelli, appiccati: orribile ma giusta rappresaglia dei vincitori.

XL.— I pochi Borboniani scampali dall'eccidio di Carini si rifugiarono a Palermo, ove col racconto di ciò ch'era avvenuto posero lo sgomento e la costernazione nel presidio. Salzano, a diminuire la sinistra impressione che faceva sugli animi lo scacco subito a Carini, prese le opportune misure per trarne una pronta e severa vendetta. Alla punta del giorno 18, grosse schiere de' Regii munite di numerosa artiglieria e capitanate da Cataldo e dallo svizzero Wyttenbach si posero in marcia per diverso sentiero alla volta della città il giorno prima perduta. Volevasi circondare la città e ad un tempo assalirla di fronte, dai lati e da tergo: e il piano d'attacco parea sì bene tracciato che il generale già certo si teneva dell'esito. Infatti i Regii marciarono con tanta celerità e diligenza che giunsero a fronte degli inserti prima che questi avessero avuto sentore del loro avvicinarsi.

XLI.— La mischia incominciò sanguinosa e terribile: uguale era l'odio e il furore, ed uguale in ambe le parti la sete di vendetta e di sangue. Benché pochi, circuiti ed attaccati da tre lati ad un tempo, i volontari si difesero con inaudito coraggio: trincierati nelle case, dietro i crocivii e per le contrade opposero una lunga ed audace resistenza ai ripetuti assalti nemici. La lotta durò tutto il rimanente del giorno con incerta fortuna: alla fine il numero e la tattica militare prevalsero. Sul far della sera il recinto esterno del paese fu superato, ed allora la battaglia divenne più micidiale e tremenda. Gli abitanti, che ben conoscevano la sorte che loro serbavasi qualora fossero i Regii rimasti vincenti, si unirono agli insorti e presero al combattimento una parte vivissima. Ogni crocivio, ogni piazza divenne campo di guerra, si cangiarono le case in fortezze: uomini e donne, vecchi fanciulli e ragazze combattevano dalle finestre, dalle strade con quel disperato valore che ispira la presenza d'un imminente pericolo. Dovettero i Borboniani espugnare ad una ad una le abitazioni e le strade sotto una grandine incessante di palle, di tegole, di travi e di sassi, armi che il furore somministrava ai difensori dell'infelice città. Né i volontari sebbene già vinti si diedero a fuggire disordinati ed a sbandarsi: ma con eroico sangue freddo si ritiravan contrastando e cedendo a palmo a palmo il terreno. E quando ogni resistenza era divenuta impossibile abbandonarono la sventurata città dirigendosi per la linea dei monti verso il mezzogiorno alla volta di Monreale.

XLII.— Non ¡staremo a descrivere la catastrofe della città ricaduta in potere dei vecchi tiranni: sempre la stessa scena, sempre le stesse tragedie. L'animo nostro rifugge dalle eterne narrazioni di continui e ripetuti massacri. La nostra dignità d'uomini si rivolta al cospetto di tali atrocità, la penna ci cade di mano. Basti dire che la città di Carini venne da quell'orda vandalica da capo a fondo saccheggiata, incendiata e distrutta, e gli abitanti rimastivi passati a fil di spada senza distinzione d'età o di sesso. In quella notte fatale il tetro bagliore delle fiamme innalzantisi al cielo rischiarò la ritirata de' suoi difensori e forgio brutali dei feroci campioni dell'ordine.

XLIII.— Ma Carini non cadde perciò invendicata, né il suo popolo si lasciò impunemente scannare. Moltissimi sono gli aneddoti che si narrano della disperata resistenza da essa opposta al nemico, anche quando ogni resistenza era divenuta già inutile. Tre fanciulle rinchiuse nella propria abitazione ed armate di fucili e di sciabole bravamente si difesero contro un intiero drappello borbonico. Alla fine caddero, come le eroine dell'antichità, combattendo, ma non prima però di aver fatto morder la polvere a cinque aggressori che innanzi agli altri le aveano assalite. Gli otto cadaveri per più giorni insepolti rimasero nella stanza medesima. finché la pietà dei superstiti giunse a dare ai vincitori ed ai vinti una tomba comune.

XLIV.— Il mattino successivo, 19. di Carini oggimai più non esisteva che un mucchio di rovine e macerie: dense ed opache colonne di fumo additavano soltanto da lungi il luogo ove sorgeva un'antica, fiorente e popolosa città. Né le devastazioni dei soldati borbonici v'ebbero termine: presso a poco la sorte medesima toccò ai cascinali ed ai villaggi per cui quegli eroi dell'incendio passarono nel restituirsi a Palermo. E come ciò non bastasse alcuni giorni appresso, all'annuncio del combattimento di Carini, il governo di Napoli dava ordine ai suoi sgherri nell'Isola di distruggere interamente, la ribelle città, quasi l'opera barbara si potesse compire due volte.

XLV.— La vittoria di Carini, benché a caro prezzo comprata, gonfiò la superbia dei Regii: eglino già lusingavansi aver distrutto il centro ed il nerbo dell'insurrezione nell'Isola. Il governo magnificava, ne' bulletlini ufficiali, i vantaggi dalle truppe ottenuti, e per tutta Europa spargea la notizia che tutto era in Sicilia rientrato nell'ordine. Nel fatto non era questo che un pio desiderio, una mal fondata speranza colla quale la Corte pretendeva trarre in inganno e gli altri e se stessa. Tuttavia il disastro di Carini produsse un'emozione profonda. Le crudeltà dei Regii, esagerate forse a bello studio, se da un lato raddoppiarono il giusto furore dei popoli, misero dall'altro negli animi un sentimento di costernazione e d'orrore. Fu un istante che l'insurrezione si credette perduta; ma quell'istante passò come un lampo. I condottieri del popolo, lungi dal lasciarsi intimorire, tolsero il pensiero ad approfittare del turbamento degli animi, per la recente catastrofe abbattuti e scorati. Da quell'istante i volontari, non più come per lo addietro fidenti nell’entusiasmo e nel loro coraggio, incominciarono a porgere più facile orecchio alle esortazioni ed ai consigli dei capi. Eglino ben tosto s'avvidero della necessità di concentrare le forze disperse e di sottoporsi ad un regolare comando. I direttori del molo siciliano poterono allora adottar le misure più atte ad allontanare i futuri disastri ed a prolungare una ferma e generosa resistenza. Per tal modo le rovine di Carini, che parevano dover esser la tomba della libertà siciliana, segnarono il termine alle glorie ed ai trofei dell'annata nemica.

XLVI.— I difensori della sventurata Carini raggiunsero a Monreale l'altro corpo d'insorti che vi si era accampato, e vi trovarono quell'affettuosa accoglienza che convenivasi alla immeritata loro sciagura. Ma una piccola squadra che copriva la ritirata oppressa dai numero dei nemici aveva nel ritirarsi dovuto abbandonare le armi: né que generosi poteano soffrire di averle irreparabilmente perdute. Per il che, fallasi oscura la notte, ritornarono sui loro passi lino al luogo ove le aveano gettate e nascoste tra le macchie d'una folta boscaglia, e. ricoveratele per la massima parte, retrocedettero gioiosi e trionfanti a Monreale. Così riuniti i due corpi principali dell'armata insurrezionale presentavano una forza imponente, ma non tale però da poter lungamente competere col numero dei Regii, imbaldanziti e resi coraggiosi 7 dai vantaggi ottenuti. In quel supremo frangente l'avvenire della Sicilia unicamente dipendeva dalla linea di condotta che gl'insorti stavano per abbracciare.

XLVII.— La notte medesima si tenne dai capi un consiglio di guerra nel quale vennero proposti, ventilati e discussi diversi progetti: uno fra gli altri (era di Rosolino Pilo) ottenne l'universale sanzione. Consisteva questo in concentrare tutti i piccoli distaccamenti dispersi in un solo esercito, in fortificarsi nelle posizioni più vantaggiose delle montagne elevantesinel centro dell'isola, in tentare ogni mezzo per aumentare il fermento nelle città dell'interno, in rompere le comunicazioni ed impedire le scorrerie del nemico. Secondo il piano medesimo non dovevasi accettar la battaglia quando i Regii l'avessero offerta, né affrontarli all'aperto, ma assalirli all'improvviso dai Iati e da tergo, bersagliarli continuamente, sorprendere i corpi isolati e gli avamposti e ritirarsi quindi colla maggior possibile celerità. Ottimo pensiero strategico che fu, come vedremo in appresso, cagione precipua delle future vittorie e della liberazione finale dell'Isola.

XLVIII.— Nel gruppo centrale delle montagne siciliane, le cui diramazioni da tre lati diversi si spingono alle spiaggie del mare, s'aprono tre vastissime valli, soprannomi nate di Noto, di Mazzara e di Demona. Queste tre valli, di cui la prima si protende a levante, la seconda a ponente, ed a settentrione la terza, abbenché intersecate da monti e colline minori, presentano una superficie eguale ed unita avente la forma di tre vasti triangoli irregolari, donde all'Isola provenne ab antico il nome di Trinacria o Triquetra. La base comune dei detti triangoli è tracciata dal mare che circonda il paese, e sommità ne è l'angolo formato dalla triplice catena, laddove si dirama dal gruppo delle montagne del centro. È quella una posizione di sua natura inaccessibile e, strategicamente parlando, della più alta importanza, come quella che domina l'Isola intera. Da quel punto superbo a piacimento potevasi assalire l'uno o l'altro dei tre sottoposti bacini ed assicurarsi in caso d'impensati rovesci, una ritirata certa e pressoché in vulnerabile. Inoltre, accampandosi nel cuor del paese, l'insurrezione ponevasi nella possibilità di aumentar le sue file coi nuovi fuggiaschi accorrenti da tutte le parti, ed oltremodo rendevasi agevole l'acquisto d'armi, di munizioni e di viveri. L'urgenza di si saggio progetto fu tosto riconosciuta e provvedimenti vennero in conseguenza adottati per porla in esecuzione all'istante. Nel giorno 21 la gran massa degl'insorti prese stanza a cavaliere delle montagne: ed ivi, con essi la salvezza della Sicilia e l'unità dell'Italia posero fin d'allora il loro quartier generale.

XLIX.— I volontari, in tal guisa raccolti ed uniti, si diedero una direzione comune, si sottomisero a regolar disciplina ed obbedirono ad un impulso ordinato, costante, uniforme. Accampati sul triplice versante dei monti, ed apparentemente divisi in tre corpi condotti dai proprii lor capitani, serbarono ciò non per tanto inalterata l'unità di movimento e comando. Un consiglio permanente di guerra, composto dei cittadini più illustri ed idonei, s'insediava tosto a Castrogiovanni, per la sua posizione chiamata l’umbilico della Sicilia e di là frenava e dirigeva le mosse dell'intiera armata insurrezionale.

L.— A Palermo Salzano, ottenuti da Gaeta e da Napoli i domandati soccorsi, a nuove imprese accingevasi. Il movimento strategico degli insorti, abbenché determinato da alte necessità strategiche, ¡sfuggiva all'oculata saviezza del vecchio soldato. Egli consideravate piuttosto siccome un sintomo di defezione, come un principio d'anarchia e di disordine. Persuaso di ciò spediva a Napoli un superbo messaggio nel quale annunciava alla Corte le recenti vittorie conseguite e la compressione del moto rivoluzionario in Sicilia. Francesco II all'annunzio dell'insperato successo gongolò per l'ultima volta di giubilo, e come in attestate della sua soddisfazione ordinò moltissime promozioni nell'esercito di Sicilia e conferì croci e diplomi in gran numero agli ufficiali che aveano avuto parte ne' recenti conflitti. In quel punto Francesco Borbone non potea sospettare che il tetro bagliore delle fiamme di Carini dovesse essere l'ultimo raggio d'una stella già vicina al tramonto. Cosi la tirannide napoletana s'inorgogliva degl'immani massacri perpetrati da' suoi vili satelliti, senza presentir la voragine che stava per inghiottirla fra breve.

LI.— Ed invero l'aspetto delle cose a Salzano propizio volgevasi. L'agro palermitano era libero ed i prossimi colli sgombrati: entro un raggio di venti miglia non una banda d'insorti ardiva mostrarsi; la tranquillità era o pareva perfetta. Dall'altro canto le novelle più rassicuranti pervenivangli dal resto dell'Isola. Il presidio di Messina si trovò all'improvviso liberato dalle squadre insorgenti che ne infestavano già il territorio Bronte, Catania, Siracusa, Trapani, Marsala e tutte le città della costa erano rientrate nell'ordine. I volontari avevano obbedito all'appello del consiglio di guerra residente a Castrogiovanni e s'erano affrettati a raggiungere i loro compagni. Dalle città marittime, ove i liberali si vedeano in numero insufficiente a lottare contro i presidii borbonici, la generosa gioventù, secretamente emigrando, accorreva ad ingrossare l'armata degli insorti. E le città, abbandonate in tal modo dai loro tigli più ardenti ed intrepidi, ricaddero ben tosto in balìa dell'antico servaggio. E la polizia e l'esercito, più non incontrando né opposizioni né ostacoli, ripigliarono il sopravento, e di nuovo colla riacquistata baldanza ripresero coraggio a mal fare.

LII.— Le novelle della Sicilia, divulgate ad arte per tutta Europa dal governo di Napoli produssero ovunque effetti ed emozioni diverse, a seconda delle varie ed opposte simpatie dei liberali e dei despoti. Questi ultimi innalzavano già un inno di trionfo per le supposte vittorie borboniche e con entusiasmo salutavano il ripristinamento dell'ordine nell'Isola: quelli già lamentavano la fatale catastrofe che potea avere, per l'avvenire d'Italia, le conseguenze più funeste e più gravi. Se non che gli uni e gli altri, mossi da opposti principii, si lasciavano egualmente illudere da mendaci apparenze. I retrogradi amplificavano un imaginario trionfo, proprio alla vigilia d'una solenne sconfitta: i liberali per contro piangevano all'annunzio di un supposto disastro che doveva essere foriero d'immensi successi. Nell'alta Italia scoppiò un fermento indicibile e si senti la necessità di accorrere in aiuto alla rivoluzione perdente. Del resto, come si disse, la Sicilia non era per anco caduta: concentratasi in un piccolo spazio sentì crescere a mille doppii la sua forza d'espansione e d'impulso. Restringendo la sua sfera d'azione dilatò la propria popolarità ed importanza.

LIII.— Tuttavolta la calma a Palermo ed a Messina non era quale Russo e Salzano potevano meglio desiderare. I cittadini non lasciavano passare pretesto veruno per provocare nuove dimostrazioni, quindi nuovi tumulti e nuove effusioni di sangue. Il 23 aprile nel porto di Palermo gettavano l’ancora diversi legni mercantili inglesi, francesi, americani e sardi sormontati dalla lor bandiera, la bandiera di popoli liberi e grandi. La popolazione di Palermo alla vista del tricolore italiano proruppe in fragorosi evviva alla presenza dello stesso Salzano, di Maniscalco e dei loro satelliti. Un'immensa moltitudine percorse sino a sera la via di Toledo recandosi alla spiaggia del mare quasi per fare una visita di convenienza a quel sacro segno di redenzione che fra poco doveva pur essere il loro vessillo. Furono senza fine i battimani, gli applausi e gli evviva all'Italia né le truppe, trasecolate ài cospetto di tanta unanimità, osarono opporsi a quello slancio d'entusiasmo cittadino. Altrettanto accadde il 23 a Messina all'arrivo in quel porto del vapore sardo l’Authion. La comparsa del tricolore italiano in quelle acque fu salutata da vive ed universali dimostrazioni di gioia. Il capitano del legno fu il solo che scese da bordo: egli si recò a visitare nella cittadella il generale Russo che apparentemente gli fece assai buona accoglienza; ma nel frattempo una fregata napoletana prendeva il largo senza dubbio ad oggetto d'osservar da vicino i movimenti dell'Authion. I luogotenenti di Francesco Borbone non si fidavano d'alcuno: sentendosi universalmente abborriti di tutto temevano.

LIV.— Intanto a Palermo le dimostrazioni succedevansi con perseveranza ed audacia incessante. Il 24 alle ore 16 ed un quarto italiane, corrispondenti in quella stagione al meriggio, la folla nuovamente percorse la via di Toledo gridando evviva all'Italia ed alla rigenerazione dell'Isola. Il 25 ed il 26 ad un'ora pomeridiana altre dimostrazioni e non meno imponenti ebber luogo, malgrado le numerose milizie che occupavano quasi l'intiera città. Il giorno 28 sul far della sera tutta la popolazione di Palermo pareva accalcata nelle larghe contrade Toledo e Maqueda e nelle piazze adiacenti e si prolungò la dimostrazione sino a notte assai tarda. In tal guisa i capi del popolo miravano ad avvezzarlo al pericolo pel giorno in cui l'insurrezione già matura dovesse scoppiare.

LV.— Era in quel mentre da Napoli ritornato a Palermo con poteri discrezionarii il principe di Castel Cicala, luogotenente del Re nelle provincie al di là del Faro, conducendo seco cinque mila uomini di rinforzo all'armata dell'isola. Ciò non impedì tuttavolta che il 2 del successivo maggio due imponenti dimostrazioni simultaneamente sì facessero alle due estremità di Palermo, sulla piazza Vigliena cioè e nelle vicinanze del marci Ma questa volta la presenza del principe parve aver risvegliato nelle truppe la solita sete di sangue e saccheggio: il popolo inerme fu caricato alla baionetta, disperso dalla cavalleria e massacrato per le vie, per le piazze e per le case. Due giorni dopo un proclama firmato dal principe metteva in vigore la legge stataria e minacciava la fucilazione immediata contro i detentori od asporitatori di qualunque specie di armi. Il giorno medesimo la colonna mobile, già da Salzano spedita alla Piana dei Greci per ¡sgombrarla dalle bande insorgenti, rientrò con aria trionfante a Palermo come avesse vinto strepitose battaglie, mentre da tutti sapevasi che non aveva incontrato nemico veruno.

LVI.— In Sicilia le truppe borboniche, compresi i numerosi presidii ed i rinforzi speditivi a piccole squadre da Napoli, sommavano in que' giorni a non meno di 50,000 soldati bene istrutti e forniti di tutto il necessario per una lunga campagna. Disponevano inoltre di un complicatissimo sistema di fortificazioni innalzate ad oggetto di frenare e reprimere i popoli e munite di artiglierie formidabili. L'insurrezione mancava di mezzi, di ordinamento militare e di armi, né ardiva in apparenza staccarsi dal centro dell’isola ove sembrava condannata a perire d’inedia. Contuttociò né Castel Cicala, né Salzano, né Russo, benché ne’ loro pomposi rapporti annunziassero la completa dispersione delle bande ribelli, osavano credere quello stesso che con tanta asseveranza affermavano. Nuovi rinforzi si chiedevano a Napoli e nuove misure militari prendevansi in vista di futuri e non improbabili eventi. Fu stabilito di formare a Messina ed a Palermo due vasti campi trincierati e munirli di terrapieni e bastioni, ove in ogni caso le truppe potessero raccogliersi e trovarvi salvo e sicuro ricovero. Il principe di Castel Cicala fece ancora di più: egli chiese al governo un vapore per sé onde poter con onore svignarsela qualora le vicende della lotta lo avessero costretto a fuggire. Atto di prudenza sommamente lodevole, e di cui ebbe ben presto ed in fretta a servirsi.

LVII.— Nel frattempo Francesco Borbone amoreggiava colla diplomazia ed anelava ali acquisto delle Marche e dell'Umbria. La Francia, già stanca della occupazione di Roma, ove sapeva essere oltremodo abbonita, sollecitava Francesco II ad assumere la difesa e la guardia del potere papale ed a surrogare colle proprie sue truppe le squadre francesi nel presidio dell'eterna città. Tale proposizione diede nascimento alle più alte pretese per parte della Corte di Napoli mille dubbii e difficoltà sollevaronsi: si moltiplicarono le proposte e le risposte senza poter mai pervenire ad una conclusione attuabile. Il re Francesco avrebbe voluto aderire alle sollecitazioni della Francia ed accordare al Pontefice i domandati soccorsi, ma non senza stabilirne anticipatamente il compenso. Invano il ministro Brenier affrettava per ordine del governo francese la conclusione dell'affare: le cose furono con varii pretesti tirate in lungo finché il precipitare degli avvenimenti rese le trattative impossibili. Più tardi vedremo qual fosse inverso il Pontefice la cristiana pietà del Borbone e come da questi s'intendesse la integrità del poter temporale.

LVIII.— Negli ultimi giorni d'aprile un avvenimento, che militarmente considerato aveva ben poca importanza, ma che per le sue conseguenze fu sommamente utile alla libertà, ebbe luogo in Sicilia. Al generale Russo era caduto in pensiero di poter colle sue genti attaccare ed intieramente disperdere i popolani cui la publica voce voleva accampati in gran numero nell'interno dell'Isola, il che, come narrammo, era vero. Egli pertanto allestì una colonna mobile composta delle truppe che avea disponibili e la spinse per la linea dei monti verso l'interno. Ma incontrata la colonna medesima nella forte posizione di Adernò da un grosso distaccamento d'insorti fu dopo breve conflitto completamente sbaragliata e distrutta. In quel fatto i Regii perdettero tutta l'artiglieria di campagna che avevano seco recato oltre a gran copia di armi, di munizioni e di viveri. La vittoria di Adernò ottenne un insperato successo: la Sicilia intiera ne senti il contraccolpo. Gli animi già prostrati dalle passate sventure ripigliarono quel vigore e quel coraggio che rendono invincibili i popoli siccome gli eserciti. Quel giorno la perdita di Carini fu riparata.

LIX.— Da quel giorno l'insurrezione si stabili fortemente nelle sue posizioni. Essa teneva Alcamo nella valle di Noto, Castrogiovanni, Caltanisetta ed altri punti importanti delle valli di Mazzara e di Demona. I Regii dal canto loro tenevano le principali città e le coste ed inoltre circondavano risola di una crociera di vapori e di altri legni da guerra.

LX.— Così terminava il mese d'aprile del 1860: e terminava con ottimi auspicii siccome aveva cominciato. Una rivoluzione imponente scoppiò a fronte d'un'armata regolare, l'assali sulle barricate ed in campo aperto, vinse e fu vinta, e pur si mantenne e crebbe d'ardire e di forze. Iniziata in una piccola casa situata nelle parti più rimote di Palermo, s'allargò a mano a mano e si stese per tutta la Sicilia. Migliaia e migliaia di popolani di tutte le classi accorsero al grido di guerra, si raccolsero intorno al tricolore italiano, si ordinarono a guisa d'esercito e tennero in iscacco pel volger d'un intiero mese gli sforzi di cinquanta mila napoletani (8). Fra poco vedremo quest’esercito così numeroso cadere e disperdersi davanti un branco di prodi che la redenta Italia spediva in soccorso ai fratelli in pericolo.


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LIBRO II

Preparativi Partenza da Genova. Viaggio

I. — Mentre in Sicilia la guerra insurrezionale con varia fortuna agitavasi, nell'alta Italia gli animi si ridestavano a novelle speranze. I fatti recenti avevan colpito non già disanimato le popolazioni. I preliminari di Villafranca, susseguiti dall'infausto trattato di Zurigo, avevano, è vero, troncato nella valle del Po la carriera delle armi ed allontanato a tempo indefinito il termine del patrio riscatto. Ma il genio italiano, genio eminentemente austero e tenace, fremeva sdegnoso entro la cerchia di ferro in cui lo si voleva comprimere, ed in sé concentrandosi cresceva d'intensità e di forza. Il grande alleato, il vincitor di Magenta poteva a sua posta arrestare sul Mincio le trionfanti legioni, ma non però soffocare il sentimento d'indipendenza e le aspirazioni unitarie dei popoli. L'impulso alla rivoluzione era dato e nessuna umana potenza oggimai valeva a frenarne l'irresistibile corso. Napoleone poteva segnare sul Mincio il termine delle sue guerriere fatiche, ma non quello dell'indipendenza e della patria Italiana. A Villafranca egli ci impose la pace: ma era una pace bugiarda ed effimera che doveva ben presto sollevare nuove difficoltà e complicazioni. Infatti non era guari possibile suscitare ne1 popoli i sentimenti di nazionalità e di patria per respingerli poscia sotto lo scettro dei vecchi tiranni. Strana illusione degli uomini, dalla fortuna collocati sul vertice delle umane grandezze, pur troppo si è il presumere di signoreggiare la situazione politica di un popolo in rivoluzione siccome gli ordinamenti d'un esercito sul campo di guerra. La diplomazia imperiale non ottenne l'intento che sera prefisso: aveva creduto risolvere tutte le difficoltà, e le difficoltà ripullulavano ovunque: il malcontento generale di giorno in giorno aumentava e con esso l'incertezza e il malessere, preludio infallibile di crisi vicine e supreme. Infatti il torrente delle idee nazionali straripava da tutte le parti, ed appena a contenerlo bastava l'influenza governativa, sorretta da una vasta cospirazione moderata a tale effetto ordinata e condotta. Invano Napoleone terzo credevasi avere pacificato l'Italia: opera fu solo del governo sardo se ne' pochi mesi che seguirono la campagna del 1859 la rivoluzione non ruppe i confini alla Cattolica e al Mincio.

II.— Durante la campagna lombarda la ritirata delle truppe dell'Austria aveva determinato l'emancipazione dell'Italia centrale. Le Legazioni, già centro delle cospirazioni rivoluzionarie, avevano scosso il dominio papale, i troni dei proconsoli austriaci erano stati rovesciati a Magenta, e le dinastie di Parma, di Firenze e di Modena avevano cessato di tiranneggiare e d'opprimere i popoli. Tale felice rivoluzione compivasi affatto incruenta e pacifica, imperocché que' governi non per impulso straniero o per cittadine sommosse, ma caddero da sé, sotto il peso de' proprii misfatti. Unicamente sorretti dalle baionette dell'Austria i tirannelli italiani disparvero non si tosto soli e disarmati trovaronsi in faccia dei sudditi. Quindi abbandonate a sé stesse e fidenti ne' propri diritti le popolazioni avevano inaugurato un nuovo ordine di cose e ristaurato l’impero delle autorità e delle leggi.

III.— Se non che trincierata nel suo quadrilatero, antica chiave di tutte le discese imperiali in Italia, l'Austria tiranneggiava tuttavia la infelice Venezia, mentre il Pontefice opprimeva l'Umbria e le Marche, e le Due Sicilie gemevano sotto il feroce dispotismo borbonico. Circa tredici milioni d"Italiani reclamavano la loro porzione al banchetto della fraternità e della' patria, ed ansiosamente attendevano il giorno del finale riscatto. Né in simili circostanze la via, che si doveva dagl'Italiani tenere, dubbia appariva ed incerta: gli avvenimenti l'avevano tracciata. Bisognava rivendicare a libertà primamente l'Italia meridionale e centrale, riunire in seguito gli sparsi frantumi al gran corpo della nazione, e da ultimo concentrare tutte le forze per affrontare con probabilità di vittoria le falangi dell'Austria entro il recinto medesime del vantato suo quadrilatero.

IV.— Tale era il piano cui la più volgare prudenza consigliava alle popolazioni italiane: e tale per l'appunto fu il piano che gl'Italiani adottarono. Inutile sarebbe ricordare con quanta assiduità ed insistenza il partito liberale s'adoperasse nel febbrajo e nel marzo del 1860 per indurre il generale Garibaldi, il rappresentante militare della idea nazionale, a rompere gl'indugi e ad invadere colle truppe della Lega i dominii pontificii delle Marche e dell'Umbria. La timida prudenza del governo sardo s'oppose all'esecuzione dell'ardito progetto: Garibaldi venne richiamalo a Torino ed indotto a dimettersi e Peserei lo della Lega, per la maggior parte composto di volontari e di veneti, fu per arte del ministero tosto dopo disciolto. In tal guisa liberata dagl'incomodi suoi vicini la Corte di Roma potè per alcuni mesi esercitare la sua libidine d'assoluto comando sui poveri marchigiani e sugli umbri.

V.— Se non che gli avvenimenti incalzavansi malgrado gli sforzi d'un'astuta od incauta prudenza: pareva che una forza superiore ed arcana li spingesse ad una meta suprema. Ad onta dei locali interessi e delle più sante sue tradizioni malia voleva ad ogni costo costituirsi in nazione una ed indivisibile siccome la Francia e la Spagna: e ad un popolo che vuole e vuol fermamente. nessuna cosa è impossibile. In apparenza lutto era finito: in realtà starasi per ricominciare la lotta. Le truppe della Lega erano per la massima parte disperse: l’idea della indipendenza piangeva perduto il suo centro d'azione: la Toscana e le Legazioni dormivan tranquille, alloppiate da vane promesse e lusinghe, e tutto dava a credere già tolto il pericolo di nuove complicazioni e scissure. Ma in mezzo a questa menzognera tranquillità sopravvenne come un colpo di fulmine la notizia dell'insurrezione di Palermo: i moderati perderono il fittizio ascendente che avevano a forza d'arte ottenuto, ed il sentimento dell'unità nazionale ad un tratto ripigliò la sua forza, i suoi dritti.

VI.— La rivoluzione di Palermo, comeché inaspettata, nell'alta Italia produsse una emozione universale e profonda. Essa aveva oltrepassato le previsioni dei moderati del pari e dei patriotti. I primi, partigiani del Regno ingrandito e timorosi di perdere il già conquistato, sognavano un avvenire di tranquillità, di riposo e di pace: questi, disanimati dai molteplici ostacoli che s'opponevano all'attuazione piena ed intiera del nazionale programma, incominciavano a perdere financo la speranza di migliori destini. In tale frangente i popolani di Palermo insorsero gridando un evviva all'Italia e gettarono sul fronte ai tiranni un guanto di sfida: i miracoli del 1848 si riprodussero nella capitale medesima che fu la prima in quell'epoca, gloriosa del pari che infausta, a sollevare il grido di libertà e di patria. I liberali sentirono che in Sicilia combattevasi una guerra di vita e di morte tra il passato e l’avvenire, tra l'unità ed il separatismo, tra la grandezza e la debolezza d'Italia. Tutti gli sguardi stavano ansiosamente rivolti a quel branco di prodi che in nome di Dio e della patria sorgevano coll’armi a rivendicare il diritto di chiamarsi italiani. I giornali consacravano una rubrica alle cose di Sicilia e spargevano, colle notizie, ne' popoli la speranza della finale vittoria. Era giunto Vistante in cui la nazione svincolata da ogni straniera tutela, abilitata sentivasi a provvedere da sé alla propria salvezza.

VII.— E i liberali non mancarono al loro dovere. Appena si conobbe che la lotta d'indipendenza s'era già impegnata a Palermo, migliaia e migliaia di voci simultaneamente richiesero che si prendessero i provvedimenti opportuni onde la Sicilia venisse soccorsa. Pareva un delitto di lesa nazione rimanere inattivi spettatori duna guerra da cui pure le sorti d'Italia dovevano in gran parte dipendere. Tutti gli sforzi dei moderati non riuscirono a calmare l'effervescenza degli animi che sempre più andava aumentando, e si trovarono all'ine costretti a cedere alla volontà generale.

VIII.— L'iniziativa d'una spedizione armata in Sicilia fu presa contemporaneamente a Milano, a Firenze ed a Genova. A Milano pose il suo campo all'ufficio del Politecnico ed a quello del già cessato giornale la Vanguardia: a Genova presso la Redazione dell'imià Italiana ed all'Associazione Unitaria, ed infine a Firenze al Comitato per la soscrizione al milione di fucili-Garibaldi. E quantunque nulla fosse ancor stabilito si cominciarono a raccogliere danari e munizioni e ad apparecchiare i volontari ad un vicino reclutamento (9).

IX.— Primo pensiero degl'iniziatori fu di dare alla progettata spedizione un condottiero che pe suoi antecedenti militari, pel suo genio e per la sua fama presentasse maggiori probabilità di pieno e felice successo. Gli occhi di tutti si rivolsero al generale Giuseppe Maria Garibaldi, antico soldato di libertà in America ed Roma, e duce naturale de' volontari italiani. L'immenso prestigio del nome, l'influenza che esercita sulla gioventù, il suo attaccamento all'Italia e la sua cooperazione al trionfo dell'idea nazionale lo rendono il solo capace a compire le più ardue intraprese. Dovendosi tentare uno sbarco sulle coste della Sicilia nessuno meglio di Garibaldi avrebbe potuto assumersene l'onorevole quanto difficile incarico. Abile marinaio quanto prode condottiero d'eserciti egli solo poteva tentare un viaggio traverso le crociere napoletane che dai primi giorni delr insurrezione circondavano l'Isola e ne guardavano i porti. In terra la sua presenza valeva un esercito, né altri che Garibaldi poteva incutere ai Regii quel terrore col quale li vinse più tardi assai più che colla forza delle armi.

X.— Pratiche vennero ben tosto intavolate col generale Garibaldi per indurlo a ripigliare la spada, già deposta alla Cattolica, ed a porsi a capo della nuova spedizione di argonauti che s'andava già maturando. Ma il Generale, sia non fidando nelle voci che attribuivano forse al moto siciliano una estensione che gli paresse esagerata, sia per qualunque altra ragione, rifiutava ricisamente di aderire alle istanze dei compagni e degli amici. Forse la mala riuscita della spedizione alcuni anni prima tentata del colonnello Carlo Pisacane, che ebbe a lasciarvi la vita, dissuadevalo dall'avventurarsi in un'impresa che poteva avere per l'Italia le più serie conseguenze. Con tutto ciò i liberali non si dieder per vinti: malgrado l'assoluta negativa lor data dal Generale ritornavano più tenaci alla carica, e finirono col dissipare i suoi dubbii e col superare la sua renitenza. Dopo varii giorni di tentativi abortiti il Generale cedette alle loro preghiere e si accinse ad ubbidire al voto degli amici che era pur quello d'Italia.

XI.— Il Generale aveva acconsentito, i volontari eran pronti: ma bisognava provvedere ai mezzi di trasporto, di armamento e vestiario. Nelle casse dei varii comitati per la soscrizione al milione di fucili giacevano delle somme di danaro di non gran rilevanza. Alcuni privati offrivano il loro obolo per la santa intrapresa, e potevasi inoltre contare sul concorso della Società Nazionale che volevasi largamente provveduta di fondi. Quanto ai mezzi di trasporto i vapori della società Rubattino o per amore o per forza dovevano servire e si perdette un momento: entro il mese d'aprile fu provveduto a quanto era necessario perché una piccola flotta potesse salpare ad un dato segnale dalle rive di Genova.

XII.— Compagni all'arrischiata intrapresa, a cui la storia di dieci secoli non vanta l'eguale, Garibaldi non domandò. che un migliaio di volontari giovani e scelti (10)). A Milano il primo avviso d'arruolamento per la spedizione in Sicilia comparve sui giornali il 27 d'aprile: la sera del 30 la lista era chiusa. A Genova la Società dei Carabinieri si dichiarò pronta a seguire il Generale, e dalle università gli studenti accorrevano a militare all'appello del vecchio lor condottiero. Il piccolo esercito si radunò incontanente a Genova e credevasi vicino a partire quando un ordine del Generale annunciò che la spedizione era sospesa.

XIII.— Taluni in que' giorni mormorarono che il governo avesse impartito alle autorità genovesi l'ordine espresso d'impedire con tutti i mezzi la spedizione, e che in conseguenza Garibaldi si credesse obbligato a fingere di abbandonarne il pensiero per deludere così la vigilanza della questura e potersi in tal guisa senza ostacolo poscia imbarcare. Altri vogliono che le cattive notizie provenienti dalla Sicilia l'avessero disanimato e dissuaso dal tentare l'impresa. Comunque ciò sia la partenza fu differita: in parte i volontari già accorsi ritornarono alle usate dimore, ma il maggior numero rimase a Genova aspettando disposizioni ulteriori.

XIV.— Il deputato Agostino Bertani, l'anima della spedizione, aveva frattanto mandato a Torino persone incaricate a provedere armi, munizioni e vestiarii, ed ottenne in tal modo qualche centinaio di carabine, di sciabole, di pistole ed altri oggetti di guerra. Il presidente della Società Nazionale Giuseppe La Farina contribuiva all'impresa per novecento fucili da munizione e per poche migliaia di lire. Cosi malgrado la ristrettezza del tempo e dei mezzi la piccola armata in quel breve intervallo venne provveduta di quello che era estremamente necessario. Dall’altro canto erasi tracciato il piano per impadronirsi dei due vapori della società Rubattino coi quali tentare il trasporto da Genova fino in Sicilia.

XV.— In pochi giorni e con celerità sorprendente tutto fu posto in ordine. Il 2 ed il 3 maggio venne diramato ai volontari secretamente l'invito di radunarsi sull'istante a Genova, perocché il momento di salpare era giunto. A mezzogiorno del 4 la piccola truppa si trovò raccolta presso il comitato iniziatore in attesa delle risoluzioni che in seguito sarebbersi prese (11).

XVI.— Cosi fra le agitazioni e le cure passò la giornata del 4. Garibaldi diffatti trovavasi nella situazione per avventura più ardua e difficile che mai avesse incontrato in tanti e tant'anni di sua vita militare ed errante. Egli disponevasi a partire per una spedizione lontana ed irta d'inciampi e pericoli, l'esito della quale non potea prevedersi: ed assumevasi una immensa responsabilità, di cui l'alternativa finale doveva essere od una gloria immortale od una immeritata ignominia. Ben sapeva che il mondo riverente s'inchina alla divinità del successo; ma che sarebbe avvenuto se l'ardito argonauta avesse dovuto, come Pisacane, come Bentivegna, soccombere? La reazione avrebbe condannato all'infamia la memoria dello sventurato patriotta; il mondo lo avrebbe qualificato di filibustiere e brigante, né mancare i moderati potevano di calunniare la lealtà delle sue intenzioni o di chiamarlo per lo meno fanatico e pazzo. Né forse sarebbe mancato chi avrebbe spinto il cinismo al segno di attribuirsi in faccia alla moderazione europea il vanto della sua perdita. Se Garibaldi fosse caduto od a Marsala od a Palermo i mille prodi che lo accompagnarono sarebbero stati, siccome rivoluzionarii e repubblicani, posti al bando delle nazioni civili.

XVII.— Erano tali i pensieri che naturalmente assediavano in quegl'istanti supremi la mente dell'invitto guerriero. Ma prima dipartire egli volle giustificare agli occhi del mondo l'impresa alla quale accingevasi, prevenire le calunnie e le accuse di nemici e di amici mal fidi col dichiarare quali fossero i suoi intendimenti ed i suoi fini, e da ultimo rivendicare, per ogni caso di fortuito disastro, la memoria di sé e dei compagni. In un ordine del giorno diretto ai mille suoi prodi ed in varie lettere ch'egli scrisse agli amici altamente dichiarò di recarsi in Sicilia, non con idee sovversive e repubblicane, ma in nome e col vessillo d’Italia e del suo re Vittorio Emanuele, per liberare quei popoli dalla tirannia dei Borboni e riunirli al gran corpo della nazione. Protestò non aver consigliato i moti di Sicilia, ma che venuti alle mani quei nostri fratelli, credeva obbligo suo d'aiutarli. Questa dichiarazione cosi esplicita che si riscontra in tutte le lettere scritte dal Generale in que giorni prova ad evidenza qual cura egli ponesse ad ¡sventare le future calunnie de suoi avversarii e nemici: né fatalmente le sue previsioni in ciò lo ingannarono (12).

XVIII.— In appresso rivolse ogni cura ad assicurarsi alle spalle un centro d'azione da cui potesse trarre i necessarii soccorsi di denaro e d'uomini. Diede quindi al deputato Bertani l'incarico di rappresentarlo presso l'Italia, di raccogliere danari e soldati e di ordinare altre spedizioni (13). Scrisse a Caranti una lettera dello stesso tenore, ed ingiunse al signor Pontoli di Parma di raccogliere, ove non l'avesse fatto l'Associazione Unitaria di Milano, le somme versate dagli oblatori al milione di fucili e di depositarle presso il deputato Bertani suddetto (14).

XIX.— Bisognava da ultimo impedire che a Napoli pervenisse Pannunzio della partenza da Genova. Garibaldi pertanto dispose che una compagnia di volontari destinati ad imbarcarsi a Quarto si recasse sul far della notte ai Giardini pubblici ed occultamente rompesse i fili del telegrafo. Un altro taglio doveva eseguirsi presso lo stesso villaggio di Quarto ed un terzo nelle vicinanze de,' Camogli ove una squadra di toscani doveva aspettare la spedizione e con essa congiungersi. Il taglio del telegrafo, come era intenzione del Generale, venne eseguito ai Giardini ed a Quarto: ma tutte le precauzioni furono vane imperocché, come vedremo, il governo borbonico era già di tutto informato prima ancora che la spedizione salpasse da Genova. Il giorno prima che Garibaldi abbandonasse la terra ligure, la flotta napoletana usciva dai regii porti per opporsi al suo sbarco in Sicilia.

XX.— La mattina del 5 per tempo venne ai volontari comunicato l'invito di apparecchiarsi definitivamente alla partenza, che doveva effettuarsi la successiva notte ad ora assai tarda. Ad oggetto di deludere la vigilanza delle autorità e delle guardie (15) il Generale prese le misure più opportune perché i preparativi fossero condotti colla maggiore celerità e secretezza possibile. Malgrado l'apparente sua sicurezza e la serenità impassibile della sua fronte Garibaldi mostrava e nel contegno e negli atti di diffidare altamente della buona volontà del governo e de' suoi agenti. Quindi egli divise la sua piccola armata in tre squadre e la dispose su tre punti diversi per modo che potesse rapidamente e con tranquillità imbarcarsi. I due vapori destinati al trasporto stavano già ancorali nel porto, sotto le stesse batterie della fortezza, in attitudine di perfetto riposo. Nulla annunziava che quelle due moli tranquille ed immobili fossero destinate ad un prossimo viaggio. I novecento fucili dati dal La Farina, comeché rugginosi e per poco inservibili, poche migliaia di lire, alcuni quintali di biscotto e di cacio, oltre ai combustibili bisognevoli per le macchine? formavano tutto L’approvvigionamento di una spedizione di mille argonauti che in pieno secolo XIX volavano, come gli antichi Greci e i Normanni, alla conquista di un regno.

XXI.— Il mattino del 5 una colonna di volontari sparpagliata in piccoli drappelli e senza ordine usciva da Porta Pila rivolgendo i passi al villaggio di Quarto a tre miglia circa da Genova, dove aspettare doveva che i vapori venissero a levarla. Garibaldi aveva con saggio consiglio provveduto che i militi pervenissero al luogo di destinazione alla spicciolata, a tre, a quattro, a dieci per volta, affine di evitare gli ostacoli. Per lo che i volontari impiegarono tutta la giornata del 5 a compire il viaggio di tre miglia, né si trovarono radunati a Quarto se non alle ore 9 e mezzo di sera. Il generale stesso vi si trovava alla Villa Spinola in compagnia del suo Stato Maggiore, e vi ebbe un lungo colloquio con La Farina. I militi disseminati per gruppi stazionavano davanti alla porta e lungo i viali. I terrazzani in gran folla attendevano per salutare il nuovo Colombo che dal medesimo mare partiva per un'ignota e non meno ardua intrapresa.

XXII.— Un'altra squadra doveva imbarcarsi alla Foce e prendendo il largo girare il molo e penetrare nell'interno del porto ove i vapori stavano attendendola. La distanza, il tempo, le difficoltà del tragitto, tutto fu con matematica precisione calcolato perché nessun ostacolo sopravvenisse a turbare i piani del Generale. Le disposizioni date quel giorno furono oltre ogni credenza astutissime. Le complicazioni dei movimenti abilmente combinati eran quali potevansi meglio desiderare dal più provetto capitano marittimo. E non è meraviglia se le autorità si lasciarono ingannare da tali manovre che mascheravano completamente le intenzioni di Garibaldi (16). La stessa sua assenza in quella sera da Genova fu un trovato stupendo del suo genio e mirabilmente servi a' di lui fini.

XXIII.— Finalmente una terza colonna e la men numerosa composta dei capi della spedizione doveva penetrare dal lato della dogana nel porto e salir quindi a bordo dei vapori ancorati ed apparecchiarli a salpare. La cosa era difficilissima atteso che il movimento doveva compirsi sugli occhi stessi delle guardie, le quali non avrebbero potuto far a meno di accorgersi. L'esecuzione di questa parte, la più pericolosa del piano suddetto, venne da Garibaldi affidata a Nino Bixio, che per la sua abilità, pel suo coraggio e per l'esperienza meglio poteva d'ogni altro in quel frangente condursi (17). Stava da un canto del porto un'antica fregata di guerra abbandonata e senz'alberi, sulla quale da gran tempo non salivano che operai o pescatori a riposare od asciugarvi le reti. Galleggiante cittadella dell'Oceano avea già sfidato le procelle ed i venti, ed ora inutile arnese, si consumava nella solitudine e nella inazione. Bixio ne trasse partito e riusci per essa a coprire i suoi movimenti. Disceso a notte fatta co' suoi sulla riva si fece condurre sulla vecchia fregata, ove contava occultarsi finché l'istante favorevole gli paresse arrivato di salire a bordo del Piemonte e del Lombardo. Lo stratagemma di Bixio ebbe pieno successo: le guardie del porto vedendo il palischermo abbordare la solitaria carcassa, di nulla presero sospetto e lasciarono che i volontari tranquillamente a' fatti loro attendessero. Questi vi rimasero per più ore appiattati sino a che parve al Generale di essere abbastanza securo: allora discesero inosservati nel palischermo e chetamente volando sulle onde pervennero salvi e trionfanti al loro destino.

XXIV.— Quasi al tempo medesimo la squadra partita dalla Foce, dopo avere con lungo circuito girato la spiaggia, a bordo essa pure giungeva. Per sommo favor di fortuna era riuscita a penetrare traverso tutti gli ostacoli e ad entrare nel porto senza che anima vivente se ne avvedesse. Da quell'istante l'esecuzione del piano poteva considerarsi siccome compiuta: non rimaneva che uscire dal porto ed allontanarsi al più presto, giacché poteasi temere che le autorità accorgendosi della loro partenza avrebbero dovuto impedirla. Alla punta dell'alba o i due vapori si trovavano al largo od era la spedizione dei Mille abortita. Con tutto ciò, e malgrado la generale impazienza, il Lombardo ed il Piemonte rimasero immobili per due lunghissime ore: del che fu causa non avere a bordo se non combustibile avariato ed umido per cui appena si giunse dopo inaudite fatiche ad accendere il fuoco.

XXV.— Alle ore 2 del mattino la flottiglia usci chetamente dal porto e s'inoltrò in allo mare protetta dalle tenebre e dal generale silenzio. I due vapori si diressero lentamente verso la spiaggia di Quarto, ove la terza colonna stava da quattr'ore attendendoli. Cagione della loro lentezza era che Bixio, aspettando a bordo un'imbarcazione di eletti giovani volontari toscani completamente armati ed equipaggiati, mal volentieri disponevasi a proseguire il viaggio senza prima averla raccolta. Ma le ore passavano né la barca si vedea comparire. Bisognava accelerare la corsa se pur volevasi prima del levare del sole uscire dall’acque di Genova; un ulteriore ritardo poteva riuscire fatale. Stanco alla fine di attendere, Bixio ordinò al pilota di volgersi a Quarto. Più tardi si conobbe la causa di quei contrattempo. La barca che doveva recare a bordo la squadriglia toscana, smarritasi nell'oscurità della notte, aveva deviato dalla linea dei vapori: essa vagò lungamente sull'onde indarno cercandoli. Giuntole addosso il giorno e scoperta dai legni sardi venne arrestata e ricondotta, triste e scorata, a Genova.

XXVI.— I volontari già radunati a Quarto stavano, come si disse, con angosciosa impazienza aspettando l'arrivo dei loro compagni. Fino dalle 10 della sera il generale Garibaldi usciva dalla Villa Spinola e, dopo essersi per qualche tempo trattenuto con La Farina, si diresse accompagnato dai suoi verso la spiaggia. I volontari guidati dal lor generale tacitamente discesero per un angusto sentiero fiancheggiato d''alberi e siepi. Giunti alla riva ritrovaronvi da dieci a dodici barche tra piccole e grosse e varii facchini che attendevano a caricare i moschetti. Sopra uno scoglio Francesco Crispi accompagnato dalla moglie, vera amazzone del secolo XIX e l'unica donna che fece parte della prima spedizione, sopraintendeva alla esecuzione degli ordini dati da Garibaldi. I volontari vinti dall'impazienza non soffrirono di attender più oltre ma irruppero nelle barche ove in breve si trovarono stipati e pigiati a guisa di pesci. Allora le barche si mossero e lentamente pigliarono il largo, favorite da una frizzante e leggerissima brezza. L'ultimo battello che si stacci dalla riva portava il generale Garibaldi, il colonnello Sirtori ed alcuni altri ufficiali di Stato Maggiore. L' imbarco si effettuava alle ore 10 e mezzo circa della sera in mezzo alla calma ed al più perfetto silenzio.

XXVII.— Era limpido il cielo e bella e serena la notte. La luna risplendeva sull'orizzonte, ed i suoi tremuli raggi sfavillavan sui flutti quasi gruppi fosforescenti di scintille innumerevoli, mobilissime. Un placido venticello coll'alito lieve increspava la tranquilla superficie del mare e dolcemente spingevalo a lambire la spiaggia. Miriadi di stelle illuminavano coloro taciti sguardi quell'audace gioventù che affrontava fatiche ignote e pericoli coll'incuranza dell'abnegazione e dell'eroismo. Tutto faceva presagire un fortunato viaggio ed un risultato felice. Le barche placidamente, disposte in bell'ordine, vogavano sull'immensità degli abissi; e tutti gli sguardi stavano rivolti a ponente, intesi ad ¡scoprire i navigli che dovevano indi levarli. Ma le ore passavano con insopportabil lentezza: si sentirono battere sulle torri dei circostanti villaggi le dodici, un"ora, due ore, né la flotta aspettata ancor compariva. L'agitazione, l'orgasmo era universale e supremo. Intanto, benché fosse profonda bonaccia, le barche vogando a cavalcione sull'acque ondoleggiavano, il che fu cagione che molti incominciarono a provare gli effetti del mare. I più felici avevano potuto addormentarsi, ma furono pochi, attesoché nella maggior parte delle barche quegli afflitti trovavansi siffattamente stipati, che lor diveniva impossibile, non che sdraiarsi e riposare, il sedere ed il muoversi.

XXVIII.— In quella posizione, oltremodo penosa ed incomoda, i volontari durarono per più di cinque ore. Tuttavia non fu proferito un lamento né formulata una frase sola di rimprovero. Gravissimi furono i tedii ed i disagi sofferti, ma i generosi erano pronti ai più grandi sacrificii quanto ai più tremendi pericoli. Le imbarcazioni frattanto sempre più s'inoltravano: fra l'altre 'quella che a prua portava un fanale a fiamma rossa e verde che serviva, secondo i presi concerti, di segnale ai vapori stava collocata nel mezzo. In tutto quel noioso spazio di tempo fu mantenuto il più completo e rigoroso silenzio.

XXIX.— Finalmente alle ore tre e mezzo del mattino apparvero sul lontano orizzonte quasi due moli brunastre che s'avanzavano lente e maestose sull’onde. A poco a poco accostandosi i volontari ne scoprirono i segnali e le riconobbero pei navigli si a lungo aspettati. Incontanente la fausta novella venne comunicata colla rapidità della folgore dall'una all'altra barca,c ricolmò i, volontari di giubilo. In quell'istante di ebbrezza fu impossibile mantenere il silenzio: un grido guerriero di gioia da tutte ad un tempo le imbarcazioni elevandosi fragoroso ed unanime rimbombò sulla vastità dell'oceano, e si perdette tra gli scogli delle spiaggie vicine. Ma fu un grido passaggiero, istantaneo: dopo alcuni secondi tutto rientrò nella calma.

XXX.— IlPiemonte ed il Lombardo celeramente procedendo erano giunti frattanto in accia alle barche. Il generale Garibaldi pel primo sali sul Piemonte. Allora tutte le imbarcazioni si misero in moto per avvicinarsi ad ascendere a bordo, né la salita fu senza rischi e pericoli. Tutti i volontari indistintamente voleano viaggiar sul Piemonte perché vi aveano veduto salire ramato lor Generale. Ma la fretta e la confusione fu si grande che nei primi momenti molti arrischiarono d''essere capovolti e tuffati nel mare. I palischermi spinti a tutta forza di remi urtavansi orribilmente gli uni cogli altri: la scaletta del vapore si vedeva afferrata da otto, da dieci persone per volta, le quali aspramente contendevansi l'onore di trovarsi sul battello comandato da Garibaldi. Ed appena gli sforzi degli ufficiali bastarono a contenere la folla ed a porre nell'operazione l'ordine necessario ad evitare qualche serio disastro. Nello spazio di circa venti minuti tutti i volontari si trovarono a posto, gli uni sul Piemonte e gli altri, e furono assai più numerosi, sul Lombardo.

XXXI.— Il primo dei due legni, più piccolo e più veloce, Garibaldi si tenne per sè, dell'altro diede il comando al valente generale ed amico suo Nino Bixio. Garibaldi in quella notte portava un' cappello a larghe ale ed ornato di piume: il resto del corpo appariva ravvolto in una specie di mantello bruno. Sull'altro vapore Nino Bixio indossava un uniforme militare a mostre rosse, da quanto per lo meno appariva alla dubbia luce della luna cadente. Entrambi vedevansi ritti ed alteri dirigere dai tamburi le imbarcazioni degli? uomini e delle provviste.

XXXII.— Dalle quattro alle sei l'equipaggio si occupò a caricare sui vapori le armi, il carbone ed i viveri recativi in apposite barche, le quali avevano fino allora seguito i volontari di cui parevano formar la retroguardia. Soltanto alle ore sei del giorno cinque maggio la flotta potè levar l’ancora e prendere definitivamente il largo.

XXXIII.— In tal guisa Garibaldi partiva per l'arduo viaggio fidando nella sua stella, nella buona fortuna d'Italia, nel proprio e nel valore de' suoi generosi compagni. Nessun maggior elogio può farsi a quei bravi della fiducia che l'illustre generale dichiarava avere in essi riposta. Con un bell'ordine del giorno, vero modello della maschia e severa eloquenza del campo, Garibaldi, deplorando le antiche scissure ed ammirando l'attuale concordia delle popolazioni, esortava i compagni. a portare ne' futuri cimenti quel valore di cui avevano dato prova nelle passate battaglie, ed inculcava la fiducia nei capi e l'amore alla disciplina siccome le basi di quel marziale ordinamento di cui avranno ben tosto mestieri quando dovranno nell'alta Italia presentarsi a maggiori conflitti. Raccomandava finalmente in nome della patria risorta di vieppiù stringersi intorno alla santa bandiera sotto cui militavano ed a quel Vittorio che non deve tardare a condurli a definitiva vittoria.

XXXIV.— I due navigli, a breve distanza l'uno dall'altro, procedevano celeramente radendo la «costa nella direzione sudest. I volontari stipati. sul ponte parevano abbandonarsi alla contemplazione delle svariate e pittoresche. bellezze. della fuggente riviera percossa dal sole nascente, decorata di ville superbe e di ameni villaggi e coronata d'innumerovoli boschetti d'aranci e d'ulivi. È pur commovente e stupendo l'aspetto dell'aperta, natura: è pure incantevole e bello il sorriso, delle, spiaggie italiane! Ma que' generosi tenevano. alt trave rivolta la mente, abbenché i loro sguardi sembrassero posare inchiodati ed immobili sulla, magica scena che lor si parava davanti. Precorrendo le distanze ed i tempi, il pensiero dei prodi forse vagava oltre le terre ed i mari in traccia di nuove, non ancora combattute, vittorie.

XXXV.— Erano le 8 del mattino. La brezza dapprima si dolce e soave, diveniva già rigida e fredda, ed il mare sino allora si calmo incominciava a gonfiarsi. Dense colonne di nebbie sospinte dal vento discendevano sui ciglioni dei monti ed a poco a poco allargandosi coprivano il lontano orizzonte: ed il cielo dianzi si puro e si limpido mano mano malinconico e cupo facevasi. L'alternarsi inquieto dei flutti imprimeva ai navigli quel moto ondulatorio ed instabile i cui effetti funesti si fanno cotanto vivamente sentire agli insoliti viaggiatori marittimi. 1 sintomi delle angosce future principiavano già a comparire sul volto di tutti quando i vapori gettarono l’ancora nella rada di Camogli.

XXXVI.— In quel punto le 9 battevano alla torre del vicino villaggio. La popolazione di quel luogo rimoto, animala da vero sentimento di patria, già da lung'ora aspettatali, e con entusiasmo

salutò il loro arrivo. Alcune barche peschereccio, staccatesi dalla sponda, apportarono a bordo varii carichi d'olio e dj grasso e delle botti d'acqua dolce, di cui s'aveva grandemente bisogno. Ma una imbarcazione di volontari toscani che doveva trovarvisi (era quella destinata ad eseguire un terzo taglio al telegrafo) non si vide con esse venire, il generale in attesa del loro arrivo fece sospendere per qualche tempo la partenza dei legni; ma poiché nessun compariva levarono l’ancora e ripigliarono il viaggio.,

XXXVII.— Frattanto le nebbie crescenti involgevano d'un velo densissimo il cielo, la terra ed il mare. Una pioggia fitta e minutissima rendeva il soggiorno sui ponti oltremodo noioso. I volontari incominciarono più fortemente a risentire gli effetti del viaggio sopra un mare agitato e rigonfio: le traccie di orribili patimenti vedevansi impresse sul volto di tutti. E il tempo frattanto facevasi ognor più minaccioso e più brutto; le onde sconvolte violentemente frangevansi contro ai fianchi d'ambi i vapori. Il ponte s'ingombrava di giacenti, e il pallore mortale dei loro volti chiaramente annunziava l'affanno acuì soggiacevano. Il numero degl'infelici colpiti dalmate di mare di minuto in minuto aumentava. Sul Piemonte il solo Garibaldi si vedeva dal tamburo impassibile e calmo sfidare la furia del vento e dell'onde e dirigere colla voce e col gesto le operazioni del timoniere e della ciurma. Nino Bixio altrettanto facea sul Lombardo.

XXXVIII.— Giunsero a 40 ore in vista di Rapallo. In quel punto la monotonia della corsa fu rotta da un doloroso accidente. I volontari sdraiali sulla tolda del Piemonte tutto ad un tratto sentirono un tonfo come di un corpo pesante che fosse caduto nell'acqua. Air istante medesimo la voce stridula ed acuta del timoniere fece risuonare t nell'universale silenzio il terribile grido. Un uomo in mare. Per un movimento istantaneo tutti furono in piedi: lo sgomento, la costernazione fecero per un istante dimenticare le angosce che tutti soffrivano. Un canotto è slanciato nell'acqua e due marinai vi si precipitano, mentre il Generale comanda al macchinista di arrestare il vapore, e dirige col gesto e con la voce il battello. Dopo alcuni minuti passati in mortale silenzio, i marinai saltellanti a cavalcione dei flutti, sulla sponda del battello abbassandosi, afferrarono pe' capelli il caduto ed a sé lo trassero in salvo. Allora una esclamazione di gioia proruppe da cento labbra ad un tempo, quasi che tutti sollevati apparissero del peso d'orrenda e comune sventura. Appena i marinai riguadagnarono il ponte da tutte le parti si chiese se vivo ancor fosse, e la risposta affermativa del Generale ridonò a que' prodi la rassegnazione e la calma. Frattanto ogni maniera di soccorsi venne prodigata al naufrago: ma l'asfissia avea di già fatto progressi tali che molte e molte ore ci vollero prima che gli si facessero riavere i sensi smarriti. Si mormorò da taluni che l'infelice non fosse caduto, ma che affetto da antica mania, si fosse da sé gettato nel mare: asserzione a verificarsi impossibile.

XXXIX.— Nel frattempo il Piemonte, comeché più leggiero e più rapido, aveva di qualche miglio precorso il naviglio compagno. Garibaldi ordinò che si rallentasse la macchina onde il Lombardo potesse raggiungerlo e procedere uniti. Al medesimo tempo fece issare all'albero di poppa la banderuola di segnale perché Bixio, scorgendola, sapesse a qual punto rivolgere il corso. Né molto andò che il Lombardo comparve, e Garibaldi che lo attendea pensieroso come lo vide vicino ad alta voce domandò al capitano quanti fucili e quanti revolvers a bordo tenesse. «I fucili son mille,» Bixio allora rispose, «e revolvers nessuno!» — Il Generale parve un istante colpito da tale rivelazione, ma si ricompose ben tosto e salutando l'amico suo colla mano gli disse: «Bene, navigate vicino.»— Indi rivolto al macchinista ordinò di ripigliare il cammino.

XL.— Cosi lenta ed oltremodo noiosa scorrea quella triste giornata. I volontari molto avevan sofferto e molto ancora soffrivano. Sul far della sera crebbe la furia del vento e con essa il fragore dell'onde, il cigolio delle sarte e delle vele e l'agitazione, l'affanno e lo sconforto dei militi. Da sedici ore che gli infelici tenevano il mare non avevano avuto un istante di calma. E la notte scendeva a ravvolgere il creato in un velo densissimo di nebbie e di tenebre, ed a rendere il viaggio più doloroso ancora e terribile. Tutto facea per quella notte temere un'orrenda e spaventosa burrasca. Le camere dei valori stipate vedevansi di volontari confusamente sdraiati o seduti e si pallidi ed immobili che pareano altrettanti cadaveri. Sul ponte dei due legni non si contavano più di venti militi capaci di tenersi in piedi.

XLI.— Diversi tra i militi, nuovi all'ondoso elemento, aveano seco nell'imbarcarsi portato delle provvigioni con cui prevenire od alleviare i disagi d'un'eventuale fortuna di mare. Tali provvigioni consistevano in frutta, in pesci salati, in pastiglie e in liquori. Ma la maggior parte, inesperta ed improvvida, non aveva pensato a munirsi del necessario e giaceva senza refrigerio e soccorso. Se non che la carità fratellevole dei compagni non mancò di accorrere in aiuto: le scarse provvigioni furono poste in comune e ciascun n'ebbe quel tanto che tra molti poteasi dividere. Del resto erano costretti a cibarsi di pane e di cacio, unica sorta di nutrimento che si trovasse a bordo, imperocché un carico di carne fresca di bue, essendosi guasto, fu gettato nel mare. Né il Generale serbava per sé trattamento migliore: Garibaldi, lo Stato Maggiore, gli ufficiali, i soldati e la ciurma, senza distinzione di grado, cibavansi alla tavola stessa. Solamente una volta nella mattina del 7, in 24 ore di fortunoso viaggio, si potè distribuire un po' di minestra alla meglio condita, ma in tanta scarsità che non ve n'ebbe per tutti. Garibaldi udendo che il secondo comandante di bordo lamentava la mancanza di riso, con piglio severo gli disse: Chi di noi vorrebbe pensare alle privazioni? Ben altri sacrifici abbiam fatti «e ne compieremo ben altri pel nostro paese! I volontari in cuor loro applaudirono, né da quelr istante più alcuno parlò di minestra.

XLII.— Ma un'altra mancanza facevasi al vivo sentire, ed era la scarsità dell'acqua potabile. Malgrado le fatte provviste la sera e la notte del sei furono molti che dovettero soggiacere all'insoffribile tormento della sete. Un mezzo bicchier d'acqua sarebbe stato in quell'istante un dono del cielo per le avide fauci di tanti infelici. Eppure l'equipaggio tutto sopportava con eroica rassegnazione.

XLIII— Alle 11 di notte i due vapori traversavano chetamente il canale di Piombino. Colà doveva trovarsi una imbarcazione di 300 toscani. Ma non vedendo i convenuti segnali la flotta passò oltre proseguendo il viaggio. E si fu in quell'acque che un vapore appartenente alla marina napoletana, l'Amalfi passò loro vicino e li vide: ma non riconoscendoli, o non amando prendersi brighe, progredì tranquillamente dal lato di Genova.

XLIV.— Tuttavia costeggiando le rive i vapori percorrevano celeri,e muti gran tratto di strada. Frattanto il giorno 7 cominciò sotto i più favorevoli auspicii: dopo la mezzanotte la scena parve affatto cangiarsi. A poco a poco la furia del vento cedeva, le onde si facevano più lente e più rade, ed il mare ritornava tranquillo. Le nubi, il giorno prima, si opache e si dense, ognor più dileguavansi, il cielo diveniva sereno e scintillante d'innumerevoli sprazzi di luce, e coll'oscurità del nembo spariva ben anco ogni traccia de' sofferti disagi. Per tal modo con un tempo magnifico la spedizione alle ore 6 del mattino tranquillamente giungeva nelle acque toscane.

XLV.— Alle ore 8 e mezzo del 7 Garibaldi arrivava in vista di Schia, piccolo villaggio toscano situato non lunge dalle liguri spiaggie, e di là procedendo nella direzione sudest si trovò dopo trenta minuti di fronte a Talamone, dove aveva divisato fermarsi. È Talamone un piccolo borgo abitato da circa cinquecento individui, addetti al commercio del carbone ed alla pesca. La vicinanza delle famose maremme ne rendono il clima micidiale e terribile, per lo che dopo il maggio le persone appena agiate, abbandonando il pestilenziale soggiorno, cercano sottrarsi alle fatali sue febbri. Di fronte a Talamone scorgonsi gli avanzi dell'antichissima torre de' Tolommei, si celebre pel tragico fino della Pia e pe' versi divini di Dante. Circondata da immensi paduli la spiaggia non presenta che un aspetto desolato ed oltremodo malinconico e triste: l'acqua dolce vi è scarsa ed appena bevibile, il suolo ingrato ed ignudo. È un punto perduto, per così dire, tra i deserti e le lande ed ignoto quasi agli stessi geografi. Solo il passaggio dei Mille lo rende e ne' secoli venturi il renderà chiaro e famoso. Il timoniere del Piemonte per ordine di Garibaldi rivolse a terra la prora: il Lombardo segui vaio accosto: e passati pochi minuti i due vapori felicemente gettarono l'ancora.

XLVI.— Allora il comandante del porto si recò sul Piemonte dovrebbe con Garibaldi un secreto colloquio. Nessuno conobbe il tenore de loro discorsi. Pare però che si volessero prendere le misure opportune perché i volontari potessero liberamente scendere a terra e rimettersi con un breve riposo dei patimenti il giorno prima sofferti. Questa era forse l'una delle cause ma non certo la sola che determinò Garibaldi a sostare; ché ben altre cure il prudente condottiero volgeva nell'anima Egli non poteva ignorare che i più gravi pericoli ancor rimanevano a vincersi, e che aveva a compire la parte più seria dell'ardua missione. Malgrado le precauzioni prese il governo di Napoli poteva essere prevenuto della partenza da Genova, nel qual caso non avrebbe mancato di dare i provvedimenti necessarii per impedire lo sbarco in Sicilia. Oltre le crociere che sorvegliavano severamente le coste dell'Isola, le flotte napoletane ancorate a Gaeta e nel golfo di Capri potevano correr incontro ai volontari e soverchiarli col numero e col peso dei loro vascelli, giacché in un attacco sul mare Garibaldi sarebbe rimasto irremissibilmente perduto. Trattavasi quindi d'ingannare la flotta napoletana e di deludere la vigilanza delle numerose crociere: ed è questo lo scopo a cui il Generale mirava decidendosi alla fermata d'un giorno. Ma come egli non palesava i suoi secreti a nessuno, cosi nessuno poteva farsi ragione di quanto avveniva.

XLVII.— E Garibaldi apponevasi al vero. A Napoli la partenza dei volontari da Genova era già conosciuta prima ancor che salpassero. In conseguenza una flottiglia napoletana usciva dai porti del regno coll'ordine di cercar Garibaldi, di attaccarlo ed affondarlo o di condurlo prigione. La flotta avanzavasi verso ponente percorrendo la linea medesima che Garibaldi doveva tenere, e riavrebbe senza dubbio incontrato se collo strattagemma della fermata a Talamone egli non l'avesse ingannata. I Napoletani, tratti in errore per l'astuta manovra del Generale Italiano, non ¡scorgendo da verun lato il nemico, procedettero verso le rive della Liguria, lasciandosi Garibaldi alle spalle, mentre credevano averlo di fronte.

XLVIII.— Verso le dieci il Generale scendeva da bordo accompagnato dal suo stato maggiore e dal comandante del Lombardo. Allora i volontari si schierarono sul ponte d'ambi i vapori, dove loro fu data lettura dell'ordine del giorno. I volontari sarebbero chiamati Cacciatori delle Alpi ed avrebbero costituzione ed ordinamento d'armata italiana. Eglino dovrebbero portare in Sicilia quel valore e quell'abnegazione di cui avevano date tante prove nella antecedente campagna, a Varese, a Como ed a Brescia. Il grido di guerra lo stesso che risuonò un anno prima sul Ticino, sul Mella e sul Mincio, Vittorio Emanuele ed Italia. Nel contesto l'ordine del giorno recava le parole, i pensieri e le frasi che si riscontrano in quasi tutte le lettere scritte da Garibaldi in que' giorni (18).

Sembra che al paro delibarmi napoletane egli temesse od almen diffidasse delle Calunnie di amici mal fidi. La lettura fu terminata in mezzo a fragorosi ed unanimi applausi: ma un solo grido dominava quell'immenso clamore, ed era un evviva a Garibaldi, alla Sicilia, all'Italia.

XLIX.— Lo stesso ordine del giorno annunziava le nomine degli ufficiali componenti lo Stato Maggiore, determinava il numero delle compagnie che formare dovevano la forza attiva o di linea e ne regolava il comando. A capo dello Stato Maggiore fu chiamato il colonnello Giuseppe Sirtori, il prode veterano delle Lagune, e Nino Bixio venne eletto comandante generale delle sette compagnie che comprendevano l'intiero corpo di spedizione.

L. A mezzogiorno ebbe principio Io sbarco: tutti i battelli della rada furono impiegati a trasportare i volontari e gran parte della ciurma. Ad un'ora pomeridiana l'intiero corpo si trovò in terra ferma: ed i militi dimentichi delle sostenute fatiche, s'affratellarono con que' buoni abitanti, la cui pretta pronuncia toscana era oggetto di universale ammirazione. Per un istante quel deserto e squallente villaggio parve affatto cangialo. Un migliaio di giovani arditi, esultanti, affamati aveano bastato ad infondergli il moto e la vita.

LI.— Ma il Generale non per questo s'abbandonava al riposo, né menomamente frenava la sua abituale attività di corpo e di spirito. Una pattuglia composta di quattro uomini fu destinata a requisire dai legni camoglini ancorati nel golfo un carico d'olio e di grasso. Il colonnello Stefano Türr venne con un'altra pattuglia spedito al forte di Orbitello, indi non molto discosto, por richiedere a quel comandante alcuni pezzi di artiglieria e delle munizioni da guerra, il che gli fu facilmente accordato. Vero è che Garibaldi, interpretando i sentimenti della nazione, avrebbe in caso di diniego adoperato la forza per ottenere ciò ch’era pur necessario pel buon esito dell'impresa. Finalmente un corpo di cinquant'uomini fu distaccato dall'esercito, posto sotto gli ordini del maggiore Zambianchi e spedito nell'Umbria. Vedremo in appresso qual sorte i redentori d’Italia a quei bravi serbassero.

LII.— Lo Stato Maggiore frattanto non che gli ufficiali superiori occupavansi dell'ordinamento del corpo, della formazione e distribuzione delle compagnie e della scelta dell'ufficialità subalterna. Quanto a questa era data ai comandanti facoltà di nominare persone di loro speciale fiducia: per il che, le nomine, fatte in via provvisoria, sarebbero state confermate in appresso. Tali operazioni compiute Garibaldi passò in rassegna la piccola armata, e quindi i volontari si sparpagliarono sulle rive del golfo in aspettazione della vicina partenza.

LIII. — In tal guisa passava il rimanente del 7 e gran parte del successivo giorno 8 di maggio. Nel frattempo le imbarcazioni della rada non ristavano dal trasportare a bordo munizioni artiglierie e viveri. Alcuni cassoni di cartucce e di polvere vennero distribuiti fra i due legni: gli affusti del pari furono deposti parte sul Piemonte e parte sul Lombardo.

LIV. — Verso la sera dell'8 i volontari ritornarono a' bordo. Alle nove di notte fu dato ordine di tenersi presti a partire, ma dopo mezz'ora la partenza venne di nuovo sospesa. Forse il Generale avvertito, per mezzo d'ignoti segnali, di qualche vicino pericolo si credette costretto a differire il viaggio: forse la flotta nemica, uscitagli incontro da Napoli, navigava in quel punto nelle vicinanze ed a rintracciarlo veleggiava su Genova. Ma dalla fronte del Generale, mai sempre impassibile e calma, non traspariva la menoma agitazione: su quell'aspetto venerando e severo nessuno poteva scorgere la traccia più lieve di cure che il rimordessero. Garibaldi aveva emanato un ordine e poscia l’avea rivocato: ecco ciò Che tutti sapevano, ed era quanto ciascuno desiderava sapere (19).

LV.— A mezzanotte si distribuirono i fucili alle compagnie ed ai soldati. Lo spirito pubblico dell'armata era oltre ogni dire eccellente. L'ardore con cui que' prodi giovinetti affrontavano i pericoli della guerra e del mare meritava gli elogi dei comandanti e dello stesso Generale. Radunati in diversi gruppi sulla tolda e nelle camere dei vapori s'intrattenevano in guerrieri discorsi da quali appariva l'entusiasmo ond'erano tutti animati. Garibaldi e l'idolo dei volontari: con lui si sentono capaci alle più ardue intraprese: l'anima del vincitor di Varese si trasfonde nel ¡letto di tutti, e tutti diventano eroi.

LVI.— Allo scoccare delle tre ore antimeridiane i vapori levarono l’ancora ed uscirono dal golfo. Il silenzio e la concentrazione ritornarono a bordo: ogni discorso, ogni commento all'istante fu tronco. Dopo due ore di navigazione tranquilla l'armata s'ancorò di nuovo davanti al porto Santo Stefano, piccolo ed ameno villaggio, il cui aspetto gaio e ridente fa un singolare contrasto colla sterilità e colla tristezza che regna su quelle spiaggie insalubri e deserte. Le imbarcazioni del porto portarono a bordo cinquanta tonne di combustibili e buona quantità di viveri e d'acqua. Alcuni veneti, soldati nell’esercito sardo, saputo l'obbietto della spedizione, disertarono e recaronsi a bordo, ove furono dai compagni con espansione d'affetto fraterno raccolti.

LVII.— La piccola flotta rimase ancorata davanti a Santo Stefano dalle cinque del mattino alle cinque di sera. Allora, mentre i vapori apparecchiavansi a salpare, il comandante Bixio arringò sul Lombardo i suoi militi. Parlò brevemente della disciplina da tenersi durante il viaggio: disse, i volontari dovere, nel caso che si avvicinasse qualche legno sconosciuto. coricarsi e nascondersi dentro la stiva: essere indispensabile la piena fiducia ed unintiera ubbidienza nei capi. Del rimanente non abbandonarsi a vani timori $ il genio d'Italia vegliare sovr'essi ed essere pronto a soccorrerli. Aveva appena terminato il suo dire che i vapori si posero in moto e progredirono oltre.

LVII.— All'alba del 10 la flotta era uscita dall'acque toscane. Se non che la direzione dei vapori, che lino a quel punto era stata verso il sudest, venne per ordine del Generale bruscamente rivolta al meriggio. La linea per lo addietro percorsa doveva essere la più sorvegliata e quindi esposta ai maggiori pericoli. Garibaldi, il cui genio militare mostrossi mai sempre fecondo d'alte combinazioni strategiche, aveva ideato una manovra abilissima per deludere la vigilanza e le attive ricerche dei Regii. Partendo da Santo Stefano diresse la corsa in guisa da prender di mira le coste dell'Africa in un punto assai lontano da quello dove avea divisato operare lo sbarco. Per lo che i due vapori, trasversalmente tagliando la linea da Napoli a Genova, navigavano nelle acque africane, mentre appunto le squadre nemiche attendevanli lungo le coste d'Italia.

LIX.— Dalle ore cinque alle dieci del mattino si navigò pel mare Tirreno. Era favorevole il vento ed il cielo nebbioso ma placido. Per tutto quel tempo non ebbesi incontro veruno, se togli un bastimento mercantile che veleggiava dal lato di Genova. Tuttavia, mentr’era ancora lontano, pel timore che potesse appartenere alla crociera napoletana, venne emanato ordine ai volontari di tenersi celati nelle camere e nella stiva; ma riconosciuto ben tosto per quello ch'esso era, i militi ritornarono come prima a diporto sui ponti. Pochi momenti dopo un volontario, troppo col corpo sporgendo in avanti, cadde nel mare; ma venne egli pure salvato.

LX.— Mentre Garibaldi, miracolosamente sfuggito alla vigilanza dei legni borbonici, veleggiava trionfante pel mare africano, le provincie dell'Italia settentrionale trepidavano commosse sulla sorte dei cari lontani. La partenza dei volontari da Genova più non era un mistero, nemmeno per chi poteva avere qualche interesse ad ignorarla o prevenirla, il telegrafo aveva già divulgato alle quattro parti del mondo la grata, o secondo taluni ingrata notizia. L'Europa colpita da stupore ammirava fin credibile audacia di una mano di prodi che si recavano, male armati e nutriti, sulla terra dei Vespri, a rinnovarvi le imprese prodigiose e le glorie dei Normanni e dei Greci. Il viaggio dei volontari, ed il mistero medesimo che avealo da principio avviluppato, risvegliavano la più viva aspettazione di tutti. L'Europa stava attendendo con ansia il risultato di una spedizione eseguita con mezzi sì esigui e con un sì ardito coraggio. L'impresa di Garibaldi veniva applaudita dai popoli siccome il preludio di vicine vittorie, e maledetta dai despoti siccome sorgente di nuovi disastri.

LXI.— Ma sopra tutto in Italia, dove l'esito felice o funesto, della spedizione doveva apportare immensi vantaggi od incalcolabili danni, Pannunzio della partenza da Genova ridestò l'ammirazione, l'entusiasmo, il timore, tutte le inquietudini e tutte le passioni di un popolo di recente risorto alla vita politica. La grandezza delle difficoltà, la presenza di mille pericoli imaginariie reali la perplessità. L'incertezza che sempre precede il risultato delle imprese più ardue, siccome un incubo pesavan sugli animi: amici e nemici del pari sentivano che la quistione italiana era pervenuta a quella crisi suprema che doveva decidere dei futuri destini della penisola. Dall'Alpi alla Cattolica, dal Mincio alle sponde toscane, gli sguardi di tutti si rivolgevano verso il meriggio in aspettazione angosciosa di quello che stava colà per succedere. Sino all'8 di maggio la fama aveva fedelmente seguito la flottiglia italiana e d'ora in ora descritto l'itinerario dei volontari. Sapevasi aver Garibaldi tranquillamente percorso co' suoi quel tratto di mare che stendesi tra le rive della Liguria ed i confini romani. Ma dopo quel giorno si perdette ogni traccia, e tutto rientrò nel silenzio: né lettere, né telegrafi sopravvennero a calmare le giuste quanto gravi apprensioni del paese: più non s'ebbero di Garibaldi notizie o buone o cattive che fossero. Ed in questo stato di crudele ansietà gl'Italiani rimasero per molti giorni, sinché la notizia dello sbarco a Marsala venne in parte a por fine alle comuni apprensioni. La notte dell'8 al 9 Garibaldi, abbandonando il piccolo porto di S. Stefano, si tolse per cosi dire agli occhi del mondo. Per ben quarant'ore gli audaci argonauti, erranti per la vasta solitudine dei mari, eglino pure ignoravano qual fosse la direzione o la meta del loro viaggio.

LXIL— Né i liberali, abbenché sepolti paressero nella più dolorosa inquietudine, rallentavano perciò la loro attività ed il loro zelo a raccogliere denaro ed uomini da inviare in Sicilia. A Genova il Deputato Agostino Bertani, incaricato da Garibaldi, nell'assenza di lui, a rappresentarlo presso i comitati istituiti nell'Alta Italia, davasi con tutta sollecitudine ad ordinare ed apparecchiare una seconda spedizione. Arruolamenti per tarmata meridionale vennero immediatamente aperti nelle città libere per cura dei comitati d'emigrazione o delle commissioni speciali a tal uopo istituite. A Firenze, nelle Romagne, a Parma ed a Genova le rappresentanze delle associazioni politiche disimpegnarono in que' supremi frangenti la missione che Garibaldi loro partendo affidava con zelo ammirabile. Né fra tanti generosi che, con piccoli mezzi o privali, contribuirono al buon esito dell'impresa dobbiamo dimenticare il Comitato politico veneto residente in Milano e presieduto dal conte Pietro Correr, della cui instancabile operosità e solerzia avremo ben presto a parlare (20).

LXIII.— Né il Borbone posava tranquillo. Quando appunto in Italia pareva calmarsi l'agitazione febbrile che accompagnava e seguiva la guerra lombarda l'insurrezione siciliana sopravvenne come un colpo di fulmine a turbare l'apparente sicurezza a cui la tirannide napoletana pareva già abbandonarsi. Mentre Francesco II lusingavasi di ingrandire lo Stato colle provincie papali, dovette suo malgrado accorgersi ch'era tempo di pensar seriamente alla conservazione dei vecchi dominii. L'eco del cannone palermitano improvvisamente rimbombò sino al fondo dei palagi di Caserta e di Portici e vi sparse la costernazione e il terrore. La Sicilia, insorgendo e spezzando le vecchie catene, interruppe le visioni dorate di tranquillità e di conquista di cui nutrivasi la Corte di Napoli. Da quell'istante il Borbone si vide perduto: il dispotismo si trovò avviluppato nelle stesse sue reti. In luogo di agire con energia e prontezza rimase perplesso e titubante, quasi si sentisse mancare di consiglio e di guida. Poteva, annuendo alle giuste domande dei Siciliani, scongiurare il pericolo e prevenire la finale catastrofe: poteva altresì rovesciare sull'Isola un esercito intiero e con una rapida campagna soffocarvi la rivoluzione. Francesco II tentennò nella scelta, e com’è costume delle anime deboli, adoperò alternativamente le lusinghe e le minaccie, le promesse e la forza. Così ad ogni momento cangiando risoluzione, ed aggiungendo errori ad errori, si fece egli stesso cagione della propria rovina. Più tardi la facile quanto ingloriosa vittoria di Carini risvegliava nel Borbone una vana speranza che la insurrezione dovesse soccombere. Egli contava sullo spavento che necessariamente dovevano incutere le carnificine insensate di Carini, di Sferracavallo e Messina: contava sulla stanchezza che doveva guadagnare gl'insorti e sul tempo che spegno l'entusiasmo delle rivoluzioni popolari: e forse in cuor suo vagheggiava il ritorno de' begli anni di Ferdinando, di Carolina e di Nelson. E senza dubbio, malgrado mille difficoltà, pervenuto sarebbe col tempo a calmare od a spegnere la febbre liberale dei popoli, se il vincitor di Varese non sopraggiungeva improvviso ad attraversare i suoi piani ed a rapirgli ogni speranza di prosperi eventi. Se i volontari riuscivano ad approdare in Sicilia, Francesco II inesorabilmente perduto sentivasi. L'immensa popolarità di Garibaldi, il fascino del suo nome, e lo stesso suo genio avventuroso ed audace avrebbe bastato a riaccendere l'entusiasmo della rivoluzione ed a porre lo scompiglio e la dissoluzione nell'esercito destinato a reprimerla. Il solo Garibaldi poteva compire l'impresa a cui non bastarono gli sforzi di Pisacane e Bentivegna, i liberali del 1848 e del 20, né il genio stesso del 1789, di Napoleone e di Gioacchino Murat.

LXIV.— Il governa di Napoli, come altrove si disse, aveva di già avuto previamente notizia del nembo che addensavasi a Genova, e si fu allora che impaurito discese a più miti consigli. Inoltre l'insurrezione, anzi che soccombere, in seguito alle carneficine di Carini ripigliava nuove forze e minacciava perpetuarsi nel centro delle montagne. Egli è vero che i rivoltosi non ardivano più mostrarsi nelle vicinanze del mare e delle fortezze; ma la stessa loro esistenza nell'interno dell'Isola era un continuo fomite di defezioni e disordini. Il Borbone si risolse impértanto di fare un ultimo sforzo per giungere alla pacificazione della Sicilia, ed inviò di nuovo al luogotenente principe di Castel Cicala a Palermo i pieni poteri e le debite istruzioni affine di riguadagnare colle buone l'alienata sottomissione dei sudditi. Ma era già troppo tardi: l'incendio avvampava, né umana forza avrebbe bastato a spegnerlo od a circoscriverlo.

LXV.— Il Piemonte ed il Lombardo a vele gonfie frattanto vogavano verso le coste dell'Africa. Il soffocante scirocco, che sul principiar del viaggio tanta pena avea dato allarmata, era del tutto cessato. Un venticello fresco e leggiero increspando la superficie dell'onde l'accompagnava nell'arduo cammino. Il cielo era nebbioso, ma placido, il tempo malinconico, ma mite e favorevole. I volontari dal ponte miravano i delfini dal dorso squammoso caracollare sulle acque o contemplavano i larghi sprazzi di spume che i navigli addietro lasciavansi. Ogni movimento, ogni oggetto che si presentasse ai loro sguardi era causa di distrazione e conforto, comeché rompesse la mesta uniformità del viaggio. Un pianoforte che a bordo del Lombardo, forse a caso, trovavasi, elargiva il supremo ristoro alle anime entusiaste e sensibili, la melodia della musica. Un volontario con mano maestra vi eseguiva i pezzi più stupendi di Bellini e di Verdi: e i suoi romantici arpeggi, resi vieppiù interessanti dalla solennità del momento e del luogo, si confondevano col fragor delle ruote, col fremito dell'onde, col rumor delle sarte e colf interminabile armonia dei venti, dei mari e dei cieli. L'anima del prode, sublimata dal sacrificio e dall'entusiasmo, traspariva dai volli di lutti que' giovani, a bella posta creati per compiere le più audaci missioni.

LXVI.— Cosi passava la giornata del 10. Solo sul far della sera certi indizii di fumo improvvisamente comparsi sul lontano orizzonte facevano temer per la notte qualche serio pericolo. Un altro soggetto d'angustia si fir che il Piemonte essendo, come si disse, di gran lunga più celere, aveva preceduto il Lombardo per modo che da molte e molte ore si erano perduti di vista. Tuttavia sopraggiunta la notte Bixio ordinò che s'accendessero i fanali convenuti, onde il Piemonte, che non doveva esser lungi, scorgendoli, potesse riunirsi al compagno. Se non che i marinai, che poco prima, al bagliore dell'incerto crepuscolo, credettero scorgere delle traccie di fumo dal lato dell'est e verso il meriggio, non s'erano punto ingannati. Erano infatti due vapori che con direzione diversa s'avvicinavano lentamente al Lombardo.

LXVII.— Il Piemonte che dal mattino, precorrendo il compagno, erasi slanciato celeramente in avanti, aveva frattanto raggiunto le vicinanze del Capo Bon, situato sulle coste africane nella Reggenza di Tunisi, dove Garibaldi volea ricongiungersi col Lombardo e proseguire di conserva il cammino. Egli aveva tolto di mira quel punto lontano per sottrarsi alle insidie delle crociere nemiche e per far credere, quand'anche le sue mosse fossero state osservate, che volesse effettuare lo sbarco in tutt'altra parte dell'Isola da quella, dove realmente intendeva tentarlo. Intanto nessuno conosceva i disegni del Generale, nemmeno gli ufficiali di Stato Maggiore pe' quali pur professava la più sincera amicizia. Egli dava dal ponte al timoniere i suoi ordini e regolava, coprendo i suoi movimenti del più profondo mistero, la direzione del legno.

LXVIII.— Pervenuto al luogo divisato Garibaldi ordinò che il Piemonte ritornasse in addietro in traccia dell'altro naviglio che di lontano il seguiva. Cosi entrambi navigando con lo stesso pensiero senza mai incontrarsi percorsero gran tratto di mare. La notte frattanto si faceva assai tarda e l'oscurità accresceva l'incertezza e la trepidazioné d'ambedue i comandanti. Se non che l'angoscia che agitavali stava sepolta nel fondo del cuore, nò alcuno dei volontari s'accorse dei cupi pensieri che per la mente Puno e l'altro volgeva.

LXIX.— Verso la mezzanotte il Lombardo, i cui fanali riflettevano sull'acqua una luce pallida e rossiccia, ad un tratto s’avvide di un'enorme massa brunastra che approssimavasi dal lato del sud, mentre un altro legno coi fanali già accesi dall'oriente inoltravasi nella direzione medesima. Erano i due vapori che gli esperti marinai avevano scoperti poco prima di sera. Fu quello un momento d'indicibile costernazione e terrore. Era imminente e forse anche fatale il pericolo: ma l'audace sangue freddo di Bixio non l'abbandonò in quel supremo frangente. Egli fece immantinenti sparire i fanali ed ordinò ai volontari di coricarsi nella stiva e nelle camere, e di non muoversi, qualunque cosa fosse pur per succedere. Ed intanto vegliava tranquillo e sicuro di sé alla direzione ed alla salvezza di tutti.

LXX.— Dei due vapori l'uno doveva per lo meno appartenere alla flotta nemica, e per sommo favor di fortuna era quello che teneva accesi i fanali, ed ancora assai lungi trovavasi: l'altro poteva essere, ed era diffatti, il Piemonte. Ma non iscorgendo segnale veruno, Bixio noi potea riconoscere: ondeché. ritenendolo per un legno nemico e temendo di dare in qualche agguato, ordinò al macchinista di spingere il fuoco alla massima celerità per isfuggire agli attacchi dell'uno e dell'altro, passando in mezzo ad entrambi. Questa manovra, ancorché eseguita in profondo silenzio, non passò inosservata ai volontari: eglino stavano immobili cogli occhi rivolti ora alla bruna mole che veniva dal sud, ora ai fanali che splendevano dalla parte d'oriente: se la notte fosse stata men buia sarebbesi scorto su que' volti non già l’agitazione del terrore, ma la impassibile calma è il coraggio del forte.

LXXI.— Frattanto il Piemonte, siccome più rapido al corso, sempre più s'avvicinava al Lombardo ad onta degli sforzi da questo fatti per allontanarsi. Allora, con una pronta evoluzione girando sulla sinistra, dell'amico vapore alle spalle si pose, ed in tale prossimità che i due legni quasi si urlavano. Bixio non comprendeva le intenzioni di quella manovra sì stranamente strategica, quando udì una voce cupa ad un tempo e sonora chiamarlo per nome. «Nino! Nino!» ripetutamente gridò il Generale, e Bixio che ne intese l'accento declinò la parola ricordine. «Qual senso mi facesse,» (cosi un garibaldino descrive la profonda emozione prodotta nei volontari dalla voce di Garibaldi) «quel noto accento nell'ora solenne in cui eravamo, non so ridire; era la voce di un amico che suonava a noi vicina per proteggerci, era la voce di un salvatore.» Da quell'istante il Piemonte ed il Lombardo riuniti procedettero insieme.

LXXII.— Quasi al tempo stesso i volontari si trovarono liberi dal sospetto di vedersi assaliti dall'altro vapore poco innanzi osservato. Apparteneva questo, come s'avea dubitato, alla crociera napoletana e correa per quelle acque alla ricerca di Garibaldi. Ma l'insolita oscurità della notte ed il profondo silenzio dei volontari fecero sì che non s'avvide di loro presenza. Esso tranquillamente seguitò il suo cammino nella direzione nord-ovest senza punto curarsi di chi gli rimaneva alle spalle.

LXXIII.— L'ultima parte del viaggio e, senza confronto veruno, la più perigliosa, rimaneva a compirsi. Dalle vicinanze di Tunisi doveva Garibaldi tracciare trasversalmente una retta alle sponde siciliane, a Marsala, dove avea divisato sbarcare. In tal guisa la linea dai volontari percorsa si presenta sotto l'aspetto di un vasto triangolo ottusangolo, di cui formano la base le coste d'Italia da Talamone 'alla Sicilia, e sommità n'è il punto che in quell'istante i nostri navigatori occupavano.

LXXIV.— Il restante della notte passò senza che verun accidente venisse a turbare la tranquillità del viaggio. Proseguendo nella direzione nord-est Garibaldi lasciò alla sua destra il gruppo delle Pantellarie e sempre più avvicinatasi alle rive dell'Isola. In tal modo la linea percorsa dai nostri formava un angolo acuto colle sponde del mare, il quale sempre più restringevasi a misura che Garibaldi avvicinatasi al termine del suo pericoloso cammino. Alle ore cinque del mattino le coste della Sicilia apparvero in distanza coperte di boschetti d'ulivi e d'aranci, sormontati da opache e silvestri montagne. I due legni, rapidamente solcando la superficie di un mar placidissimo e quasi volando sull'acque, giunsero poco prima di mezzogiorno di fronte a Marittimo, isolotto o vuoi scoglio fortificato e il più occidentale delle Egadi non lungi da Trapani. Di là Garibaldi diede ordine perché i vapori volgendosi bruscamente a diritta si indirizzassero verso Marsala, città indi non molto discosta. Ed allora solo i volontari seppero con certezza in qual punto dell'Isola il Generale intendesse sbarcare.

LXXV.— Ma sebbene i movimenti di Garibaldi fossero eseguiti colla massima celerità, ed ancorch'egli avesse saputo con astutissimi stratagemmi deludere la vigilanza nemica, non potè far in modo che i legni della crociera napoletana non s'avvedessero della sua presenza in quelle acque. Mentre questi lo aspettavano di fronte s'accorsero che egli alle spalle trovavasi, e quindi si misero a dargli la caccia. Garibaldi colle sue mosse e contromosse li trasse in ingannò ancora una volta. Il nemico vedendolo veleggiare apertamente verso la estremità nord-ovest dell'Isola sospettò che volesse tentare lo sbarco nella rada di Trapani e si diresse colà ad impedirlo. Ma quando il Generale lo vide accorrere da quella parte ed inoltrarsi fra gli scogli e le isole vicine, ordinò ai due vapori di piegare direttamente a Marsala. I Napoletani lo videro così allontanarsi nel punto che si credeano vicini a raggiungerlo e furono costretti a descrivere una curva per correre nuovamente sulle sue traccie. Con quest'abile manovra il Generale pervenne a guadagnare un’ora almeno di tempo, e quell'ora decise dei fati dei volontari e del dominio borbonico. Se non che conoscendo che i legni nemici erano più rapidi assai che il Piemonte e il Lombardo Garibaldi ordinò ai macchinisti di spingere a tutta forza il vapore con non lieve pericolo di sé e dei compagni.

LXXVI.— Poco oltre il meriggio da lunge si scorse un naviglio che a vele gonfie avvicinavasi alla squadra italiana, il che fu a bordo cagione di qualche apprensione e scompiglio: ma fu ben tosto riconosciuto per un legno mercantile appartenente alla marina britannica. Come giunse passando vicino al Lombardo gli si domandò quale cammino tenesse, ed essendo risposto che veleggiava per Genova gli si gettarono alcuni pacchi di lettere per quella destinazione. Nell'atto che allontanavasi Bixio gridò dall’alto del ponte: «Dite a Genova che Garibaldi sbarca in questo momento» ed additava parlando la vicina città di Marsala come ¡1 punto destinato all'approdo. Un urrah di gioia e di viva l'Italia si levò dai tre legni ad un tempo: ed Italiani ed Inglesi proseguirono quindi con opposta direzione il loro corso.

LXXVII.— Né il nemico dormiva. Erano tre i legni napoletani che a breve distanza uno dall’altro inseguivano i nostri argonauti. Dall’alto del ponte i volontari li vedevano avvicinarsi: ma ogni idea di timore già era svanita. Essi si sentivano proietti da una forza misteriosa e superiore e con quella forza si credeano invincibili. Era il genio di un uomo che poneva in iscacco le forze di un vasto regno e le arti di un possente tiranno.

LXXVIII.— In tal guisa il Lombardo e il Piemonte spinti alla maggiore possibile celerità divoravan lo spazio. Invano oggimai il nemico inseguivali. La buona stella di Garibaldi vegliava alla salvezza dei volontari e d'Italia. Ad un'ora e mezzo del pomeriggio, venerdì 11 maggio 1860, dopo cinque giorni di varia e pericolosa navigazione, i legni italiani entrarono felicemente nel porto di Marsala e vi gettarono l'ancora.


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LIBRO III

Sbarco a Marsala. Battaglia di Calatafimi

I. — Il giorno medesimo che Garibaldi accingevasi a salpare da Genova, un proclama del generale Giovanni Salzano annunziava ai cittadini di Palermo levato per volere sovrano lo stato d'assedio a cui la città soggiaceva. Sole ventiquattr'ore prima, il 4 maggio, era comparso il famoso proclama del luogotenente Castel Cicala che minacciava il rigore delle leggi militari ai detentori ed asportatori d'armi da fuoco e da taglio, di qualsiasi dimensione esse fossero. I palermitani colpiti rimasero da questo nuovo tratto di non aspettata, né ambita, clemenza sovrana, come quelli che non potevano indovinare le cause che sì repentinamente consigliavano al governo misure di giustizia e di pace. Contuttociò non era guari difficile scorgere nella irresolutezza che animava in quell'epoca i consigli borbonici un sintomo male dissimulato e coperto d'apprensione e paura. Cosicché, lungi dal calmare e tranquillare l’effervescenza rivoluzionaria del popolo, l'intempestiva clemenza di Francesco II non fece che aggiungere nuova esca all'incendio e precipitare gli eventi. Coll’alternare perennemente le minaccie e le lusinghe,da clemenza e la forza, la Corte di Napoli non faceva che rivelare la propria debolezza e le interne apprensioni. Ed infatti gl isolani traevano dalle recenti ed inaspettate concessioni nuovo argomento per credere gl'interessi del despota versare in terribile crisi, dappoiché lo vedevano confusamente appigliarsi ai partili più contraddicenti ed opposti. Air odio che i popoli pel tiranno nutrivano s'aggiunse il dispregio che sempre accompagna l'orgoglioso e il polente quando, spogliato di autorità e di forza, ha cessato d'imporre rispetto e d'incuter paura.

II.— Usare, secondo i casi, o della severità della legge o della clemenza del padre, fu sempre attributo precipuo di saggi e virtuosi monarchi. Ma questa alternativa vuol essere parcamente e saggiamente applicata e solo ne' casi eccezionali e difficili. Coll’una il sovrano si cattiva l'amore dei sudditi, coll'altra egli impone il rispetto alla sua autorità. L'abuso dell'una e dell'altra ingenera l'incertezza, la diffidenza, scalza il fondamento dei troni e mette a soqquadro i governi. Ed è ciò che avvenne a Francesco II. Egli fu tiranno quando conveniva mostrarsi padre dei popoli; volle esser clemente quando gli abbisognava adoperare la maggiore energia: ed abusando alternamente delle arti di regno si condusse da se stesso a rovina.

III.— I Palermitani risposero alle speranze di Francesco II con una nuova dimostrazione politica crebbe luogo la mattina stessa del 5. Il giorno seguente, domenica, i cittadini accorsero in folla alle chiese di S. Francesco e dell'Olivella. ove erano stati la sera prima invitati mediante piccoli avvisi a penna divulgati per tutta Palermo. Nella prima celebratasi una messa festiva e solenne: ed oltre i popolani delle dimostrazioni, una immensa moltitudine di fedeli v’era accorsa ad assistere ai religiosi misteri. I liberali seppero approfittare di questa circostanza per rendere la dimostrazione più imponente e generale e per trascinare nel circolo dell'opposizione quelli ancora che, per religiosa timidezza o coscienza, si mostravano alieni da ogni movimento insurrezionale e politico. Al terminar della messa, e quando il sacerdote intuonò con voce profonda e monotona Vite. Missa est, i liberali, come se quello fosse il convenuto segnale, proruppero in un Viva all'Italia. Sulle prime quel grido suscitò nella moltitudine ignara e sorpresa un movimento di stupore e paura: ma ben tosto il crescente fragor degli evviva echeggianti per le auguste volte del tempio produsse un effetto generale, indicibile entusiasmo. l'ebbrezza guadagnò tutti i cuori e trascinò nella sua orbita eziandio quelle anime che di loro natura sembravano più tranquille e pacifiche: come invaso da una corrente elettrica il popolo tutto prese parte ad una dimostrazione che in altre circostanze molti avrebbero condannato siccome un sacrilegio ed una profanazione. Altrettanto o poco meno avvenne all'Olivella: se non che i liberali non essendosi prima convenuti sull'istante in cui doveasi cominciare la manifestazione, le grida proruppero isolate e con qualche confusione e disordine. Esse parvero il tentativo di pochi fanatici anziché l'espressione della volontà generale. Per il che in luogo di entusiasmare la folla vi suscitarono una immensa agitazione: e lo spavento che invase i fedeli fu tale che persino il sacerdote che celebrava la messa, atterrito dall'improvviso tumulto, abbandonando l'altare, si ricoverò in sacristía. Ciò nulla ostante la dimostrazione ottenne, almeno in parte il suo effetto, poich'era pur sempre un atto di sdegno e di sprezzo alle lusinghe della Corte Borbonica.

IV.— Già da più giorni Palermo pareva sepolta nella desolazione e nel lutto. Il commercio era nullo, le transazioni interrotte, ogni relazione coll'interno dell'Isola troncata, mal sicure le strade e chiuse le botteghe e gli stabilimenti pubblici. Quella popolazione, si viva, sì gaia ed appassionata, era divenuta ad un tratto taciturna, cupg. e malinconica, dacché spostato pareva ogni vincolo d'esistenza sociale. A porre un termine a questo stato di cose, e forse anco all'intento di evitare nuove complicazioni, la Polizia fece aprire la mattina del 7 le botteghe di via Toledo per forza, sperando così animare la città e toglierle l'aspetto di squallore in cui la cessazione d'egli affari l’aveva sepolta. Dal canto loro i cittadini diramarono a nome del popolo secretamente l'invito che nessuno per tre giorni per quella strada passasse. Il popolo unanime si conformò a quell'invito: e nei giorni 8, 9 e 10 di maggio la via Toledo sarebbe rimasta deserta se stata non fosse frequentata dai commissarii, dai birri, dai soldati e dalle spie. Così il governo trovava una opposizione invincibile e ferma, tanto nell’adoperarsi a diminuire le cause di squallore e scontento, quanto nel rappigliarsi ai consigli più arbitrarii e tirannici.

V.— Nel pomeriggio del 9 una nuova dimostrazione era stata ordinata. Ma come la riunione non poteva aver luogo nella via Toledo, che fu, come si disse, per progetto lasciata ai birri ed alle spie, il popolo si raccolse nella vasta contrada Nuova o Macqueda. Questa fu la dimostrazione più imponente e più vasta che per lo addietro si fosse fatta in Palermo e la meglio concertata e condotta. Una immensa moltitudine accorse da tutte parti della città a celebrare questa nuova protesta contro il governo borbonico. Dalle ore 22 alle 24, corrispondenti in quella stagione alle 5 ed alle 7 pomeridiane, la folla percorse con passo lentissimo la lunghezza di strada Macqueda sempre mantenendo il più assoluto ed imponente silenzio. Ha scoccate le 24 lo scoppio di un mortaretto, di già apparecchiato a bella posta ai Quattro Cantoni sulla piazza Vigliena, diede alla popolazione il segnale di fare un evviva all'Italia, il che fu eseguito sugli occhi medesimi dei commissarii e dei birri. Questi, esasperati, posero mano alle daghe ed ai moschetti e si scagliarono come altrettante iene sulla folla inoffensiva ed inerme. Moltissime persone rimasero ferite o malconcio nella contusione terribile che seguì la fucilata dei Regii, i quali sfogarono la rabbia loro brutale sulla strada e nel tempo stesso contro le vicine finestre.

VI.— I luttuosi fatti del 9 si rinnovarono la successiva sera del 10 in una proporzione più vasta ma non col medesimo effetto. La folla numerosissima accorse come il giorno avanti nella contrada Macqueda, non tenendo alcun conto delle minaccie della Polizia e dell'esercito. I poliziotti e parte dei soldati assaltarono armata mano la moltitudine per fugarla e disperderla, ma questa volta i popolani non erano per nulla inclinati a cedere il campo. Gli assalitori vennero a colpi di sassi respinti e per lungo tratto di strada inseguiti dai cittadini già esasperati per gli antichi e recenti massacri. La notte scese ben presto a dividere i combattenti e ad impedire una inutile effusione di sangue.

VII.— La mania delle dimostrazioni aveva invaso l’intiera città. Tutte le classi sociali, dal nobile il proletario, furono attratte quasi da misteriosa potenza, entro forbita dei movimenti politici. Ogni distinzione di casta, di professione o d'età scompariva davanti runica idea che animava le menti di tatti. Le indefinite gradazioni della pubblica opinione erano esse pure scomparse: una l'idea, riunirsi alla patria italiana, ed uno lo scopo, di protestare con tutti i mezzi contro il dominio borbonico. La storia del mondo raramente presenta in un popolo una uniformità si sentita di tendenze di aspirazioni e di fede. Dal 4 aprite all'11 maggio in Palermo fu una dimostrazione continua, incessante e solenne: né le proscrizioni né i massacri dei Regii pervennero a soffocare l'accanimento del popolo. L'ultima delle dimostrazioni inermi ebbe luogo poco oltre il mezzogiorno dell'11, mentre appunto Garibaldi ed i suoi prodi argonauti sbarcavano presso Marsala.

VIII.— Marsala è città situata sulle coste occidentali dell'Isola, quasi al centro della valle di Mazzara, a 160 chilometri circa da Palermo. ed appartiene alla provincia di Trapani. Essa elevasi sulle rovine dell'antica Lilibeo, si famosa nelle guerre dei Cartaginesi e dei Romani, la cui origine si perde nella barbarie dei tempi antistorici. I Saraceni che la riedificarono nel secolo X dell'èra nostra le cangiarono il nome e ne fecero la capitale di un vasto dominio, che stendevasi sino al centro ed all'estremità meridionale dell'Isola. Marsala è fabbricata a cavaliere di una piccola altura che domina la rada ed il porto, ed è circondata da colline amenissime, da superbi vigneti e da boschi di limoni ed aranci. La vantaggiosa situazione ed il magnifico porto altre volte rendevanla il punto principale del commercio siciliano. I suoi traffichi, le immense sue relazioni coi porti del continente accrebbero lungo i secoli la sua floridezza e potenza: sotto l'impero di Roma e sotto i Califfi ed i Normanni mantenne fra l'emule città l'importanza che aveva acquistato. Ma la sua prosperità non durò oltre la metà del secolo XVI: nel 1562 Carlo V ordinò che il suo porto fosse colmato per impedirne l'approdo al famoso corsaro Barbarossa, il quale a que' tempi colla flotta ottomana infestava il Mediterraneo dalle coste della Siria alle spiaggie di Madera e di Cadice. Il porto di Marsala fu così miseramente distrutto: né poscia, per quanti tentativi si facessero, si potè mai ridurlo al primitivo suo stato. Oggi ancora subisce la maledizione di tre secoli addietro: gl'immensi banchi di sabbia che lo ingombrano e la poca profondità, ne tolgono l'accesso alle navi da guerra ed ai vapori di grossa portata. Fu quello un terribile colpo pel commerciò di Marsala: i suoi traffichi da quel tempo languirono e decaddero, né più la città si riebbe. Tuttavia un estesissimo commercio dei vini che portano il suo nome le infondono una parte di quella vita e splendore che ricordano l'antica sua floridezza ed opulenza. Oggi ancora essa conta moltissime case commerciali, inglesi per la maggior parte: il traffico vi è in qualche modo attivo e disteso ed ha 20 mila abitanti.

IX.— A mezzora del pomeriggio i due vapori italiani, spinti a tutta velocità, vogavano per un mare tranquillo verso l'imboccatura del porto, e dal canto loro i piroscafi napoletani colla medesima ardenza inseguivanli. Il porto di Marsala è situato al sudovest ed a qualche centinaio di passi dalla città che lo signoreggia ed adorna. Abbenché ostruito ed ingombro, come si disse, di sabbia, esso serba tuttavia le vestigia dell’antica grandezza, ed offre ai legni di mole non vasta un sicuro ricovero contro l'infuriare dei venti e dell'onde. Il Piemonte più piccolo e leggiero penetrò senza incontrare ostacolo veruno nell'interno del porto: non cosi il Lombardo che tirando tropp'acqua fu arrestato dai banchi di arena e costretto a gettar l'ancora ad un centinaio circa di metri dal molo.

X.— Le barche peschereccie ed i palischermi del porto aveano già notato ravvicinarsi dei due piroscafi portanti bandiera italiana, e non dubitando che quello fosse un soccorso fraterno inviato dall'Italia settentrionale alla insorta Sicilia, s'affrettarono a raggiungerli affine di cooperare allo sbarco. Il primo di detti palischermi sì recò difilato verso il Piemonte forse per dare al Generale le recenti notizie di quanto accadeva nell'Isola. Sembra che il battello suddetto stesse già attendendo l’arrivo dei volontari, e che una specie di misteriosa convenzione esistesse tra i litorali della Sicilia ed i nostri argonauti (21). Poco stante la superficie del porto apparve coperta di barche di tutte le velocità e dimensioni che vogavano parte verso il Lombardo e parte verso il Piemonte.

XI.— Sulle prime gli apparecchi per lo sbarco si operarono con qualche lentezza. La distanza che dovevano percorrere le barche per giungere a bordo, e la confusione stessa ch'ebbe luogo nel porto pel movimento simultaneo di tanti piccoli legni, cagionarono un breve ritardo. Ma quella perdita di tempo tosto fu riparata con altrettanta solerzia. Il Piemonte fu il primo raggiunto e circondato dalle imbarcazioni dell'Isola: ed i Garibaldini incominciarono a sbarcare serbando l’ordine il più. perfetto, mentre il Generale dal cassero sorvegliava e dirigeva i movimenti dei volontari e dei barcaiuoli ad un tempo. I palischermi e le barche minori riempivansi tosto di uomini, e le piroghe ed i trabaccoli di più grande portata si caricavano delle artiglierie, delle armi e delle munizioni fabbricate a bordo durante il viaggio. Era bello il vedere quelle barche rigurgitanti d'armati vogare con celerità incredibile verso la riva e porre i Garibaldini ali asciutto e ritornare colla emulazione medesima a riprendere nuovi carichi a bordo. Un Inglese, presente alla scena, esprime la più viva emozione che in lui produsse lo strano e singolare avvenimento. «Giungono battelli in gran numero, die egli: e gli uomini vi discendono in buonissimo ordine. I Garibaldini, che all'arrivo loro parevano pochi, e divennero così numerosi che non parca credibile che tanti potessero capire nella stiva di un legno si piccolo di mole siccome il Piemonte. Eglino addossavano in parte una camicia rossa, il che dava loro l'aspetto di truppe inglesi: altri erano vestiti in verde, ed altri infine in a abito comune (22).» Durante il tempo medesimo sul Lombardo eseguivasi la stessa operazione di sbarco, ma ad onta dell'impazienza di Bixio, con molta lentezza, attesa la maggiore distanza da terra e la grande quantità di materiali e soldati che quel legno portava. Il comandante dal cassero tempestava minacciando barcaiuoli e volontari ma invano: gli uomini non fanno se non ciò che umanamente è possibile.

XII.— Era scorsa già l’ora che i vapori italiani stavano fermi sull’ancora. I volontari del Piemonte trovavansi a terra, meno i pochi incaricati del trasporto delle salmerie e delle munizioni, ed era il Lombardo per metà scaricato, quando i vascelli napoletani che gl'inseguivano, il Tancredi ed il Capri, questo comandato da Marino Caracciolo, quello dal contrammiraglio Guglielmo Acton, girando il capo Bona minacciosi comparvero davanti a Marsala. I Regii a tutta corsa dirigevano la prora verso il centro del porto, colla evidente intenzione di sorprendere e disordinare i volontari nell’atto che questi scendevano a terra. Questi, all'avvicinarsi del pericolo, ancorché si presentasse coll'aspetto più grave, nulla perdettero dell'usato coraggio, e continuarono Popolazione con impassibile risolutezza ed audacia.

XIII.— All'arrivo di Garibaldi due legni inglesi, l'Intrepid e l'Argus, stavano nella rada di Marsala sull'ancora: essi furono spettatori e testimoni oculari del fatto. Garibaldini ed Inglesi sulle prime credettero che i Napoletani sarebbero incontanente venuti ali assalto: ma questi, appena giunti a tiro di cannone dal porto, anzi che aprire il fuoco, senza veruna apparente ragione arrestarono il corso, quasi temessero un' insidia od esitassero a compiere il loro pensiero. Poco stante una scialuppa si staccò dal Tancredi indirizzandosi verso il Lombardo: se non che pervenuta alla metà dello spazio frapposto, quasi colpita da improvviso terrore, piegò bruscamente a sinistra ed a tutta forza vogando raggiunse l'Intrepid. I Napoletani domandarono all'ufficiale di bordo se inglesi fossero le truppe che aveva veduto sbarcare. Al che questi rispose che inglesi non erano, ma che i comandanti dei due legni ancorati, Marryat ed Ingram, con pochi ufficiali trovavansi a terra. I Napoletani, udito ciò, se ne andarono.,

XIV.— Gl'Inglesi, che sin dal principio supposero al vero nel giudicare chi fossero gli uomini del Lombardo e del Piemonte ed a quale oggetto condotti, erano, come accennammo, persuasi che i Regii incontanente dovessero assalirli e bombardarli. Non è mestieri descrivere la loro sorpresa quando invece li videro arrestarsi, tergiversare, perdere un tempo prezioso, e lasciare che Garibaldi co' suoi guadagnasse la riva. Con tutto ciò, stimando inevitabile l'attacco, l'ufficiale di bordo sull'Intrepid inviò la scialuppa a Marsala a prendere i comandanti e gli assenti ufficiali. Durante questo tempo il Tancredi ed il Capri retrocedono, avanzano, si volgono a destra e a sinistra, quasi non avessero uno scopo prefisso, o mancassero di direzione e di guida. In luogo d'assalire il nemico s'accontentano d'inviare segnali di convenzione ed una fregata a vela che da lunge seguivali. Poco dopo un ufficiale napoletano ritornò sull’Intrepid a chiedere con qualche ansietà quando i comandanti avrebbero raggiunto i legni loro, ed avuto per risposta che già s'era spedito a levarli, rifece di nuovo la via d'ond'era venuto.

XV.— In questo mentre i comandanti Marryat ed Ingram, accompagnati dall'agente consolare Cossins, raggiunsero l'Intrepid e di là si recarono a bordo Tancredi. Il contrammiraglio Acton disse loro essere obbligato a far fuoco contro la gente pur allora sbarcata e domandava se vi fosse qualche ostacolo per parte dei legni britannici. L'agente consolare Cossins rispose non esservi da parte sua nessuna obbiezione, sempreché si rispettassero i luoghi su cui sventolava la bandiera inglese ciò che il napoletano promise di fare. Allora soltanto, ma tardi, i Napoletani aprirono il fuoco: i volontari già stavano a terra e molti eziandio erano entrati in città.

XVI.— Appena toccata la spiaggia i Garibaldini schieravansi a quattro per quattro e dirigevansi verso Marsala, non guari, come sopra dicemmo, lontana. I Carabinieri genovesi per ordine del Generale vennero collocati sul molo affine d'impedire che i nemici eventualmente sbarcassero. I quattro pezzi d'artiglieria da campagna colle rispettive salmerie e munizioni s'avviavano verso la città: il Lombardo ed il Piemonte erano presso che sgomberati. Il primo colpo del cannone nemico era fuori del tiro pei Garibaldini schierati sul lido, ma non già per quelli, sebbene in piccolissimo numero, che sui vapori ancora trovavansi. Garibaldi aveva ordinato che abbandonando i legni si aprissero i rubinetti onde si riempissero d'acqua e divenisse ai nemici impossibile di rimorchiarli altrove. L'operazione sul Lombardo, benché compiuta sotto il cannone regio, riuscì a meraviglia: non cosi sul Piemonte, il quale o per troppa fretta o per altro, fu lasciato a galla in balia del nemico.

XVII.— Il Tancredi ed il Capri frattanto appressavansi e fulminavano colle artiglierie il molo e la spiaggia. Ad ogni colpo di cannone i Garibaldini gettavansi a terra per modo che le palle fischiando sul capo loro passassero e tosto sorgendo sfidavano la rabbia borbonica col grido di viva Garibaldi e l’Italia. Non è umanamente possibile descrivere l'entusiasmo di que' prodi che affrontavano i primi pericoli della lunga e gloriosa campagna. Eglino mostravano col marziale contegno e colla imperturbabile audacia essere i rappresentanti dei valorosi che tanta fama di sé lasciarono sui campi di Velletri, di Varese e di Como. Nel breve corso di un'ora e mezzo 1062 volontari italiani e 5 ungheresi discesero a terra in presenza, ed in parte sotto il fuoco dei vascelli nemici, senza dare il menomo segno di sgomento o disordine.

XVIII. Allora il Tancredi avvicinandosi a riva, occupava una formidabile posizione al di sotto del porto, donde poteva colle artiglierie tempestare nella sua piena lunghezza la strada che dal Faro. sopra un piano leggermente inclinato. conduce alle porte della città. Vicino alla cinta ed al di là della strada medesima, s'innalza un fabbricato, una specie di palazzino di campagna, che dal colore della sua facciata ha nome di Casa bianca. Davanti a questa casa lo stradone del porto allargandosi forma una piazza abbastanza spaziosa e scoperta dal lato del mare che si stende fin sotto le mura. Su quella piazza, per cui i Garibaldini dovevano necessariamente passare per recarsi a Marsala, i Napoletani dirigevano centinaia di colpi. Il contrammiraglio Acton aveva assicurato il comandante Marryat che le sue artiglierie tiravano basso affine di non danneggiare la città: i Garibaldini all’opposto assicurano che le palle nemiche passavano sopra il loro capo e colpivano le finestre e fin anco i tetti delle case di Marsala. Da ciò si potrebbe concludere che i Napoletani non sapevano o non potevano aggiustare i lor colpi.

XIX.— In questo mentre sopraggiungeva la fregata a vela da guerra, già sopra accennata, quella stessa che il Tancredi ed il Capri da un’ora sembravano attendere, ed incontanente disponevasi a sostenere l’attacco. Con una rapida evoluzione, rivolgendo a terra i suoi fianchi armati d'una batteria di grosso calibro vomitò una tempesta di mitraglia. I Garibaldini che previdero il colpo si gettarono a terra e la bufera passò senza cagionare alcun danno: eglino allora si rilevarono e continuarono le loro operazioni come nulla fosse accaduto. Era l'ultima squadra dì volontari, che seguivano i loro compagni già entrati in Marsala, conducendo seco i carri delle munizioni, i quattro pezzi di artiglieria e gli attrezzi da campo., A quell'ora i vapori erano già abbandonati, né sul molo unica rimaneva la compagnia dei Carabinieri di Genova, che il Generale vi avea fatto disporre in catena. Da quel momento i Napoletani si ritrassero indietro ed il fuoco cessò, meno qualche raro colpo a palla che non fece più danno a nessuno. Sul Lombardo ed il Piemonte, già soli nel porto, sventolava la bandiera italiana unica mira al furore ed alla vendetta dei Regii.

XX.— Era tale il rispetto che il nome di Garibaldi incuteva, che i Napoletani non ardirono assaltare il Piemonte e il Lombardo né anche allorquando, sbarcati i volontari, non rimaneva più alcuno a contrastarli e a difenderli. Già da qualche tempo i piroscafi nostri non davano segno di vita né indizio d'umana presenza, ed i Regii, non solo esitavano ad avvicinarsi, ma quasi colpiti da misteriosa paura indietreggiavano come da quelle moli abbandonate e silenziose dovesse ad ogni istante sbucare un nuovo sciame di camicie rosse che agli occhi apparivano cotanto terribili. In quel frangente un ufficiale del Capri si portò sull'Intrepid a richiedere il capitano di accompagnarlo sulla sua propria scialuppa e colla bandiera inglese a bordo dei legni italiani. Marryat negò di acconsentire non credendo opportuno di accordare la protezione della bandiera britannica per una visita che poteva apparire un atto di ostilità verso Garibaldi ed i volontari da lui comandati. Del resto potrebbe credersi che i Borboniani desiderassero la compagnia del capitano Marryat affinché i volontari, che si temevano in agguato sui legni loro, per rispetto alla bandiera inglese, nell'appressarsi, non li mandassero picco.

XXI.— Ma trascorso qualche tempo ed osservando i legni italiani mantenere nel porto il più alto silenzio malgrado l’infuriare della tempesta borbonica, i Napoletani incominciarono a persuadersi che veramente fossero vuoti. Allora, ripigliato coraggio, e. non essendo il timore del tutto cessato, con qualche esitazione, si avventurarono nell'interno del porto e salirono a bordo. Resi audaci dal facile acquisto i Borboniani infuriarono sull'inanimata materia e sulle spoglie dei volontari lontani, e prodigarono nell'abbattere la bandiera italiana un valore insensato che avrebbero con più onore dovuto rivolgere contro Garibaldi ed i suoi. Cosi le due navi, che avevano servito al glorioso viaggio, caddero facile preda di un nemico il quale certo non meritava l'onore di tanto trofeo. Il tricolore fu posto a brani e gettato nel mare: il Piemonte, la cui macchina era già stata disfatta, venne rimorchiato nell'alto, ed il Lombardo, avendo ripiena d'acqua la stiva e non potendosi muovere fu lasciato nel porto. Esso giacque più settimane di fronte alla spiaggia mezzo arenato e sommerso (23).

XXII.— La condotta dei Napoletani parve allora e sembra tuttavia inesplicabile. All'arrivo del Tancredi e del Capri, circa due terzi dei volontari del Piemonte ed appena la metà di quelli venuti sul Lombardo avevano toccato la riva, la fregata a vela sopraggiungeva prima che fosse lo sbarco totalmente compilo. A detta del capitano Marryat, giudice competente in fatto di cose marittime, i Regii avrebbero potuto seriamente disturbare e forse anche impedire lo sbarco. «Ivapori napoletani, egli scrive, avrebbero potuta collocarsi a due o trecento passi dalla nave arenata ed in posizione tale che ogni palla di cannone l'avrebbe traversata in tutta la sua lunghezza; ed ella è cosa evidente che in questo caso non potevasi continuare lo sbarco col mezzo dei battelli. Avrebbesi potuto far iscoppiare le caldaie, in una parola, cagionare incalcolabili danni. — Da parte del comandante napoletano, non vidi, egli aggiunge, se non confusione e stoltezza (24).» In tal guisa l'inerzia o la codardia del comandante borbonico (25) cospirava colla fortuna di Garibaldi, ad agevolargli la strada ad un’'impresa che i più audaci avrebbero giudicato pericolosa e pressoché impraticabile. Il contegno dei Napoletani parve infatti si strano, che gli Inglesi presenti alla scena dubitarono sveglino intendessero opporsi, o soltanto assistere allo sbarco di Garibaldi e dei mille (26).

XXIII.— Ad un'ora pomeridiana l'avanguardia dei volontari aveva fatto l'ingresso a Marsala: a tre ore l'intiero corpo di spedizione vi si trovava raccolto, meno i Carabinieri di Genova, i quali, come si disse, erano stati sin dallo sbarco disposti in catena sulle rivendei mare, accoglienza che fecero i cittadini di Marsala all'armata liberatrice (se pure questo nome può darsi a quei drappello di giovani eroi) fu alquanto fredda e riservata: del che senza dubbio fu causa la presenza dei regii piroscafi ed il tradizionale timore delle vendette borboniche. Le case eran chiuse, le strade deserte: e non fu senza difficoltà che i Garibaldini poterono procurarsi gli oggetti e le derrate di cui abbisognavano. In quella sera medesima per la prima volta dopo partiti da Genova fu loro distribuita la paga, una lira italiana per testa: tale era il grasso stipendio di que generosi che un mese più tardi dovevano essere padroni di un regno (27).

XXIV.— Benché stanchi ed affranti dalle fatiche del mare, dalle veglie e dagli allarmi continui, dovettero pel rimanente del giorno restare uniti ed in armi. Le navi napoletane non avevano ancora lasciato quelle acque: il cannone che tuonava di quando in quando avvertiva i volontari della loro presenza (28). Il nemico, superiore di numero, avrebbe potuto approdare nelle vicinanze ed improvvisamente sorprenderli isolati o al bivacco: e nella confusione di un attacco inaspettato i valorosi possono talvolta soffrire que' danni che in circostanze diverse saprebbero infliggere. La notte soltanto e ad ora assai tardi fu loro concesso il riposo: ed eglino ne approfittarono per rifarsi dei sostenuti disagi ed apparecchiarsi a nuove fatiche (29).

XXV.— La prima notte dei Garibaldini passata in Sicilia fu abbastanza tranquilla. Nel porto, sul mare, regnava il più profondo silenzio: le navi napoletane ed inglesi veleggiavano altrove e la rada da Favignana a Mazzara rimaneva deserta. Il riposo dei Garibaldini non fu turbato da verun accidente: ma non si tosto il primo raggio di luce rifulse sui colli vicini la tromba di sveglia li richiamò alle fatiche del campo. Verso le cinque e mezzo mattutine del 12 maggio abbandonarono la città di Marsala, primo teatro dei loro successi, e si diressero sulla via di Palermo.

XXVI.— Sono le strade in Sicilia generalmente costruite assai male, peggio ancora tenute, pericolosissime e pessime. Cionondimeno quella che da Marsala conduce a Palermo non è senza qualche importanza commerciale e strategica. Essa percorre sopra una linea di trecento cinquanta chilometri le coste settentrionali, dove pure si trovano le città principali e le fortezze dell'Isola. Il largo tratto di paese che giace tra Castelvetrano, Catania, le montagne ed il mare, fu sempre il teatro delle operazioni militari e delle grandi vittorie successivamente riportate dai Latini, dai Saraceni e dai Normanni (30). Là trovasi la capitale, l'imprendibile cittadella di Messina, le fortezze di Milazzo e di Trapani: là è il campo delle battaglie e delle stragi borboniche del 1821 e del 1849. E Garibaldi ebbe la felice ispirazione di sorprendere ed attaccare il nemico nel centro delle sue difese, persuaso che una volta padrone delle grandi valli di Mazzara e di Noto, di Messina e Palermo, avrebbe signoreggiato sull’Isola intiera.

XXVII.— I Garibaldini, lasciando Marsala, seguirono la strada maestra sino alla Cascina di Robengallo posta sopra una collinetta a dieci ore di marcia dal mare. Il tempo fu, quanto può dirsi, magnifico ed il viaggio assai dilettevole. I volontari percorselo pianure vastissime assai ben coltivate e colli ricoperti d'innumerevoli macchie di ulivi ed aranci. Giunsero a Robengallo alle ore quattro e mezzo pomeridiane, e vi pernottarono.

XXVIII.— A Rubengallo altre disposizioni si presero sull’ordinamento della piccola armata. Erano sette, come altrove si disse, le compagnie che costituivano l'intiero corpo di spedizione: quivi loro soggiunse l'ottava e la nona. Si tolse a ciascuna compagnia un numero proporzionato di uomini e cosi si costituirono due corpi novelli sotto gli ordini dei rispettivi lor comandanti. Così le singole compagnie perdevano della forza numerica e l'armata guadagnava nell'ordinamento dei quadri. Più tardi si vedrà che questa nuova disposizione del Generale non fu senza ragione né senza importanza, allorquando si trattò destituire l'esercito nazionale dell Isola. La sera medesima si elessero i due comandanti: rollava compagnia fu data a Bassini e la nona a Graziotti.

XXIX.— Alle ore dieci antimeridiane del 13 i volontari partendo da Robengallo si portarono a passo di corsa sopra Salemi, di cui Garibaldi volea impadronirsi prima che il nemico l'avesse occupata. Questa marcia fu alquanto penosa, perocché, abbandonando la via principale, i Garibaldini s'internarono in un labirinto di colli, ove non era traccia di strada militare, ma sentieri tortuosi, angusti, malagevoli. Tuttavolta, malgrado l'immensa difficoltà del terreno, i volontari divoraron lo spazio, ed in poco più di due ore si trovarono in faccia a Salemi dove entrarono alle dodici e mezzo pomeridiane.

XXX.— Salerai, come il dinota il suo nome, deve la sua origine od almeno Fattuale sua costruzione ai Saraceni, che ne fecero nel secolo X la residenza d'imo de' loro governatori. Essa giace sulle rovine dell'antica Alicia, o secondo altri di Semellio, sopra la vetta di un colle pittoresco ed ameno. La sua posizione è della più alta importanza come quella che domina la strada di Calatafimi e di Castelvetrano, il corso della Delia e del Brigi, le valli e le alligno colline. Al di fuori è di bella apparenza ma nell'interno è squallida e sporca: le strade sonovi anguste e costrutte a guisa di scale, e guaste e tenute malissimo. Essa conta da 13 mila abitanti.

XXXI.— A Salerai i volontari trovarono festosa e cordiale accoglienza. La città era stata delle prime ad insorgere dopo i fatti di Palermo avvenuti in aprile: e stata allora in grande apprensione, essendo corsa voce che un forte corpo di Regii avanzatasi da Alcamo e Calatafimi senza dubbio a ricondurvi L'ordine borbonico con tutti gli orrori e le vendette che lo accompagnavano. La comparsa di Garibaldi e de' suoi valorosi compagni ridestò fra quei cittadini il più vivo entusiasmo: i generosi sentivano che da quel punto nulla più loro rimaneva a temere da parte dei Regii. Salerai rigurgitava di insorti. armati per lo più di carabine da caccia, di alabarde o semplicemente di sciabole, ma tutti entusiasti ed ardenti. Buona parte di questi si unirono all'armata liberatrice e presero servigio sotto le bandiere della libertà e dell'Italia. Altrettanto era avvenuto nei piccoli paesi dai Garibaldini visitati nel loro passaggio: da ogni parte la gioventù accorreva ad accrescere le file italiane. ed il corpo di spedizione aumentava a misura che penetrava nell'interno dell'Isola.

XXXII.— I Garibaldini, non per anco rimessi dai disagi del mare ed inoltre affaticati da una marcia forzata per cattivissime strade, abbisognavano di riposo e di quiete. Eglino tutto avean tollerato senza mormorare o lagnarsi: come le fatiche e i pericoli fossero per essi un trastullo ed un giuoco, li affrontavano coll'incuranza della gioventù, colla magnanimità del soldato. Le anime loro parevano indomabili, ma la natura ha delle necessità alle quali è pur forza obbedire. Di più il Generale aveva dagli esploratori avuto certa notizia che i Napoletani trovavansi accampati in buon numero sulle alture di Calatafimi: né voleva marciare ad incontrarli con soldati rifiniti dalle privazioni e dalle veglie. Prese impértanto le disposizioni opportune affinché il nemico non avesse a sorprenderlo, invitò i volontari a rifarsi con tranquillo riposo dei mali sofferti.

XXXIII.— Fu a Salerai che comparve il proclama del 14 maggio col quale Garibaldi dietro invito dei principali cittadini e sulla deliberazione dei comuni liberi dell'Isola (parole testuali del proclama medesimo) assunse la dittatura in nome di Vittorio Emanuele Re d'Italia (31). Questa suprema decisione imposta dalle circostanze e consigliala da imperiosa prudenza, fu accolta dai volontari e dal popolo come l'attuazione d'un desiderio comune. La sera si festeggiò, per quanto la ristrettezza del tempo il permetteva, il felice avvenimento, e se ne trassero i più favorevoli auspici per l'avvenire d'Italia.

XXXIV.— In que' giorni medesimi il Generale emanava due nuovi proclami, l'uno diretto ai militi dell'esercito napoletano, e l'altro agli abitanti della Sicilia: ma come non portano data di luogo né di tempo non è facile stabilire dove e quando furono scritti. Col primo Garibaldi rammenta ai nipoti dei Sanniti e dei Marsi ch'eglino sono i fratelli, non gl'inimici, degl'Italiani del settentrione, ed addita le nostre discordie come la cagion principale del patrio servaggio. «Il giorno che i Napoletani, stretti ai fratelli della Sicilia porgessero la destra ai compatriotti del nord, il popolo nostro ripiglierebbe il posto che gli è dovuto tra le prime nazioni del mondo. Egli, soldato italiano, ambire soltanto vederli schierati accanto ai soldati di Varese e San Martino per combattere i nemici d'Italia.» Ed ai Siciliani annunziava aver loro guidato una schiera di prodi resto delle battaglie Lombarde: li esortava a correre all'armi dichiarando codardi e traditori coloro che, sotto qualunque pretesto, rifiutassero di rispondere all'appello della patria in pericolo (32). Da ultimo con un ordine del giorno, improntato dell'eloquenza di cui solo ha il secreto, Garibaldi apparecchiava i compagni ad un prossimo scontro.

XXXV.— I Garibaldini rimasero fermi a Salerai tutto il giorno 4. I numerosi esploratori che il Generale avea spedito a sorvegliare i movimenti dei Regii riportarono che il generale Laudi, alla testa di quattro a cinquemila soldati, erasi fortificato davanti a Calatafimi, dove pareva disposto ad attendere, in una vantaggiosa posizione, lo scontro dell'armi italiane. Più tardi, sul far della notte, i volontari spediti a riconoscere il fatto, riferirono che nel campo napoletano osservatasi un movimento generale ed insolito: la qual cosa faceva nascere il sospetto che eglino intendessero avanzarsi alla volta di Salerai. A premunirsi quindi da un attacco notturno gli avamposti furono spinti più innanzi sullo stradale di Vita, al piccolo cascinaggio di Sant'Antonicchio situato sopra un colle che domina le vicine campagne (33).

XXXVI.— E ciò ancora non bastando, un drappello di Carabinieri da Genova, di conserva con un distaccamento della prima compagnia, ebbe l’ordine di fare a notte già fitta una ricognizione sopra il villaggio di Vita che sospettavasi dal nemico occupato. Eglino più ore camminarono fra le tenebre più profonde e sotto minutissima pioggia: e soltanto allo spuntare dell'alba e senza incontrare nessuno, trafelati e stanchi, raggiunsero i loro compagni.

XXXVII.— A giorno già chiaro e verso le cinque antimeridiane i Garibaldini partirono da Salemi, accompagnati dalle felicitazioni del popolo, e dopo un'ora e mezzo di marcia arrivarono al sunnominato villaggio di Vita, dove sostarono circa per trenta minuti. Alle sette successive si rimisero in cammino: precedevano le guide condotte da Missori: venivano poscia i Carabinieri genovesi e le nove compagnie sotto i rispettivi lor duci: e chiudevano la marcia i quattro pezzi di artiglieria da campagna ed i carriaggi delle munizioni e dei viveri. I pochi Siciliani, o Picciotti (34), accorsi all'appello di Garibaldi e riuniti all'armata, come più pratici dei luoghi, vennero distaccati a destra ed a sinistra nello scopo di battere la campagna e sorvegliare le mosse nemiche.

XXXVIII.— L'intrepida confidenza di Garibaldi rendevalo impaziente d'affrontare l'esercito regio. Ma l'audacia del Generale era assicurata dalle precauzioni più sagge, e la sua impazienza guidata dalla disciplina e dall'ordine. Con tutto ciò la marcia dei volontari era lenta: la vicinanza del nemico imponeva dei riguardi, né doveasi pervenire sul luogo dell'azione con soldati rotti ed affranti dalle fatiche di un precipitoso viaggio.

XXXIX.— Alle dodici meridiane i volontari, nell'ascendere un piccolo colle, si trovarono improvvisamente di fronte a Calatafimi ed alla linea napoletana. Occupavano i Regii una formidabile posizione sui fianchi dirupati d’un’altra montagna che stendesi davanti a Calatafimi e di cui sembra formare la naturale difesa. Il centro teneva il punto più elevato della montagna medesima: la sinistra loro s'appoggiava ad un bosco, mentre la destra distendevasi a cavaliere della strada di Vita. Il generale Landi aveva scelto quel luogo, siccome il più centrale e strategico, per le sue operazioni, dond'eragli parimenti agevole il penetrare nell'ovest dell'Isola, od, in caso d'impensati disastri, ripiegarsi sopra Palermo. Le sue forze consistevano in 3500 uomini, uno squadrone di cavalleria, due compagnie di cacciatori e quattro pezzi d'artiglieria da montagna. La riserva, in numero di 1000 soldati, presidiava la vicina città, dove pure trovavansi l'ospitale ed i magazzini dei Regii.

XL.— Salito sul colle Garibaldi al primo colpo d'occhio comprese l'importanza delle posizioni nemiche e la difficoltà dell'attacco: ma il suo grand'animo anziché smarrirsi, crescendo coll'aumentar del pericolo, parve raddoppiare in quel punto di prudenza e d'audacia. A fronte di un nemico quattro volte superiore di forze, munito di artiglierie e schierato in posizioni pressoché inaccessibili, il generale italiano trovò nell'inesauribile fecondità del suo genio un piano di guerra che doveva supplire al difetto del terreno e del numero.

XLI.— A destra dei volontari, e per contro alla posizione occupata dai Regii, innalzasi un'altra montagna, più alta e, per gran tratto, parallela alla prima: e Garibaldi la scelse qual perno de' suoi movimenti. In un lampo furono prese le opportune misure ed impartiti gli ordini perché il pensiero del Generale potesse avere la sua esecuzione. I quattro pezzi d'artiglieria vennero collocati sulla strada per torre l'adito alla cavalleria napoletana di penetrare da quella parte e sorprendere i volontari da tergo. Due compagnie furono lasciate a guardare lo stradale ed i cannoni, mentre la prima comandata da Bivio doveva rimanere a custodia delle munizioni e dei carri. I Carabinieri genovesi, le guide e le sei rimanenti compagnie furono a passo di corsa slanciale ad occupare la suddetta montagna, della quale i Picciotti dovevano salire la cima più elevata.

XLII.— La distanza che i volontari doveano percorrere era di circa un chilometro e mezzo: ed in meno d'un quarto d'ora si trovarono lutti al loro posto. Ad un cenno eglino si distesero in catena sul declivio della montagna medesima, la cui sommità venne tosto dai Picciotti occupata: seguivali Garibaldi accompagnalo dal suo Stato Maggiore.

XLIII.— Di là, sereno in volto e col sorriso dell'impassibilità sulle labbra, Il Generale attentamente studiava le posizioni nemiche e le mosse dei suoi. Tra le due montagne giace una piccola valle che prolungasi a destra sino ad un profondo burrone, che appar di lontano sepolto fra i boschi a sinistra, e taglia trasversalmente lo stradale di Vita, continuando nella direzione di Trapani. I volontari tenevano il versante orientale della montagna a ponente: e stavano i Regii schierati sul declivio occidentale di quella situala a levante. In tal guisa i due campi si trovavano soltanto divisi dalla valle suddetta.

XLIV.— In tale condizione di cose l'avventurarsi all'assalto. stato pe' Garibaldini sarebbe pericoloso e fors'anco fatale. I Napoletani apparivano così numerosi da poterli schiacciare col peso del numero: ed ogn'altra combinazione strategica diveniva impossibile stante l'impraticabile configurazione del suolo. Il Generale impertanto decise rimanere sulla difensiva ed aspettare che i Regii, discendendo per attaccarlo, com'era probabile, perdessero la superiorità del terreno, di cui stavasi in apprensione assai più che del loro coraggio.

XLV.— Infatti, sino dal primo comparire dei nostri, erasi nel campo nemico osservato un movimento continuato, crescente, inesplicabile. Intiere compagnie e battaglioni schieravansi in linea, poscia si distendevano in catena, volgevansi a destra ed a sinistra, ad ogni istante cangiando di posizione e di mosse. Eglino s'affaticavano a tutt’uomo quasi volessero dare spettacolo di sé, e mostrare quanto ne sapessero di evoluzioni campali e di tattica abilità. I Garibaldini per contro, avvezzi ai pericoli, più che all’esattezza, delle manovre guerriere, maliziosamente interpretavano quella smania di muoversi qual sintomo male dissimulato di sgomento e paura (35).

XLV.— Alla fine, ricevuto un rinforzo di truppa che senza dubbio attendevano, e collocate le artiglierie ne' punti che più opportuni credevano, i cacciatori napoletani. incominciavano a discendere. a spiegarsi in catena e ad apparecchiarsi all attacco. Era quanto Garibaldi ansiosamente aspettava. I Carabinieri di Genova e le guide che formavano la fronte di battaglia aveano l'ordine di non trar colpo ma di attendere a piè fermo il nemico, ed allora soltanto che fosse pervenuto a pochi passi dalla lor posizione, lo caricassero alla baionetta e lo rovesciassero. I Napoletani bentosto aprirono il fuoco: ma non è a dire quanto alta? mente stupiti restassero nel vedere la profonda incuranza e l'immobilità dei nemici. La strana ed incrollabile imperturbabilità, colla quale i Garibaldini sostennero furto, solfammo dei Regii produsse una più viva impressione che non avreb' beco fatto le loro armi e i lor colpi. Agli occhi di questi, quegli uomini imperterriti che senza scomporsi e difendersi affrontavano la grandine delle palle nemiche, parevano, non esseri umani ma guerrieri fatali, invulnerabili. Con tutto ciò incalzati alle spalle dalle schiere avanzantisi ed incoraggiati dai loro ufficiali, sebbene con qualche esitazione, si avvicinavano sempre più ai volontari, che dal canto loro non cangiavano né contegno né aspetto.

XLVII.— Ma non si tosto i cacciatori napoletani giunsero a mezzo tiro di fucile circa dai nostri, come se quello fosse ristante designato, un grido unanime, fragoroso, guerriero di viva Garibaldi e l'Italia scoppiò da mille petti ad un tempo, si che ne rimbombarono le montagne, le valli contigue e le torri stesse di Calatafimi. I Regii ristettero maravigliati ed attoniti: ed i Garibaldini, dato di piglio al fucile, con irresistibile furia si slanciarono ad incontrarli in battaglia serrata. L'urto fu repentino e tremendo: i volontari, rovesciati od uccisi i più arditi, sgominarono le prime schiere nemiche e le costrinsero a precipitosa fuga.

XLVIII.— Inseguiti colle baionette alle reni i Napoletani si ritrassero sopra un colle coperto da un battaglione di linea e difeso da un pezzo da montagna. Allora il combattimento s'impegnò su tutta la linea. I Carabinieri genovesi e le guide si avventarono contro il nemico, salendo per l'erta, Uno nel centro delle formidabili sue posizioni. La moschetteria li fulminava da tutte le parti: la mitraglia decimavav, ed il terreno all'intorno. appariva coperto di feriti e di morti: i valorosi per un istante piegarono, ma non perciò si ritrassero indietro d'un passo: in quei supremi frangenti si ricordarono dell'antica virtù e degni mostraronsi della fama acquistata sui campi di Varese e San Fermo e del nome, che Italia riconoscente lor diede, di veterani della libertà e della patria. Indarno i Napoletani raddoppiavan di sforzi e furore usando di tutti i mezzi per respingerli: erano cinquecento volontari (né forte al principiar dell'azione a tanti pure giungevano): ma tutti, come i Lacedemoni alle Termopili, determinati a morire od a vincere (36). Con un sangue freddo ammirabile si ricomposero sotto la grandine delle palle nemiche, aspettando che il cenno di Garibaldi nuovamente li slanciasse alla carica. In questo mentre il cannone italiano, per ordine del Generale, tuonò sullo stradale di Vita: volevasi imporre rispetto alla cavalleria napoletana che minacciava quel punto, solo atto alle sue evoluzioni: ritenevasi che i Regii, sapendo i volontari muniti di artiglieria, non avrebbero osato penetrare da quella parte, assalirli alle spalle ed avvilupparli colla superiorità del lor numero.

XLIX.— Dall’alto della montagna Garibaldi osservava la spaventevole scena, i due campi e la valle interposta: nessun movimento, o de' Regii o de' suoi, sfuggiva alla sua vigilanza. La maggior parte delle forze nemiche era entrala in battaglia: il momento decisivo era giunto. Aveva il generale napoletano collocato il suo centro sulla vetta più alla del monte da lui occupato, e spinto le due ali in avanti sul declivio che mette da un lato allo stradale e dall'altro all'estremità del campo italiano. Per tal modo la sua linea formava una curva, estesa abbastanza per ¡stringere i volontari di fronte ad un tempo ed ai fianchi. A destra egli aveva collocato un pezzo d'artiglieria in una posizione magnifica, protetta da una folta macchia e da una cascina che serviva eziandio di trinciera a' suoi cacciatori: altri due pezzi stavano collocati nel centro, e l'ultimo all'estremità dell'ala sinistra.

L.— I nostri versavano in grave pericolo: troppo pochi erano i volontari, troppo numeroso il nemico e troppo favorito e protetto dalla difficoltà del terreno. L'aspetto delle cose era sinistro, l'evento dubbio ed incerto: ma il genio del Generale sin da quell'istante intravvide la probabilità d'una piena e decisiva vittoria. La settima compagnia (Cairoli) e l'ottava (Bassini) furono spinte in avanti a sostenere ed a rinforzare i Carabinieri di Genova: Bixio allo stesso tempo ebbe l'ordine: di lasciare i carriaggi e la strada alla guardia della batteria e 'di forse venti artiglieri e di raggiungere col resto delle squadre il campo di battaglia: ed i Picciotti vennero, da ultimo collocati sulla china della montagna medesima, piuttosto per nascondere al nemico la scarsezza numerica de' suoi veterani che per trarne alcun più reale e positivo vantaggio. Così disposte le cose, l'uno e l'altro campo alla pugna accingevasi: la fortuna ed il valore stavano por decidere dei loro destini.

LI.— Ad un cenno del Generale le trombe suonaron la carica. Incontanente al solito grido di viva Garibaldi e Malia l'armata italiana si scosse e con fracasso indicibile impetuosa volò ad affrontare i Borbonici. Uno Schiaffino da Camogli, afferrata una delle tante bandiere che sventolavano nelcampo italiano, primo Mi slanciò fra i nemici, animando colla voce e l'esempio i compagni. I Napoletani serrati in massa opposero valida resistenza: il combattimento si fece micidiale e terribile. Schiaffino cadde trafitto ed immerso nel proprio sangue, stringendo tuttavia la bandiera ch'ei non voleva lasciare nemmen colla vita. Un Napoletano la strappò violentemente dalle mani del morto e si ritrasse a salvamento nelle file de' suoi: i Volontari esasperati tentarono invano di ricuperarla. Fu quello l’unico ed inutile trofeo che i nemici vantare potessero in quella sanguinosa giornata (37).

LII.— Irruppero allora i volontari con terribile furia laddove più denso appariva il nemico ed era maggiore il pericolo: ed i Napoletani dopo aver vanamente tentato resistere, sbalorditi da tanto coraggio ed audacia, retrocessero e finalmente si volsero in fuga. Le due ali dell'esercito, assalite e sbaragliate nel tempo medesimo, inseguite di posizione in posizione e decimate dalle baionette italiane, si ritrassero verso la cima occupata dal centro, gettandovi la costernazione è il terrore. Fu allora che il generale Landi mandò l'ordine di venire a raggiungerlo alla riserva che occupava la vicina città di Calatafimi: ma questa negò l'uscire e di muoversi. Questo appello del comandante nemico alle sue riserve prova ch'egli in sin da quel punto in cuor suo già sentiva impossibile il vincere e la sconfitta già certa (38).

LIII.— L'armata napoletana trovavasi allora ristretta in un piccolissimo spazio sulla vetta della montagna e precisamente nel luogo chiamato Monte del Pianto Romano, per una sanguinosa disfatta che un'antica tradizione popolare racconta aver quivi le romane legioni subita. Quella era una posizione di sua natura imprendibile perché dirupata e protetta da un formidabile fuoco a mitraglia. Ciò nulla ostante i Regii tentennavano, mostrando a chiari segni ch'eglino avrebbero desiderato piuttosto ritirarsi che battersi. Ma la voce e l'esempio dei loro ufficiali e fors'anche la vergogna tenevali fermi al loro posto. Un fuoco micidiale ricominciò su tutta la linea: due pezzi di artiglieria vomitarono sui volontari un torrente di proiettili, e l'esito della giornata parve per un istante indeciso. Al fragore delle artiglierie, alle grida assordanti, alle imprecazioni ed ai viva, s'aggiunse il clangore dei musicali istrumenti che Landi ordinò si suonassero ad oggetto di rilevare il coraggio abbattuto de' suoi. I sentimenti di paura e di tema, l'angoscia e il terrore, venivano soffocati dalla tremenda e marziale armonia dei tamburi, delle trombe e dei cannoni: e l'esperienza ha mostrato mai sempre che la meccanica operazione dei suoni, col ravvivare la circolazione del sangue e gli spiriti, agisce sulla macchina umana assai più potentemente che non l'eloquenza, la ragione e l'onore.

LIV.— I volontari sperano intanto raccolti sotto un piccolo rialzo di terra che per caso a piè del poggio trovavasi ed in parte, copri vali e proteggevali contro il tempestale della mitraglia nemica. Rimaneva l’ultima posizione a superare, un ultimo ostacolo a vincere: ma per quest'ultimo e definitivo assalto, Garibaldi soccorse essere necessaria la sua presenza e discese tra i suoi. Né s'era ingannato: è indescrivibile l'entusiasmo che il sereno sembiante del Generale suscitò fra i soldati condotti da lui: al suo fianco eglino credevansi, ed erano perciò, invincibili.

LV.— Arringati con brevi e generose parole i suoi militi e dati gli ordini opportuni tranquillamente aspettò che ciascuno avesse raggiunto il posto assegnatogli. Poi, quando vide;che tutto era pronto e che soltanto il suo cenno attendevasi, trasse la spada e sollevando pel primo il grido di viva l’Italia slanciossi contro il nemico.

LVI.— L'impeto, come sempre, fu irresistibile. La linea napoletana sorpresa, commossa, atterrita, indietreggiò, si scompose e si ruppe, gettando la confusione ed il disordine in tutto l'esercito. Nulla valsero le esortazioni degli ufficiali e le imperiose minaccie del comandante: per vero in quella memoranda giornata erasi Landi condotto da valoroso soldato ed abile capitano; ma il genio del generale borbonico doveva cadere sotto l'ascendente d'un altro genio più grande del suo. Sbaragliate lo prime squadre, la moltitudine non conobbe più freno a ritegno: i soldati abbandonavano le armi e le munizioni per essere più spediti e più lesti alla fuga.

In poco d'ora l'armata napoletana disparve dal campo, abbandonando all'avversario gran numero di feriti e di morti, diverse bandiere, un cannone, muli e cavalli, ed Ina immensa quantità di fucili, di attrezzi, di munizioni e di viveri (39).

LVII.— Il generale Landi, accompagnato dal suo Stato Maggiore, viste perdute le cose, fra i primi abbandonò la battaglia, cercando sicuro ricovero dietro le mura di Calatafimi. La grande massa dei Regii accavalcavasi dalla parte medesima ed entrava disordinata in città. Quello più non era un esercito, ma una moltitudine smarrita e confusa, oppressa da un panico indescrivibile e senza disciplina né ordine, che fuggiva in tutte le direzioni per sottrarsi alla furia d’un’armata invincibile ed all’ira d’una forza sovrumana e fatale. Lo spavento ingrandisce gli oggetti: ed il piccolo numero dei Garibaldini poteva ben apparire ai Borboniani tremanti un esercito di migliaia e migliaia di uomini (40).

LVIII.— Ad onore del vero si deve però confessare che alcuni corpi napoletani si batterono con accanimento e ferocia. L'ottavo Cacciatori, che i volontari in appresso si trovarono a fronte in tutti gli scontri da Calatafimi al Volturno, il primo battaglione dei Carabinieri e Partigliene, si distinsero sia nell'attacco, sia nella difesa della lor posizione. Fu un istante che, esaurite le munizioni, i cacciatori borbonici diedero di piglio alle pietre, contendendo all'avversario il terreno a quella guisa che i villani talvolta s'azzuffano per l'acque di un ruscello o per la divisione d'un campo. Il rotolare dei sassi dall'alto, non lievi danni apportò ai volontari: lo stesso Generale ne rimase leggermente contuso alla spalla. Ma tatto fu invano: lo scompiglio del campo rese inutile ogni al terror resistenza: è il valore dei pochi, anziché proteggere l'onore della bandiera ed assicurar la vittoria, non fece che' perdere i più valorosi; e completar la disfatta.. I Garibaldini oltrepassavano le prime squadre dei Regii che tuttavia combattevano fuggendo dietro l'esercito, e nella confusione della mischia sarebbero penetrati in città unitamente al nemico, se la tromba del campo non avesse suonato a raccolta. Ma in seguito, i Garibaldini riconobbero che il maggior numero dei feriti e degli uccisi apparteneva al corpo dell'artiglieria, ai carabinieri ed ai cacciatori È questa la più bella e solenne testimonianza della loro leale condotta (41).

LIX.— Per tal modo dopo tre ore di combattimento i volontari rimasero padroni del campo ed acquistarono una segnalata vittoria che li rese padroni della parte occidentale dell'isola da Mazzera a Palermo. Impossibile sarebbe descrivere con verità e precisione tutti gl'incidenti di quella gloriosa giornata e le prodezze individuali che immortalarono il valore dei nostri. Se il fatto di Calatafimi si considera in proporzione del numero dei combattenti che si trovarono a fronte, poche vittorie ricordano gli annali del mondo che in grandezza e difficoltà lo pareggino: se guardasi al risultato, questo non potava essere né maggiore né più decisivo. Garibaldi si recava in Sicilia a combattere ed a sbaragliare un esercito di cinquantamila soldati di tutto provvisti e trincerati nelle loro fortezze: il suo piano poteva parere temerario ed impraticabile, e tale molti l'avean giudicato: ma la battaglia, di Calatafimi veniva a rettificare gli erronei giudizii ed a porre in più limpida Luce la sua fama e la superiorità del suo genio. Al Monte del Pianto Romano fu svelato il secreto come un esercito regolare ed ordinato possa essere vinto e disfatto da un corpo di giovani volontari male armati, mal vestiti, e stanchi per le fatiche sostenute in un lungo viaggio di mare e di terra. Inoltre, come i volontari avevano incominciato a vincere, i Napoletani avevano principiato a fuggire, e l'esperienza dimostra che la vittoria o la sconfitta, sollevando o deprimendo gli spiriti del soldato, lo predispone a nuovi trionfi od a nuove disfatte. A questo risultato del tutto morale devonsi aggiungere i vantaggi materiali che ridondarono ai nostri in conseguenza della loro vittoria. Un terzo della Sicilia diveniva indipendente: la vasta provincia di Trapani e il litorale e le coste sino a Sciacca ed a Girgenti passavano dal dominio dei Borboni al Regno della libertà: e la rivoluzione vi acquistava un centro d'unità e d'azione ove consolidarsi ed ordinarsi. I valorosi potevano raggiungere l'armata liberatrice, i tiepidi, gl'incerti, smesso ogni timore delle vendette nemiche, erano invitati ad abbracciare trionfante, quella causa, che avrebbero forse rinnegato, se vinta. Oltracciò i Garibaldini acquistavano un suolo, una patria, per cosi dire, un aumento di forze materiali e morali: ottenevano infine la facilitazione di trarre dal paese gli libero ampii sussidii di danaro, di munizioni e di viveri.

LX.— Ma tutti questi vantaggi, grandi per certo qualora si badi alle conseguenze, costarono gravissime, dolorosissime perdite. Diecisette furono i morti, circa cento cinquanta i feriti, tra i quali un frate siciliano che sin dal principio della zuffa non aveva un istante cessato dall'animare colla voce e coll'esempio i soldati. La compagnia Carabinieri genovesi ebbe solo cinque morti e tre feriti: le altre tutte, qual più qual meno soffrirono. Ma quando si consideri il numero preponderante dei Regii, la strana sproporzione delle forze e dell'armi, le difficoltà del terreno e la durata del combattimento, è necessità confessare che le perdite dei Garibaldini, comunque ben gravi, potevano essere di gran lunga maggiori.

LXI. Vieppiù soffrirono i Regii: l'esercito fu decimato. Oltre la perdita di una fortissima ed importantissima posizione, e duna immensa quantità di materiale da guerra, ebbero trecento uomini tra morti e feriti, gran parte dei quali giacevano abbandonati sul campo. La ritirata loro fu oltre ogni dire disordinata e confusa: intieri battaglioni vennero tagliati fuori della città, intiere compagnie disertarono e moltissimi sbandaronsi, salvandosi alla ventura tra le creste dei monti, nella profondità dei burroni o nel centro dei boschi. Dei tre mila cinquecento soldati che il generale Landi numerava la mattina sotto i suoi ordini appena una metà trovò la sera raccolta dietro le mura di Calatafimi. La demoralizzazione, il panico dell'armata regia era tale che il Generale non osò di attendere il giorno per timore che Garibaldi non venisse ad assaltarlo sin dentro la città e compire la sua distruzione. Perciò dopo la mezzanotte, senza suono di tamburi o di trombe, i Napoletani abbandonarono chetamente Calatafimi e si diressero sulla via di Palermo.

LXII.— I Garibaldini spendettero gran parte della notte a raccogliere ed a medicare i loro feriti. Allo stesso tempo, come l’umanità lo esigeva, prodigavano tutte le cure ai Regii feriti che lo spavento e l’incuranza di Landi avea nelle mani loro lasciati. Garibaldi li visitò la sera medesima ed a tutti rivolse parole di conforto e speranza. Recossi in seguito a dare i provvedimenti oppor, funi per l'ordinamento delle milizie e per la guardia del campo. Gli avamposti furono spinti sin sotto le mura della città, di cui intendeva al primo albore insignorirsi. Speravasi di sorprendervi il nemico, di batterlo nuovamente ed intercettargli lo stradale di Partinico: ma tanta fu la secretezza che usarono i Regii nell'allontanarsi che i nostri non n'ebbero verun sentore. In tal guisa in quella notte Garibaldi occupava il punto medesimo dove il mattino antecedente elevavasi la tenda del generale borbonico. Ed i volontari dopo tante fatiche e pericoli poterono finalmente consacrare ad un tranquillo riposo le ore che rimanevano della notte dal 15 al 16, aspettando che la nuova luce sorgesse a chiamarli a novelle vittorie.


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LIBRO IV

Marcia da Calatafimi a Pioppo Misilmeri

I. —Calatafimi o Calatasimi, volgarmente Catalfano, od altrimenti Castello di Fimi o d'Eufemio, deve il suo nome al capitano greco che nella prima metà del secolo IX invitò e condusse i Saraceni alla conquista dell'Isola. Egli amoreggiava una fanciulla di nobile schiatta e doviziosa e potente famiglia: ma i parenti: di questa, mossi da personale rancore, o per altra cagione, rifiutarono al giovane amante la mano dell'invaghita donzella. E bisogna ben credere che questa fosse presa della più viva passione, o che la famiglia d'Eufemio ben fosse potente, se i parenti della fanciulla, come narra la tradizione popolare, si trovarono costretti a' seppellirla nella solitudine di un chiostro perché non cadesse nelle mani del suo innamorato. La donna si fece religiosa in un monastero nelle vicinanze di Siracusa: ed il giovane, accecato dalla passione e dall'ira, esulò della terra natale recandosi in Africa, ove abiurata la fede de' suoi padri, divenne seguace del profeta degli Arabi; Alla testa di un'armata africana ritornò pochi mesi appresso in Sicilia e la pose a ferro ed a fuoco: vendicandosi in tal guisa, sopra una popolazione innocente, dei torti d'una sola famiglia (42).

II.— Calatafimi sorge dalle rovine dell'antica Longarium. sulla vetta d'un colle, come quasi tutte le città siciliane: essa giace a cinque miglia da Alcamo ed a venti da Trapani. Ubertosissimo è il suo territorio come quello che abbonda d'ogni sorta di frutti fra i quali le uve così dette di malvagia godono della più bella riputazione e rinomanza all'Interno ed al Pesterò. Due vaste e selvose catene, diramazioni del monte Ghinea, quasi due antemurali elevati dalla natura a ¡proteggerla, si stendono al sudovest e nord-ovest, circondandola per cosi dire di una linea di rupi scoscese e pressoché impraticabili. La prima di queste catene è la stessa che si prolunga alla cima chiamata il Monte del Pianto Romano, che fu il giorno prima teatro della vittoria di Garibaldi e della vergogna di Laudi.

III.— Era vicina già l'alba, ed i Garibaldini, raccolti e tranquilli, riposavano sul campo dei loro trionfi. Al di fuori regnava il più alto silenzio: nella vicina città, nelle valli, sui monti e dovunque era calma e torpore profondo, sepolcrale e terribile. Soltanto per intervallo rompeva l’uniforme tranquillità della notte il passo lento e pesante delle ronde e il grido delle sentinelle che vegliavano alla sicurezza dell'armata ed osservavano le mosse nemiche. Ma il Generale solo col suo Stato Maggiore meditava e tracciava il piano d'attacco col quale doveva il giorno appresso insignorirsi di Calatafimi, obbietto per allora precipuo de' suoi desiderii. Se non che il generale borbonico, occultamente la notte fuggendo, ai Garibaldini rapiva l'onore di nna seconda, e più certa vittoria.

IV.— Verso la punta del giorno un rumore confuso, prolungato e crescente, improvvisamente elevavasi dalla vicina città: pareva il fremito dell'uragano, o lo scoppio del tremuoto o del tuono. Le scolte, paventando un'insidia, diedero il segnale d'allarme, ed in pochi minuti i volontari trovaronsi schierati al lor posto. Eglino contemplavano al bagliore dell'Incerto crepuscolo quella massa brunastra e solitaria che stendevasi davanti ai loro occhi: ed attendevano con ansietà che comparisse il nemico per avere il piacere una seconda volta di batterlo. Ma i Regii erano già lungi: e nell'ora medesima, oltrepassato Alcamo, Landi fuggiva sulla strada di Masa Quarnero e Partinico.

V.— Cagione dell'improvviso tumulto fu che i cittadini, accortisi della partenza dei Regii, si posero a schiamazzare, a chiamarsi per nome, a fare aprire i pubblici stabilimenti e le case, a festeggiare in una parola la libertà conquistata ed il trionfo ottenuto. L'entusiasmo era al colmo: la moltitudine correva qua e là senza scopo e senz'ordine, resa dalla gioia frenetica e pazza. L'odio al dominio ed al nome borbonico, non più compresso dall'arti di polizia o dalla ferocia delle baionette, apparve, qual era, tremendo, universale, implacabile. In mezzo agli urli ed alle imprecazioni della folla, le insegne napoletane disparvero dai pubblici stabilimenti e dai negozi, ove furono al medesimo istante surrogate da migliaia e migliaia di bandiere italiane. Ed i senatori (43) associandosi all'entusiasmo dei cittadini, inviarono una deputazione a Garibaldi perché gli desse parte dell'avvenimento e lo invitasse ad entrare in città.

VI.— Cosi la mattina del 16, sollecitati dalle autorità e dalla popolazione, i Garibaldini entrarono trionfalmente in Calatafimi dove erano ansiosamente aspettati. Non è a descrivere l'accoglienza fraterna ed unanime fatta da quei cittadini ai veterani della libertà nazionale: il fausto avvenimento solennizzavasi colla massima pompa religiosa e civile. Miriadi di bandiere tricolori, di tutte le forme e dimensioni, sventolavano dalle finestre, dai tetti delle case e dei palazzi, dai campanili e dalle chiese: ed i sacri bronzi suonavano a festa, consociandosi alla gioia entusiasta del popolo. I volontari parevano alla folla accalcata e sorpresa più che uomini e più che soldati: tutti ammiravano quei volti abbronzati dal sole e dall'aria dei campi, il loro marziale contegno e la magnanima fermezza dei loro sembianti. I popolani li abbracciavano con trasporto indicibile, li conducevano alle case loro e li accarezzavano, cercando per quanto era in loro potere soccorrerli ne' loro bisogni. Più tardi nelle varie chiese della città si cantava un solenne Te-Deum in rendimento di grazie per l'ottenuta vittoria. La sera ebbe luogo una illuminazione generale e spontanea, musica, balli e canzoni patriottiche: magnifico ed inusitato spettacolo per quegli abitanti, dopo tanti anni d'oppressione, di silenzio e di lagrime.

VII.— Garibaldi frattanto, posto il suo quartier generale al palazzo del Comune, poche ore prima occupato da Landi, prese il possesso della città in nome della Nazione e di Vittorio Emanuele suo Re. La felice notizia venne tosto, con apposito avviso, divulgata nella popolazione e tra militi: e fu acclamata, festeggiata ed accolta siccome l'espressione della volontà generale. Quindi il Generale coi Senatori e col suo Stato Maggiore si strinse a consiglio per ventilare e discutere i futuri ordinamenti del tratto di paese già libero. Furono prese le misure opportune per imporre alle comunità que' sussidii in danaro ed in viveri che il bisogno della campagna rendea indispensabili, si tracciò una rete di comunicazioni per aver pronte e sicure notizie di quanto accadeva nei varii punti dell'Isola e si decretò un centro ove potessero radunarsi i volontari del paese che intendessero arruolarsi nell'armata italiana. Venne pure costituito un governo provvisorio incaricato d'eseguire le leggi ed i decreti dittatoriali, a regolare i rapporti del paese coll'esercito e ad amministrare la publica cosa. Per tale maniera Calatafimi divenne interinalmente, sino alla presa di Palermo, la capitale di un terzo dell'Isola, la base delle future operazioni militari e la sede legale della Dittatura Siciliana.

VIII.— Nell'ordine del giorno del 16 maggio, Garibaldi, deplorando la dura necessità di dover combattere contro soldati italiani, altamente felicitava i suoi volontari del trionfo ottenuto. Le sue parole furono poche, severe e degne di sé e dai soldati e della nobile causa per cui guerreggiava. Egli non dissimula punto il valore dei nemico e la resistenza da esso opposta a' suoi sforzi, ma dichiara confermata la fiducia ch'egli aveva riposto ne' suoi seguaci e nelle fatali loro baionette. Da ultimo, versando una lagrima sui forti caduti in battaglia, prometteva di segnalare al loro paese il nome dei prodi che condussero i meno esperti alla pugna, e di quelli che più si distinsero. Egli conchiudeva col fare appello al loro coraggio pei giorni di prossimi e maggiori pericoli. L'elogio era giusto e meritato: e la piena soddisfazione del loro Generale, si altamente proclamata, fu la più ampia ricompensa alle sostenute fatiche e la prova più manifesta della loro eroica bravura (44).

'IX.— Alle dieci mattutine del medesimo giorno entrarono in Calatafimi i quattrocento volontari di Castel Vetrano, preceduti da banda musicale e da una superba bandiera tricolore, portata da un frate. Eglino s'eran raccolti appena ebber saputo io sbarco di Garibaldi a Marsala, ad oggetto d'unirsi con lui e colle squadre da lui comandate. Ma per quanto avessero affrettato la loro partenza non si posero in cammino se non dopo ch'egli ebbe abbandonato il litorale: e lo avevano seguito più giorni senza mai poter raggiungerlo. Essi erano armati in parte con fucili di munizione, il resto con piccoli schioppi da caccia: ma nel sembiante e nel contegno animati mostravansi dal più vivo desiderio di misurarsi in battaglia coll'oppressore borbonico. Giunti sulla piazza di Calatafimi; il frate arringò la popolazione e gl'insorti e li fece giurare di non riconoscere altro Re che Vittorio Emanuele e di non adottare altra politica che quella dell'unita nazionale.

X.— Alle cinque antimeridiane del 17 i Garibaldini si riposero in marcia ed alle otto arrivarono ad Alcamo, alla distanza di circa dieci chilometri. Alcamo è città ragguardevole sulla grande strada militare di Palermo, da cui dista circa quaranta chilometri ed ha 12,000 abitanti. Essa giace, secondo alcuni, sulle rovine dell'antica Segesta, alle radici del monte Bonifato, in un territorio maravigliosamente ubertoso e ricchissimo di prodotti minerali ed agricoli. I volontari vi furono accolti col più ardente entusiasmo e festeggiati con bandiere, conmusica, con applausi a con fiori: i cittadini con le più vive dimostrazioni di gioia aderirono al nuovo ordine di cose, ed abbattuti gli stemmi borbonici, innalzarono dovunque il tricolore italiano. Poco stante giunsero due frati con due piccole squadre d'insorti, e come al solito arringarono il popolo assembrato ed i militi, esortandoli a sorgere in armi contro il comune nemico ed a confidare in Dio, nella patria e nel prossimo trionfo dell'unità nazionale.

XI.— Il giorno medesimo Garibaldi ebbe certa notizia dell'itinerario seguito, e delle crudeltà perpetrate dai Regii nella vergognosa lor fuga. Ad Alcamo, comechè vicino a Calatafimi, non osarono dar libero sfogo alle passioni brutali di massacro e saccheggio: la prossimità dei volontari avevali tenuti in rispetto. Ma pervenuti a Masa Quarnero, piccolo villaggio sulla strada di Palermo e sepolto fra le gole dei monti, ritenendosi abbastanza lontani e sicuri, non esitarono a commettere le solite atrocità ed infamie. Ella è cosa pur vera, e l'esperienza lo prova, che il soldato abbonda in ferocia quanto manca in valore e militare coraggio: il primo a fuggire davanti al nemico sul campo di guerra, è sempre il primo ed il più inesorabile nelle devastazioni delle proprietà e nelle carnificine perpetrate contro gl'inermi ed i deboli. Il generoso abborre dalle distruzioni e dal sangue: ed il soldato che non ha il coraggio del prode ha l'ardir del carnefice.

XII.— L'annunzio di sventure si gravi ed orribili riempi d'amarezza e d'affanno il cuore generoso e sensibile di Garibaldi: i volontari ne rimasero altamente indignati e compiansero la sorte di tanti infelici che non avevano potuto difendere. Impértantosollecitarono la loro partenza. ed il successivo mattino 18, lasciato Alcamo, marciarono sopra Masa Quarnero celeramente e in buon ordine. Era intenzione di Garibaldi di raggiungere il nemico e completamente sbandarlo, o per lo meno di restringere il campo delle sue distruzioni. I volontari parimenti anelavano a vendicare nel sangue borbonico le stragi inumane dei vicini villaggi.

XIII.— All'entrare in Masa Quarnero i Garibaldini inorridivano al triste e lugubre spettacolo che lor si parava davanti; un terzo dei caseggiati non era più che un mucchio di macerie sanguinose ed inerti: e le dense colonne di fumo che da que' muti rottami elevavansi al cielo, attestavano ancora non ¡spento l'incendio che i Regii vi aveano appiccato. L'intiero villaggio fu abbandonato al furore ed alla lubricità dei soldati; non età, né sesso o condizione sociale, bellezza od innocenza, trovarono grazia presso i cannibali campioni dell'ordine: il paese fu da capo a fondo saccheggiato e per un terzo distrutto; e le donne violate, indi uccise, e massacrati i contadini o moribondi sepolti sotto le rovine delle loro proprie abitazioni. Tali furono i fasti e tali sono le vittorie ed i trofei che i Borboniani possono vantare nei ricordi della campagna Siciliana del 1860.

XIV.— I volontari, dopo avere cercato, per quanto era umanamente possibile, di alleviare le calamità di quei villici, proseguirono il loro viaggio alla volta di Partinico e Palermo senza mai scorgere traccia del fuggente nemico, sul quale ansiosamente desideravano vendicarsi di tante nefandità e vergogne. Ma il giusto desiderio, dei bravi Garibaldini era già in parte compiuto. Gli abitanti di Martinico avevano in tempo avuto notizia degli orribili fatti di Masa Quarnero per lo che, avvicinandosi i Borboniani (dai quali a giusta, ragione temevano un egual trattamento), risolsero di correre all'armi e difendersi: ottimo divisamento che in parte salvavali da certa rovina; tanto è vero che il valore attivo e l'audacia in guerra allontanano o sviano talvolta, almeno in parte, quei tremendi disastri che la rassegnazione e l'inerzia attirano sovente sul capo dei popoli (45).

XV.— Determinata cosi la difesa, ne mandarono incontanente l'annunzio alle varie bande insurrezionali che battevano intorno il paese, e dalle quali potevano sperare cooperazione e soccorso. Gli insorti diffatti aderirono ed accorsero volonterosi all'appello dei fratelli in pericolo. Al tempo stesso si barbicarono le strade che mettono all'ingresso del villaggio: e gli abitanti si disposero nell'interno delle case o si misero in agguato sulle circostanti colline. I Regii frattanto s'avanzavano: ma come pervennero in vicinanza di, Partinico, laddove lo stradale serpeggia in una rete di colli più o meno dirupati e scoscesi, si trovarono improvvisamente assaliti dai lati e da tergo ad un tempo. Se non che i popolani, non osando mostrarsi, li bersagliavano da lungi appiattati nei boschetti e tra le macchie: ed i Regii ricompostisi ebbero campo di proseguire il cammino senza gravi molestie. Ma giunti dinanzi a Partinico la contestazione si fece più seria: gli abitanti aveano risoluto di non lasciarli penetrare nel villaggio e di seppellirsi piuttosto, sotto le ruine delle loro case: altra strada non v'era; ai fianchi gl'insorti sempre più li stringevano ed alle spalle i Garibaldini da un istante all'altro potevan raggiungerli. I Napoletani si trovavano in una posizione assai critica: era mestieri o forzare il passaggio o rassegnarsi a perire sotto il ferro degl'insorti e dei volontari. A nulla valeva fuggire era d'uopo combattere: per il che, fatta di necessità virtù, irruppero con impeto e respinti i difensori penetrarono a viva forza nel villaggio. Né gli abitanti abbandonarono perciò la difesa, ma ritrattisi in ordine dai lati e stesisi in catena continuarono il fuoco. Ciò fu cagione che i Regii non osando soffermarsi nel villaggio lo traversarono a precipizio, quasi fuggendo, come se non vincitori, ma fossero stati battuti. In tal guisa Partinico per la massima parte fu salva, poiché i Regii, malgrado la sete di bottino e di strage, dovettero persuadersi che non era agevole cosa fare degli uomini armati ciò che aveano pur fatto contro villici inermi. In questa fazione i Napoletani perdettero quaranta soldati nel primo attacco sullo stradale ed altrettanti nell'interno del villaggio: né Partinico del tutto andò esente; alcune case furono saccheggiate ed altre date alle fiamme, e s'ebbe eziandio a deplorare qualche vittima: ma il danno sofferto da que' buoni popolani fu nulla in paragone di quello che avrebber potuto soffrire.

'XVI.— Né il furore della popolazione cessò coi terminar della zuffa: la vista del sangue l'aveva, come sempre accade, inebbriata. Gl'incendii ed i massacri di Masa Quarnero e le vittime stesse di Partinico imprecavan troppo alto vendetta sul capo dei loro assassini. Non potendo saziare la giusta sua rabbia sul nemico fuggente, la folla inferociva sui cadaveri napoletani, dei quali altri furono barbaramente mutilati o squartati, altri arsi od abbrustoliti e poscia gettati per le vie e per le macchie, pasto agli uccelli ed alle belve. Orribile rappresaglia fu quella; ma se in essa v'ha colpa, devesi attribuire, non ad una moltitudine sdegnata ed esasperata dal lungo soffrire, ma bensì ad un governo che a forza di vessazioni e d'infamie trascinava i suoi popoli ad atti cotanto brutali e riprovevoli.

XVII.— Ad onore del vero tuttavia dobbiamo soggiungere che gli abitanti di Partinico seppero, almeno in parte, rispettare le convenienze sociali e la sventura dei vinti. Il furor della folla si contenne davanti il nemico soffrente: i feriti non ebbero torlo un capello, anzi vennero umanamente raccolti e medicati nel seno delle famiglie che forse nell'atto medesimo piangevano qualche lor vittima. Ai prigionieri non si fece alcun male: eglino furono tradotti al palazzo del Comune e soccorsi di quanto lor poteva abbisognare.

XVIII.— Verso mezzogiorno i volontari arrivarono a Partinico e furono in parte spettatori dell'immane spettacolo. Ma Garibaldi, appena entrato, pose un termine a quell’orgia infernale, ordinando che i mutilati cadaveri fossero incontanente e com'era dovere, onorevolmente sepolti. A tre ore i Garibaldini partirono, dopo breve fermata, malinconici e tristi, quasi preferissero fuggire da una terra contaminata da fatti cotanto atroci ed orribili, la barbara scena di Partinico troppo vivamente li aveva conturbati e commossi.

XIX.— La sera. medesima attraversarono la vasta pianura, od altipiano, di Renne, che stendevi, rotta a grandi scaglioni, incontro a Palermo ed al suo magnifico porto. La capitale dell'Isola, in una svolta della strada, davanti ai volontari improvvisamente comparve co' suoi mille comignoli, co' suoi giganteschi palagi, le torri ed i templi. Essa disegnavasi nell'orizzonte siccome un'enorme massa biancastra contro il verde lussureggiante delle opposte montagne e contro l'azzurro del mare: ed i Garibaldini, presi da stupore, ne ammiravano la forma regolare, la posizione stupenda, e la splendida magnificenza e grandezza. A destra, sorgeva il palazzo Reale, antico e sontuoso edificio, già residenza dei Re Aragonesi e più tardi del primo Ferdinando e di Carolina d'Austria: a sinistra sulla riva del mare elevavasi il superbo, castello di Alderamo mutato, ad uso dell'arte moderna, in un forte. Palermo, la meta di tanti dolori e fatiche, fu salutata con immenso entusiasmo: mille voci ad un tempo echeggiarono, mille esclamazioni s'udirono, voci ed esclamazioni di ebbrezza, meraviglia e speranza. Pareva che la vista sola di Palermo centuplicasse l'energia, la confidenza e l'audacia nel cuore dei militi (46).

XX.— Il 18 i volontari pernottarono al Casino Francesco, già deliziosa e superba villeggiatura Reale, bombardata e distrutta nella campagna del 1849 dagli stessi soldati borbonici. La mattina per tempo ripresero la via di Palermo: ma come sapevasi vicino il nemico, e la possibilità di incontrarlo più ognora pressanti facevansi, eglino progredivano lentamente, in ordine di battaglia e pronti del pari alla difesa od all'attacco. Quella marcia ebbe 'luogo sotto un cielo nubiloso ed opaco e sotto una pioggia continuata e minutissima che rendevate oltremodo faticosa e monotona (47). Il Generale, che tutte divideva le molestie dell'arduo viaggio, camminava pensieroso all'a testa dell'armata: e di tratto in tratto soffermavasi ad esaminare il paese, senza che alcuno potesse penetrare ciò ch'egli volgea per la mente. In quei giorni, forse i più solenni della sua vita, Garibaldi si mostrò infaticabile: egli sempre condusse in persona i suoi militi, fece e rifece da solo i suoi piani, diede ordini e ricevette messaggi e veglio sulla sicurezza di tutti. Era l'uomo provvidenziale, a cui la stessa fortuna ed il destino parevano cedere.

XXI.— Il terreno da Calatafimi a Palermo, abbenché intersecato da monti e colline, presenta l'aspetto d'un'immensa pianura inclinata, ed insensibilmente discende lino di fronte alla stessa città. È una successione continua di vasti alt, piani, disposti a spaziosi scaglioni, e gli uni agli altri soggetti: le colline ed i monti che li dominano o rompono sono diramazioni detraila catena «entrale che divide le tre valli dell'Isola. Tutte queste diramazioni, tra sé parallele, si protendono a destra ed a sinistra sui mare circondando a Levante ed a Ponente con triplice o quadruplice linea la capitale, la rada ed il porto. Codeste linee, dirupate e selvagge e non di rado irte di rupi e boscaglie, si possono considerare siccome le cinte d'altrettanti teatri gli uni negli altri incassati e più angusti. L'ultimo e più piccolo è quello che stendesi intorno alle mura stesse della città, altramente appellato l'agro palermitano: esso distaccasi dalla riva del mare, lambe le radici delle colline dalle quali s'elevano Santo Isidoro e Monreale, raggiunge il villaggio di Parco, e di là compiendo il semicerchio progettasi alle rive orientali del golfo che bagna la città dalla parte di Termini. Per tal modo un esercito che da Calatafimi s'avanzi a Palermo conserva, sopra una linea d'oltre cento chilometri, la superiorità del terreno, e signoreggia le posizioni tutte dal golfo di Castellamare sino al centro dell'Isola.

XXII.— Suprema cura di Garibaldi impertanto era quella di approfittare dei vantaggi che la situazione gli offriva. Dal Comitato insurrezionale di Palermo, col quale tenevasi in giornaliera e secreta corrispondenza, egli riceveva continue relazioni sul numero dei Regii, il presidio, dei forti, le forze che potevano slanciare in campagna, la quantità delle artiglierie, gli ordini del giorno e le mosse militari. Nella capitale e nei dintorni i Napoletani ammontavano a ventiquattro mila soldati, forniti di numerose artiglierie e fortificati con tutte le cure dell’arte. Inoltre potevano contare sull'attivo concorso dei numerosi satelliti della Polizia, sui doganieri, per la massima parte venuti dal continente, sui gendarmi ed eziandio sui pochi Siciliani rinnegati che s'eran venduti al governo borbonico. Tutta questa gente non valeva certamente nelle operazioni del campo, ma poteva divenire utilissima a frenare la città qualora si avesse dovuto sguernire le fortezze e diminuire il presidio (48).

XXIII.— Stando così le cose era agevole scorgere che un attacco diretto contro la capitale avrebbe presumibilmente potuto condurre i volontari a certa ed inevitabil rovina. Il valore dei mille era senza eccezione e al di sopra d’ogni confronto, Garibaldi stesso l’aveva asserito; eglino pienamente confidavano nel genio del Dittatore e nella propria virtù: ma l’umana possanza ha un confine, oltre il quale non è coraggio ed ardire, ma temerità ed ingiustificabile audacia. Il Generale non aveva che la sua piccola armata su cui potesse realmente contare: le varie squadre di Picciotti che s’erano ad essa congiunte valevano per battere il paese o per mostra; ma sul campo di guerra non sarebbero state di nessuna utilità e vantaggio. I Siciliani che avevano assunto le divise, e sperano inscritti nelle compagnie de' volontari si mostravano bravi, coraggiosi e valenti: ma il piccolo numero loro appena bastava a riempire il vacuo lasciato dalla zuffa di Calatafimi e dagli ammalati e feriti. Il Comitato di Palermo (49) redigeva e pubblicava proclami ridondanti di frasi pompose di vittoria, di libertà ed unità nazionale; ma non mandava né soldati, né armi. Esso accontentavasi a scrivere lettere od indirizzi a destra e a sinistra, ai generali borbonici, ai comuni vicini od a' suoi corrispondenti dell'Italia settentrionale, senza punto pensare all'armamento, alle barricate, alla guerra. In tal guisa Garibaldi trovavasi ridotto alle, sole sue forze: egli non aveva più che mille soldati, coi quali doveva sbaragliare un esercito di oltre ventimila uomini ed espugnare una città ragguardevolissima e fortificata dalla natura e dall'arte. In quell'istante supremo egli ricorreva all'inesauribile fecondità del suo genio, poiché da esso, più assai che dalle forze materiali di cui disponeva, poteva sperare vittoria. Fu allora che il Generale concepiva, meditava e rivolgeva in sua mente quel piano complicato di mosse e contro mosse strategiche col quale confuse in appresso la saviezza dei condottieri nemici e si rese in pochi giorni padrone della principale città di Sicilia. Intanto dopo un viaggio faticosissimo e lungo i volontari pervennero al villaggio di Pioppo e vi posero il campo.

XXIV.— Pioppo è un piccolo villaggio situato sulla strada, ed alla distanza di sette chilometri circa da Palermo. Di là i Garibaldini scoprivano la vasta spianata, le mura della città e l'accampamento dei Regii. Salito sur una piccola altura il Generale studiava attentamente la natura del suolo e la direzione dei monti ad oggetto di maturare e compiere il piano strategico già imaginato. Stavano i Napoletani, in gran numero schierati davanti il villaggio di Parco, a sette miglia al sud di Palermo: la cavalleria e l'artiglieria occupavano un vasto spazio sotto le mura della città, ed a Monreale, di cui solo una parte vedevasi, sventolavano le bandiere borboniche: il che faceva supporre che fosse del pari presidiata dal Regii. Garibaldi vide e risolse: egli tutto dispose per trarre i Napoletani in inganno, per attirarli dal lato di Monreale, dividere le loro forze con una finta ritirata ed assaltare Palermo mezzo abbandonata e sguernita. Il Generale ordinava impertanto che si accendessero fuochi su tutte le cime all'intorno, volendo al nemico far credere le sue forze assai più numerose di quello che il fossero. Egli spinse gli avamposti ad un chilometro circa più avanti da Parco e ne fece altrettanti osservatorii che vegliassero sui movimenti dell'armata Borbonica.

XXV.— Cosi passò il 19: il giorno 20 fu speso in fare gli apparecchi necessarii per la progettata marcia strategica, a sollevare i volontarii dalle fatiche del lungo viaggio ed a prepararli a novelli pericoli. Furono i militi distribuiti per modo che presentassero al nemico una fronte estesa e lunghissima, mentre i Picciotti a destra ed a sinistra tenevano le sommità delle circostanti montagne. Il generale Bosco, comandante le forze nemiche, scorgendo una linea si vasta giudicò che un intiero esercito tenesse il suo campo fra le gole di Pioppo. Tuttavia non si mosse, senza dubbio aspettando che i volontari accennassero di attaccare Monreale. o Palermo, per accorrere laddove i bisogni della difesa potesser chiamarlo. Garibaldi nel giorno medesimo ricevette le deputazioni di Carini e di Trapani le quali venivano a felicitarsi, delle vittorie acquistate ed a far voti pel prossimo trionfo della libertà nazionale. Il Generale gentilmente le accolse e rimandò con benigne parole ma ricevute ben altramente e festeggiale le avrebbe sé fossero venate, non con frasi sonore ed inani, ma con danari o con uomini.

XXVI.— Scopo del general Garibaldi e precipuo obbietto delle sue operazioni era quello di trascinare, con un finto attacco su Monreale, i Napoletani da quella parte ed indurli ad abbandonare la vantaggiosa posizione che dinanzi a Parco e dinanzi a Palermo occupavano. Egli voleva dividere il nemico, distaccarlo dalla capitale, attirarlo nel centro del paese, e con ardita manovra girando di fianco assalire la città sprovveduta, insignorirsene e rivolgersi quindi contro l’esercito e sbaragliarlo. La situazione dei volontari davanti a Palermo ha una perfetta analogia con quella in cui Bonaparte trova vasi nel 1796 nella campagna contro il generale Alvinzi; la marcia da Pioppo a Misilmeri quella, ricorda di Ronco, d'Albaredo e di Arcole: ambe furono concepite ed eseguite con abilità straordinaria, ed ambe ottennero pieno e decisivo successo.

XXVII.— A destra ed a sinistra da Pioppo sorge la catena di monti o colline, già sopra accennata che in linea curva distendesi d'intorno a Palermo. A destra del villaggio medesimo innalzasi una montagna di forma conica, detta il Castellazzo, forse dalle rovine di qualche rocca feudale: e dietro questa l'antica Abbazia di S. Martino posta a cavaliere di una collina scoscesa e selvaggia di fronte a Monreale. Quest'ultima era occupata dal valoroso e sventurato Rosolino Pilo Gnoemi dei conti Capece (50), il quale con una banda d'insorti da più giorni aggiratasi e mantenevasi in quelle vicinanze continuamente battendo e molestando i nemici appostati a Monreale. Garibaldi approfittando di tale circostanza ordinò che l'armata, girando il Caslellazzo, si portasse per la cima dei colli sopra Monreale, quasi. volesse quivi congiungersi cogl'insorti comandati da Pilo. La mattina del 21 con una rapida evoluzione manovrando sulla sua sinistra, il Generale italiano manifesta mostrò l'intenzione di assalire la destra nemica e di minacciare la capitale di fronte e dall’angusta penisola che giace al nord-ovest tra il golfo di Castellamare, il promontorio Uomo Morto e San Gallo e la città. Contemporaneamente i Napoletani, usciti da Monreale, attaccavano sulle alture di San Martino gl'insorti di Pilo, il che ingarbugliava alcun poco il piano di Garibaldi, mentr'egli desiderava, non già impegnarla battaglia, ma operare semplicemente una ricognizione strategica.

XXVIII.— Il generale Bosco, a cui non isfuggiva il più piccolo movimento dei volontari, vistili marciare su Monreale e punto non dubitando che volessero da quella parte assaltar la città, levò prontamente il campo da Parco e spinse a tutta corsa l'armata contro l'audace avversario. Era divisamento del comandante borbonico gettarsi tra i volontari e le mura, assalirli protetto dall'artiglieria dei forti e ricacciarli tra le gole dei monti di San Martino e Carini, dove agevole diventava batterli completamente e disperderli. Numerose truppe, uscendo da Palermo, venivano a ricongiungersi a quelle di Bosco, il quale marciava per Pagro Palermitano con un'armata ammontante a 12 od a 15 mila soldati di tutte le armi.

XXIX.— Dall'alto di un colle il general Garibaldi stava col cannocchiale osservandola marcia di Bosco e le mosse delle truppe che uscivano da Palermo a raggiungerlo. Il suo stratagemma otteneva l'intento, il nemico cadea nella rete. Gli ufficiali garibaldini erano altamente meravigliati dell'estrema contentezza che traspariva dal sembiante e dagli atti del lor Generale. Ma come, contro il solito, videro ch'egli non dava niun ordine né faceva disposizione veruna, incominciarono a sospettare e ad indovinare in gran parte i segreti suoi fini.

XXX.— Ma il cannone che tuonava sulla sua sinistra con crescente insistenza, richiamò tosto l'attenzione di Garibaldi. Egli ben sapeva che Rosolino Pilo, amico suo, e col quale da Calatafimi erasi tenuto in corrispondenza continua, trovava accampato fra que' ornati, né punto dubitava che i Regii non fossero gli assalitori. Un drappello di Carabinieri genovesi fu spinto quindi in avanti, per quella direzione coll'ordine di cooperare alla vittoria di Pilo o di proteggerne la ritirata, in pari tempo dispose le truppe sul versante delle colline, colla solita astuzia allungando la linea affinché i Napoletani, non pervenissero a scoprirne la deficienza di forze. Questi infatti credevano aver a fare, non con un corpo di mille soldati volontari e raccogliticci, ma con un esercito imponente per disciplina, per armamento e per numero.

XXXI.— I Carabinieri di Genova intanto con precipitosa e faticosissima marcia giunsero sulle alture di San Martino, mentre appunto gl'insorti, stretti da forze tre volte superiori, abbandonavano il campo sbandandosi da tutte le parti. Invano Pilo, con pochi ufficiali, cercava rianimarli e rattenerli. i popolani non ascoltavano altra voce che quella del proprio spavento. Era quella posizione importante irreparabilmente perduta se i Carabinieri di Genova non giungevano in tempo ad abbattere la baldanza dei Regii ed a troncare la loro carriera. La facile vittoria da questi sugli insorti ottenuta fu con altrettanta facilità abbandonata ai volontari (51): dopo mezz'ora di fuoco i Regii dovettero cedere all'impeto non alla numerica quantità dei nemici. I volontari a passo di corsa riacquistarono il terreno perduto: ma if sollecito loro soccorso non valse a deprecare la sorte dell'illustre ed infortunato Rosolino. Le ultime scariche dei Regii troncarono la carriera delle armi e della gloria al generoso e liberale patriota: egli cadde colpito nel fronte mentre adoperavasi ad arrestare il disordine e la fuga de' suoi. La sua morte fu una sventura per la Sicilia e l'Italia; all'annunzio della sua caduta Garibaldi lo pianse siccome alla perdita d'una persona amatissima e cara. Egli mori alla vigilia della decisiva vittoria del popolo, a cui aveva potentemente e sopra ogni altro contribuito nell'esilio, nelle secrete riunioni e sul campo di guerra. Ma il nome di Rosolino Pilo vive nella memoria dei liberali siccome una santa e prediletta memoria: ed il giorno che l'Italia avrà costituita su basi durevoli la propria ed intiera nazionalità, la statua del giovane eroe verrà sul Campidoglio innalzata accanto a quella di Ferruccio e di Rienzi.

XXXII.— Il 21 passava, se togli il fatto di San Martino, in tranquilla aspettazione di avvenimenti ulteriori. Dopo il mezzogiorno le due armate si trovarono a fronte, benché a rispettosa distanza. Ma Garibaldi, che solo mirava a trarre i Napoletani dalle lor posizioni, avea tutt'altro pensiero da quello di scendere al piano: e Bosco dal canto suo non voleva assalirlo sul monte collo svantaggio del terreno ed aspettava l'attacco dei volontari sotto le mura della città. Intanto nuove truppe da Palermo accorrevano a rinforzarlo, per modo che verso la sera Garibaldi giudicava ammontare l'armata borbonica a non meno di sedici mila soldati. Lo stratagemma del Generale era in parte riuscito, ancora un ultimo sforzo ed il suo piano avrebbe ottenuto il suo pienissimo rateato.

XXXIII.— La notte del 21 al 22 numerosissimi fuochi furono accesi sulle vette dei colli che dominano l'agro Palermitano, specialmente dal lato che guarda a Monreale. I Picciotti, divisi in varie squadre, comandate dai rispettivi lor condottieri (per Io più cappuccini), tenevano le cime del Castellazzo e di San Martino. Ma la successiva mattina un ordine improvviso di Garibaldi fece retrocedere l'armata italiana sulla strada di Partinico, abbandonando le posizioni due giorni prima occupate. Scorgendo l'esitazione dei Regii ad assalirlo ed a distaccarsi da Palermo, il Generale risolse incoraggiarli col simulare la ritirata affine di farsi inseguire. Ed intanto dava tutte le disposizioni per effettuare l'ardito progetto che volgea per la mente.

XXXIV.— Verso la sera del 22 pervenne a Garibaldi l'avviso che i Regii finalmente s'erano spinti in avanti e minacciavano pel giorno successivo un attacco generale. Egli non desiderava più oltre. Primamente diede ordine a' suoi volontari di tenersi pronti a partire, e prese quindi le necessarie misure per occultare al nemico lo scopo del suo viaggio Egli dispose quindi che i Picciotti, il cui servigio in battaglia era assai contestabile e dubbio, tenessero le lor posizioni, e che venendo dal nemico assaliti, senza punto impegnarsi in una lotta disuguale, si ripiegassero in ordine sopra Partinico e Calatafimi, preferibilmente battendo la via delle montagne. Il Generale italiano non dubitava che Bosco, vedendo i Picciotti sfuggire da quella parte, non li credesse la retroguardia dei volontari e non li inseguisse nell'ovest dell'Isola. Se il progetto di Garibaldi riusciva gran parte dell'armata borbonica, impegnata a perseguitare i fuggiaschi, sarebbesi recata sì lungi da non potere più oltre molestarlo nell'attacco che meditava contro Palermo.

XXXV.— Ad un'ora prima di notte i volontari ebbero l’ordine di porsi in cammino, e nessuno ancora conosceva perché né dove si andasse. L'intiero corpo di spedizione senza suono di tamburo o di tromba levò tacitamente il campo e si diresse sulla strada che gli veniva additata. I volontari per breve spazio seguirono un sentiero serpeggiante fra le colline ed i boschi, ed abbastanza buono e carreggiabile. Ma come giunsero ad un piccolo cascinaggio, per così dire, perduto nei campi, nessuna traccia di strada trovarono. Allora smontati i cannoni si caricarono sulle spalle dei soldati: a ciascun d'essi furono distribuiti tre pani che infilzarono sulla baionetta ed un po' di cacio: ed era il segnale che dovevano apparecchiarsi ad una marcia faticosissima e lunga.

XXXVI.— Era intanto la notte divenuta estremamente buia lino a torre la vista agli oggetti più prossimi. La pioggia che avea da qualche tempo incominciato si faceva più minuta e noiosa, la nessuna pratica dei luoghi rendeva il cammino pericoloso e difficile. I volontari dapprima inoltrarono fra alcune piccole colline intersecate da burroni, da macchie o da fossi, e presero in seguito a salire un'alta montagna circondata da boschi, da rupi, da torrenti e da balze. Per siffatte strade il soccorso dei cavalli ó dei muli era del tutto inutile, per cui il Generale, come pure il suo Stato Maggiore, fu obbligato a camminare a piedi come l'ultimo dei soldati. Un viaggio al buio e per luoghi invii e sconosciuti non può farsi senza qualche disordine, ed abbisognerebbe un volume per descrivere gli incidenti di quella memorabile notte. I poveri Garibaldini camminavano alla cieca arrampicandosi alla meglio tra gli sterpi e le roccie sempre in pericolo di capitombolare in qualche precipizio o voragine. Le nebbie e la pioggia rendevano la notte oltremodo tenebrosa: non si vedeva più nulla ed alla distanza di un passo l’amico smarriva l'amico, il compagno perdeva il compagno. Gli ordini erano rotti, le compagnie sparpagliate: e non potendosi servire della vista il milite era costretto ad ascoltare il rumore delle pedate altrui per sapere da qual parte rivolgere il passo. Nell'oscurità di quella notte infernale sarebbesi detto che, non un'armata, ma che un branco di pecore vagasse sui fianchi della montagna in traccia di cibo. Malgrado il rigoroso silenzio imposto dal Generale s'udivano di quando in quando tronche esclamazioni, accenti sommessi e giuramenti e bestemmie di coloro che inciampavano ne' sassi o capitombolavano in qualche macchia od in qualche burrone. Spesso quelle esclamazioni e quelle bestemmie servivano di guida agli smarriti a ripigliare il perduto sentiero. Arrogi che il terreno, essendo di sua natura argilloso, inzuppato dalle continue pioggie, malamente sosteneva i passi del soldato. In alcuni luoghi i Garibaldini affondavansi a mezza gamba od anche fino ai ginocchi e talvolta ritraendo il piede vi lasciavan la scarpa, per cui poscia costretti trovavansi a terminare a piedi scalzi il viaggio (52).

XXXVII.— In tali condizioni, certamente non invidiabili, i volontari marciarono tutta la notte. Moltissimi soldati rimanevano addietro dispersi tra i precipizii ed i boschi, ed un'intiera compagnia si smarriva in quella profonda ed insolita oscurità. Ad un certo punto la difficoltà del terreno e la stanchezza dei militi fu tale che si dovettero abbandonare i quattro pezzi di artiglieria portali da Talamone e quello acquistato a Calatafimi, trofeo d'un' insigne vittoria. Tuttavolta non s'ebbe a lamentare nessuna perdita: la mattina del 23 i volontari pervennero ai villaggio di Parco, dodici chilometri circa al sud di Palermo, ed occuparono la posizione medesima due giorni prima tenuta dai Regii. La compagnia che s'era la notte smarrita ed i soldati rimasti in addietro, raggiunsero poche ore dopo il loro posto, ed alcuni villici, mandati dal Generale sulle traccie dei cannoni, prima di mezzogiorno, li recarono al campo. Cosi terminava quella marcia, stupenda egualmente e per il Generale che la concepiva e pei soldati che l'eseguivano. Solo sarebbe stato a desiderarsi che le guide siciliane pratiche dei luoghi ed incaricate a condurre l'armata, invece di essere collocate alla fronte, fossero state distribuite nelle singole compagnie. Con ciò sarebbero evitati molti scompigli e notturni disordini: ma l'uomo ragionevole non può accusare nessuno se a tutto non si provide con matematica precisione.

XXXVIII.— Il mattino stesso del 23 il generale Bosco, vedendo l'avversario ostinato a non discendere al piano, adottò la risoluzione di portarsi egli stesso ad assalirlo sui colli. Il corpo dei Garibaldini erasi, è vero, ritirato da Pioppo verso l'altipiano di Renne, ma nulla faceva sospettare al comandante borbonico che in quel momento si trovasse nella posizione di Parco, venti chilometri almeno lontano dal punto dove tuttavia lo credeva accampato. I Picciotti, che per ordine avuto da Garibaldi tuttora occupavano la sommità delle loro colline, contribuivano a mantenerlo nell'errore e gli esploratori Regii, ingannati dallo stratagemma, riferivano essere l'armata italiana schierata in ordine di battaglia a tergo dei Picciotti medesimi. Sedotto dalle mendaci apparenze Bosco giudicava che i Garibaldini si fossero ritirati pel timore di un attacco per parte dei Napoletani, e fatto più ardito in questa sua supposizione determinava d'inseguirli e costringerli ad accettar la battaglia. Con tale intendimento si mosse con tutto l'esercito e poco avanti il meriggio sboccò sull'altipiano alle spalle di Pioppo, ripromettendosi assai dal numero delle sue truppe e più ancora dal timore ch’egli attribuiva stoltamente al nemico.

XXXIX.— Le prime squadre dei Napoletani assalirono verso un'ora le posizioni dei Picciotti i quali senza attendere furto indietreggiarono alla volta di Partinico. Questa mossa retrograda degl'insorti, eseguita senza combattere, accrebbe nella mente di Bosco la persuasione che i volontari non osassero affrontarlo e fossero in piena ritirata sopra Calatafimi. Egli fece allora inseguire i Picciotti pensando con questi sbaragliare e completamente disperdere l'intiera armata di Garibaldi.

XL.— Ma a trarlo dai sogni della facil vittoria sopravvenne in quel punto l'avviso che Garibaldi trovavasi a Parco quasi alle porte di Palermo. Se non che il fatto pareva si strano che il generale borbonico non sapeva prestar fede ad una notizia che aveva del favoloso insieme e dell'assurdo. Egli stesso aveva veduto, o gli era sembrato vedere, i Garibaldini indietreggiare sulla strada di Partinico e nessuna affermazione potuto avrebbe persuaderlo del contrario. Bosco persisteva a credere che Garibaldi gli fuggisse dinanzi e giudicava le truppe che occupavano Parco siccome un corpo isolato e diverso da quello che effettivamente comandava il Generate italiano. Per questa ragione egli divise l'armata: una parte fu mandata a perseguitare i fuggitivi coll'ordine di assalirli dovunque e sconfiggerli, coll'altra si tolse incontanente alla volta di Parco. I Napoletani inviati contro gli insorti sprecarono invano tempo e fatiche a cercarli: gli altri raggiunsero inutilmente del pari il nerbo dell'armata italiana.

XLI.— Garibaldi fermatasi a Parco per lutto quel giorno. Colla mossa strategica di Pioppo era riuscito ad allontanare dalla capitale un numero ragguardevole di truppe: colla sua dimora nella nuova posizione mirava ad attirare altre forze in campagna, contando poscia, coll'abilità e rapidità d'una marcia traile nel centro dell'Isola. Impertanto egli fece mostra di fortificarsi sulle alture di Monte Calvario che sovrasta al villaggio, dove furono altresì collocati i pezzi d'artiglieria. Al tempo stesso faceva militarmente occupare i prossimi colli affine d'ingannare vieppiù sempre il nemico sul conto delle sue secreto intenzioni come anche allo scopo di premunirsi contro gli assalti dei Regii. La notte successiva fece, come al solito, accendere una fila di fuochi su tutti i punti elevati che dominano la pianura ed il campo.

XLII.— Il 24 di buonissima ora il generale Bosco alla testa di ottomila soldati giunse a fronte di Parco, e dovette suo malgrado convincersi che non un corpo isolato, ma rimerà armata italiana colà con Garibaldi accampava. Il Borboniano rimase perplesso ed attonito: quando egli credeva l'avversario sulla sua destra lo rinveniva dietro la estrema sinistra e mentre lo giudicava fuggiasco ed in rollìi lo trovava fortificato e disposto in perfetto ordine di battaglia. Egli sentiva affascinato dal genio dell'uomo fatale che sembrava ridersi del numero e del valor dei nemici e già presentiva in cuor suo la vicina disfatta dei Regii. La meraviglia e l’apprensione di Bosco fu tale che non osava attaccarlo ad onta delle decuple forze di cui disponeva (il presidio di Monreale già l'aveva raggiunto) e chiedeva con crescente insistenza nuovi rinforzi al quartier generale di Palermo. In quel frattempo un drappello di Napoletani, che s'era spinto volontariamente in avanti sotto il tiro di fucile dei nostri, venne salutato da una grandine si futa e si ben diretta di palle che rotto e scompigliato ignominiosamente dovette ritrarsi fra i suoi con grave perdita di morti e feriti.

XLIII.— Bosco aveva faticato tutta la notte. Il mattino ad ora tarda incominciava l'attacco. Il piano del generale borbonico non era né senza abilità né senza merito. Con diecimila soldati da opporre agli sforzi dei mille Garibaldini egli poteva sperare una facile e decisiva vittoria. Il numero delle truppe e la pratica conoscenza dei luoghi elevavano la fiducia e l’alterigia di Bosco, ed a poco a poco rinvenuto dalla prima sorpresa giunse a dimenticare con chi aveva a combattere. Impértanlo divise il suo corpo in due profonde colonne: la prima doveva schierarsi di fronte all'avversario ed allungando la sua sinistra girarlo di fianco e respingerlo nel villaggio: la seconda per la via dei colli portarsi alle sue spalle, salire la Piana dei Greci e stringerlo da tergo, mentre l’altra colonna e le montagne l’avrebbero serrato davanti. Un terzo corpo, formato di truppe fresche, e pur allora uscite di Palermo, doveva manovrare sulla sinistra e percuotere gli italiani all'estremità diritta del loro campo. Con tali movimenti, la cui esecuzione sembrava d'altronde facilissima, Bosco pensava intercludere ai volontari la ritirata e costringerli a deporre le anni: ma egli aveva fatto i suoi conti senza tener calcolo della strategica valentia del nemico.

XLIV.— Garibaldi istintivamente previde le mire del generale borbonico, ed un'abile manovra era già apparecchiala per trarlo nella rete ancora una volta. Il disegno di Garibaldi stava presso a compirsi ed a misura che l'istante decisivo appressavasi, pareva che il suo genio aumentasse di energia, di profondità e d'astuzia. Egli sapeva colorire e velare il suo piano con una maestria veramente prodigiosa e degna di tutti gli elogi, sembrava che il nemico non avesse altra missione che quella di servirlo ed ajutarlo a riuscir nei suoi fini. I Carabinieri di Genova furono spinti in avanti, oltre Parco, essi dovevano arrestare la marcia dei Regii che celeremente avanzavansi, tormentarli con continue scariche, ed in ogni caso ritirarsi per la via dei monti e lentamente raggiungere il grosso dell'armata. Nell'atto stesso il Generale, levato il campo, discese da Monte Calvario e si diresse per la grande strada di Corleone verso la Piana dei Greci, acciocché il nemico non vi giungesse pel primo e lo stringesse tra due fuochi siccome avea divisato di fare. I militi ritirandosi per la montagna udivano a tergo il tuonare dell’artiglieria nemica già venuta all'assalto del campo italiano (53).

XLV.— Occupata la posizione da Garibaldi indicata, i Carabinieri aprirono il fuoco contro la prima colonna borbonica, la quale marciava su Parco come a sicura vittoria. I Napoletani sulle prime ristettero: ma poscia e per la vergogna di vedersi sbarrare il passaggio da un centinajo di armati, e per gli incitamenti dei loro ufficiali che li animavano, fattisi arditi, si disposero in catena e s'avanzarono da tutte le parti. I Carabinieri resistettero ali impeto: ma in appresso bersagliati da un fuoco vivissimo ed in pericolo di venire avviluppati dalle masse nemiche, si trovarono costretti a retrocedere verso il villaggio. Mosto, il comandante della compagnia, vista la mala parata, diede egli stesso l’ordine di suonare a raccolta, ed il movimento retrogrado dei volontari fu eseguito con somma bravura ed audacia. Il fuoco dei loro fucili era si ben mantenuto ed aggiustato che i Regii si tennero ad una rispettosa distanza, né mai loro accadde in pensiero di slanciarsi a più stretta battaglia. Eglino si accontentavano di guadagnare il terreno che i volontari abbandonavano; e questi lo cedevano a palmo a palmo colla fronte rivolta al nemico ed in attitudine minacciosa e superba. Erano forse cento soldati italiani che disputavano il campo a non meno di sette mila borbonici, e che dopo prodigi di inaudita costanza e valore riescivano a raggiungere sani e salvi il rimanente dell’esercito (54).

XLVI.— Piana de' Greci è un ameno e pittoresco villaggio situato sul dorso di un monte aspro, boscoso e di malagevole accesso. È un altipiano spazioso e magnifico intersecato unicamente da piccole ondulazioni dal suolo e da qualche torrente o ruscello che scendendo dalle vicine giogaie dirige il suo corso verso l’agro palermitano. Gli abitanti riconoscono e vantano l'origine da una delle tante colonie albanesi che sul finire del secolo XV, fuggendo la vendetta dei Turchi, emigrarono dall'Epiro nel regno di Napoli. Le altre colonie si trovano disperse nelle Calabrie e nell'Isola, e tutte conservano, almeno in parte, la lingua, i costumi, la religione e la fierezza dei loro antenati, pe' quali nutrono un. culto fanatico. La dolcezza del clima meridionale nulla potè su quelle anime ferree; né l'abbietto dispotismo borbonico mai giunse a snervare il loro coraggio od a sradicare dai loro petti l'ingenito amore alla libertà ed alla indipendenza. Eglino sono pur sempre i nipoti dei commilitoni di Giorgio Castriotta, Iskender e Scanderberg, l'eroe popolare delle arnaute ballate e dei cantici turchi; quegli stesso che resistette per ventitré anni agli sforzi dei due più grandi e potenti monarchi ottomani, e fece maravigliare l’Europa al racconto delle guerriere sue gesta (55). Animati da tradizioni cotanto gloriose gli albanesi siciliani, tra i primi ad insorgere contro il governo borbonico ed a bandire coll’armi il diritto di vivere liberi. La gioventù del villaggio era già gettata nei boschi; a casa non rimanevano che i vecchi, le donne, ed i fanciulli. All’avvicinarsi di Garibaldi gli abitanti, cui l'età consentiva l’uso dell'armi, presero il fucile: le donne ed i fanciulli si ricoverarono nella montagna per sottrarsi alla brutalità dei Borboniani pel caso che questi pervenissero ad espugnare ed occupare il paese.

XLVII.— L'estrema destra napoletana e Pavanguardia dei volontari (composta delle guide di Missori, in numero di soli quattordici militi) marciava rapidamente verso la Piana dei Greci. L'esito dipendeva e per gli uni e per gli altri, dall'essere i primi ad occupare quella importantissima posizione. Se Bosco riusciva nell'intento, l'armata italiana,avviluppata fra i monti e stretta da tutte le parti, stata sarebbe obbligala ad arrendersi. Ma le guide garibaldiane coll'abituale celerità mostrata mai sempre ne' lor movimenti, non solo correndo ma volando fra gli sterpi e le roccie lungo la cresta della montagna, guadagnarono un quarto d'ora di tempo: e quel breve intervallo fu la salute dell'armata e dell'Isola. Appena arrivate nel villaggio le guide, scopersero l'avanguardia napoletana che rapidamente saliva per l'erta. Non v'era un istante a perdere: e que' valorosi non esitarono ad assalirla benché cento volte superiore di numero. Non è a dire la sorpresa dei Regii nel vedersi prevenuti e nello scorgere al di sopra fra i bronchi e le macchie le terribili camicie rosse schierate in battaglia. Eglino s'arrestarono sul fianco della montagna in attitudine di chi pensa a retrocedere piuttosto che venire all'assalto.

XLVIII.— Le quattordici guide mantennero con poche scariche la loro posizione, sinché Garibaldi arrivò coll'intiera armata, coll'artiglieria e coi Picciotti. Ultimi giungevano i Carabinieri genovesi sempre inseguiti dai cacciatori napoletani che s'avanzavano al gridò di viva lo re. In tal guisa le due armate riunite si trovarono in faccia, ed un serio conflitto pareva ornai inevitabile. Dalla parte dei Napoletani Bosco comandava il centro: l'ala sinistra, composta dalle truppe uscite ultimamente da Palermo, agiva sotto gli ordini di Cataldo e la destra era guidata da Flores. La loro linea formava un semicerchio intorno l'altipiano occupalo dai Garibaldini. Il Generate italiano con un rapido movimento di fianco, aveva già disposte le sue compagnie e schieratele di fronte ai Borboniani in perfetta linea di battaglia. Ma i Regii, veduto ciò, ristettero titubanti ed incerti. Benché dieci contr'uno, e malgrado le esortazioni ed i comandi di Bosco, si sentivano mancare il coraggio ad assaltare nella eccellente sua posizione un'armata che difendevasi con tanta ostinatezza e battevasi con indomata energia.

XLIX.— Il sole frattanto, piegando all'occaso, annunziava vicina la sera, né gli eserciti, ordinati Fano in faccia dell'altro, davano segno di venire alle mani. I Regii perché non osavano, i volontari perché non volevano, impegnarsi in un dubbio conflitto, rimanevano del pari in completa inazione. Ma Garibaldi che meditava in quella notte il più ardito progetto che mai cadesse nella mente d'un conduttore d'eserciti, spingeva sull'imbrunire la settima compagnia, sotto il comando di Orsini, sullo stradale che,a traverso tegole della opposta montagna, conduce a Corleone. Alla settima compagnia si aggiungevano i Picciotti, i carriaggi delle munizioni e dei viveri ed i cinque pezzi d'artiglieria. Orsini aveva ordine di ritirarsi lentamente su Corleone attraversando la montagna in vista dei Regii, e di attirare, simulando la fuga, il comandante borbonico più lungi dalla capitale che fosse possibile. Da Corleone egli doveva in seguito piegare a sinistra eseguendo la strada commerciale di Misilmeri, portarsi verso Palermo ove sarebbesi a' suoi ricongiunto. Il Generale calcolava in tal guisa tenere a bada per cinque o sei giorni l'intiero corpo condotto da Bosco: era il tempo necessario per lui ad assalire ed espugnare Palermo. Cosi ordinate le cose, il colonnello Orsini colla colonna destinatagli dirigevasi a Corleone senza punto studiarsi di occultare al nemico la sua ritirata, la quale anzi eseguivasi con insolito tramestio e rumore allo scopo di viemmaggiormente ingannare i Napoletani. Poco dopo Garibaldi col resto delle truppe, levato secretamente il campo ed abbandonata la strada, spingevasi per un sentiero tortuoso e scosceso, sul declivio della montagna a sinistra, alla volta di Marineo (56).

L.— Guidati dai montanari, esperti conoscitori del suolo, i volontari s’internarono a poco a poco, fra precipizii e burroni, nel centro di profonda e deserta boscaglia. Stendesi questa dalle falde dell'aspra montagna sino alla profondità del vallone che per lungo tratto dal lato d''oriente la percorre e la cinge: ed è cosi ingombra e sì folta che il sole sul meriggio appena vi penetra. In quella secolare a tranquilla solitudine, non mai visitata o percorsa se non da' cacciatori o dai briganti Garibaldi ed i suoi militi ebbero sicuro e pacifico riposo durante gran parte della notte 24-25. Chiamasi quel luogo il Bosco del Pinnetto; nome celebre nelle tradizioni popolari del paese pe' racconti di fatti atroci e terribili che ognor vi si associano.

LI.— All’alba i volontari ripigliarono il cammino e discesi nel vallone presero a salire sull’opposta montagna. Durante il viaggio il tuonare lontano delle artiglierie nella direzione sudovest, li fece avvertiti che i Napoletani sperano azzuffati colla colonna di Orsini. Il Generale sorrise di gioia al vedere il suo progetto pienamente riuscito. Bosco non aveva nemmen sospettato le intenzioni e la marcia del sagace avversario, e credevate tuttavia davanti a sé, fuggitivo od in ritirata, su Corleone e sui monti interni dell’isola. La partenza e la marcia di Orsini, intrapresa senza precauzioni o riguardi, trasse completamente in errore l'astuto Borboniano e le persuase che l'armata italiana, smesso l'usato ardire, andasse a cercare sicuro ricovero tra le foreste centrali del paese, le quali erano pure il soggiorno delle varie bande d'insorti. Dopo qualche esitazione i Napoletani si mossero sullo traccio degli Orsiniani ma cautamente e coi debiti riguardi, ben conoscendo per prova qual fosse il valore dei volontari e quanto abilmente sapessero aggiustare i lor colpi.

LII.— Ma Orsini, la cui principale missione era quella di guadagnar tempo, di tenere a bada i Borboniani il più lungamente possibile e di confermarli sempre più nella persuasione di avere a fare, non già con un corpo distaccalo, ma coll'intiera armata garibaldiana, marciava a rilento, misurando i passi e d'ora in ora minacciando di venire all'attacco. I Regii che le inseguivano in colonne serrate, ciò vedendo, si credevano obbligati a sostare, a spiegarsi in catena ed a prepararsi a respingerlo. Ed Orsini, allorché vedevali disposti e già pronti alla zuffa, volgeva di nuovo le spalle e continuava il viaggio. Tale astuta manovra ripetevasi per tutta la notte con grande meraviglia di Bosco, il quale non sapeva scorgere le secrete combinazioni di Garibaldi in quel sistema d'assalti alternati e di fughe con cui l'avversario continuamente vessavalo. Così, l'uno lentamente procedendo e l'altro con prudenza avanzando, entrambi gli eserciti s'inoltrarono fra le gole dei monti che sovrastano a Corleone. Fu nell’atto di prender la china verso quest'ultima città che il colonnello Orsini fece collocare le artiglierie sullo stradale e salutare i Napoletani con alcuni tiri a mitraglia. Questi furono i colpi notati da Garibaldi nel salire a Marineo: Orsini mirava in tal guisa a frenare la marcia e l'ardore dei Regii nell'atto che stavano per guadagnare le cime ed acquistare la superiorità dei terreno fino allora tenuta dai nostri.

LUI.— II 25, al mattino, Garibaldi pervenne a Marineo, piccola ma bella città situata sulla cima d'un'alta montagna al nord-ovest di Piana dei Greci a lato dello stradale di Corleone e Misilmeri. La salita, eseguita per luoghi dirupati ed alpestri, sovente senza traccia di strada e sotto un sole cocente, fu oltre ogni dir faticosa, per cui si dovette seriamente pensare a concedere ai militi qualche ora di riposo e di quieto. Dall'altro canto il Generale non voleva né doveva proseguire il cammino senza preventivamente conoscere lo stato del paese che intendeva percorrere. Egli aveva a tal uopo spedilo sino dalla notte antecedente esploratori fidatissimi e celeri per tutte le direzioni coll'ordine di raggiungerlo la susseguente mattina a Marineo: e non avendoli trovati era necessità li aspettasse.

LIV.— La sera dello stesso giorno, ricevuti gli attesi rapporti ed avute certe notizie del paese per gran tratto all'intorno, Garibaldi moveva colla piccola annata alla volta di Misilmeri. Gli abitanti di questa città, prevenuti dell'arrivo dei volontari, uscirono loro incontro ed al lume d'innumerevoli fiaccole li accompagnarono dentro le mura. L'armata italiana vi fu festeggiata con una Illuminazione che durò per tutta la notte e con un entusiasmo indicibile.

LV.— In tal guisa Garibaldi con quattro giorni di marcia ed alcuni piccoli scontri, i quali considerati in se stessi non avevano che poca importanza, riusciva a dividere e disperdere le forze borboniche ed a guadagnare una completa vittoria quasi senza battaglia. Parte delle truppe napoletane batteva la pianura di Renne ed inseguiva Garibaldi fuggitivo sulla strada di Partinico e di Trapani: oltre diecimila nemici condotti da Bosco correvano sulle traccie di Garibaldi verso l'interno dell'Isola: ed intanto Garibaldi trovavasi ad una giornata di marcia dalla capitale e sul punto di espugnarla. Mentre quattro giorni prima, da Pioppo, il più audace soldato avrebbe creduto impossibile attaccare Palermo difesa da ben ventiquattro mila Borboniani, quattro giorni dopo, da Misilmeri, poteva apparire, eziandio ai prudenti, di facile esecuzione. Dei ventiquattro mila Borboniani che difendevano la capitale dell'Isola, appena otto o dieci mila rimanevano a presidiarla, e questi ancora scompigliati e smagati dalla rapidità delle mosse di Garibaldi e soprafatti della superiorità del suo genio strategico. Inoltre avanzandosi nell'interno della Sicilia il Generale italiano si congiungeva ai grande corpo degli insorti da circa un mese accampati su quelle montagne. I Siciliani erano male disciplinati, egli è vero, né potevasi troppo contare sul loro coraggio in battaglia serrata: ma in ogni caso servivano per mostra e come a mascherare la piccolezza dell'armata italiana. La loro presenza nel combattimento di Calatafimi era stata assai utile, abbenché il loro coraggio non fosse stato guari proficuo.

LVI.— Da taluni questa parte della campagna siciliana venne paragonata alla celebre marcia eseguita nel 1796 del generale Bonaparte sulle rive dell'Adige (57). Il confronto è maravigliosamente vero; i due piani strategici furono imposti da eguali necessità, concepiti colla stessa franchezza e rivolti al medesimo scopo: tuttavia se in essi v'ha differenza, è tutta a favore del general Garibaldi. Nel 1796 Bonaparte, stretto dall'esercito imperiale a settentrione ed a levante, abbandonava Verona, ed approfittando del corso tortuoso del fiume, improvvisamente piombava sull'estrema sinistra di Alvinzi, batteva partitamente gli Austriaci ad Arcole, a Porcile e Villanova e rientrava trionfante nella città pochi di prima lasciata. Ma nella gloriosa sua marcia incontrò al ponte di Arcole la più vigorosa resistenza, e non riuscì a superarla se non con perdite enormi e dopo incredibili sferzi. La difesa d'Arcole, sulla quale Bonaparte non avea calcolato, poteva seriamente compromettere l'intero suo piano, ove il nemico fosse stato più avveduto od i repubblicani meno ostinati. La vittoria d'Arcole fu decisiva, ma la gloria che da quella deriva deve dividersi colla fortuna, col valore personale dei soldati francesi e colf ignominia del generale austriaco che non volle o non seppe approfittare del tempo. Da ultimo il Generale repubblicano aveva a lottare con un esercito appena del doppio superiore al suo proprio. Garibaldi all'opposto doveva operare contro un esercito ventiquattro volte superiore per numero a quello da lui comandato, colle sole risorse del proprio genio, in un paese intieramente in poter del nemico. Pel Generale italiano non era quistione di sorprendere e battere separatamente i corpi napoletani, ma bensì di sparpagliarli tra le montagne per modo che nell'istante decisivo e fatale il ricongiungersi lor divenisse impossibile. Bonaparte aveva trovato ad Arcole una resistenza che poteva essere causa della sua perdita, ma Garibaldi seppe eludere la vigilanza e prevenire le mosse nemiche con inarrivabile previsione e sagacia. Le difficoltà dalla natura e dal nemico opposte all’esecuzione del suo vasto progetto furono superate in forza soltanto della sua straordinaria abilità ed audacia. Da ultimo la marcia del Generale francese lasciava dipendere il trionfo dall'esito di uno o più scontri, mentre la mossa di Garibaldi dava certa la vittoria ai suoi mille. La marcia da Pioppo a Misilmeri ha qualche cosa di audace, di strano ed inconcepibile per chiunque conosca la natura del terreno e le condizioni eccezionali dei mille. La campagna di Sicilia del 1860, e specialmente la marcia strategica da Calatafimi a Palermo, sarà sempre una delle pagine più gloriose, le più grandi della storia italiana, e debitamente studiata, formerà l'esempio e l'ammirazione dei posteri.


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LIBRO V

Assalto e resa di Falerno

I.— Mal si potrebbe descrivere l'agitazione, il fermento che invase a que' giorni, dagli Abbruzzi all'estrema Calabria, l'intiero Stato di Napoli. Lo sbarco di Garibaldi a Marsala aveva fatto un'impressione generale e profonda sui liberali egualmente e sui retrogradi, in corte del pari e nel popolo. La grata, od ingrata, novella fu a Napoli conosciuta nel pomeriggio del 14 maggio, appena ventiquattr'ore prima che la battaglia di Calatafimi aprisse all'armata italiana una lunga e luminosa carriera di glorie e di trionfi. Il partilo nazionale, siccome nell'Isola, numerosissimo eziandio in terra ferma, traeva dai fatti recenti nuova lena e coraggio, mentre i Borboniani smarrivano affatto la testa. Fino allora Francesco II aveva potuto sperare di ristabilire, temporeggiando, in Sicilia la sua autorità e il suo governo: ma da quel punto dovette avvedersi della necessità di prontamente tentare la dubbia ed incerta fortuna delle armi. Per lo addietro i suoi generali avevano condotto debolmente una guerra offensiva contro gl'insorti sparpagliati o rintanati nelle montagne: ma dall'istante che Garibaldi marciava nell'Isola era a credersi che sarebbero ben presto stati costretti a tenersi nella stretta difesa. Perciò grandi apprestamenti si fecero, tutte le misure si presero, per rovesciare sull'Isola una massa imponente di forze, le quali a giudicarle dal numero, avrebbero dovuto bastare a sconfiggere, non uno, ma cento Garibaldi riuniti. Tutte le truppe disponibili, già da oltre un mese concentrate nei dintorni della capitale ed a Gaeta, vennero in que' giorni per ordine sovrano trasportate in Sicilia. Tra queste trovavansi diverse squadre di volontari stranieri, sulla devozione dei quali re Francesco contava assai più che sulla fede de' suoi. Tutte queste forze dovevano tuttavolta servire, non già a ripristinare, oltre il Faro, la cadente dominazione borbonica, ma bensì ad accrescere la gloria del Generale italiano e de' mille suoi prodi.

II.— E ciò ancor non bastava. L'imminenza del pericolo e la novità dell'assalto suggerirono a Francesco Borbone altri mezzi e spedienti. Né Castel Cicala, né Salzano, né Wyttenbach, avevano in un mese di ostilità dato prove di sufficiente bravura perché da essi si potesse sperare il trionfo in Sicilia dell'armi assolutiste. In quaranta giorni, malgrado le frasi pompose dei loro rapporti e le tanto decantate vittorie, non avevano saputo o voluto domare e disperdere poche schiere d'insorti senza disciplina, senz'armi e prive di appoggio e di guida. Se rimasero inerti allorché trattavasi di combattere la sola, rivoluzione popolare, era presumibile che tanto meno valessero a fronte dell'audace condottiero che rovesciava sull'Isola un esercito (poiché tale credevasi il corpo di spedizione) di avventurosi e valenti soldati. Re Francesco s'avvide impertanto essere necessario affidare ad altri uomini e ad altre mani il governo della guerra siciliana. Dovevasi porre a fronte di Garibaldi un generale avveduto ed energico, il quale sapesse in pari tempo tenere in freno i cittadini colla severità e respingere col valore il nemico.

III.— Il tenente generale D. Ferdinando Lanza, uomo di franco e virile carattere e d'una austerità che talora fu stimata ferocia, fu scelto a compire i disegni del Principe e della Corte napoletana. Di principii lealmente monarchici ed assolutisti è dotato, cosi almeno credevasi, d'alta militar previdenza, attaccato alla Casa Borbonica per istinto proprio e per tradizione di famiglia, ritenevasi il solo che potesse bastare all'ardua bisogna. Egli salpava da Napoli verso la metà del maggio conducendo seco in Sicilia i rinforzi destinati ad aumentare l'armata d'operazione. Fra le istruzioni che re Francesco nel congedarlo gli diede era una completa amnistia a Siciliani pe' fatti trascorsi, la promessa della Costituzione del 1812 e l'ordine di espellere ad ogni costo dall’isola l'armata garibaldiana (58).

IV.— Don Ferdinando Lanza, munito dei pieni poteri militari e politici (così il Borbone credeva iniziare la vita costituzionale della Sicilia) approdava a Palermo il 17 maggio, ed assumeva tosto il supremo comando dell’esercito e l'amministrazione dell'Isola. Il maresciallo principe di

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Castel Cicala, in tal guisa scavalcato dal suo successore, stimando inutile il soffermarsi più oltre in Sicilia, sali sul vapore a lui destinato e si fece trasportare qualche giorno dopo a Napoli. Castel Cicala l'u abbastanza fortunato di lasciare al nuovo comandante l'incarico di farsi battere da un pio cioi drappello di volontari italiani e l'onta della più meravigliosa sconfitta che la storia abbia mai ricordata.

V.— La successiva mattina 18 compariva il primo proclama, diretto dal siciliano don Lanza ai cittadini di Palermo, col quale si esponevano i desiderii della Corte e le intenzioni di Sua Maestà Borbonica intorno alla futura ricostituzione dell'Isola. Lanza annunciava avere re Francesco decretato l'invio nell'Isola di un Principe della Casa Reale col grado di luogotenente generale, coi pieni poteri inerenti alla carica e con missione di provvedere alle riforme più vantaggiose per l'avvenir del paese. Prometteva in nome del sovrano che gli studii sarebbero immediatamente intrapresi per dotare la Sicilia con una rete di strade, per il tracciamento di una ferrovia e per accudire allo sviluppo delle industrie e delle manifatture nazionali. Il nuovo luogotenente infine avrebbe facoltà e missione di fornire il paese de' migliori mezzi che l'esperienza indica siccome conducenti allo svolgimento della civiltà e della prosperità delle popolazioni. Ma per ottenere si nobile intento inculcava la necessità di prestare al monarca il concorso necessario ad agevolargli e condurre a fine l'impresa, da Sua Maestà concepita con amore e saldo proposito. Unico mezzo ili salvezza essere quello di riunire gli sforzi dei cittadini al valore delle reali milizie a respingere gli stranieri aggressori venuti a gettar la Sicilia in una guerra tempestosa e fatale. E conclude finalmente coll'accordare un ampio e generoso perdono a coloro che facessero ritorno a più miti consigli e si sottomettessero alla legittima autorità (59).

VI.— I cittadini a ciò rispondevano in data del 20: «Saper essi pur troppo a che tenersi sul conto del suo patriottismo, mentr’egli, siciliano dirigine, presentavasi a’ suoi concittadini rivestito dell’assisa borbonica. La carica stessa che occupava, l'ufficio ch'egli erasi assunto parlare abbastanza per lui. Di uomo siffatto, ed in simili circostanze venuto, potrebbe esser dubbio il pensiero? Il proclama del 18, da lui sottoscritto ed evidentemente redatto da un traditore del paese nativo, da Domenico Ventimiglia, direttore del Giornale Ufficiale rivelare del tutto l'animo del Commissario borbonico. Per dodici anni aver la Sicilia congiurata per giungere al punto in cui allora trovavasi: e dopo gustate le primizie della vittoria essere impossibile indurre i Siciliani a sottoporsi spontaneamente alle vecchie catene. In tanti anni di lotta aveva mai pensato il Governo allo svolgimento della sua prosperità? Le forche, gli ergastoli, i supplizii inquisitoriali essere stati i soli mezzi, adoperati in passato da un governo che volevasi provvido e forte, e che non arrossiva a qualificare i Siciliani cogli aggiunti di amatissimi e traviali. Indarno promettere un Principe della casa reale a luogotenente in Sicilia. Assurdo il promettere il resto delle strade rotabili mentre di strade si fatte non ve ne aveva una sola nell'Isola. Prometteva le ferrovie? Ma essersi mille volte proposto al governo la costruzione delle strade ferrale, senza che se ne facesse mai nulla. A che parlare delle industrie? Un ricco Siciliano aveva profuso tesori in una fabbrica di carta, la quale il governo aboliva in appresso con danno estremo dell'industrioso privato. I vapori postali settimanali tra il continente e risola non erano stati, essi pure, aboliti? Non era spenta in Sicilia l'industria, arenato il commercio, rovinata l’agricoltura, le strade riboccanti di accattoni, calpestata la nobiltà e la cittadinanza, e disprezzati perfino gli uomini più devoti alla causa ed al nome borbonico? E si vorrebbe fornire il paese de' migliori mezzi conducenti allo sviluppo della vita civile? Essere oggimai troppo tardi. — Avere troppo a lungo i Siciliani sperato: esser assurdo il pretendere da essi un sentimento di fiducia da gran tempo perduto. A che parlare di guarentigie? A chi non è nota la fede borbonica? Mille solenni promesse essere state fatte in passato, e non una sola adempiuta. Concessioni? Riforme? Parole vane e senza senso per chi fu tante volte ingannato. Ferdinando I che pure assumeva la divisa P. F. A. non aveva nel 1848 giurato, ed in appresso spergiurato, la costituzione? Altrettanto non era accaduto dopo il 1812 ed il 1821? — Da ultimo essersi i Siciliani sollevati in nome ed a favore della causa nazionale e per congiungere i loro ai destini dell'intiera penisola. Potevano essi recedere? Inutile oggimai il proporre delle transazioni che non si dovevano a nessun patto accettare. Volere i Siciliani unicamente una cosa: formar parte dell'Italia unita e risorta. Fra un popolo sollevato ed un re despota non esservi patto possibile: ed i Siciliani preferire il sepolcro al ritorno dell'antica tirannide...» (60)

VII.— Con tali auspicii don Lanza assumeva l’amministrazione della terra natale. Appena mise piede in Sicilia s'avvide della difficoltà della situazione circondala da ogni parte d'inciampi e pericoli. I cittadini parevano più che mai determinali a resistere alle pretensioni borboniche: il fuoco della rivolta, benché in sé chiuso, avvampava sotto la cenere, e solo mancavagli l'occasione di esplodere. L'opposizione dei palermitani al governo era tacita, tenebrosa, latente, ma non perciò meno attiva, profonda, implacabile. Per la prima volta, dopo un regno di un secolo, i Borboni cercavano indarno fra i loro popoli quella fiducia di cui avevano si lungamente abusato. Per la prima volta gli abitanti del regno, sia nella terraferma o nell'Isola, chiudevano interamente gli orecchi alle pressanti sollecitazioni della Corte. Le concessioni, le riforme, le più solenni promesse di costituzioni e miglioramenti avevano affatto perduto il primitivo prestigio: ed i cittadini, dopo essere stati colti a più riprese a quell'amo, ad dimostravansi fermamente disposti a non lasciarsi più prendere. Il Commissario di Francesco II trovò il paese involto in una di quelle crisi solenni che non si possono scongiurare né vincere.

VIII.— Esauriti i mezzi della persuasione era mestieri un'altra volta ricorrere alla coazione ed alla forza: né in ciò gli ostacoli si facevano punto minori né meno pressanti. Don Lanza trovava a Palermo un esercito numeroso ma indisciplinato, abbattuto dai recenti disastri ed incerto del proprio avvenire. La confidenza in sé, nei capi e nel numero, che forma in gran parte la militare virtù del soldato, mancava del tutto in quell'orda di sgherri a cui re Francesco doveva affidare il sostegno della pericolante corona. Contemporaneamente all'arrivo di Lanza i soldati di Landi fuggiti da Calatafimi raggiungevano il Quartier Generale. Parte per l'avuta paura, e parte eziandio per giustificare la vergognosa loro condotta, amplificavano nei loro racconti i pericoli corsi, e maraviglie narravano di Garibaldi e dell'armata italiana. Si diceva che Garibaldi alla testa di un numerosissimo esercito marciava difilato a Palermo: si centuplicavano le forze che avevano affrontate sul Monte di Pianto Romano, e spargevasi nelle truppe borboniche colla persuasione della numerica loro inferiorità, un sentimento universale di sconfidenza e paura. Landi medesimo, nel suo rapporto più sopra accennato, aveva contribuito a spargere nell’armata e nei capi lo sgomento e il disordine, ed a credere alle sue affermazioni, aveva egli combattuto a Calatafimi contro un intiero e numerosissimo esercito, munito di tutti i mezzi militari ed appoggiato ad innumerevoli schiere di volontari e patrioti!. Garibaldi ed i suoi mille apparivano nella mente dei soldati borbonici quali uomini eccezionali e fatati contro cui invano volevasi lottare o resistere. Poteva temersi che la sola presenza delle camicie rosse risvegliasse nell'universale esaltazione degli animi, un panico tremendo ed irresistibile. Con tali soldati ed animati da tali sentimenti doveva il Commissario napoletano opporsi alla marcia trionfante del Generale nizzardo.

IX.— Contuttociò nella situazione di Lanza era forza che portasse sul volto la sicurezza che in cuor non sentiva, ad oggetto d'ispirare ai soldati quella confidenza che l'improvvisa comparsa dei mille aveva loro rapita. Era pur anche mestieri imporre ai cittadini di Palermo con un fermo e severo contegno, e, poiché nulla valevano ornai le lusinghe, adoperare con essi il rigore delle leggi militari e l’eloquenza dell'armi. In questo, a dir vero, il generale borbonico trovava nell’armata un sostegno più pronto e più valido che non poteva lusingarsi ottenere sul campo di guerra, giacché per antica consuetudine nelle truppe napoletane la ferocia di gran lunga superava il valor militare. Impértanlo la mattina del 20 comparve un proclama del comandante la fortezza, il noto Giovanni Salzano (61), col quale per la terza o la quarta volta si rimetteva in vigore lo stato d'assedio con tutte le sanguinarie disposizioni che da quello conseguono. Nel preambolo di detto proclama, per una singolare inconsistenza di cui però possiam farci ragione, riduceva ad ottocento il numero strepitoso degli Italiani che Landi aveva pochi dì prima affrontato sui campi di Calatafimi. Salzano annunciava ai cittadini che Garibaldi con ottocento avventurieri aveva il giorno 14 operato lo sbarco a Marsala, questa gran violazione com'egli chiamavala, del diritto delle genti. Proseguiva dichiarando che mentre la capitale era minacciata degli invasori per ordine superiore egli era obbligato a provvedere alla salvezza della città colle leggi eccezionali del codice militare (62). Questo è l'ultimo documento a cui avesse parte il già luogotenente principe di Castel Cicala prima del suo definitivo ritiro dall'Isola.

Il 21 la bandiera italiana compariva sul piano di Renne: ma l'arrivo di Garibaldi sollevava le speranze, senza infondere in cuor degli schiavi l'audacia d'infrangere le vecchie ed abborrite catene. Dopo mille promesse e lusinghe, dopo le centinaia di proclami inseriti su tutti i giornali, il Generale italiano si trovò solo dinanzi a Palermo e ridotto alle forze che aveva con sé dal continente condotte. Il comitato di Palermo, potentissimo a parole, non seppe apparecchiare né un fucile né un uomo per agevolare l'impresa liberatrice dei mille. Quei signori abborrivano il dominio borbonico e s'affaccendavano per la sua distruzione: ma il patriottico ardire esalavasi in lettere ed indirizzi di cui riempivano l'intiera penisola. E quando il pericolo appariva vicino, quando Garibaldi co' suoi si avanzava fin sotto le mura della città, anziché aiutarlo e soccorrerlo, rimasero spettatori tranquilli ed inerti di ciò che poteva avvenire. E Garibaldi che aveva troppo fiduciosamente contato sul loro concorso, vistosi solo ed abbandonato, dovette nel proprio genio ed esperienza cercare la salvezza e la vittoria dell’armi italiane.

XI.— Né il procedere del comitato, comeché inaspettato e stranissimo, mancava di significazione. Il vero comitato insurrezionale, quello che aveva iniziato il movimento popolare, venne dopo il fatto della Gancia disciolto e disperso. Quelli tra i suoi membri che non caddero nella memorabile notte del 4 aprile coll'armi alla mano, si gettarono alla campagna e si congiunsero alle bande insorgenti. Eglino ebbero parte in appresso a tutti i combattimenti e gli scontri coll'armata borbonica, e pugnarono a Carini, a Monreale, a Sferracavallo ed Adernò. Moltissimi si distinsero al fianco di Rosolino Pilo, di Santanna e di Corrao, e molti eziandio accorsero poscia ad ingrossare le file garibaldiane. Dopo l'avvenimento della Gancia il partito dell'insurrezione rimase in Palermo abbandonato e disciolto. sinché, per opera specialmente dell'emigrazione residente in Piemonte, un novello comitato venne costituito. Ma questo nuovo comitato, composto, da quanto appare, di gente paurosa e trepidante, non era quale il richiedeva la solenne necessità del momento. Da quanto avvenne ben tosto appresso sembrerebbe poter inferire che, non per soccorrere Garibaldi e cooperare armata mano alla liberazione del paese, ma per assicurarsi il possesso dell'Isola fosse stato istituito in origine. Congiurati di nuova stampa, costoro cospiravano non tanto per la vittoria quanto per apparecchiare il terreno alla futura annessione.

XII.— Per ben cinque giorni, dal 22 al 27 maggio, cittadini e borboniani vivevano in Palermo nell'aspettazione angosciosa di ciò che stava per succedere. Garibaldi era comparso sulle alture di Monreale e sparito: il susseguente mattino si seppe avere l'armata italiana raggiunto il villaggio di Parco: ma la sera del 24 per la capitale si sparse l'ingrata novella che i garibaldiani battevano in ritirata verso l'interno dell'Isola. Dal 24 al 27, malgrado i mille messaggi che andavano ad ogni ora e venivan dal campo, ad onta delle smargiassate borboniche e delle ampollose affermazioni del Giornale Ufficiale che annunziava battuto e disperso l'esercito di Garibaldi, nulla conoscevasi dell'itinerario o delle sorti del Duce italiano. Pareva però certo che il Commissario di Francesco Borbone ritenesse gl'Italiani già vinti e dispersi, se dovevasi credere alla insolita baldanza ed alla novella insolenza che vedevasi scolpita sulla fronte dei Regii. Intanto Garibaldi lasciato Misilmeri la sera del 26 recavasi a Gibilrossa, donde la notte seguente intendeva marciare a Palermo.

— A Gibilrossa si presero le misure opportune per la distribuzione e l'ordinamento dei corpi e si stabili l'attacco di Palermo. Dopo breve ora di riposo i militi vennero richiamati al loro posto, ed il Generale assistito dallo Stato Maggiore li passò poco stante in rivista. Con brevi ed eloquenti parole Garibaldi arringò in quell'ora solenne le truppe: fece elogi al loro contegno, appianse al loro coraggio e le confortò a sperare nel loro diritto, nella loro coscienza e nell'audace loro valore. «Domani, egli disse, entrerò vittorioso a Palermo od il mondo non mi vedrà più tra i vivi.»

— Garibaldi appariva visibilmente commosso. Le sue parole, fatali come il destino, risvegliarono l'ardore e l'entusiasmo dei militi. In quelr istante dimenticavano lutti i patiti disagi ed i pericoli senza numero da' 'quali erano come per incanto sfuggiti. Nella mente di que' valorosi signoreggiava un solo pensiero, quello di combattere e vincere. Gli avvenimenti dei giorni passati, la confusione del nemico che sera continuamente lasciato ingannare dai falsi lor movimenti, la coscienza del proprio coraggio e la confidenza che tutti nutrivano nel genio militare del condottiero che avevali guidati a tante vittorie, tutto contribuiva a sollevare le loro speranze ed accrescere la loro energia. Se Inabilità dùm condottiero d'eserciti precipuamente consiste nel sapere inslillare nel cuor dei soldati la certezza del trionfo, Garibaldi è senza verun paragone il Generale più abile che vanti l'Italia.

— Nel lungo pellegrinaggio da Salerai a Gibilrossa la piccola armata italiana s'era accresciuta delle varie squadre d'insorti ad essa successivamente congiuntesi. Oltre le schiere inviate dal Piano di Renne, sullo stradale di Salerai e di Trapani, oltre i drappelli con Orsini spediti alla volta di Corleone, il numero dei picciotti ammontava a Gibilrossa a non meno di due migliaia. La linea da Garibaldi percorsa in quei giorni presentava la massima facilità di radunare sotto il vessillo italiano gl'insorti disseminati su tutte le creste dei monti che formano il centro dell'Isola. Le profonde boscaglie, e quasi del tutto inabitate e deserte, che cuoprono all'intorno il paese, avevano per due lunghissimi mesi offerto ai rivoltosi un securo ricovero. Di là, durante l’aprile ed il maggio, sovente discendevano nelle sottoposte pianure, battevano le vallate e le strade, ed interrompevano le comunicazioni: ed allorquando aumentava il pericolo si ritraevano alla vecchia, inaccessa dimora. Come le guerrillas spagnuole i popolani siciliani usavano attaccare ali improvviso il nemico e ritrarsi dopo pochi colpi o secondo le circostanze interamente sbandarsi per quindi riunirsi e correre a nuova fortuna. Mille volte battuti, e sconfitti e sovente dispersi, mai non furono domati né vinti: eglino si ricomponevano nel silenzio della solitudine e della notte e ritornavano con fresca baldanza all’assalto. Ma dall'istante che i mille vittoriosi marciavano sullo stesso terreno, inutile ed eziandio pericoloso divenne quel vecchio sistema di guerra. I capi del popolar movimento sentirono la necessità di correre la stessa fortuna coi loro liberatori e fratelli italiani. In quel supremo frangente,¡1 solo piano adottabile era quello di raccogliere tutte le forze pel gran colpo di mano che andavasi già maturando.

XVI.— Fra i Picciotti i più valorosi ed arditi presero servizio nelle file stesse dei volontari, de' quali adottarono il valore, la disciplina e l'audacia. Ma il gran numero, avvezzo unicamente all'attacco ed alla fuga, senz'ombra d'istruzione militare e senza conoscenza degli alti doveri che incombono ad un corpo ordinato, fu raccolto in un corpo speciale e sottomesso al generale Giuseppe La Masa, già nominato a Talamone comandante la quarta compagnia dei volontari. Il bravo Missori abbandonò a Gibilrossa egli pure il comando delle guide che aveva fino allora tenuto, essendo stato da Garibaldi chiamato presso di sé. Il comando di quel corpo, quanto insignificante per numero altrettanto terribile per sangue freddo ed audacia, venne da quel punto affidato all’Ungherese Tuckery, lo stesso che il giorno dopo cadde mortalmente ferito a Palermo.

XVII.— La sera medesima i volontari per angusti e tortuosi sentieri (63) discesero la montagna e raggiunsero la gran via militare di Messina. Quivi s'arrestarono per brevi momenti affinché il Generale potesse ricevere i rapporti de' suoi esploratori e dare le ultime disposizioni per il prossimo attacco. Da quel punto la strada percorreva una valle che sempre più diventa spaziosa a misura che s'approssima all'agro palermitano col quale a ponente confina. A destra ed a sinistra giacciono vastissimi tratti di terra coltivata e di quando in quando interrotti da giardini, da boschetti e da parchi appartenenti ai primarii cittadini di Palermo. L'armata italiana ricevette l'ordine di marciare contemporaneamente in tre colonne delle quali l'una formante il centro condotta da Garibaldi in persona aveva a seguire la strada e le altre due dovevano marciare lateralmente alla prima a traverso dei campi. Tale disposizione fu suggerita dalla necessità di presentare, pel caso d'un improvviso scontro coi Regii, una fronte ordinala e disposta in battaglia e d'evitare la confusione ed il disordine che mai sempre accompagnano le mosse d'un esercito eseguite nell'oscurità della notte. Ai volontari del pari e ai Picciotti fu imposto il più assoluto e rigoroso silenzio durante la marcia, e gravi pene vennero comminate ai trasgressori d'un ordine in sé stesso sì vantaggioso e sì giusto. Garibaldi voleva portarsi in tutta secretezza sotto le mura della capitale e. senza risvegliare il minimo allarme, sorprendere i Regii non apparecchiati a pugnare e a resistere. L'esito dell'intiera campagna poteva interamente dipendere dalla condotta che i volontari avrebbero quella notte saputo tenere. Al Generale pareva la vittoria ben facile se perveniva a gettare la confusione nel presidio borbonico colla rapidità delle mosse e colla sorpresa di un assalto inopinato e notturno. In guerra tutte le circostanze possono essere o divenir favorevoli; ed un abile generale sa trar partito del terror de' pernici quanto del coraggio de' suoi. Ma la fortuna, che pure talvolta si ostina a condurre a suo modo le cose, altrimenti avea divisato. Essa non volle che i nostri eseguissero la marcia cosi chetamente, siccome il Generale avea divisato, né che i Regii, sorpresi nel sonno, potessero io certo modo scusare la disfatta del giorno vegnente. E forse fu meglio pei nostri: giacché si doveva rompere il nemico, assai più valeva, malgrado la previsione di Garibaldi, sconfiggerlo in aperta campagna che nell'interno di una vasta città.

XVIII.— Per tal modo, disposte le cosce dati gli ordini opportuni ai singoli comandanti ed alle squadre, l'armata si ripose nuovamente in cammino. L'oscurità della notte era grande, il silenzio profondo: non uomini ma spettri senza senso né voce parevano disegnarsi nell'aria e passare per la quieta campagna. I volontari camminavano in punta de' piedi e colla massima precauzione affine di evitare il più lieve rumore che potesse iradire la loro presenza. Le tenebre coprivano i loro atti ed i gesti e l'energica espressione de' loro lineamenti: tuttavia se un raggio di luce fosse in quell'istante disceso su quelle faccie abbronzite dall'aria e dal sole, ciascuno avrebbe potuto leggervi la certezza del prossimo trionfo. Precedevano le guide sotto il comando di Tuckery: venivano in appresso i Siciliani e seguivali l'esercito intiero. Però la marcia progrediva lentamente poiché tale era l'ordine di Garibaldi: egli voleva giungere dinanzi a Palermo non prima dell'alba, l'ora in cui, secondo tutte le probabilità, avrebbe potuto sorprendere i Regii immersi in profondissimo sonno.

XIX. —Né gli aneddoti comici del tutto mancarono in quel romantico e fortunato viaggio. Già da oltre due ore i volontari marciavano silenziosi e tranquilli, quando s'udi lo scalpitare improvviso di alcuni cavalli che sembravano venir da Palermo e che a tutta corsa più e più s'appressavano. Dalla fronte della colonna s'intese un grido angoscioso e sommesso: — «In guardia! La cavalleria!» — e niuno più seppe chi avesse pel primo proferito quel grido. In un lampo l'allarme si propagò per tutte le lite, e vi sparse una costernazione universale. È incredibile l'effetto che produsse quella singola voce. I militi furono invasi da un timor panico cosi comune e si strano che, rotti gli ordini e sciolto ogni ritegno, senza volere ascoltare più nulla, si diedero a precipitosa fuga per le circostanti campagne. La confusione, la pressa fu estrema: lo spavento era troppo generale perché gli ufficiali potessero porvi riparo: anzi alcuni eziandio tra questi, colti dalla stessa vertigine, vennero trascinati dall'esempio dei compagni e con essi fuggirono. In un attimo non rimase sulla strada più alcuno: dei militi altri s'erano appiattati dietro gli alberi, nei boschetti o nei fossi, altri correvano sgomentati per la campagna senza punto guardarsi all'indietro e sapere perché e qual cosa fuggissero. Alla fine comparve Garibaldi a cavallo accompagnato dal suo Stato Maggiore: e le cose erano infatti pervenute ad un punto che la presenza del Generale solo poteva scongiurar la paura e riparare al disordine. Alla voce dell'amato condottiero i fuggiti accorrevano a frotte a raggiungere il posto che avevano cotante vilmente lasciato, vergognosi di sé e della presa paura. Lo strano avvenimento apportò non per tanto non lieve ritardo; più di un'ora e mezzo ci volle prima che i militi si trovassero di nuovo raccolti e pronti a marciare in avanti.

XX.— Cagione dello strano avvenimento furono due soli cavalli che sbrigliati ed abbandonati correvano sullo stradale nella direzione di Termini. D'onde realmente venissero od a chi appartenessero non è facil cosa chiarirlo. Alcuni vogliono che fosse una pattuglia borbonica, spedita da Palermo a perlustrare la strada, la quale, accortasi della presenza de' nostri e credutasi circondata e perduta, avesse abbandonato i cavalli per fuggire inosservata e nascondersi nei campi vicini. Altri pretendono che fossero due guide dei nostri mandate esse pure a battere lo stradale alla testa della colonna, le quali, essendo per supposte cagioni smontate, avessero assicurati i cavalli a qualche cespuglio, e che questi, per caso discioltisi e vistisi liberi, fossero corsi a raggiungere il corpo. Ambedue queste ipotesi paiono ciò non per tanto paradossali egualmente ed inverosimili. Se una pattuglia napoletana avesse stimato trovarsi di fronte al nemico, è ella cosa credibile che, abbandonando i cavalli sui quali poteva porsi più prontamente in salvo, preferisse a piedi sottrarsi al soprastante pericolo, a rischio pur anco di trovarsi avviluppata più presto. Se i due cavalli fossero appartenuti alle nostre guide non era egli facile accertarsi chi di esse, ed eran ben poche li avesse perduti? Le circostanze del fatto rimasero e sono ancora un mistero; sola verità è lo strano, ingiustificabile spavento da cui i Garibaldini si lasciarono cogliere.

XXI.— Per tal modo in guerra un caso fortuito, una circostanza impreveduta, imprevedibile. un nonnulla basta a rovesciare i piani più arditi ed a sconcertare i più ben tracciati disegni. Ninno dubiterà del coraggio, spinto sovente alla temerità, di quei militi avvezzi a combattere, non a contare, i nemici, e ad affrontare audacemente tutti i pericoli della terra e del mare. I vincitori di Calatafimi e di Parco sono superiori alle prove ed allo stesso sospetto. Eppure quegli arditi argonauti, che non esitarono a fronte di verun più imminente rischio, si lasciarono istantaneamente sgomentare da una parola, da un'ombra, da un nulla! Mezzo squadrone di cavalleria avrebbe in quel momento bastato a porli in una rotta completa, a cangiare intieramente i destini dell'Isola ed a ribadire sul collo ai Siciliani, forse per sempre, le catene borboniche. Quest’aneddoto, così scandaloso e cotanto originale ad un tempo, diede luogo ad infiniti commenti e riflessioni: ed i militi, riandando gli avvenimenti di quella gloriosa campagna, talvolta ne parlano come d'un brutto e stoltissimo sogno, e ridono della cieca credulità e della vana loro paura (64).

XXII.— Il ritardo cagionato dallo stolto accidente, lungi dall’apportare all'armata italiana alcun danno, oltremodo le riuscì favorevole. Le due ore perdute a raggranellar gli sbandati concorsero a completar la vittoria del seguente mattino. Garibaldi sarebbe giunto a Palermo assai prima dell’ora stabilita e non avrebbe avuto il suo piano che per metà esecuzione.

XXIII.— Il rimanente della notte passò senza che verun altro accidente venisse a turbare la calma uniformità della marcia. I Garibaldini s'avanzavano sul grande stradale circondato da vasti giardini e villeggiature superbe, estiva e doviziosa dimora della nobiltà siciliana. A mano a mano che alla capitale avvicinavansi, sparivano quelle tracce di incolta selvatichezza che a si gran parte dell'isola dà un aspetto cotanto malinconico e triste. Al pallido baglior delle stelle i volontari osservavano gì immensi edificii e i parchi sontuosi che di quel suolo fanno un paradiso di voluttà e di delizie. La Sicilia sarebbe il giardino d'Italia se la tirannia secolare dei Borboni non l'avesse coperta di rovine e miserie.

XXIV.— A tre ore del mattino 27 maggio i volontari arrivarono davanti a Palermo: era l’istante da Garibaldi fissato per dare l’assalto. Prima l'avanguardia composta di sole quattordici guide con Tuckery precorreva sullo stradale l'esercito; venivano appresso i Picciotti in numero di due mila condotti da La Masa, e da ultimo le rimanenti compagnie comandate da Bixio. Garibaldi col suo Stato Maggiore marciava nel centro.

XXV.— I Regii per contro stavano accampati nella città e disposti in due grandi divisioni, delle quali una occupava il Palazzo Reale ed il sobborgo di Porta Nuova, e l'altra teneva la spiaggia del mare e le fortezze che guardano il porto. I loro avvamposti occupavano i mulini al bivio della Scaffa, nel punto denominato le Teste a poche centinaia di passi dalle mura discosto.

XXVI.— Malgrado gli ordini di Garibaldi che la marcia e l’attacco dovesse eseguirsi conservando il più rigoroso silenzio, le cose non passarono punto come egli avea decretato. Egli poteva con tare sulla cieca ed esatta obbedienza de' i suoi veterani, ma non già sulla discrezione dei Picciotti Onesti come si videro davanti alla capitale, persuasi di trovarsi vicini al nemico e sul punto di venire alle mani, fosse entusiasmo o spavento, (giacché ben sovente chi più teme più parla) innalzarono un evviva fragoroso e generale alla Sicilia, a Garibaldi e all'Italia. Quel grido, prorompendo improvviso fra le tenebre, produsse un effetto indescrivibile, e gettò in pari tempo l'allarme tra i volontari e tra i Regii. Il Generale n'ebbe sdegno e sgomento vedendo, nell'istante medesimo della loro applicazione, i suoi disegni sconcertati e delusi. Ma poiché l'allarme era dato né più diveniva possibile sorprendere il nemico al bivacco, diede tosto ordine di marciare all'assalto.

XXVII.— I tamburi e le trombe di sveglia percorrevano intanto la città chiamando ì soldati alla; pugna, ed i Garibaldini ne udivano il rombo come se stato fosse pochi passi soltanto discosto. È impossibile narrare il fragore e il fracasso che da capo a fondo invadeva e riempiva l’intiera Palermo: sembrava che le montagne all’intorno tremassero come nell'infuriare del tremuoto o del turbine. Udivasi il cozzo dell’armi, lo scalpitar de' cavalli, il cigolio delle ruote, commisto alle barbare fanfare dei musicali istromenti: le grida, le bestemmie e le imprecazioni assordavano Paria, simbolo non fallace di trepidazione suprema e paura. In poco d'ora le colonne borboniche si concentrarono nella parte orientale della città pronte in apparenza a respingere qualunque attacco nemico.

XXVIII.— Gli avamposti napoletani accampati ad un ettometro circa dalla Porta Termini pe' primi aprirono il fuoco. Tre colpi di fucile contemporaneamente partirono dalle lor file ed incominciarono una lotta che doveva terminare col trionfo della libertà e coll'onta del governo borbonico. Le tre palle fischiarono sul capo dei volontari senza recare alcun danno, ma produssero tra i Picciotti un panico fatale, indicibile. Le truppe comandate dal prode generale La Masa (65) come videro il lampo dell'armi napoletane, quasi scorgessero a sé dinanzi la morte in tutta la sua più orrenda bruttezza e pronta a ghermirli e a mangiarseli, voltarono bravamente le spalle e si diedero precipitosi a fuggire. Invano gli ufficiali supposero: s'adoperarono indarno e colle parole e coi fatti a frenare la cieca moltitudine e ad ispirare nel cuore dei militi più saggi consigli. Lo spavento di sua natura è contagioso: ed una volta ch’egli giunga a penetrare nelle file di un’armata, da capo a fondo la invade, la domina e la trascina ad irreparabile perdita. Se il corpo di Garibaldi stato fosse composto di soli Picciotti, gli accidenti occorsi in quella memorabile notte potevano per due volle aver finita la guerra.

XXIX.— Triste fu quello e doloroso spettacolo. Di tutte le forze comandate dal generale La Masa, ammontanti a non meno di due mila Siciliani, pochissimi restarono saldi ed arditi al lor posto: il rimanente volava fuggendo a traverso le campagne e i giardini e sino al fondo delle montagne e dei boschi. Sbandandosi in simil guisa per tutte le parti, i Picciotti lasciavano scoperti i volontari che stretti in colonna spingevansi avanti. Le compagnie garibaldiane conservarono, è vero, la solita immobilità ed intrepidezza: ma non senza dolore e rammarico potevano esse vedere quel corpo si fiorente e si bello in un attimo disciolto per un nonnulla e disfatto. I militi maravigliando osservavano lo sperpero improvviso che un insano spavento avea fatto dei loro compagni.

XX.— Due mila soldati che fuggono davanti al nemico non possono meno che cagionare qualche disordine eziandio tra le file di coloro a cui è ignoto ogni sentimento di tema. La fronte dei Garibaldini si risentì, malgrado la nota loro intrepidezza e bravura, del contraccolpo apportato dalla confusione degli insorti: ma tosto si rimisero e progredirono oltre. In quell'istante Nino Bixio, precorrendo la colonna e ripieno d'indegnazione e furore, raggiunse il prode La Masa e lo apostrofò vivamente rimproverandolo della condotta de' suoi. Bixio poteva aver torto o ragione: ma per quanto un comandante sia coraggioso ed intrepido, se i suoi soldati, non altro ascoltando che il proprio spavento, si pongono in fuga, in qual modo potrebb'egli trattenerli, frenarli? A che gli serve in tal caso l’intrepidezza e il personale coraggio? Un corpo, un'armata, può talvolta, assalita da timor panico, vilmente sbandarsi e il comandante non avervi la menoma colpa (66).

XXI.— Mentre nel campo italiano tai cose accadevano, i Regii, sebbene tenessero una vantaggiosa posizione sul grande stradale, non osarono più oltre fermarvisi, e si ritrassero sopra. Palermo. Non valendo nel buio della notte (l’alba appena allora spuntava) a distinguere chiaramente gli oggetti, eglino presero forse lo strepito cagionato dalla fuga dei Picciotti pel rumore che sempre sollevano i movimenti di un'armata la quale si disponga all'attacco. Forse credettero che tutto ciò non fosse se non uno de' soliti stratagemmi adoperati da Garibaldi per trarli in qualche agguato od insidia Per tutte queste ragioni e per l'impettr con cui si sentivano incalzati dalle guide di Tuckery, delle quali non ¡scorgevano né la disposizione né il numero, stimarono partito migliore voltare le spalle essi pure e ripararsi in Città. In poco d'ora lo stradale e la campagna del tutto sgombrata rimase dalle truppe borboniche, le quali si concentrarono sul ponte dell'Ammiragliato alle porte medesime della capitale e dietro le mura.

XXII. —Le guide frattanto, disposte in catena, avanzavansi, prendendo di mira la Porta Termini, punto da Garibaldi preventivamente fissato pel prossimo assalto. I volontari in tal guisa tenevano la strada e gli adiacenti giardini e dominavano a destra ed a sinistra la campagna dalle rive del golfo alle falde dei colli che cingono Pagro palermitano: di fronte la città, ed a tergo sorgevano le vaste e selvose montagne di Gibilrossa e di Termini. Un ruscello o torrente, che, scendendo dai gioghi dei monti, traversa la pianura da mezzo giorno a settentrione, e lambendo per lungo tratto le mura sbocca nel prossimo golfo, divideva ornai solo i due eserciti. Il ponte dell’Ammiragliato, congiungendo le due rive del suddetto ruscello e la città alla campagna, stava per divenire il teatro d'una terribile lotta. Era quello il punto più avanzato delle posizioni dei Regii i quali aveanlo munito di artiglieria e rinforzato da grossa mano di cacciatori e cavalli. L'Importanza del luogo a prima vista appariva grandissima, e quindi Italiani e Borbonici si apparecchiavano, i primi ad espugnarlo e gli altri a difenderlo.

XXIII.— li corpo delle guide marciava frattanto silenzioso all'assalto. Ma bentosto, spazzando il nemico la strada con un fuoco vigoroso e continuo, dovettero ripiegare a destra e a sinistra camminando a carponi dietro gli alberi e rasente le muraglie degli orti e giardini. La tempesta delle palle borboniche grandinava sì spessa e sì rapida che non uno dei quattordici militi sarebbe incolume arrivato sul ponte, se avessero dovuto seguire il battuto stradale. A forza di stenti e con audacia inaudita que' bravi raggiunsero le rive del sovradescritto ruscello; ed allora, precipitandosi nel suo letto ed alla meglio coprendosi cogli svolti degli argini, s'avvicinarono, lentamente ma con passo continuato, sui fianchi dei Regii. In tal guisa pervenuti a mezzo tiro di fucile dal ponte le guide aprirono il fuoco bersagliando con bene aggiustati colpi il nemico.

XXIV.— Attaccati i Borboniani sui fianchi, dove e quando meno il credevano, incominciavano a lasciarsi guadagnare da quel fatale terrore che il nome di Garibaldi e la presenza dei volontari avea loro mai sempre ispirato. In questo mentre sopraggiungevano i Carabinieri di Genova, e dietro questi l'intiero corpo di Bixio, ed entravano tosto in battaglia. Invano un legno borbonico ancorato nel golfo vicino tempestavali con colpi a mitraglia: eglino progredivano audaci e sicuri come se, non ad una lotta disuguale ma, si recassero ad una festa da ballo. Bixio. Tuckery e Mosto, ciascuno alla testa della propria compagnia e fra i più esposti alla tempesta nemica, animavano i militi colla voce, coll'esempio e col gesto. La resistenza opposta dai Napoletani fu vigorosa; ma finalmente assaliti di fronte ed ai lati da uomini risoluti ed intrepidi, e pronti piuttosto a morire che a cedere, si videro finalmente costretti ad abbandonare il ponte e la Porta ed a ritirarsi in città. I Garibaldini se ne impadronirono tosto a passo di carica, e con questa insigne vittoria alle ore sei del mattino 27 maggio 1860, pervennero a metter piede nella capitale dell'Isola.

XXV.— Rincacciati e respinti da tutte le parti, i Borboniani lasciarono in pari tempo le mura e si raccolsero dietro una gigantesca barricata, che avevano di già costrutta nell'interno della città per contro la Porta perduta. Era questa difesa da una formidabile batteria ed inoltre vi si trovava raccolto il fiore delle truppe nemiche. Né i Garibaldini perciò si arrestarono, ma ripreso fiato, ben tosto volarono ad affrontare i fuggiaschi sin dietro quell'ultimo loro riparo. Fu ostinata e micidiale la zuffa: entrambi i lati soffersero gravissime perdite di morti e feriti, ma infine il valore e l'audacia prevalsero sulla disciplina e sul numero. I volontari, strisciando sul suolo o rasentando le case, tuttoché decimati da un orribile fuoco, pervenirono ai piedi della barricata e piantarono in faccia al maravigliato nemico il vessillo italiano Lo sventolar della patria bandiera, e sopra lutto il luccicare delle fatali baionette dei nostri, produsse sugli animi dei Regii un magico, indescrivibile effetto. In quel mentre il grosso dei Garibaldini, io colonna serrata ed a corsa slanciandosi, vittorioso comparve davanti ai Regii atterriti. Allora la difesa divenne impossibile: i soldati, rotte le die, voltarono il tergo, fuggendo ciascuno da quella parte ove la paura gli additava una via di salvezza. Fu un salva chi può generale e lo spavento estremo e il disordine: il terreno apparve poco stante coperto di sacchi, di giberne e fucili, che i nemici aveano gettati per essere più pronti e spediti alla fuga. Ed i Garibaldini inseguendoli colle baionette alle reni penetrarono, senza incontrare più oltre la faccia d'un solo nemico, sino all'interno della espugnata città (67).

XXVI.— Alcuni scrissero che i cittadini di Palermo, ali appressarsi dell'armata liberatrice, insorgendo in massa ed assaltando il nemico alle spalle, avessero potentemente contribuito, e grandemente agevolato, la via alla vittoria del Generale italiano. Si parlò di barricate già erette in tutti i quartieri della capitale, d'innumerevoli schiere di popolani che parteciparono ai pericoli ed alla gloria di quel memorabile giorno, e si pretese pur anche che i volontari ebbero solo a mostrarsi per entrare trionfanti a Palermo. Nulla è meno vero di ciò: non solo i cittadini non cooperarono al combattimento, che pure doveva deridere dei loro destini, ma rannicchiati nelle proprie dimore non ardirono nemmeno mostrarsi elle strade od affacciarsi alle loro finestre. I Garibaldini percorsero gran tratto di Palermo come fosse un deserto, né anima nata incontrarono al di fuori dei soldati borbonici, o fuggiaschi e battuti o schierati a combatterli. Quantunque coperti di sudore e di polvere, ed arsi da sete intensissima, non trovarono un solo palermitano che loro offrisse un bicchiere soltanto d'acqua o di vino. Le porte e le finestre stettero per tutto quel giorno ermeticamente chiuse: né preghiere né minaccie valsero ad indurre gli abitanti a mostrare la faccia (68).

XXVII.— Ed intanto che faceva quel comitato si attivo che tanto rumore aveva levato co' suoi cento indirizzi e proclami inseriti su tutti i giornali? Eppure pochi giorni prima aveva fatto il suo ultimo sforzo dichiarando essere non più di parole ma tempo d'azione ed esortando i cittadini ad apparecchiarsi all'imminente conflitto. Quei signori che vantavano i mille prodigi operati e pretendevano formare e dirigere l'opinione del popolo, non seppero o non vollero, nel giorno dei fatti, dirigere una schiera d'armati. Forse in quel punto, stretti in tenebroso consiglio, stavano consultando sui mezzi di afferrare i frantumi di quella potenza che la fuggente tirannide lasciava senza padrone.

XXVIII.— Non è a dire lo stupore e l’indignazióne dei nostri al cospetto di tanta indolenza, freddezza o paura. Avevano eglino contata sul concorso del popolo, sulla potenza espansiva dell'insurrezione e su tutti i mezzi che può dare una città determinata a finirla coll'oppressore Borbonico ed apparecchiata da lunga mano alla lotta suprema: ed al contrario non udirono grido che li animasse, né videro anima pietosa che movesse soltanto a soccorrere i compagni moribondi e feriti. Invasi da giusto sdegno i Garibaldini ruppero in varii luoghi le porte delle abitazioni per impadronirsi degli oggetti necessarii a costruire da sé ed a sostenere le barricate. In poco d'ora lo spazio da' nostri acquistato e percorso, apparve munito di sufficienti difese da poter impedire il passo alla nemica cavalleria, della quale, più che d'ogn'altra cosa temevasi.

XXIX.— Mentre tai cose in Palermo accadevano, un avvenimento di non lieve importanza avea luogo fuori delle mura a poche centinaia di metri dalla Porta per cui erano i nostri entrati in Palermo. Di buon mattino, al primo allarme, il generale residente a Porta Nuova avea spinto per la via di circonvallazione le sue truppe verso Sant'Antonino per congiungersi a' suoi che difendevano da quella parte le mura contro l'irrompente avversario. Ma giunto di fronte al Bastione denominato di Castro, laddove una muraglia gli offriva la possibilità di coprirsi, credette opportuno arrestare il suo corso e proteggere quella posizione che nessuno in allora pensava ad attaccare. I Regii disposero per tanto una batteria sulla stessa strada di circonvallazione guardante alla Porta Termini, schierarono le truppe di fronte e misero in agguato sotto la muraglia di un giardino il reggimento di cavalleria che seco aveano condotto. In tal guisa ordinati stavano attendendo l'assalto, sempre, a quanto sembra, nella speranza che nessuno sarebbe venuto ad incontrarli.

LX.— Ma la fortuna che si compiace sovente ad attraversare i consigli degli uomini, aveva tutto disposto perché non rimanessero in si oziosa e codarda inazione. Alcuni de' Picciotti, clw ai primi colpi di fucile sperano dati stoltamente a fuggire, stavano per l'appunto appiattati nel giardino medesimo, al di fuori del quale allora trovavansi i Regii schierati. Un Siciliano (per caso od attiratovi dal rumore del nemico), salito sul muro del giardino scoperse la cavalleria napoletana e più lungi i cannoni e le truppe di già allineate. Il bravo picciotto ne die' tosto l'avviso ai compagni, i quali, dimentichi della primitiva paura e ripreso coraggio, credettero con un colpo di mano riparare lo sproposito della insana lor fuga. La cavalleria borboniana, inaspettatamente percossa da forse cinquanta colpi di fucile, fu presa alla sua volta da tale spavento che senza cercare più oltre, rotte le file, fuggi disordinata in Palermo.

XLI.— L'artiglieria e la linea, malgrado l’esempio dei loro compagni, stettero ferme al loro posto e risposero con un fuoco vivissimo al tempestar dei Picciotti, i quali, protetti com’erano dalla muraglia e dalle piante del giardino, continuavano a batterli. I Garibaldini frattanto, udendo il tuonar del cannone alla estrema loro sinistra, si affrettarono a recarsi sul luogo per contenere i Borboniani che si temeva venissero da quella parte ad urtarli di fianco. Quivi i Regii opposero valida resistenza a tutti gli sforzi dei nostri la posizione non venne forzata che ad ora assai tarda e quando Garibaldi era gli padrone di una porta e di buona parte della città.

XLII.— In Oriente spuntava già il sole allagando in un torrente di luce Paria, la terra ed il mare. I Garibaldini, per la maggior parte già entrati in Palermo, potevano guardarsi all'intorno, calcolare i vantaggi ed i pericoli della situazione e porre a confronto quanto s'avea guadagnato e quanto s'era perduto. La vittoria ottenuta era grande, ma dolorosi costava e sacrificii gravissimi. Eglino avevano a lamentare la morte di parecchi loro fratelli gloriosamente pugnando caduti, il cui sangue tuttavia fumava sui bivii della città che Pastro del giorno, dopo due lustri di lutti e di lagrime, già risalutava redenta. Misurando col pensiero il cammino percorso, quei prodi ben potevano inorgoglirsi e gloriarsi, ma la grand'opera, comecché condotta a buon termine, non era per anco compita. Né Garibaldi era tale da lasciarsi sfuggir la fortuna ch'egli teneva già pe' capegli: e quindi raccolti i suoi militi e schieratili in colonne li diresse sui punti dove il bisogno chiamavali.

XLIII.— I Napoletani in quel mentre ricovravansi nell'interno della città, occupando i pubblici stabilimenti e le caserme di già munite ed apparecchiate a resistere. A destra tenevano il forte Galita, l'antico castello di Abderamo, situato in una vantaggiosa posizione sulle rive del mare, ed à sinistra la contrada di Porta Nuova, la vicina Caserma, il Palazzo Reale e gli edificii contigui. II maresciallo di campo Ferdinando Lanza (69) risiedeva col suo Quartier generale nel forte, e di là emanava i suoi ordini e dirigeva l'armata borbonica. Pare che sulle prime egli nutrisse il progetto di avviluppare i Garibaldini nel centro medesimo della occupata città e di stringerli in una rete di punti fortificati da batterie e da trincierei se non che il valore e l'audacia dei mille bastò in poco d'ora a sventare i suoi piani ed a rendere vani tutti gli sforzi. Il disegno stesso di Lanza contribuì solamente ad accelerare ed a compire la disfatta de' suoi.

XLIV.— Non lungi dalla contrada Macqueda, per la quale penetravano i nostri in Palermo, giace la bella caserma di Santo Antonino, una delle più vaste, comode e meglio costrutte dell'Isola. Colà si trovava, siccome in luogo munito e securo, raccolto grosso nerbo di truppe borboniche in atteggiamento provocante ed ostile. Garibaldi che non voleva avventurarsi più oltre e lasciarsi alle spalle quel covo di barbari, diede ordine che la caserma venisse assalita ed a viva forza espugnata. Il che fu sull'istante eseguito: con tale impeto si portarono i volontari all'assalto che i Regii smarriti al cospetto del loro coraggio la cedettero dopo poche scariche, quasi senza combatiere. E Garibaldi, assicuratesi in tal guisa le spalle, potè rivolgere il pensiero al tanto sospirato Quadrivio.

XLV.— Un forte distaccamento di Regii, dopo la rotta subita in Macqueda, ritiratosi per la via Calderari si appostava e fortificava infrattanto nel Quartiere di Ferravecchia. E siccome pareva determinato a tenere quel vantaggiosissimo posto, dal quale potevasi offendere e bersagliare i volontari nella marcia loro sul centro, i Carabinieri di Genova vennero distaccati e mandati a snidarnelo. I Napoletani combatterono accanitamente, forse assai più di quanto si sarebbe aspettalo, ma dopo una lotta ostinata e sanguinosa di circa mezz'ora, assaliti alla baionetta si misero disordinatamente a fuggire e si dispersero per le adiacenti contrade.

XLVI.— Liberatosi ai fianchi ed a tergo Garibaldi procedeva in avanti. Lo spazio occupato dai nostri allargavasi a misura che si avvicinavano al Quadrivio centrale, piccola piazza, altrimenti denominata dei Quattro Cantoni o Vigliena. Il Quadrivio è formato dall'incrociamento delle due strade principali che tagliano in linea retta Palermo in tutta la sua lunghezza e larghezza. La prima, la magnifica contrada Toledo, percorrendo dal nord al meriggio, congiunge le fortezze ed il porto al Palazzo Reale: la seconda, nella direzione di levante a ponente riunisce le Porte di Santo Antonino e Macqueda (70). Per tal modo il Quadrivio, o vogliasi in riguardo alla difesa od all'attacco, presentava la stessa ed immensa importanza, come quello che domina le comunicazioni dell'intiera città. E Garibaldi al primo colpo d'occhio comprese che una volta signore d'una posizione si eccellente e centrale avrebbe avuto in sua mano i destini della capitale e dell'Isola.

XLVII.— Battuti e respinti da tutte le parti i Napoletani si ritirarono a destra ed a sinistra in disordine. Gli ufficiali adoperavano indarno le esortazioni e le minaccie per cacciarli in avanti: la paura parlava più forte di tutto. Ben tosto don Lanza s'avvide d'aver a fare con un avversario invincibile: e poiché tutti gli sforzi riescirono infruttuosi ad arrestare la marcia dei Garibaldini ricorse all'estremo spediente di bombardare la città che avrebbe dovuto proteggere. Il bombardamento incominciava alle ore otto del mattino e continuava per tutto il giorno sino a notte avanzata. Poco stante Palermo fu involta in un globo di fiamme: le bombe dei Regii cagionarono incredibili guasti senza che la causa borbonica ne ottenesse il più lieve vantaggio.

XLVIII.— Sotto la pioggia dei proiettili i volontari avanzarono audaci ed intrepidi, combattendo e fugando ogni dove l'atterrito nemico. Il palazzo dell'Arcivescovado fu a viva forza espugnato e dopo non breve contesa eziandio fu preso il Quadrivio. A mezzogiorno Garibaldi pose il suo Quartiere generale al Palazzo Pretorio, e la bandiera italiana sventolò sulla torre della cattedrale e sugl'interni edificii.

XLIX.— Per tal modo la città si divideva in tre parti. A settentrione ed a mezzogiorno, dal castello sul mare e dal Palazzo Reale di Porta Nuova i Borboniani continuavano una lotta disperata e cruenta. I Garibaldini per contro occupavano il centro e quel raggio che si stende dalla Piazza Vigliena alle porte Antoniana e di Termini. L'esercito regio, in numerosi distaccamenti distribuito, occupava la parte occidentale della città e manteneva le sue comunicazioni girando la porta Macqueda. Questo vasto e popoloso quartiere, già formante l'antica Palermo, poteva diventare la base delle operazioni borboniche e seriamente compromettere la sicurezza dell'armata italiana. L’irregolarità e la tortuosità de' suoi vicoli offriva una maravigliosa facilità di difesa: le case che li fiancheggiavano mirabilmente prestavansi a favorire chi n'era il padrone. Né tali circostanze sfuggivano all'oculata vigilanza del generale: incontanente dai nostri si presero le opportune misure per insignorirsi della vasta contrada Macqueda, snidandovi i Regii, prima che questi potessero fortificarvisi, e rompendone in tal guisa le loro comunicazioni e la linea. Era intenzione di Garibaldi di frapporsi colle vittoriose sue schiere tra le due grandi divisioni nemiche, e di batterle separatamente e sconfiggerle quando e nel modo che le circostanze lo avrebbero meglio consigliato. I Garibaldini progredivano sempre con moto lento ed uniforme verso l'occaso: e, malgrado la pii viva resistenza dei Napoletani continuamente guadagnando terreno, pervenivano ad occupare le posizioni che il Generale aveva loro indicate. Per tale maniera, e dopo quindici ore d'un fuoco incessante i volontari, padroni delle porte Termini, Antoniana e Macqueda e dell'importantissimo Quadrivio centrale, dominavano da levante a ponente l'intiera Palermo, ed il disegno del generale Garibaldi otteneva la sua piena esecuzione.

L.— Sul far della notte la città presentava uno strano ed imponente spettacolo. Era sereno il cielo ed i venti all'intorno tacevano: ma quanto la natura pareva più tranquilla e più quieta, altrettanto s'affannavano gli uomini a funestarne il giulivo sembiante ed a coprirla di strage e rovine. Né col giorno terminava la furia che trasse due eserciti fratelli a sgozzarsi reciprocamente ed a distruggersi. Il bombardamento dal Castello e dai legni del Porto aveva, col cader delle tenebre, ripreso vigore: miriadi di proiettili solcavano l'aria guizzando ed avviluppando in un torrente di luce spaventosa e sinistra la vasta città di Palermo. Lo scoppio continuato delle bombe, il tuonar dei cannoni ed il fragore della moschetteria, dei tamburi e degli altri militari istrumenti, formavano uno strano concerto, un curioso e spaventevole unisono. La terra pareva tremare sotto i piedi dei combattenti i colli all'intorno muggivano, e la città presentava in quegl'istanti supremi l'immagine di un cataclisma universale e terribile, l'aspetto della distruzione e del caos.

LI.— Cosi passava il giorno delle Pentecoste. Ma Garibaldi, sebbene coll'animo intieramente rivolto alle operazioni guerresche, non dimenticava la missione politica che s'era nell'Isola assunto. Bisognava anzi tutto sventare le soventi ripetute calunnie colle quali i generali borbonici cercato avevano deturpare la fama e gl'intendimenti dei volontari: calunnie che, sebbene non credute, potevano nullameno esercitare una sinistra influenza sugli animi deboli ed irresoluti di buona parte del popolo. Inoltre era mestieri instillare ne' petti quella possente fiducia che manca si spesso all'applicazione dei nuovi sistemi ed all'attuazione di idee politiche non per anco generalizzate e comuni. La necessità imponeva di mostrare la bandiera, il principio per cui combattevasi e che si dichiarasse apertamente quale era l'ordine di cose che si volea inaugurare sulle rovine del vecchio dominio borbonico. In conseguenza di ciò lo stesso giorno 27 maggio comparve un proclama di Garibaldi agli abitanti di Palermo, col quale si pose la prima base della politica dittatoriale e si chiamavano i Siciliani a stringersi intorno al trono di Vittorio Emanuele rappresentante l’idea dell'indipendenza e dell'unificazione italiana (71).

LII.— La notte successiva 2728 maggio passò in continui sussulti ed allarmi. Il presidio o la flotta continuavano sino ad ora assai tarda a rovesciare sulla perduta città una tempesta di bombe e di palle. Dall'altro canto le truppe napoletane appostate al Palazzo Reale ed a Porta Nuova bersagliavano senza posa la via di Toledo e le contrade adiacenti. I Garibaldini per contro rispondeano di rado alle provocazioni borboniche; eglino preferivano serbare a tempo migliore le scarse munizioni ed il coraggio: trincierati dietro le barricate o bivaccando nelle strade minacciosamente aspettavano il giorno vicino a ripigliare l'attacco.

LUI.— Non si tosto il primo albore sull'orizzonte comparve le artiglierie della flotta e dei forti riaprirono il fuoco con vigore crescente; e poco stante il combattimento si riaccese da ambe le parti micidiale e terribile. I volontari, inorgogliti de' loro trionfi, audacemente avanzavano verso il settentrione ed in pari tempo verso il meriggio, attaccando le caserme ed i forti ai due lati estremi della città. I Regii all'opposto, ancorché senza paragone superiori di numero, smagati e divisi, abbandonando ogni pensiero di vittoria rimanevano sulla stretta difesa. Appiattati dietro le fortificazioni che avevano erette durante la notte, né desideravano né potevano forse avventurarsi in un combattimento di piazza che già prevedeano fatale.

LIV. — In tali circostanze un nuovo avvenimento aveva luogo in Palermo. I Picciotti di La Masa che sperano il giorno precedente sbandati ai primi scoppi del fucile borbonico, ripreso coraggio,si avvicinarono la stessa mattina del 28 alla città dove penetrarono agevolmente e raggiunsero i loro commilitoni. Erano due mila insorti che venivano a rinfrescare una battaglia per metà guadagnata. Il concorso di queste forze, oltreché per sé stesso importante, apportava un altro, non men significante, vantaggio ai volontari. Fino a quel punto i cittadini di Palermo avevano tenuto un contegno tutt'altro che rivoluzionario ed italiano, un contegno assolutamente neutrale ed inerte, sia che diffidassero dell'esito, sia che temessero esporre alle tremende rappresaglie borboniche le famiglie loro e sé stessi. Ma dall'istante che i Picciotti entrarono in città le cose cangiaron d'aspetto. Come i palermitani udirono risuonare l'accento siciliano nelle loro contrade, smesso ogni dubbio e timore, spalancarono le finestre e le porte delle abitazioni precipitandosi fra le braccia degli armati fratelli. Da quel punto non più freddezza non più esitazione: l'esplosione dell'entusiasmo cittadino fu siffattamente generale ed istantanea che in un lampo percorse ed invase la capitale. Non solo gli adulti e la gioventù generosa, ma fino i vecchi e le donne parvero trascinati nel turbine della rivoluzione irrompente.

LV.— Approfittando il Generale di quello slancio di patrio entusiasmo diede le opportune disposizioni pel tracciamento di un sistema di barricate che valesse in ogni caso a proteggere l'interno della città da qualunque irruzione nemica. La moltitudine, come se lo spirito fosse in lei rinnovato, mise mano ai lavori con una alacrità veramente ammirabile. Non pareva più quella Palermo che i volontari all'entrare avevano trovata cupa, silenziosa, atterrita: dopo ventiquattr'ore di combattimento, dopo infiniti danni sofferti, era nella folla rinato il fervor della zuffa, la confidenza nelle patrie sorti e con essa la speranza di prosperi eventi. Da quell'istante l'opera della rivoluzione poteva dirsi consolidata: Garibaldi che fino allora aveva dovuto pensare a combattere, da quel punto trovavasi in situazione di ritenere la battaglia siccome già vinta.

LV1.— Uomini, donne, vecchi e fanciulli s'affaticavano con zelo mirabile alla erezione delle barricate, di cui né più belle né più solide, a detta degli stessi Garibaldini, mai non furono viste. I sontuosi palazzi del ricco siccome le meschine abitazioni del povero fornivano i materiali necessari: tutti mettevano a disposizione del genio militare garibaldino quanto possedevano di attrezzi e di mobili. I carri, le vetture ed i cocchi di gala venivano spinti dagli atrii sulla pubblica strada: le botti, le balle di mercanzie e perfino le scranne ed i banchi delle botteghe e dei fondachi si adoperavano nel patriottico intento. Dalle finestre gettavansi letti e materassi e mobili di gran pregio e valore ed i tappeti ben anco i più costosi e magnifici. Il selciato delle strade smosso a furia di mani, porgeva un'ampia miniera di materiale atto ad assodare le barricate ed a munirle dei voluti terrapieni. In poco d'ora le contrade e le piazze trovavansi ingombre siffattamente e fortificate che l'esercito il più numeroso ed agguerrito male avrebbe voluto penetrarvi senza esporsi a gravissime perdite e forse anche a più serii disastri. La zona occupata dai Garibaldini e dal popolo diveniva in tal guisa una specie di campo trincierato, una vera fortezza difesa e munitissima.

LVII.— Frattanto il cannone tuonava orribilmente e la battaglia ferveva su tutta la linea. 1 volontari potevano dirsi involti in un'atmosfera di fuoco, poiché combattevano al medesimo tempo di fronte, dai lati e da tergo. Il Generale mirava a respingere il nemico nei forti marittimi e contemporaneamente a rovesciarlo contro le mura e le porte meridionali della città. Ciò nulla ostante le caserme, il Palazzo delle Finanze ed il Comando di Piazza, se furono furiosamente assaliti, vennero pur anco validamente difesi. Il frastuono, il fragore era immenso: la polvere delle rovine ed il fuoco degl'incendii cagionali dalle bombe impedivano la vista e ravvolgevano la capitale in una nebbia atra e densissima, in una confusione terribile: pareva giunto per la infelice città l'istante della sua distruzione finale. Eppure non udivasi né un lamento né un gemito, né si scorgeva un sol gesto che accennasse a paura ed a rimpianto. Intieri edificii rovinavano sotto il grandinare delle bombe e sotterrando sotto un monte di macerie gl'infelici abitatori, altri avvampavano minacciando incendiare l'intiera città. In quel frangente cittadini, Picciotti e volontari s'adoperavano di conserva ad impedire od a circoscrivere i danni del bombardamento, a soccorrere i feriti, ad avventarsi sulle file dei Regii. Era una gara sublime di eroismo e prodezza di cui trovasi di rado l'esempio nella storia dei popoli.

LVIII.— Il combattimento incominciato alla punta del giorno durava sino a notte assai tarda, né la lotta era del tutto finita. I vantaggi materiali dai Garibaldini ottenuti il 28, quando paragonali con quelli acquistali la precedente giornata, appaiono insignificanti o ben piccoli. I Regii tenevano tuttavia le fortezze, gran parte del recinto, le caserme, i palazzi e le porte principali della città. Ma dall'altro canto il risultato morale fu decisivo ed immenso: la capitale dell'Isola aveva riconosciuto il nuovo ordine di cose, aveva formatmente aderito alla politica italiana ed era divenuta la sede del governo dittatoriale. Il Palazzo del comune, il centro dell'autorità e della legge, era nelle mani del popolo: il gran suggello Municipale sanzionava e santificava gli atti della nuova amministrazione. I volontari più non potevano considerarsi come una banda senza legge né patria poiché di diritto e di fatto erano divenuti i soldati del paese liberato dal loro valore.

La posizione falsa ed estralegale, da Garibaldi fino a quel giorno tenuta in Sicilia, diventava quella del maresciallo Lanza e del governo borbonico. Inoltre la gran massa della popolazione. insorgendo congiungevasi all'armata italiana e portava sulla bilancia tutto il peso del voto generale del paese. In tali circostanze non era difficile prevedere qual esito avrebbe ottenuto la mortale tenzone che doveva bentosto decidersi nelle vie di Palermo.

LIX.— Un altro e non meno singolare vantaggio i Garibaldini in que' giorni ottenevano. L'esercito borbonico, ancorché disanimato e perplesso, sino a quel punto serbavasi compatto ed intiero; ma dai sintomi che apparivano già nelle file non si poteva sperare che tale dovesse serbarsi più a lungo. I generali napoletani a forza di calunnie e minacele riuscirono per un tempo a scongiurare le diserzioni e le fughe dei loro soldati. Sin dal principiar della guerra correa tra le truppe napoletane la voce che i volontari ed il popolo irremissibilmente fucilassero quanti disertori e fuggiaschi cadevano in loro potere. Si spargevano i più assurdi racconti di supposte atrocità e barbarie commesse dalle popolazioni sui prigionieri, esagerando con arte infernale lo sdegno del pubblico e dipingendo gli eventi co' più neri ed odiosi colori. I Regii, ancorché non alieni dall'abbandonare la bandiera reale, erano trattenuti dal timore delle rappresaglie altamente esagerate e che eglino sapevano inoltre avere ben meritate co' loro eccessi vandalici. Cosicché, mentre da principio l'armata napoletana poteva dirsi unicamente vincolata dalla sete di saccheggio e di sangue, ultimamente appariva tenuta insieme dalla sola influenza d'un cieco e salutare terrore. La coscienza dei proprii misfatti, il ricordo dei massacri di Partinico e Carini e lo spavento delle popolari vendette costituivano oggimai la disciplina che tenevala unita.

LX.— Ma il regno della menzogna doveva finire e la verità tosto o tardi mostrarsi nella piena sua luce. Dopo i primi istanti apparve chiaro che i Garibaldini non erano quegli arrabbiati cannibali che avevasi voluto far credere: quel qualunque contatto che nasce fra due corpi nemici eziandio nel bollor della pugna aveva bastato a dissipare lo stolto romanzo delle crudeltà e delle carneficine che voleansi perpetrate dai nostri. Tutti oggimai conoscevano come i volontari e gl'insorti avessero mai sempre usato verso i prigionieri ed i feriti di una magnanimità che questi eran lungi dall'aver meritato. Particolarmente sapevasi essere stati i feriti l'oggetto speciale ed amorevole del municipio e del popolo: eglino erano stati raccolti e diligentemente curati e soccorsi come se, non campioni d'un governo abborrito, ma fossero stati compagni e fratelli; e ciò mentre le bombe napoletane non risparmiavan nemmeno gli edificii sanitarii sormontati da negra bandiera, asili sacri ed inviolabili dell'umanità sofferente che le nazioni civili rispettano eziandio nelle più stringenti necessità della guerra.

LXI.— Oltrecciò il proclama dittatoriale con cui Garibaldi chiamava i Borboniani a servire, piuttosto che il tiranno, la patria, malgrado lo studio della polizia militare del Lanza ad impedirne la circolazione, correa fra le mani di tutti. In esso proclama il Generale altamente dichiarava far guerra non ai Napoletani ma bensì a Francesco Borbone ch'egli chiamava nemico d'Italia, ed esortava le truppe ad abbondonare l'odiosa bandiera ed a congiungersi ai mille suoi prodi per compir di concerto la rigenerazione della patria. Quel proclama produsse il suo effetto: moltissimi tra i soldati del despota, vergognosi di quanto avevano operalo a vantaggio dell'odiato governo, non altro anelavano che tornare alle case loro o raggiungere l armata liberatrice. Il sentimento della libertà e dell'indipendenza nazionale, soffocato nei lori cuori da una disciplina feroce e dispotica, a poco a poco rinasceva in quelle anime rotte alle crudeltà ed ai vizii: le nobili qualità dell'umana natura ripigliavano il sopravento sulle idee che una pessima educazione aveva instillato nel cuor dei soldati.

LXII.— Per tal guisa, tolto il timore delle rappresaglie popolari che solo tenevala unita, e sollevata ai più nobili sentimenti di libertà e di patria, l'armata borbonica cadeva in piena dissoluzione. Inutile diveniva oggimai rimanere sotto un odioso vessillo quando l'abbandonarlo non presentava pericolo alcuno: folle pensiero quello parca di combattere per una causa cattiva quando invece con più gloria potevasi lottare pei sacri ed imperscrittibili diritti d'Italia. Inoltre i soldati doveano vergognarsi di servire sotto una bandiera contaminata di tanti massacri, dal sangue e dalle lagrime di milioni di vittime.

LXIII.— Cosi tutte l'arti e l'infernale politica dei condottieri borbonici cadevano a vuoto. Avevano eglino da principio, con lo sguinzagliare le feroci passioni dei militi, cercato di sollevare una barriera insormontabile tra l'armata ed il popolo. Fu per loro ordine, od almeno colla loro connivenza, che si perpetrarono le barbare esecuzioni di Carini, di Sferracavallo e della Favorita. Eglino avevano voluto suscitare fra popolo e truppa un odio irreconciliabile che valesse ad impedire ogni intendimento ed accordo. Più tardi. colle arti e colla stessa politica aveano cercato sollevare l'odio medesimo tra i volontari e le truppe. Ma svelate le loro menzogne, l'inganno ridondò intieramente a disonore ed a svantaggio di sé. Diffatti qual poteva essere nell'armata l'autorità ed il prestigio di uomini che non avevano saputo farsi, se non calunniando e mentendo, obbedire? Qual fiducia doveasi nutrire nella parola di chi sapevasi pronto a spacciare le falsità più grossolane e più stolte?

LXIV.— Dopo il mezzogiorno del 28 si manifestarono nell'armata regia i primi sintomi di defezione e sconforto. Intieri drappelli deposero le armi o si unirono ai volontari italiani: alcuni posti avanzati sbandaronsi al primo comparire dei nostri. Nella notte il timore d'una generale diserzione attrasse il pensiero dei capi, i quali studiavansi di sviare una disgrazia divenuta oggimai inevitabile. La scomparsa di pochi drappelli produsse, come sempre accade, uno sgomento universale e terribile: l'incertezza, quindi I? apprensione e da ultimo un panico irresistibile invase tutte le file. Invano i comandanti s'adoperavano a nascondere la trepidazione che dominavali e ad attenuare l'importanza delle loro perdite: i soldati sapeano pur troppo a che tenersi aullé affermazioni dei lor superiori: aveano eglino si spudoratamente mentito che più non poteano trovare credenza.

LXV.— Con tali auspicii comparve l'aurora di martedì 29 maggio. Il combattimento bentosto si accese, come il giorno precedente, su tutta la linea, ma più vivo ed incalzante dal lato dei nostri, più molle e più incerto dal lato dei Regii. Ma durante l'attacco le defezioni aumentavano in progressione geometrica: e tale fu la confusione che ingenerarono, che i condottieri borbonici si trovarono ben presto costretti ad abbandonare gran parte delle posizioni occupate affine di concentrare le forze e rendere in tal guisa ai soldati il fuggire men facile. Il palazzo delle finanze, per due giorni ostinatamente difeso fu cosi abbandonato, oltre le caserme ed i pubblici stabilimenti dai Regii fino a quel punto tenuti nell'interno della città.

LXVI.— Nello stesso tempo le bombe furiosamente piovevano: non era punto in Palermo che non avesse terribilmente sofferto e terribilmente ancor non soffrisse. Numerosi contavansi gli edificii già dati alle fiamme: molti non erano più che un ammasso di ruderi, moltissimi ancora avvampavano. Da una investigazione ulteriore fatta per ordine del governo dittatoriale risulta che non meno di duecento palazzi od abitazioni appartenenti a tutte le classi furono preda del fuoco o del tutto ruinati. il numero delle vittime che perirono pel solo fatto del bombardamento ammonta a qualche migliaio, senza tener calcolo dei combattenti sia volontari od isolani che presero parte alla pugna. I danni cagionati dall'incendio, sia negli edificii pubblici che privati, oltrepassò più milioni di lire. Né perciò parve sazia la rabbia del regio Commissario che pure avea dichiarato esser venuto nell'Isola a proteggere le proprietà e le vite degli abitanti. Da vero Borboniano aveva egli divisato di ridurre la superba capitale in un mucchio di rovine, prima che il più lieve sentimento di umanità penetrasse nel suo cuore di marmo.

LXVII.— Ma finalmente la vista di tali atrocità e disastri sollevò l'indignazione dei comandanti le navi straniere ancorate nel porto e del corpo consolare, già residente in Palermo ed in allora riparato nel forte. Il contr'ammiraglio britannico Mundy prese l'iniziativa, ed assecondato dai capitani dei legni americani, sardi e francesi, fece le più vive rimostranze all'ammiraglio napoletano perché si cessasse una inutile effusione di sangue fraterno. Parimenti i consoli esteri diressero una delle più energiche proteste al regio commissario Lanza perché ornai s'astenesse dal bombardare la città quando ogni speranza di sottometterla era di già svanita e perduta. Per queste ragioni, e per trovarsi, attesa la defezion dei soldati, inabilitato a resister più oltre, il maresciallo borbonico acconsenti ad un abboccamento col Generale italiano per metter fine ad una lotta altrettanto oggimai micidiale che inutile.

LXVIII.— Rimaneva da scegliere il luogo dove l'abboccamento medesimo potesse effettuarsi, senta sollevare contestazioni ed alterchi, e che fosse del pari accessibile ad entrambe le parti. Certamente l'apertura dei negoziati non poteva inaugurarsi al Castello né tampoco nella città ribellata: era a credersi che Garibaldi non avrebbe acconsentito di recarsi da Lanza, né questi di leggieri sarebbesi indotto a discendere al quartier generale dei nostri. Ma il contr'ammiraglio inglese tagliò corto alle quistioni e tolse ad un tratto tutte le difficoltà offerendo la sua nave l’Hannibal, come il luogo più neutrale, più sicuro e più atto, al convegno de' due generali. L'offerta fu da entrambi accettata: e Garibaldi vestito del suo glorioso uniforme si recò sull’Hannibal dove trovò gl'inviati borbonici che l'aveano colà preceduto.

LXIX.— Il colloquio avvenuto fra l'inviato napoletano ed il Generale nizzardo fu lungo e secreto, e tale poi sempre rimase. Esso ebbe luogo in presenza di Mundv nella camera stessa del contrammiraglio. A bordo soltanto notossi che il discorso era molto animato e già si previde che il tentativo per un accordo reciproco sarebbe fallito. Il risultato fu infatti quello che aspettare poteasi fra principii cosi discordanti ed opposti: ambe le parti lasciarono l’Hannibal senza riuscire ad intendersi. La cronaca narra però con una certa compiacenza che il generale Garibaldi a bordo fa accolto con tutto il rispetto dovuto all'eminente sua posizione, e che nella sua dimora sulla nave britannica fu fatto continuo segno alle ovazioni ed alle simpatie della ufficialità e della ciurma mentre per contro lo sgherro di Francesco Borbone non ebbe ad incontrare che sguardi agghiacciati ed un riservato, benché urbano, contegno, che visibilmente appariva procedere da un sentimento male dissimulato della ripulsione da lui in quel luogo ispirata. Cosi la coscienza delle nazioni civili si vendica del disonore che infligge all'umanità l'odiato governo di un despota.

LXX.— Frattanto Garibaldi ritornava al quartier generale nel Palazzo Pretorio dove i volontarii lo accolsero colle più entusiaste e più vive acclamazioni di giubilo. Colà pervenuto dispose che il popolo si raccogliesse sotto le finestre del palazzo medesimo affine che tutti dalla propria sua bocca potessero conoscere l'esito del colloquio e prendere quelle misure che la gravità del caso ispirava. In un batter d'occhio la piccola piazza e le contrade vicine furono gremite di leste, e Garibaldi comparve alla finestra rivestito dello stesso uniforme con cui s'era recato a bordo del legno britannico. Un silenzio sepolcrale regnava in quella addensata moltitudine: non si udiva respiro, né scorgevasi movimento veruno: tutti stavano ansiosamente attendendo ciò che l'amato condottiero stava loro per dire. — «Siciliani!» dìss'egli con voce potente e tale da esser compreso aino all'opposta estremità della piazza, io mi sono abboccato coll'inviato borbonico affine di allontanare da questa bella città gli orrori di una guerra fraterna. Ma fra le condizioni che il nemico propose ve n'ha una che offende i miei volontari, la volontà nazionale ed i sentimenti patriottici di questo buon popolo; e questa condizione io rigettai con isdegno. Il regio Commissario esige che Palermo ritorni alla dominazione borbonica: se questa condizione vi pare accettabile non avete che a dirlo; siete padroni dei vostri destini: io procurerò nette redazione del trattato assicurarvi tutti i vantaggi possibili. Ma se sdegnate risottomettervi al giogo abbominato, se preferite chiamarvi italiani, all'armi, e coraggio, o fratelli! I mille son là per difendervi, pronti del pari a vincere od a morire con voi!» (72).

LXXI.— Non egli ebbe si tosto' finito che un grido spontaneo, universale ed immenso, un evviva a Garibaldi e all'itolia proruppe da quella folla entusiasta e compatta. Quel grido, quegli evviva rimbombarono sino nei secreti penetrali del Castello ed annunziarono a Lanza che tutto era oggimai terminato. «Noi vogliamo resistere, noi vogliamo l’Italia, abbasso il Borbone!» Tale fu la solenne risposto del popolo: ed il proseguimento delle ostilità venne in tal guisa, con acclamazioni fragorose ed unanimi, sanzionato e deciso. Quello fu il vero ed il primo plebiscito che inaugurava a Palermo la sospirata unificazione d'Italia: e basta a dissipar le menzogne colle quali il governo di Napoli cercava in appresso persuadere l'Europa che l'insurrezione siciliana fosse, non il risultato delle ingenite convinzioni del popolo, ma opera unicamente di un partito avventuroso ed alla Sicilia straniero.

LXXII.— Queste cose avvenivano dalle dodici alle ore tre pomeridiane del 29. Con tutto ciò, sebbene la guerra già fosse decisa, una sospensione d'armi, tacitamente accettata da entrambe le parti, ebbe luogo pel restante di quella memoranda giornata. Stretto da tutte le parti ed atterrito dalle numerose diserzioni che si verificavano continuamente ne' suoi, senza fiducia ne' soldati quanto i soldati diffidavano di lui, incerto, titubante e smarrito, il Commissario napoletano era nell'assoluta impossibilità di riappiccare la zuffa. La dissoluzione delle truppe appariva manifestamente completa: i soldati si sentivan perduti né più sapevano che cosa pensare o risolvere. Sarebbero forse in massa fuggiti se le mura dei forti ed un resto di vergogna non li avessero rattenuti sotto la regia bandiera. In tali circostanze condurli all'assalto sarebbe stato quanto esporli ad una inevitabile rotta. Inoltre al generale borbonico restava alcun che a sperare dal tempo. Sino dall'istante che i Garibaldini comparvero sotto Palermo fu spedito a Bosco un espresso coll'ordine di accorrere a marcia forzata in difesa della minacciata città con tutte le truppe che pazzamente inseguivano nell'interno dell'Isola non altri che l'ombra fantastica del Generale Italiano. Erano oltre due giorni che l'ordine era stato spedito né l'arrivo di Bosco poteva a lungo tardare. Moltissimo Lanza contava sul concorso ch'egli ritener validissimo di quelle truppe fresche ed intiere, non per anco disanimate dagli esempi perniciosi della diserzione e della paura. Egli vedeva soltanto in quel corpo un' àncora alla propria salvezza; appunto come il disperato sovente s'aggrappa a qualunque più lieve sostegno sperando che basti a sottrarlo dà certa rovina.

LXXIII.— Né Garibaldi perdea la giornata in oziosa noncuranza. Ben egli sospettava che le truppe disperse ad inseguire i ¡volontari nell'Isola dovessero a tutt'uomo marciare alla riscossa di Palermo. Ondecché sollecitava gli apparecchi, per compire la vittoria de' suoi prima dell'arrivo di Bosco, del quale, più che di tutti gli altri, stava in grande apprensione. Tutto per lui dipendeva dal tempo: poiché, se l'armata di Corleone fosse giunta sul luogo mentre i Garibaldini impegnati trovavansi in una lotta disuguale contro il castello ed i forti, la situazione di Garibaldi poteva farsi assai critica. Era indispensabile quindi terminare l'incominciata battaglia al più presto, e porre Don Lanza nell'assoluta impossibilità di più nuocere, per potere in appresso con tutte le forze rivolgersi contro le schiere di Bosco le quali senza dubbio dovevano frettolosamente avanzarsi. Il Dittatore, a cui non ¡sfuggiva. considerazione veruna di guerra, approfittava di quelle brevi ore di tregua per accordare ai sol dati; un po' di riposo, reso oggimai necessario dopo tante fatiche, e per dare le disposizioni opportune ad attaccare il susseguente mattino le ultime posizioni dei Regii.

LXXIV.— Nel frattempo le autorità diplomatiche ed i capitani delle navi straniere non cessavano presso Garibaldi e presso il maresciallo ad insistere perché si venisse ad una transazione che fosse ad ambe le parti accettabile. Lanza sulle prime resistea duramente: ma poscia, allarmato dai progressi che le defezioni e lo scoramento faceva tra le file de' suoi e credendosi vicino ad irreparabile perdita, apparve più mite ed arrendevole. Sulla sera si giunse a fargli adottare le basi per una convenzione puramente militare che pareva dovere essere accetta eziandio al Generale italiano. Questi dal canto suo affrettava, con quella perizia delle cose di guerra che gli è abituale, gli apparecchi pel prossimo assalto, e già ripromette vasi diventare col nuovo sole unico possessore della combattuta città.

LXXV.— Alla punta del giorno i Garibaldini correvano alle armi e si disponevano in linea. Se non che mentre stavano per andare all'assalto un comunicato del corpo consolare invitava il Dittatore a sospendere le operazioni contro il castello fino a conoscere l'esito delle trattative intavolate per ¡stipulare un armistizio durevole. I volontari non volevano sentire di accordi: ma ben altri pensieri nella mente fremeano del lor Generale. Avea egli la notte precedente saputo che le truppe di Bosco a marcia forzata portavansi sopra Palermo: le sue previsioni sperano intieramente avverate. La tregua che gli si proponeva di concluder con Lanza a lui dava facoltà di assalirle isolatamente e respingerle senza punto temere il presidio che lasciavasi a tergo e che la convenzione firmata avrebbe condannato ad assoluta inazione. Né era a dubitare che il generale napoletano avrebbe osato rompere i patti, poiché i consoli esteri per la cui mediazione la tregua sarebbe stata firmata, dovevano considerarsi siccome mallevadori e guardiani della pubblica fede. Non potevasi credere che in caso veruno le autorità diplomatiche avrebbero mai permesso ai comandanti borbonici di rompere un trattato accettato e concluso sulla loro parola. Era dunque saggio consiglio accettare le fatte proposte, tanto più che assicurando con quest'atto il suo proprio e l'interesse comune, Garibaldi fingeva aderire per sola deferenza alle sollecitazioni delle autorità consolari.

LXXVI.— Una tregua di dodici ore fu così convenuta. Ma nel pomeriggio del 30 e nel mattino del 31 maggio gli amici della pace si adoperarono tanto che da entrambe le parti si convenne prolungarla a tre giorni di termine. Essa venne firmata alle ore dodici meridiane, e dovea terminare colle dodici meridiane del 3 successivo giugno. Tosto dopo un proclama dittatoriale affisso sui canti delle vie palermitane annunciava l'armistizio conchiuso, esponeva le ragioni che faceano dettato ed esortava i cittadini a conformar visi. Seguivano quindi gli articoli della convenzione medesima affinché nessuno potesse ingannarsi sul loro valore. Con quest’atto Garibaldi entrava in possesso del Regio Banco, ed otteneva la completa liberazione dell'intera città e dei prigionieri Mosto e Rivalsa (73).

LXXVII.— Cosi Garibaldi trattava col governa borbonico in termini uguali e come da potenza a potenza. Colla convenzione solennemente ratificata il 31 maggio il Commissario Don Lanza riconobbe Implicitamente e legittimò la dittatura garibaldiana Dell'Isola. Garibaldi occupava di fatto e di diritto la capitale della Sicilia, liberata del valore dei suoi e cedutagli dagli antichi dominatori. Egli più non era il filibustiere, il bandito che alla testa d'un drappello l'avventurieri aggiravasi per una terra non sua: egli posava ora legalmente il piede sopra un suolo che gli apparteneva pel diritto di conquista ed in virtù dei trattati. Egli stava in Palermo di fatto, ma vi rappresentava tuttavia l'ordine, la legge, i cardini principali della società e gli attributi del governo che l'avea abbandonata. Da quell'istante nessuno ebbe il diritto di chiedergli dove andasse e donde venisse: egli era il capo del governo popolare, la sola autorità di Palermo. I suoi titoli all'universale rispetto erano i medesimi titoli sui quali il potere sovrano fonda la sua autorità. I mille non erano oggimai i volontari partiti da Genova in traccia di un suolo sconosciuto, eglino divenivano, eziandio legalmente, i soldati dell'esercito di Sicilia.

LXXVIII.— Bosco e le truppe condotte da lui per le vaste montagne di Corleone sulle traccio di Garibaldi avvicinavansi intanto a Palermo in attitudine minacciosa ed ostile. Dal canto dei volontari le disposizioni eran date per assalirle alle finora e vietar loro l'entrata in città. Gli avamposti furono spinti fuor delle porte nell'agro palermitano coll'ordine di tenere avvisato il Generale di quanto accadesse nell'aperta campagna. Nel frattempo i Garibaldini ed il popolo s'adoperarono alacremente a riparar le rovine ed a spegnere i moltissimi incendi che le bombe napoletane avean cagionato. La vista di Palermo in quei giorni ispirava pietà ed orrore: numerosissimi edificio giacevano preda alle fiamme, altri intieramente demoliti ed infiniti mostravano segni visibili della barbarie dei Regii. Nessun punto della vasta capitale andò esente: tutti i quartieri, qual più, qual meno, soffersero. Le dense colonne di fumo che sorgevano tuttavia dalle crollanti rovine erano un monumento terribile lasciato alla memoria del popolo da un governo che stava già per sfasciarsi (74).

LXXIX. Finalmente il primo giugno, secondo giorno dell'armistizio, l'armata di Bosco comparve sotto le mura ed un combattimento rendevasi oggimai inevitabile. Fa tosto significato al generale nemico l'armistizio medesimo conchiuso e notificato dal suo superiore, il maresciallo Don Lanza, ed al quale doveva egli par conformarsi ed obbedire. Ma Bosco, credendosi forte abbastanza a tentare ciò che Lanza non aveva saputo compire, rifiutò, con iscuse mendicate e pretesti, di riconoscere la tregua stipulata e diede ordine ai suoi di apparecchiarsi alla lotta. I Garibaldini inaspriti lo caricarono colla solita furia ed il combattimento poco stante s'accese con nuovo vigore. Soprafatti per un momento dal numero i volontari si schierarono dietro le barricate e le mura: al convento dei Benedettini opposero una resistenza accanita a tutti gli sforzi dei Regii. Bosco aveva seco da otto a diecimila soldati; un numero abbastanza ragguardevole quando paragonato colla piccolezza del corpo garibaldiano. Con tutto ciò non ebbe egli fortuna maggiore di quella che s'ebbero i generali Landi e Lanza e di quella eziandio ch'egli stesso già aveva incontrate sulle alture di Parco e di Piana de' Greci.

LXXX.— Tosto dopo alcuni corpi napoletani trovando assai più comodo conformarsi alla tregua che battersi, ricisamente negarono di spingersi innanzi malgrado le sollecitazioni e le mimccie degli ufficiali e del comandante supremo. L. ottavo cacciatori, che Bosco aveva sempre condotto con sé e sul quale poteva maggiormente contare, non bastava a sostenere la lotta che già volgevasi a favore dei volontari italiani. Respinto in ogni punto perdette buon tratto di terreno e con esso ogni speranza ed ogni probabilità di vittoria. Di più la notte avvicinavasi ed il generale borbonico si vedeva seriamente minacciato dalla defezione generale de' suoi corpi qualora egli si fosse ostinalo a riprendere il giorno seguente l'attacco. E nè, quand'anche avesse potuto scongiurar tale pericolo, osava sperare la fortuna a sé favorevole. I Garibaldini gli aveano dato del loro valore prove cosi ripetute e si manifeste che sarebbe stata follia lusingarsi di romperli. Vinto da tali considerazioni e stretto dalla necessità, Bosco giudicò conveniente sottomettersi al destino e riconoscere la tregua firmata dal Lanza. I patti in questa stipulati egualmente si estesero alle truppe da lui comandate le quali alle condizioni medesime posero il loro accampamento nei giardini situati oltre le mura orientali della città, nella campagna suburbana. Da quell'istante il Generale italiano, liberato dal peso della guerra, potè rivolgere la mente al riordinamento interno dell'isola (75).

LXXXI.— Quattro giorni passarono senza che verun nuovo accidente sopraggiungesse a turbare la tranquilla uniformità degli eventi. Napoletani, volontari e Picciotti del pari adempivano le condizioni del trattato con buona fede e disciplina ammirabile. L'armistizio pareva doversi prolungare al di là del termine fisso, poiché né l'una né l'altra parte mostrava troppa fretta a riprendere l'armi. Garibaldi,assorto com'era nelle grandi occupazioni di riordinamento del paese, punto non bramava interrompere i suoi lavori per riassumere una guerra che il nemico parea declinare. Lanza che vedeva le sue schiere giornalmente indebolirsi per numerose diserzioni non poteva pensare ad una lotta che senza dubbio non avrebbe riuscito che a peggiorare le sue condizioni. Cosi due principii contrarii operavano nel medesimo senso: i due antagonisti, mossi da opposte ragioni, combinavano in un solo pensiero, quello di mantenere la tregua conchiusa al di là del suo termine.

LXXXII.— L'armistizio doveva spirare col terzo giorno di giugno. Ma come all'articolo primo della convenzione medesima era stato stipulato che, dopo spirato il tempo, a ripigliare le ostilità si dovesse attendere che il generale in capo spedisse un ufficiale a stabilire di comune consenso il ritorno alle armi, cosi Garibaldi, il cui interesse consigliavalo a prolungare uno stato di cose oltremodo a sé favorevole, non nutriva desiderio veruno di prendere l'iniziativa delle armi. E Lanza, non osando muoversi, aspettava egli pure in silenzio, cosicché la tregua fu per l'assenso d'entrambi tacitamente prolungata a tempo indefinito.

LXXXIII.— L'armistizio, in qualunque maniera e per qualunque ragione prolungato esso fosse, non avrebbe che avvantaggiato grandemente le condizioni dei nostri; e Garibaldi era tale che ben sapeva trarne partito. Prima di tutto egli poteva sperare dal tempo. Le sue forze si ri moltiplicavano giornalmente col concorso della gioventù generosa dell'Isola: egli ordinava l'amministrazione, ed assicurava ai militi lo stipendio che in ogni corpo regolato a disciplina militare diviene indispensabile. Fino a quel punto i volontari non avevano avuto che la paga di due o tutto al più di tre giorni. E non fu se non dopo conchiusa la tregua, ed allorquando egli prese possesso del Regio Banco, che potè avere i danari occorrenti al mantenimento della piccola annata.

LXXXIV.— Per contro la situazione del Lanaa facevasi ogni giorno peggiore. Le file dell'esercito ognor più assottigliavansi e per le diserzioni e per le malattie che i soldati aveano contratto nelle lunghe vigilie di una guerra durata. per circa due mesi. La esistenza d'un esercito in una città sollevata è sempre spaventosa ed orribile: avvezzo a combattere in campo contro uomini rivestiti d’un uniforme simile al suo, il soldato trovasi come fuori del suo centro d'azione quando egli deve lottare con altri uomini guidati da altri principii. Il più valoroso sul campo di guerra diviene sovente assai meno che femmina tra le barricate difese da un popolo insorto. Il soldato non conosce nemici legali se non in coloro che rivestono militare uniforme e sono animati da uno spirito identico al suo: ed è per esso un avversario invisibile, insolito, e quindi più assai pericoloso, quello che lo assale dalle finestre e dai tetti delle abitazioni e dagli angoli delle vie e delle piazze. Il coraggio stesso, irregolare ed ebro, del popolo, produce il più terribile effetto sulle file compatte di un esercito ordinato ed istrutto. Non la cosa soltanto, ma l'aspetto della cosa, quanto più nuovo altrettanto più strano, è quello che spesso determina le più vive sensazioni dell'anima umana. Fn un combattimento di barricate un esercito regolare rimane sovente disordinato come dopo la più completa disfatta ricevuta in campagna.

LXXXV.— Ed altre e non men gravi circostanze concorrono a rendere tal situazione anormale e difficile. Per quanto i magazzini sieno ben provveduti di viveri il soldato ha mestieri acquistare giornalmente buona parte di ciò che gli è indispensabile: né in caso di rivolta egli può sopperire altrimenti ai più pressanti bisogni. Ma in tal caso, anche potendo, s'indurrebbe a farlo egli forse? Non temerebbe incontrare in ogni luogo, in ogni casa, l'inganno, il tradimento e la morte? Di cui potrebbe fidarsi? In qual luogo sarebbe securo? Non si videro soldati che nel mezzo d'una moltitudine insorta preferirono morire di sete anzi che immerger le labbra nell'acque d'un fonte il quale davanti sgorgavagli, credendolo avvelenato? Il secreto terrore di pericoli imaginarii e reali del pari contribuisce a disordinare un esercito alle mani col popolo. Come impedir i misteriosi sospetti, gli allarmi continuati e l'irresistibile panico che invade mai sempre le truppe quando combattute con tutti gli orrori della guerra e nelle supreme, necessità della vita?

LXXXVI.— Scrissero alcuni che, appena segnato il primo armistizio, un ufficiale di Stato Maggiore venne spedito da Palermo a Napoli, ad annunziare il già fatto alla Corte. Aggiungesi che Francesco II lo accolse freddamente, rifiutò ratificare il trattato ed in un accesso di collera ordinò al Commissario di seppellirsi sotto le ruine della città anzi che cederla al general Garibaldi. Vuoisi pure che all'arrivo di tale messaggio un inviato novello sia stato mandato al Borbone coll'ordine di fargli comprendere come inutile oggimai diveniva ogni ulterior resistenza: e che questa volta Francesco II, animato da migliori consigli, lasciasse all'arbitrio de' suoi luogotenenti la facoltà di regolarsi nel modo che loro paresse più conveniente. Da ultimo si asserisce che il Re abbia richiesto se la sua presenza in Sicilia potesse essere utile o necessaria: e che la risposta negativa di Lanza gli trasse dal capo ogni fumo di valore e di gloria (76).

LXXXVII.— La mattina 6 giugno il colonnello Orsini, passando traverso l’accampamento di Bosco, entrava trionfante a Palermo. Non sarà discaro ai lettori trovare in queste pagine la descrizione succinta dei fatti e delle vicende del bravo soldato. Egli veniva dopo dodici giorni di marcia, eseguita traverso le più scabrose montagne, in paese nemico ed esposto continuamente all'attacco dei Regii. I suoi militi, che avevano potentemente contribuito alla vittoria dei volontari, con essi giungevano a dividere gli onori e la gloria del trionfo (77).

LXXXVIII.— Orsini, come altrove abbiamo narrato, distaccavasi dal corpo di spedizione nel pomeriggio del 24 maggio precedente. Egli aveva seco quaranta carriaggi, cinque pezzi di cannone, non più che cinquanta artiglieri ed una quarantina d'uomini, ammalati ed addetti al servizio delle sussistenze e degli equipaggi: le armi consistevano, oltre i cannoni, in soli dodici fucili rugginosi e quasi inservibili. Alcune squadre di Picciotti, in tutto sommanti a qualche centinaio di uomini male ordinati ed armati, compivano le file della divisione incaricata a frenare le mosse di oltre otto mila Napoletani.

LXXXIX— La colonna comandata da Bosco consisteva in alcuni battaglioni di cacciatori (fra i quali l'ottavo), di carabinieri e sopra tutto di svizzeri: il resto ed il maggior numero apparteneva ai reggimenti indigeni napoletani. Era inoltre munita di numerosa artiglieria e di un forte squadrone di cavalleggeri, cui il comandante silusingava slanciare alla dispersione completa dei vinti.

XC.— Orsini pernottò alle Ficuzze, folta e selvaggia boscaglia che stendesi ai due lati del grande stradale di Corleone. La mancanza di bestie da tiro e da soma gli rese impossibile per quella notte il proseguire il viaggio. All’alba del 25 i volontari partirono e senza più oltre fermarsi giunsero a Corleone alle ore tre pomeridiane. Quivi la popolazione gli accolse con entusiastiche grida di viva all'Italia.

XCI.— Il giorno 26 passava affatto tranquillo. Il generale napoletano che lentamente avanzavasi, non trovando più traccia di corpi avversarti, credere Garibaldi già vinto ed in piena fuga per le montagne del centro. Egli spedi quindi a Palermo un espresso annunziando esser già terminata la guerra e le bande Garibaldiane del tutto sgominate e disperse. Quel dispaccio venne due giorni dopo pubblicato a Messina (78) e quindi a Napoli: e pare che ad esso debba riferirsi la diffusa notizia della perdita di Garibaldi, notizia che troviamo registrata nei giornali italiani e stranieri e nei carteggi diplomatici di Londra e Parigi.

XCII. Alle ore dieci mattutine del successivo 27, nel punto medesimo che Garibaldi marciava vincitore per le vie di Palermo, sopraggiunse a Corleone la nuova che l'armata borbonica era soltanto a qualche ora di marcia. A tale notizia un irresistibile panico si sparse fra quegli abitanti: ne successe una emigrazione spaventosa e la città in poco dora letteralmente rimase deserta. Orsini ciò nulla meno non si perdette di spirito: dispose incontanente i Picciotti sul davanti della città e prese egli stesso posizione sopra una magnifica altura che domina, serpeggiando fra le montagne, lo stradale di Chiusa, pel quale intendeva eseguire la sua ritirata, giacché ogni possibilità di portarsi a Marineo era affatto perduta. Ma come la posizione alla destra poteva essere facilmente girata, egli fece collocare due pezzi d'artiglieriasopra un picco inaccessibile situato dalla parte opposta della sua piccola linea. Si dovettero portare colà i due cannoni a forza di braccia: tuttavia, malgrado le difficoltà del luogo prima dek l'arrivo dei Napoletani tutto si trovava già in pronto per bene riceverli.

XCIII.— Non era intenzione di Orsini arrischiare una decisiva battaglia, il che gli sarebbe stato d'altronde impossibile senza esporsi a certa rovina. Era uno stratagemma abilmente impiegalo a ritardare il nemico e per farsi inseguire più oltre. Aveva egli quindi dato le disposizioni perché i suoi militi, dopo impegnata la zuffa, sapessero a tempo ritirarsi per la strada indicata e prima che il nemico riuscisse ad avvilupparli colla sovrabbondanza del numero.

XCIV.— I carabinieri ed i cacciatori napoletani avanzavansi intanto spiegati in catena ed incominciavan l'attacco: il resto delle truppe seguivali in colonne serrate. Assaliti vigorosamente i Picciotti precipitosamente sulla destra piegarono e fuggirono quindi atterriti in città. L1 ufficiale comandante i due pezzi di artiglieria situati all'estrema destra dei nostri bentosto comprese che la sua posizione poteva essere girata in men di mezz'ora: in conseguenza spedi prontamente ad avvertire il colonnello della impossibilità di sostenervisi a lungo ed aperse il fuoco sui Regii. Poco dopo il colonnello incominciò a tirare a mitraglia sulle dense colonne borboniche già vicine ad entrare in Corleone lasciata dai Picciotti scoperta. Se non che fatte appena da circa quindici scariche, le quali apportarono al nemico incredibili danni, Orsini si dispose ad effettuare la sua ritirata. Al tempo stesso la destra, composta di soli sette artiglieri, quasi avviluppata da una triplice linea di cacciatori borbonici, abbandonò la sua posizione sforzandosi a raggiungere il resto del corpo.

XCV.— Quel nucleo di prodi, molestato da tergo e sui fianchi, tuttavia s'ostinava a trascinare con sé i due cannoni. Se non che a metà del cammino il carro dell'uno si ruppe (era quello acquistato a Calatafimi) per cui si dovette abbandonarlo al nemico. L'altro, scivolando sul dorso del monte, e più non valendo gli artiglieri, già rifiniti, a sorreggerlo, precipitò in un profondo burrone. Contemporaneamente un drappello di cavalleggieri napoletani comparve sullo stradale pochi minuti prima tenuto da Orsini: a quella vista i sette artiglieri e l'ufficiale, posposto ogn'altro pensiero, precipitosamente fuggirono a traverso dei campi. Eglino, solo dopo due ore di corsa, pervennero a raggiungere, anelanti e disfatti, il loro corpo.

XCVI.— Bosco, temendo di qualche imboscata differiva di penetrare in città: se non che accortosi ch'essa era già sgombra, ripreso coraggio, vi entrò alle tre pomeridiane. Quivi per la terza o la quarta volta egli scrisse al quarlier generale di avere sconfitto e disperso le bande garibaldiane. Quel dispaccio, portante la data del 27, venne. intercettato dai volontari e recato a Garibaldi, che lettone il contenuto lo fece sprezzantemente rimettere nelle mani di Lanza a cui era diretto (79).

XCVII.— il 28, mentre appunto disponevasi a proseguire la marcia nel centro dell'Isola, gli pervenne l'annunzio che Garibaldi era entrato in Palermo. Contemporaneamente ricevette l’ordine di portarsi colla massima sollecitudine a difendere l'oppugnata città. Se Bosco ne rimase maravigliato ed attonito ognuno può immaginarlo: egli vedevasi oppresso, schernito, annientato da un nemico che avea successivamente creduto sconfitto a Monreale, a Parco, a Piana dei Greci ed a Corleone. Aveavi in quei fatti un non so che di misterioso e fantastico che superava la saviezza ed egualmente le previsioni degli uomini. Garibaldi era entrato in Palermo? Ma s'egli, Bosco, Pareva veduto il giorno prima fuggire già rotto e battuto? Se aveva già spedito l'avviso a Palermo delle riportate vittorie? Non poteva essere una mistificazione? Ciò nullameno era l'ordine troppo assoluto perché Bosco ricusasse obbedire: egli riprese abbattuto e scorato la via di Palermo dove aveva sperato ritornare trionfante.

XCVIII.— Avrebbe il generale desiderato volare, non che ritornare, a Palermo. Ma lo scopo di quel movimento retrogrado, ancorché tenuto secreto, guari non tardò a divulgarsi. I soldati ne rimasero indignati e sorpresi; e lenti e meditabondi marciarono malgrado gli ordini e le sollecitazioni dei capi. Tra le file si mormorava altamente contro l'imperizia del generale che s'era tante volte lasciato cogliere all'amo. L'idea di un nemico, il quale tante volte disperso risorgeva più sempre potente, istillava negli animi un superstizioso terrore e contribuiva ad abbattere il vigor del soldato. E chi era questo Garibaldi che avevano si spesso battuto e che sempre dovevano battere? Non era egli fuggito nei monti dell'ovest, non ramingava egli allora per le montagne del sud? Come poteva trovarsi a Palermo? Bosco adunque ingannavali quando asseriva che Garibaldi era vinto? Oppure Garibaldi doveva essere un fattucchiero ed un mago poich'egli trovavasi al tempo stesso a Calatafimi, a Corleone ed a Palermo. Ad ogni modo era una guerra codesta interminabile che tante volte finita altrettante divampava più seria e terribile. Tali pensieri le menti dei soldati agitavano: il malcontento cresceva ed apparecchiava la piena dissoluzione del corpo.

XCIX.— Orsini frattanto proseguiva la sua ritirata. Al tramonto del sole, dopo faticosissima marcia. perveniva a Campo Fiorito, piccolo villaggio perduto in mezzo ai burroni formati dai monti Gemelli. Il paese appariva intieramente deserto: le finestre e le porte eran chiuse, ed i Garibaldini in passando soltanto scoprirono dietro le imposte pochi volti di persone sgomentate e tremanti che a sfilar li osservavano.

C.— Alle ore dieci circa di notte arrivarono a Chiusa e vi furono accolti e festeggiati col solito grido di viva l'Italia. Alla mattina del 28 si rimisero in marcia alla volta di Giuliana, ameno villaggio situato sulla sommità d'una montagna dirupata e scoscesa ed accessibile soltanto ai pedoni ed ai muli.

CI.— Il trasporto delle salmerie e dei cannoni divenne in quel punto un problema insolvibile. Le strade, o per dir meglio i viottoli erano si aspri ed angusti che i Garibaldini oggimai non bastavano a trascinare, come eran soliti a fare i carriaggi. Il municipio, non osando rifiutare, prometteva soccorsi d'uomini e muli, ma differiva, mendicando scuse e pretesti, a mandarli Que' poveri villani agivano certamente in tal modo non tanto per amore ai Borboni quanto per paura della loro vendetta. Eglino tremavano al pensiero di compromettersi accordando quel sussidio agli insorti.

CII.— Mentre volontari e Picciotti s'affaticavano a trascinare con sé i materiali si sparse la voce che i Regii salivano il monte. Incontanente s'intese da tutte le parti gridare: «la cavalleria! il nemico!» Fu un istante di confusione indicibile. Il colonnello ordinò d'inchiodare i cannoni, di abbruciare gli affusti e distruggere le provvigioni perché non cadessero in mano ai Borbonici: ed in seguito prese la via di Sambuca. L'ufficiale incaricato della esecuzione degli ordini salvava quasi tutte le munizioni, tranne una piccola quantità derubata dai villici, a' quali non poteva impedirlo avendo unicamente tre uomini disarmati di scorta.

CIII.— L'ufficiale, terminato il suo compito, si recò nel villaggio qualche ora prima di notte. Ivi era preceduta la certa notizia dell'entrata di Garibaldi in Palermo e del cangiamento che la pubblica cosa aveva in conseguenza subito. L'ufficiale venne impertanto festeggiato dagli abitanti colle più vive dimostrazioni di gioia, ed il municipio, mutando d'un tratto registro, stemperavasi in solenni e bellicose proteste di adesione ed attaccamento e profferiva ricuperare a sue spese i cannoni, i projettili e quanto salvare poteasi di ciò che era stato involato.

CIV.— Il colonnello bivaccava davanti a Sambuca, dove entrò la susseguente mattina. Siccome le notizie di Palermo erano giunte là pure, egli vi ebbe l'accoglienza più festosa e più splendida. Nel medesimo tempo si seppe che Bosco, cessando dall'inseguire i volontari, era già ritornato a Palermo. Orsini, avendo già compita la propria missione ed ottenuto l'intento, unicamente pensava a raggiungere il suo Generale. I volontari ripresero la via di Giuliana: e quivi rifatti gli affusti, rimontata l'artiglieria ed in tutta fretta ricuperato quanto più si potè delle munizioni ed attrezzi, discesero trionfanti la montagna che avevano salito fuggendo.

CV.— Ritornando a Corleone i volontari rifecero la strada percorsa. Eglino rividero Busacchrino, Chiusa e Campo Fiorito. A Corleone ricuperarono il pezzo abbandonato quattro giorni prima nel fondo d'un orrido abisso e che i Regii non avevano scorto. Poscia con lunga e faticosissima marcia per Marineo, Misilmeri e Villabate discesero nell'agro palermitano ed alle ore otto antimeridiane del 6 raggiunsero i loro compagni. Nella lunga sua peregrinazione Orsini perdette un sol uomo non già morto o ferito, ma lasciato indietro per ¿stanchezza e sfinimento di forze.

CVI.— Il giorno medesimo Lanza, vedendo Ogni resistenza impossibile, fatto di necessità virtù, firmava una convenzione col general Garibaldi stipulando le condizioni pel ritiro de' suoi. Quell’atto può considerarsi come la dedizione della città nelle mani del condottiero italiano. Da quel giorno Palermo poteva dirsi appartenere all'Italia (80).


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LIBRO VI

Trilli condirmi Ma Statlia.

I.— La storia siciliana, come l'altre, si perdei nella notte dei secoli. L'età favolosa ed eroica vi mostra il paese soggiogato ed invaso dai Sicani e dai Siculi, popoli di origine italica, che vi tennero lungo dominio e gli diedero il nome. Gli Elleni più tardi vi posero numerose e fiorenti colonie e vi diffusero la loro coltura, la religione e la lingua. Sotto l'influenza benefica della libertà e delle leggi la Sicilia, spogliatasi della natia ruvidezza, crebbe ad un punto invidiabile di prosperità, di potenza e di gloria. Le superbe rovine di Siracusa, Catania, Selinonte, Segesta ed Hyccara, le spaziose sue catacombe e le caverne scavate con immensa fatica nel seno dei monti attestano tuttavia la sua prisca opulenza e le arti ed il gusto de' suoi abitatori. La Sicilia nel suo grembo racchiude le ceneri di uomini illustri e celeberrimi in guerra, nelle scienze e nelle arti: e le rive dell'Eloro, dell'Asinaro, d'Aretusa e di Nepta echeggiano ancora dei canti di Pindaro e Sofocle.

II.— Caduta in appresso da una smodata licenza sotto il giogo dei proprii tiranni, la Sicilia divenne facile preda ai Cartaginesi ed ai Romani che contendevansi l'impero del mondo. Ridotta a provincia tuttavolta rimase opulente ed illustre, ché sotto l'azione delle leggi e dello spirito ordinatore di Roma riacquistò in civiltà e coltura quanto d'indipendenza essa aveva perduto. Divenuta stazione delle flotte latine nel Mediterraneo il suo commercio si estese, le sue relazioni allargaronsi: la maravigliosa fertilità del suolo le offriva innumerevoli prodotti ch'essa inviava a tutti i paesi del vastissimo impero. La Sicilia sopportò per più secoli la dominazione repubblicana e cesarea, e quando avvenne la finale divisione della monarchia tra i figliuoli del grande Teodosio essa passò all'impero d'Oriente al quale maggiormente vincolavanla le sue tradizioni, i costumi ed in gran parte la lingua. Dall'827 all'878 dell’era volgare fu invasa e percorsa dagli Arabi che sotto la condotta di Fimi od Eufemio (81) vi sbarcarono e s'insignorirono della massima parte delle città e delle coste ed in appresso dell'Isola intiera. Nel 1060 Ruggiero, duodecimo ed ultimo figlio di Tancredi d'Altavilla, sfidando su piccola barca i reali o favolosi pericoli di Scilla e Cariddi, sbarcò con soli sessanta Normanni sopra uno spiaggia nemica e respinse i Saraceni fino alle porte di Messina (82). Più tardi nella fortezza di Trani sostenne con trecento guerrieri un assedio di più mesi, ed affrontò e ripulse le forze dell'Isola intiera. Nel campo di Ceramio cinquantamila cavalieri e pedoni furono vinti e rovesciati da cento trentasei soldati cristiani (83), senza contare san Giorgio, il quale combatté a cavallo nelle primissime file (84). Dopo una lotta di trentanni, guerreggiata con vario successo, Ruggiero ottenne col titolo di Gran Conte, il dominio dell'Isola più vasta e fruttifera dei mari italiani; e la sua casa e il suo regno si estinse soltanto il 16 novembre 1189 colla morte di Guglielmo II od il buono, ultimo de' suoi discendenti legittimi.

III.— Enrico VI re di Germania, figlio di Federico Barbarossa ed imparentato per mezzo di sua moglie Costanza, zia di Guglielmo II, alla casa normanna, rivendicò per la forza dell'armi i suoi pretesi diritti alla corona dell'Isola. Dopo varie vicende se ne rese padrone nel 1194 e vi fondò. la dinastia degli Svevi. I re di Sicilia continuamente in lotta colla Corte di Roma si estinsero coll'ultimo Corrado o Corradino, decapitato sulla piazza di Napoli per ordine di Carlo d'Angiò. Né gli Angioini lungamente godettero il possesso dell'Isola: nel 1282 una terribile insurrezione, conosciuta col nome di Vespri siciliani, rovesciò il loro governo e gli rincacciò oltre il Faro. Da quel punto sino alla pace di Utrecht nei 1713 in cui, per opera precipuamente dell’Inghilterra, fu data a Vittorio Amedeo duca di Savoja, la Sicilia soggiacque al dominio degli Aragonesi, ed alla riunione della monarchia di Aragona e Castiglia, al governo spagnuolo. Tosto dopo ed in seguito alla guerra riaccesa in Europa dalla sfrenata ambizione del cardinale Alberoni ministro di Spagna, Vittorio Amedeo fu costretto a cedere l'Isola che venne data all'Imperator di Germania. Finalmente Don Carlo di Borbone essendosi insignorito della terra ferma e poco appresso dell’isola, si fece nel 1737 riconoscere Re di Sicilia e di Napoli.

IV.— Durante l'uragano rivoluzionario, ¡che dal 1789 al 1815 percorse e sconvolse l'Europa, la Sicilia offeriva alla dinastia dei Borboni un asilo inviolato e securo. La fiducia e l'amore dei bravi isolani fu in quell'epoca il solo sostegno rimasto alla vacillante monarchia dei quarto Ferdinando. L'antica rivalità dei Napoletani e dei Siculi ravvivò le vecchie gare del continente e dell'Isola; ed a queste più che al suo governo il Re fuggitivo dovette la conservazione della propria corona. Palermo divenne la capitale del Regno: e di là partirono continuamente le orde di briganti che funestarono e molestarono l'amministrazione di Giuseppe e Gioachino. Là si tramarono le sorde congiure che prepararono il ritorno all'antica tirannide (85), e là Carolina d'Austria stabiliva con Acton e con Nelson l'esterminio dei liberali di Napoli. Dopo nove anni d'esiglio i Borboni rientrarono in possesso dei loro domimi; e la sola ricompensa che i Siciliani ne ottennero fu quella di vedersi rapire le libertà di cui aveano per lo avanti goduto.

V.— Un regno cosi costituito e compatto non poteva mancare d'istituzioni e di leggi atte all'interno sviluppo delle forze morali e materiali del paese: ed infatti la Sicilia serbava inviolati gli antichi ordinamenti che tanto la resero ricca e fiorente. Era un tesoro di sapienza e di glorialasciatole dal genio patriottico de' suoi fondatori. sublime eredità di cui il genere umano a maggior dritto si vanta che non delle glorie derivanti da ingiuste o sanguinose conquiste. Tuttavia quelle istituzioni e quelle leggi erano, col crescere della civiltà, divenute antiquate e retrograde, né più bastavano ai bisogni del paese e del secolo. Le ultime reliquie del feudalismo rimanevano ancora sancite nei varii statuti che vi tenevano luogo di codice e richiamavano alla memoria del popolo la triste reminiscenza d'un'età dolorosa e tirannica. Perciò e per istigazione dell'Inghilterra, la propugnatrice secolare ed indefessa delle idee liberali, come anche per assicurarsi l'amore dei sudditi, Ferdinando IV assicurava ai fedeli Siciliani la Costituzione, la quale, dall'anno in cui prima comparve, si chiamò la Costituzione del 12.

VI.— Risalito al trono de' suoi maggiori, immemore delle giurate promesse, preso il pretesto del riordinamento del Regno, tolse alla Sicilia non solo la Costituzione che le aveva egli stesso accordata, ma le istituzioni, le libertà ed i diritti che aveva anteriormente per anni serbati. Le corone di Sicilia e di Napoli, che a tenore del patto fondamentale della monarchia dovevano essere divise, furono da quel punto riunite sulla medesima testa e col medesimo titolo e costituirono il Regno delle Due Sicilie. E quel Re, approfittando con infernale politica delle antiche rivalità sussistenti fra le popolazioni della Sicilia e di Napoli, le sottopose allo stesso giogo, e riuscì a servirsi dello une per soggiogare e comprimere lo spirito di libertà e di progresso delle altre. Come nel 1815 egli si giovò delle truppe siciliane ad invadere il regno di Napoli cosi nel 1820 e nel 1849 adoperò le forze napoletane a soffocare nel sangue l'insurrezione dell'Isola. Pur troppo e ben a lungo Je ostili rivalità dei popoli furono il sostegno più valido dei tiranni e dei despoti.

VII.— Nelle riacquistate provincia Ferdinando aveva trovato in vigore il codice napoleonico, monumento stupendo d'un'epoca per tanti titoli odiosa ed ingrata all’Italia. Bisognava richiamare gli antichi statuti provinciali, le patenti ed i decreti anteriori al 1800, vero ed informe caos di contraddizioni ed incongruenze legali che inceppavano l'ordinamento e l'amministrazione dello Stato, oppure conservare le leggi francesi. Ebbe Ferdinando il buon senso (86) di appigliarsi a quest'ultimo partito: ed in forza della riunione dei due Regni in un solo, il codice Napoleone fu pure promulgato nell'Isola. Ma quel corpo di leggi che, paragonato alla confusione legislativa anteriore, poteva chiamarsi buonissimo, perdeva nelle mani del governo borbonico il primitivo significato, l'antica sua forza. Altrettanto si dica dell'amministrazione: lo spirito della tirannide tutto falsava: a forza di emendamenti e cavilli le leggi liberali del Decennio divennero strumento d'iniquità e d'oppressione.

VIII.— Due furono le basi su cui Ferdinando fondava la speranza avvenire di sua casa e corona, la polizia e la corruzione. Dell'esercito poco o nulla curavasi: esso aveva fatto troppo misera prova di sé nelle guerre anteriori per affidargli esclusivamente la difesa del trono e del principe: e d'altronde il Borbone, come Carlo Felice ed il Duca di Modena, aveva un'armata nella valle del Po, accampata sulle pianure del Mincio e dell'Adige, pronta ad accorrere ovunque in sostegno della cadente tirannide. La Santa Alleanza lo assicurava alle spalle ed all'estero: e l'esercito napoletano, birrescamente educato, destinavasi unicamente a frenare e comprimere i moti de' popoli.

IX.— La polizia costituiva la prima autorità dello Stato, ed era quella che animava e dirigeva l'intiera macchina governativa. Senza una speciale raccomandazione della gendarmeria nessuno poteva aspirare a cariche o a posti; né tale raccomandazione otteneasi se non a prezzo di servilità e sovente coi mezzi più abbietti e codardi. La via migliore e più agevole agl'impieghi e agli onori era quella di esercitare con assiduità e con zelo il nobile mestiere di spia. Chi aveva svelato maggior numero di congiure, chi aveva rovinato più di cittadini e famiglie godeva di più ampio diritto ai favori ed alle grazie sovrane. Svelato il secreto, che dall'altrui rovina soltanto sperare poteasi un avanzamento o una carica, il regno fu invaso da un'orda innumerevole di confidenti che penetravano dappertutto, osservavano tutto e tutto notavano e tradivano ai birri. Lo spionaggio divenuto in tal guisa massima suprema di Stato, i confidenti inventavano, in mancanza di fatti reali, congiure e complotti imaginarii ed assurdi: e di là nuove proscrizioni e novelli terrori. La polizia, onnipotente e sfrenata, sui rapporti de' suoi esploratori inaspriva e traeva dal sangue e dalle lagrime nuovo impulso e vigore alle infernali sue arti. Migliaia e migliaia di vittime giacevano senza colpa o processo sepolte nei forti o nell'isole, bersaglio all'arbitrio ed alla efferata barbarie di Canosa ed Ajossa.

X.— I cittadini, assediati continuamente ed oppressi dalle innumerevoli spie, tremavano nell'aprire la bocca, e diffidavano gli uni degli altri come se avessero a paventare il contagio o la peste. Ogni muro, ogni angolo poteva occultare un esploratore, ogni volto poteva nascondere il cuor d'uno sgherro. Quindi rotte o ristrette le relazioni di famiglia a famiglia, sospetti e peritosi i rapporti da amico ad amico e sciolto ogni vincola di fede e d'amore sociale. A sottrarsi alle continue e feroci proscrizioni politiche necessità divenne lo assumere la maschera del gesuita e del reprobo, e la simulazione e la menzogna diventarono regole universali e comuni della pubblica vita. La religione, fattasi stromento alle tirannie della Corte, metteva il confessionale ed il pulpito a servigio dell'autorità poliziesca e giudiziaria ed i ministri del cielo non arrossivano a recitare in quella stolta e cruenta commedia la parte di Giuda. Scopo evidente del governo era quello di isolare i cittadini gli uni dagli altri, di schiacciare col terrore il loro coraggio e di abbrutirli all'infimo grado, e potere cosi più agevolmente domarli ed opprimerli.

XI.— La polizia e la curia, in una parola, il più sfrenato spionaggio governava, arbitro assoluto, le sorti delle famiglie e degli uomini. Ed a scongiurare il pericolo altra via non rimaneva che quella di procurarsi la protezione o il silenzio degli agenti misteriosi ed invisibili del potere sovrano. A procacciarsi il favor delle spie era d'uopo pagarlo in contanti: per ottenere l'appoggio dei gesuiti bisognava simulare sentimenti sanfedisti e retrogradi. Assistere alla messa, frequentare i confessionali e le chiese era l'unico mezzo per evitare il pericolo d'essere considerato liberale, terribilissima accusa da espiarsi soltanto col carcere, l'esilio e la morte. Come gli sgherri si avvidero che accusando e scusando potevasi cavare danaro ritornarono, con nuova energia e baldanza, alla carica: s'imprigionarono i cittadini più onesti ed agiati al solo oggetto di trarne più ampi riscatti. Era una imposta novella, e non la meno oppressiva che gravitava sopra le classi più elevate e più doviziose del Regno. In appresso, come le discolpe pagavansi a prezzo, si scopri che poteano pagarsi egualmente le accuse. Se un individuo bramava disfarsi di un nemico, o se per qualunque ragione voleva tórsi davanti un suo simile, non aveva che a ricorrere ai confidenti di polizia, i quali a prezzo d'oro erano pronti a compiacerlo mai sempre. Di là quel sistema di basse finzioni, quelle riiasciatezza d'ogni principio morale, quella supina ignoranza delle idee elementari del vero e del falso, in una parola quella corruzione degradante e profonda a cui fu condannato quel popolo di sua natura si umano, si intelligente e sensibile.

XII.— Tali erano, fra moltissime altre, le piaghe generali del Regno, e quelle dell’Isola apparivano ancora più gravi ed orribili. Abbandonata all'arbitrio dei luogotenenti reali, delle soldatesche e dei birri, la Sicilia gemeva sotto il peso di mali infiniti, intollerabili essa veniva trattata nel modo col quale, o presso a poco, il governo spagnuolo per tanti anni ha tiranneggiato le Americhe. Spogliata delle sue ricchezze, rovinata neI suoi più vitali interessi, calpestata, angariata ed oppressa, la Sicilia giaceva in uno stato di abbrutimento profondo, crescente, indicibile. Curvata sotto il doppio giogo religioso e politico, la terra dei Vespri perdette la purità degli antichi costumi, la sua floridezza e perfino le memorie del suo grandioso passato. Essa era una prova manifesta e vivente di quanto possa la tirannia esercitata ad arbitrio d'un uomo e di una Corte straniera.

XIII.— Le manifatture e le industrie vi si trovavano in uno stato veramente meschino e deplorabile o, per dir meglio, industrie e manifatture non v'erano. La diffidenza della Corte vietava la riunione del capitale, perocché in ogni associazione, eziandio la più innocua, il Re non ¡scorgeva che il nucleo di secreti convegni e cospirazioni politiche. L'isolamento dei cittadini rendeva impossibile la fondazione dei grandi opificii che richiedono immensi capitali ed il concorso di numerosissime braccia. Inoltre, le poche industrie che il governo, sebbene relutantemente, tollerava, si trovavano quasi tutte sul litorale di Napoli; poiché nella smania di favorire le popolazioni del continente si adoperavano tutti i mezzi, eziandio vessatorii ed ingiusti, ad. impedire Perezione di case industriali nell'Isola. E quando non si poteva ricusare la concessione di una manifattura od industria qualunque, si cercava schiacciarla sotto il peso dei balzelli o delle persecuzioni o colla concorrenza o con altri mezzi più sleali e più vili. E se la casa resisteva, se ad onta di tali e gravissimi ostacoli tuttavia prosperava, mai non mancavano le scuse e i pretesti a sospenderla o chiuderla. A Palermo un ricco cittadino fondava una fabbrica di carta e faceva assai bene i suoi affari, quando un ordine della polizia gl'intimò di cessar dai lavori e di licenziar gli operai. Una società aveva intrapreso un servizio di vapori tra risola e Napoli quando un perentorio decreto del governo ordinò lo scioglimento della società e la sospensione delle corse medesime (87). Tali fatti furono abbastanza' frequenti per isvogliare gli isolani da ogni tentativo consimile.

XIV.— Il sistema stradale nell'Isola è quale trovavasi un secolo addietro, od a parlare con maggior proprietà, non havvi sistema stradale. Quelle fra le strade che, o per la loro capacità o per essere maggiormente frequentate, meritano più dell'altre un tal nome, corrispondono appena alle nostre vie comunali, se non che appaiono più assai mal tenute e di accesso difficile: le altre non sono che miserabili sentieri o viottoli, atti soltanto al passaggio dei pedoni e dei muli, quali appunto s'incontrano ne' punti più scoscesi e remoti delle Alpi. Quindi fra le città dell'interno malagevoli i trasporti, nulle o scarse le comunicazioni ed i transiti costosi e lunghissimi. In tali condizioni il commercio giaceva in profondo abbandono, e con esso le relazioni da città a città, da villaggio a villaggio, eran rade, interrotte, di nessuna o di lieve importanza (88).

XV.— Nella generale stagnazione dei traffichi l'agricoltura non poteva gran fatto trovarsi in condizioni migliori. Il movente principale delle industrie è il guadagno che l'uomo ne spera e la possibilità di procacciarsi con esse gli agi e le comodità della vita. Invano si vorrebbe persuadere all'operaio la necessità del lavoro s'egli soltanto nutrisse il sospetto che dopo si troverebbe sì povero come prima di aver faticato. Il cambio si fa col superfluo: né si cerca aumentare i prodotti al di là del bisognevole per la propria consumazione, se non per avere col di più la facoltà di procurarsi gli oggetti o le merci che abbondano altrove. La bilancia commerciale è cosi stabilita che mentre ciascuno non dà che il superfluo si perviene a supplire alla deficienza di tutti. In Sicilia le spese e le difficoltà dei trasporti erano si elevate e si enormi che rendevano impossibile l'esportazione non solo, ma altresì la circolazione, dei prodotti tra i diversi punti dell'Isola. Era inutile accrescere le produzioni mentre le spese di transito ne assorbivano tutto il valore o per lo meno l'intiero guadagno. Né l'agricoltore poteva sforzarsi a trarre dai terreno più grano o più frutta di quello che gli diveniva strettamente necessario per la propria sussistenza, mentre ben sapea che il superfluo non gli doveva recare il più lieve vantaggio.

XVI.— Quell'Isola si ubertosa e si ricca, denominata ab antico, granaio di Roma, sotto il governo borbonico deperiva talmente da produrre a malappena quanto bastava al sostentamento degli scarsi abitanti. Immensi tratti giacciono tuttavia abbandonati ed incolti: dense boscaglie od ignudo brughiere coprono le pianure ed i colli che un tempo apparivano biondeggianti di messi o coronati di superbi vigneti. L'incuria, l'indolenza del popolo è tale che, se non fosse la maravigliosa e spontanea fertilità del terreno, il paese si troverebbe al di sotto delle nazioni meno favorite dalla natura e dal cielo, al di sotto forse della sterile Scozia. Chi ha visitato le vicinanze di Edimburgo, di Oxford, dell'Aia e di Berna e le paragoni ai dintorni di Castroggiovanni, Caltanisetta o Catania può solo farsi un'idea della differenza tra popoli guidati dalle leggi o dall’arbitrio, dalla libertà o dall'oppressione, da un governo civile o da un barbaro.

XVII.— Un altro, e non men grave, flagello dell'Isola erano le numerose associazioni di banditi e di ladri che ne infestavano le interne regioni. L’ineguaglianza del suolo e la difficoltà dei passaggi impediva ogni attiva e zelante ricerca a purgare il paese da tale malanno. I facinorosi percorrevan sicuri le catene montagnose del centro e talvolta estendevano la zona delle depredazioni loro al cuore delle sottoposte vallate e sino alle spiagge marittime. Assalitori riempivano le campagne di ladroneggi e di sangue e spargevano il terrore nelle stesse città sebbene guardate dalla gendarmeria e da regolari presidii: assaliti si ricoveravano nel seno dei monti dove tra le folte boscaglie, le caverne ed. i burroni trovavano securo ed impenetrabil recesso ed asilo. I gioghi selvaggi del Ghinea e dei Monti Gemelli e di Praga potevano considerarsi come altrettanti campi trincierati dove il brigandaggio regnava sovrano e donde sfidava la polizia e l'armata borbonica. In tutte le città dell'interno e lungo le linee dei colli e dei fiumi i banditi tenevano i loro avamposti ed i loro affigliati, di cui servivansi o nel depredare i cittadini o per deludere la vigilanza dei loro avversarli. Il viaggiatore straniero od indigeno che passava dall'uno all'altro villaggio correva continuo pericolo di vedersi assalito e spogliato.

XVIII.— La polizia, tutta intenta ad ¡scoprire congiure politiche ed a perseguitare i patriotti, poco o nulla curavasi delle proprietà e della vita de' 1 sudditi. Le innumerevoli spie, unicamente occupate a sorvegliare i cittadini tranquilli e pacifici, non avevano né tempo né voglia di esplorare le mosse ed i fini dei ladri. Oltracciò la sorveglianza esercitata su questi poteva esporre confidenti e gendarmi a serii pericoli da cui la prudenza sfuggiva, laddove, collo spiare e vessare i liberali, gendarmi e confidenti eran certi di ottenere, con minor rischio e fatica, vantaggi migliori. Armati sino ai denti i malfattori sapevano lottare e difendersi, né ogni qual volta una spia fosse in mano loro caduta, poteva sperare salvezza o mercede, mentre gli inermi patriotti, spogli d'ogni difesa, dovevano soffrire e tacere e tacevano ognora e soffrivano. Arrogi che la Corte non aveva né mostrava d'avere interesse. alla distruzione del brigandaggio civile, e che all'opposto non mancava mai di ricompensare ampiamente qualunque cattura o scoperta del liberale più quieto ed innocuo. La forza delle cose condannava i Borboni a violare ogni legge dell'onesto e del giusto: e la polizia loro, si terribile contro gl'inermi ed i deboli, era affatto impotente a tutelare la sicurezza e l'ordine pubblico.

XIX.— I ladri che molestavano all'intorno il paese avevano tutti, o quasi tutti, una direzione suprema ed un centro nella cosi detta Camorra o Gamorra, vasta associazione di malviventi e di reprobi, la cui origine risale più secoli addietro, all'epoca dei Re aragonesi e spagnuoli. Il modello di codesta istituzione sembra doversi riferire alla famosa Garduna, il flagello delle iberiche strade, e che tanta ebbe parte ne' misteriosi ed atroci delitti, a cui la Santa Inquisizione, ne' suoi mistici accessi di fervor religioso, abbandonavasi un tempo cosi di frequente (89). Essa trova pure una copia nella consorteria di ribaldi, che, sorta a quanto sembra fra le guerre religiose di Francia nel XVI secolo, si perpetuò con diverse denominazioni nelle caverne e nei boschi di Chartres e che venne finalmente, sotto il titolo di compagnia dei Chauffeurs (90) (Scaldatoci), verso il 1797, dalla polizia dittatoriale dispersa e distrutta. La stessa infernale istituzione fu nel nostro medesimo secolo per opera del governo pretesco ripristinata in Romagna e di là propagata per tutta l'Italia ed è dalla storia conosciuta col nome di setta della Santa Fede o società sanfedista (91). Cosi in tutti i tempi ed in tutti i luoghi l'abuso del potere religioso e politico produsse gli stessi inconvenienti ed effetti.

XX.— Afferma la storia, imparziale distributrice di lode e di biasimo, che la Garduna di Spagna fu per secoli complice delle inquisitoriali vendette e delle macchinazioni secrete dei frati, 0 che moltissimi famigliari del Santo Ufficio nel grembo di lei si trovavano inscritti. Allorquando la Santa Inquisizione voleva levarsi dai piedi un qualche personaggio la cui morte potesse, 0 per le sue ricchezze od aderenze, far troppo rumore, bravamente ed in secreto facevasi assassinar dai Garduni. Se trattavasi di porre le mani sopra una ricca matrona 0 zitella, le cui bellezze avessero risvegliata la santa concupiscenza dei padri, i Garduni venivano incaricati di eseguire il rapimento senza strepito e senza pericolo pei loro padroni, e tutti codesti delitti a contanti pagavansi e ad un prezzo di già convenuto. Inoltre, in compenso dei prestati servigi, il Santo Ufficio occultamente assumeva la protezione dell'abbominevole setta (92).

XXI.— Vuolsi, non osiamo asserirlo, che la polizia dei Borboni si servisse dell'opera dei Camorristi come l'Inquisizione non aveva arrossito adoperar la Garduña. Si afferma che i più atroci delitti onde il Regno delle Due Sicilie fu per lungo tempo il teatro, e che l'opinione pubblica attribuisce alle istigazioni della polizia, fossero dalla Camorra, per ordine di lei, perpetrati. La complicità dei camorristi e della Corte non ci pare abbastanza provata: non di meno possiamo, con qualche sospetto, osservare che tra gli ufficiali dell'armata borbonica alcuni per lo meno appartennero alle bande più feroci di ladri, le quali nel nostro medesimo secolo infestarono si a lungo le terre del Continente e dell'Isola. La Camorra fu sempre un semenzaio inesauribile di facinorosi e briganti, e quindi si può con ragion dubitare che il famoso Fra Diavolo ed i suoi spietati compagni, non che le bande al servizio del celebre Ruffo, fossero veri camorristi. Impértanto non sarebbe un'accusa avventata lo ammettere che i Borboni, se non per sistema, almeno per calcolo ed accidentalmente, avevano nella Camorra i più zelanti e più cari servitori ed amici.

XXII.— La società camorrista era egualmente diffusa in Sicilia ed a Napoli. Gl'innumerevoli affigliati ed adepti oltremodo rendevanla audace e terribile: ed il mistero stesso che avviluppavala contribuiva allo spavento che intorno spandeva di sé. Essa teneva ramificazioni e corrispondenti dovunque, nelle città, nelle campagne, ne' villaggi, ne' boschi, nell'interno e sulle coste: il numero le dava l'impunità, e l'incuranza o la connivenza del potere politico lasciavate facoltà e potenza a mal fare. Migliaia e migliaia di popolani, rotti ai vizii ed abborrenti dal lavoro, la servivano da mezzani o da complici, da esploratori e da spie, sia ad oggetto di appostare il bottino, sia per ¿sfuggire alte accidentali ricerche dell'autorità poliziesca (93). Ed in compenso dei loro servigi dalla società ricevevano una parte adequata nelle spoglie, colla quale senza grande fatica potevano soddisfare ai loro bisogni ed ai prediletti lor vizii.

XXIII.— Come la Garduña ed i Chauffeurs la Camorra aveva le sue istituzioni, i suoi riti, gli ordinamenti e le leggi, la cui violazione sottoponeva il delinquente ai più gravi castighi (94). Il tradimento vi era punito di morte: la sentenza secretamente emanata, misteriosamente del pari, o col pugnate o col veleno, compivasi: ed un membro della società, un fratello, veniva incaricato della sua esecuzione. Le colpe minori, l'insubordinazione, la viltà o l'accidia, punivansi a colpi di bastone, e, se ripetute, colla privazione del soldo e col cancellare dalla lista dei fratelli il recidivo colpevole. Né questi, abbenché discacciato e reietto, ardiva rivelare i secreti e le infamie dei suoi compagni, poiché ben sapeva che la loro giustizia o vendetta l'avrebbe raggiante dovunque. Come società la Camorra poteva dirsi ordinata assai meglio degli Stati di Ferdinando e Francesco, poich'essa sapeva almeno vegliare alla sicurezza de' suoi membri con uno zelo coscienzioso ed attivo di cui il governo borbonico non era capace.

XXIV.— Gli abitanti, specialmente in Sicilia, nell'assenza d'ogni mallevarla e difesa sociale, furono costretti a vegliare di per sé alla conservazione delle proprietà e delle vite. E posciaché i governanti, corruttori ad un tempo e corrotti, non sapevano o volevano incaricarsi del mantenimento dell'ordine, diveniva necessario affidare la publica tranquillità alla fede mercenaria dei ladri. È un fatto codesto sì strano ed inconcepibile che non ha esempio nella storia d'Europa e che molti peneranno ad ammettere: eppure è attestato da tante testimonianze di persone autorevoli che sarebbe ingiustizia rigettarlo come una finzione. Alcune comunità nell'interno dell'Isola compravano dal capo della Camorra, ed a prezzodeterminato, una protezione che le leggi e l'autorità borbonica loro negavano: ed il camorrista dal canto suo si obbligava, entro lo spazio ed il tempo convenuto, ad impedire ogni sorta di ladroneggi e delitti, e si facea responsabile dei danni cagionati accidentalmente dai ladri su tutto il territorio alla sua guardia affidato. In tal guisa la Camorra otteneva una specie di riconoscimento, una sanzione legale agli occhi dei municipii e del popolo: perocché non si possono pienamente detestare ed abbonire coloro al cui braccio s'affida la tutela dell'ordine. La Camorra elevata al grado di politica dignità compiva fedelmente la propria missione, e raro era il caso che si perpetrassero ladroneggi od assassinii dove i camorristi ad impedirli vegliavano. I rappresentanti del diritto divino, i partigiani della religione e dell'ordine aveano per tal modo condotto i loro sudditi a patteggiare coi briganti e coi ladri.

XXV.— La Sicilia era piena di preti e di frati senza che ne avvantaggiasse perciò la religione del popolo. Gli abitanti aveano tutti i difetti senza partecipare alle virtù che formano, o vuolsi che debban formare, l'essenza del cristianesimo. Le formatità e le pratiche esteriori del culto venivano adempiute con diligenza incredibile; ma vero spirito religioso non era. Nessuno avrebbe osato astenersi dal frequentare le chiese, dall'ascoltare la messa e la predica, dal solennizzare la Pasqua o dal confessarsi e comunicarsi ogni ottava, ogni mese: e nel medesimo tempo non si peritava a violare i precetti più morali e più santi della religione a cui si gloriava di appartenere (95). Que' poveri popolani non sapevano della fede cristiana se non quel tanto che ai frati piaceva far loro conoscere: né i frati insegnavano se non quelle pratiche le quali potessero meglio servire ai loro interessi e ai lor fini. Del resto la loro condotta era logica: eglino potevano senza rimorso abbandonarsi alle loro inclinazioni, ben sapendo che poche parole del prete bastavano a detergere ranima delle più brutte sozzure, e che il più schifoso colpevole con un po’ d’acqua santa si lavava di tutti i peccati e ridiveniva candido e mondo e più puro degli angeli. È inutile sacrificarsi ad oggetto di rimanere onest’uomo quando con sì poco si può riacquistare la perduta purità ed innocenza.

XXVI.— Stretta da una cerchia di ferro e divisa dal resto del mondo la Sicilia non poteva certamente vantare la propria istruzione. Troppo a lungo la maledizione di Dio pesò su quella povera terra perch'essa potesse dar frutti convenienti all'ubertosità del suolo ed all'indole pronta e svegliata de' suoi abitatori. Il dominio aragonese e spagnuolo l'avea depravata, la Santa Inquisizione l'aveva abbrutita ed il governo borbonico spingevala infine verso la più crassa barbarie dei tempi di mezzo. Mentre tutto era progresso all'intorno la Sicilia non progrediva d'un passo, 4 nella via della civiltà giaceva ben sotto il livello d'Italia e d'Europa. Il filosofo può, lamentando o ridendo, osservare che i pregiudizii più stolti e più assurdi i quali caratterizzarono la brutalità del medio evo e che fra noi si trovano appena rilegati negl'infimi villaggi e tra pochi ignoranti proletarii, si trovano in Sicilia nella piena lor forza fra tutte le classi, eziandio le più colte ed agiate (96).

XXVII.— Scuole elementari comunali in Sicilia non erano, e quindi ben di rado tra le classi inferiori incontravasi chi sapesse leggere e scrivere. L'istruzione era il frutto proibito, un privilegio di cui solo poteano godere le classi possidenti ed agiate. Quella popolazione dalla natura dotata dei' mezzi intellettuali più pronti, ricca d'ingegno e di genio, svegliatissima per costume e per indole, giaceva nullameno sepolta nella più supina ignoranza. E come avviene d'un terreno ubertoso che, abbandonato ed incolto, maggior copia produce di triboli e spine, cosi quelle anime appassionate ed ardenti, cui l'educazione avrebbe potute elevare al più alto grado di civiltà e di progresso, abbandonate a sé stesse maggiormente ingolfavansi nella fogna dei vizii. La stessa forza produttrice che bene regolata e diretta apporta buonissimi frutti, negletta o traviata da pessimi esempii produce deplorabili effetti. A tali cause unicamente debbonsi ascrivere le ribalderie di malviventi e briganti, di scrocconi e ruffiani, e i pregiudizii e i disordini che funestan da secoli quella terra diseredata e infelice.

XXVIII.— La gelosia del governo e le arti della polizia aveano fatto della Sicilia un paese cosi estraneo e lontano all’Italia e all'Europa siccome il Paraguay od Haiti. Abbiamo, egli è vero, delle nozioni sicure intorno alle Indie britanniche e le Repubbliche americane del nord-: ma né lo statista, né il geografo può conoscere perfettamente l'anagrafe o le condizioni del suolo in Sicilia. I viaggiatori italiani, francesi ed inglesi, che a migliaia percorrono continuamente i punti più remoti del globo, mai volontieri esponevansi alle vessazioni ed ai pericoli di un viaggio in Sicilia. I Siciliani per contro, condannati ad una infanzia perpetua, difficilmente ottenevano il passaporto o un permesso per l'estero. L'isolamento in cui vivevano inselvatichiva, per cosi dire, le anime e le escludeva dal consorzio internazionale e dalla vita scientifica odierna. Nella stessa guisa che prima della spedizione dei mille non conoscevamo se non imperfettamente le condizioni interne dell'Isola, i Siciliani non avevano che vaghe ed incerte nozioni degli avvenimenti che accadevano al di fuori del loro paese. A Palermo, capitale e città vastissima e popolosa e seggio principale della scienza siciliana, i Garibaldini trovarono sorpresi una popolazione che ignorava perfino le notizie ed i fatti recenti d'Italia. Non l'infima plebe soltanto ma le classi superiori ed istrutte mostravano ignorare i particolari della campagna lombarda, e con puerile attenzione ne ascoltavano il racconto dal labbro dei nostri (97). Quella tetra ove tutte si confusero le razze e le idee del mondo civile e fu culla del sapere e della lingua italiana gemeva ultimamente sepolta nel più silenzioso abbandono. I Greci, i Latini, gli Arabi, i Normanni vi portarono i loro lumi, la loro sapienza amministrativa e politica, l'avventurosa immaginazione ed il valor militare: tutto fu invano: il dissolvente regime aragonese e spagnuolo, un'abbietta superstizione e la polizia dei Borboni bastarono a sradicarvi il germe delle virtù civili e sociali ed a respingere il paese nell'antica ignoranza e barbarie.

XXIX.— La Sicilia, come tutti conoscono, e l'Isola più bella e più vasta del Mediterraneo, e fermò per lungo tempo l'attenzione ed il desiderio di nazioni e di principi. Essa giace 36,59' 38,14' latitudine boreale e 29,59' 33,2l' di longitudine dall'Isola del Ferro. Dalla punta di Milazzo al Capo Passaro ha in larghezza 118 miglia: da Trapani al Capo Piloro 186 in lunghezza e 735 in circuito. Comprende sette provincie: Palermo, Catania, Messina, Siracusa, Caltanisetta, Girgenti, e Trapani; e conta 352 città e luoghi murati, 111 borghi e 112 villaggi minori. La popolazione disseminata su questa spaziosa superficie, secondo un calcolo che par verisimile (giacché regolare anagrafi non vi fu mai stabilita) varia da 1,900,000 a 2,100,000 abitanti.

Abbondano i mari all'intorno di pesca: l'interno è ricco di acque e di boschi e di prodotti minerali ed agricoli. La Sicilia ben coltivata e resa mediante saggi ordinamenti all'odierno progresso potrà ridivenire il granaio d'Italia e duplicare e triplicare il numero attuale de' suoi abitatori.

XX.— Abbiamo soltanto enumerato una parte delle piaghe che afflissero quell'infelice paese: a descrivere minutamente le ingiurie patite, i sacrificii durati sarebbe necessario un intiero volume. Ricapitolando le cose già dette possiamo ora concludere: Il mal governo di più secoli ha trascinato la Sicilia all'infimo dell'abbrutimento e della barbarie. Le industrie e le manifatture son nulle, nullo o poca cosa il commercio, negletta l'agricoltura, ed il suolo in gran parte improduttivo ed incolto. Senza strade e veicoli, le relazioni coll'interno e coll'estero vi sono rade, brevi, interrotte: l'interno egualmente e le coste vengono continuamente infestate da bande di malviventi di tutte le condizioni e d'ambo i sessi. Una immensa associazione di ladri e banditi la percorre su tutti i punti, ne mette a contribuzione le città ed i villaggi, e vende a contanti la sua protezione, per avventura più valida di quella del potere legittimo. La professione di assassino e sicario vi è liberamente esercitata e protetta, se non dalla complicità, dalla negligenza, e dal mutismo del potere politico. La religione, quest'ultimo rifugio delle anime entusiaste ed ardenti nelle più tristi calamità della vita, vi è avviluppata e deturpala da pregiudizii ed errori, o per dir meglio non è religione ma superstizione cieca, brutale e profonda. Senza scuole e convegni, isolati da sé stessi e dagli altri, i popolani crescono ignoranti egualmente e fanatici. Le leggi, principale santuaria dell'ordine e del progresso sociale, vi sono vilipese e schernite, né il popolo può rispettarle, comeché continuamente violate dall'arbitrio del governo, e perché non si possono venerare istituzioni che non offrono garanzia o protezione veruna. I sentimenti del giusto e dell'ingiusto, del bene e del male, d'onore e d'infamia vi sono pervertiti dalla continua depravazione dei costumi e degli animi. A tale ha potuto condurre un paese la politica infernale della corte borbonica: ora la Dio mercé il regno di Satana è giunto al suo termine: e noi vedremo la Sicilia riunita alla patria comune elevarsi tra breve nella via del progresso all'altezza di paese europeo ed italiano.


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LIBRO VII

Garibaldi in Sicilia — Successive spedizioni

I.— Appena Garibaldi poneva piede in Marsala assumeva il governo, come si disse, dell'Isola ed arditamente accingevasi ad ordinarla nel modo che la gravità delle circostanze e l'interesse d'Italia il volevano. Alla promulgazione della dittatura avvenuta a Salemi tenne dietro la nomina di un secretario di Stato nella persona di Crispí (98), l'elezione dei governatori pei paesi già liberi (99), ed il decreto di leva militare col quale chiamavansi alle armi i cittadini dagli anni 17 ai 50 (100). L'armata Siciliana, a tenore dello stesso decreto, doveva essere divisa in tre classi: la prima abbracciava la gioventù dai 17 ai 30 anni: la seconda gli adulti dai 30 ai 40, e finalmente la terza, o riserva, comprendeva coloro che avevano tocco il 40.° e non avevano ancora raggiunto il 50.° anno di età. Il giorno seguente una ordinanza dittatoriale imponeva ai comuni il pagamento provvisorio dei danni che la guerra avvia cagionati (101).

II.— Nello stesso tempo spediva il generale Giuseppe La Masa, comandante la quarta compagnia appartenente alla spedizione dei mille, nelr interno dell'Isola dove ritenevasi aver egli di molti aderenti ed ove la sua cooperazione poteva chiarirsi di maggiore vantaggio che al campo (102). Né comunque occupalo nelle cose di guerra e del nuovo ordinamento della Sicilia, il Dittatore dimenticava gli amici lontani: più lettere di lui si conoscono scritte in quei memorabili giorni, colle quali rinvino guerriero dava ai patriotti Pannunzio dei successi ottenuti ed a sollecitare esorlavali rinvio di munizioni e di truppe.

III.— Penetrato in Palermo ponevasi come la sola e legittima autorità del paese, e con suo proclama apprendeva agli abitanti dell'Isola lo scopo che lo aveva condotto, il fine che s'era proposto ed il principio politico che unicamente rappresentare intendeva in Italia (103). Il successivo mattino veniva istituita una Commissione per la pubblica difesa, ed il Duca della Verdura eletto ne fu presidente (104). Essa doveva sopravegliare alla costruzione ed al mantenimento delle barricate e delle opere militari elevate nell'interno della città, alle ambulanze ed alla sussistenza dei Picciotti e dei militi. Poco dopo stabili vasi su libere basi la questura nazionale ed un decreto emanavasi portante l'ordinamento delle milizie cittadine, composto del presidente Conti, di Acerbi, Calvino, Narciso Cozzo, D'Ondes Reggio e Bentivegna (105).

IV.— Lo stesso giorno un ministero veniva formato e, dopo, tanti anni di vessazioni e d'arbitrii, il paese vedovasi regolato dal proprio governo (106). Contemporaneamente delle commissioni speciali incaricate dell'amministrazione della giustizia. della riscossione delle pubbliche rendite e della raccolta delle offerte che privati e comuni fatte avrebbero alla causa nazionale (107). Passavasi quindi a guarentire la sicurezza delle proprietà e delle vite comminando agli omicidiarii ed ai ladri il rigore delle leggi militari e la pena di morte (108). A tenore di una precedente disposizione dittatoriale i volontari furono assoggettati alla legislazione contenuta nel codice militare sardo, mentre gl'isolani rimanevano sottoposti agli statuti ed alle leggi in vigore prima del 15 maggio 1849 (109). Da ultimo si presero le misure opportune pel rinnovamento o pel ristabilimento dei Municipii dell'Isola (110).

V.— Un avvenimento accaduto a que' giorni e che fa grande onore al general Garibaldi, merita esser qui riferito. Il senato o municipio di Partinico, riconoscente della libertà conquistata, unanimemente decretava al Dittatore una statua, monumento di affetto e di gratitudine all'uomo che aveva sottratto il paese agli artigli del despotismo borbonico. Il 2 giugno quella decisione veniva comunicata al Dittatore, il quale rispondeva in data del 4: — «Ringraziar egli di tanta cortesia il municipio di Partinico, ma ricordargli in pari tempo ch'egli s'era recato a guerreggiare e a non altro in Sicilia, e ch'egli non poteva approvare altre spese che quelle le quali alle operazioni guerresche si riferissero. Lasciassero impértanto di pensare alle statue, ed il denaro che in esse sprecherebbero nella compera d'armi e munizioni impiegassero. Concorressero infine al sostegno dell'unità nazionale per cui combattevasi, ed «avrebbero messa la prima pietra all'innalza«mento del primo fra tutti i monumenti (111).»— Il municipio di Partinico, vinto dalla generosa risposta del Generale, erogò a favore della guerra la somma suddetta, e gli rimise il diploma di cittadinanza che venne cortesemente accettato. —

VII.— La formazione dell'esercito, e per le condizioni dei mille e per le circostanze speciali dell'Isola diveniva sommamente scabrosa e difficile. Nell’armamento come nell'amministrazione la Sicilia trovavasi qual'era due secoli addietro. La politica iniqua ed egoistica del governo borbonico abborriva dall'accordare a' suoi popoli l'uso o vogliasi dire l'istruzione della vita militare. Infatuata ne' vecchi pregiudizii e persuasa non poter governare se non col tenere i suoi popoli ignoranti e corrotti, la Corte napoletana odiava perfino la diffusione di quelle idee che s'acquistano col contatto della folla tra le mura di una caserma o tra i colloquii d'un corpo di guardia. Impértanlo la coscrizione militare non era mai stata stabilita né conosciuta in Sicilia: e l'ignoranza come pure l'attaccamento agli antichi sistemi ed abusi potevano altamente attraversare l'opera riformatrice del Generale italiano.

VIII.— Un'ordinanza del Ministero della guerra promulgava il decreto dittatoriale sulla leva e stabiliva il numero dei coscritti nella proporzione del due per cento sulla popolazione totale dell'Isola (112). Un'altra ordinanza fissava i giorni 18, 18 e 20 giugno per la presentazione delle liste complete, per l'estrazione dei numeri e per la consegna dei coscritti medesimi (113). Allo stesso tempo, quasi per vincere l'avversione degl'isolani alla istituzione della leva militare, come pure ad interessarli maggiormente a concorrervi, fu emanato un decreto che largamente provvedeva alle famiglie dei soldati che sarebbero morti o feriti, ed alla miseria dei loro fratelli superstiti. Con questo decreto ispirato alle idee liberali e patriottiche di Garibaldi, e vero monumento legislativo di sapienza politica, decretavasi: — «I figli dei morti in difesa della causa nazionale sarebbero adottati dalla patria ed educati e nutriti a spese dello Stato, sino all'età di anni 17, se maschi, e sino ai 16 anni, se femmine. Le vedove godrebbero di una pensione conveniente al loro stato: ed i soldati mutilati o feriti nella guerra nazionale verrebbero raccolti in apposito ospizio e mantenuti dal pubblico erario.» Finalmente una pensione colle norme suespresse accordavasi alle famiglie delle vittime del 14 aprile (114). —

IX.— Un altro decreto, eminentemente ispirato alle idee di libertà e rivoluzione, fu quello che stabiliva il compenso da accordarsi ai soldati d'Italia. Una delle moltissime piaghe dell'Isola sono per lo appunto i latifondi numerosi e vastissimi posseduti dalle comunità e da tempo immemorabile lasciati ad uso di boschi o di pascoli. Quelle terre, abbandonate a deplorabile incuria, come tutte le proprietà comunali, giacciono incolte e pressoché improduttive, mentre ridonate al lavoro potrebbero sensibilmente aumentare la ricchezza agricola del paese. Negli ultimi anni del regno borbonico varie volte si fecero pratiche e progetti per dividere tra i cittadini quelle proprietà, e sempre con infelice successo. L'avversione del governo alle novità, ed i pregiudizii popolari, e più di tutto le tristi condizioni dell'Isola concorrevano a sventare l'ardito e profondo disegno. Avuto Garibaldi le redini del nuovo governo ritrovò negli ufficii le pratiche di già intavolate, e come gli parvero di somma utilità, diede le disposizioni perché fossero al più presto eseguite. Adottata la massima che le terre comunali atte a coltura dovessero tra i cittadini dividersi, decretò che nella divisione medesima una porzione di dette terre, talora il doppio dello spazio accordato agli altri abitanti, fosse a titolo di militare compenso concesso ai soldati. E siccome non tutte le comunità possedevano terre a cui fosse il decreto dittatoriale applicabile, stabili che i militi appartenenti ad esse ricevessero in quella vece un adequato compenso coi beni immobili di proprietà dello Stato (115).

X.— Lungo e difficile sarebbe enumerare o trascrivere il numero prodigioso di leggi e decreti comparsi in que' giorni a Palermo: leggi e decreti riguardanti il riordinamento degli ufficii, dell'amministrazione, delle milizie e della guerra. Garibaldi e gli uomini che seco egli assunse al governo mostrarono quanto possa amor di patria congiunto ad un attività senza pari, ad un audace coraggio e ad una pratica conoscenza delle cose e dei tempi. L'amministrazione dittatoriale, o si considerino le circostanze in cui allora versava il paese od i risultali che ne derivarono, non poteva essere né più cauta né più profondamente sagace. In pochi giorni dagli ufficii scomparve ogni traccia dell'antico disordine, vennero le volute riforme applicate senza opposizione od ostacolo, e per quanto il comportava lo stato transitorio e precario negli affari, rinacque la sicurezza negli animi e la fiducia nei cuori: grazie all'energico genio del Dittatore la crisi passò, si può dire, inosservata, ed i pericoli che minacciavano il nuovo ordine di cose furono scongiurati con un'abilitàmeritevole degli applausi di tutti. Alle difficoltà senza numero che si vedevano ognora e dovunque ripullulare tra i piedi, i Garibaldiani seppero porre riparo come se, non uomini nuovi ma, stati fossero antichi governanti e ministri. Con sollecitudine veramente maravigliosa, che solo trova riscontro nella memorabile storia del 1789, eglino riuscirono a formare ed ordinare un esercito, a riformare l'organismo dello Stato, a regolare la percezione delle imposte, a guarentire il pagamento delle rendite ed a porre; l’amministrazione sopra una base novella di libertà e di patria. In appresso eglino furono, è vero, ingiustamente accusati di colpe esagerate o supposte e calunniati e denigrati: ma verrà giorno che, sottratta all'influenza dei cospiratori e dei settarii, l’Italia riconoscerà tutto il bene da essi operato e sarà larga di laudi e d'encomii a Garibaldi ed a’ suoi, l’Italia riconoscerà, e Dio voglia che ciò non avvenga tra breve, che i detrattori dei Garibadiani fatto avrebbero meglio e per sé e per tutti ad imitarne e seguirne l'abnegazione e l'esempio.

XI.— Allo stesso tempo Garibaldi sollecitava da Genova nuove spedizioni ed invii di soldati e di munizioni da guerra (116). Le recenti vittorie, la convenzione stipulata con Lanza ed il possesso di Palermo ponevano a sui disposizione immensi materiali da campo, ma con tutto ciò difettava di quello che in guerra è più strettamente necessario, cioè di soldati. Un ministro italiano non si peritava in Parlamento asserire che coll'oro si fanno miracoli: un celebre capitano affermò che il danaro costituisce il nerbo della forza militare} tuttavia l'esperienza dimostra essere di gran lunga più facile coi soldati procacciare danari che con questi trovare soldati. Ed invero Garibaldi, lo, confessava egli stesso, poteva in quei giorni disporre di mezzi immensi e nondimeno scongiurava il comitato di Genova a spedirgli pronti sussidii, ed autorizzava il deputato Bertani a contrarre in suo nome qualunque debito che fosse necessario all'apprestamento di nuove milizie (117).

XII.— Diffatti, sebbene vittorioso e tranquillo possessore di una vasta capitale e d'immense ricchezze, le sue condizioni non erano punto migliori di quelle in cui a Calatafimi od a Marsala trovavasi. Garibaldi non disponeva che di una forza insignificante per armamento e per numero ed aveva pur anco a lottare contro una formidabile armata. L'immenso materiale rinvenuto nei magazzini di Palermo consisteva per la massima parte in oggetti d'armamento e vestiario deperiti o guasti od inservibili. Dall'altro canto la cifra, dei Mille era stata, e per le malattie e per la, guerra, grandemente ridotta, per modo che dalle forze che potevansi porre in campagna grandi risultati sperar non doveasi. Le poche migliaia d'isolani accorse ad ingrossare l'esercito liberatore non valevano, né per disciplina, né per audacia, a riempire il vuoto lasciato dalle vicende del rampo nei Mille. I Napoletani per contro, malgrado le numerose diserzioni e le perdite sostenute, conservavano in Sicilia delle forze imponenti ed inoltre appoggiate alle principali fortezze dell'Isola. Possessori di una magnifica flotta eglino rimanevano eziandio padroni del mare e potevano in conseguenza ritirare da Napoli pronti ed immediati soccorsi di munizioni e di truppe.

XIII.— Alcuni biasimavano il lungo soggiorno di Garibaldi in Palermo. Essere imperdonabile errore, dicevano, addormentarsi sui trionfi ottenuti: non doversi in guerra, dopo rotto, al nemico dar tempo di riaversi, di riordinarsi e di ritornare in campagna. Mille campagne essere state perdute unicamente per non avere saputo approfittare dei primi vantaggi. Ottenuta la vittoria doversi perseguitare l’avversario, non lasciargli posa né tregua, e bersagliarlo e completamente disperderlo. Colle giornate di Montenotte e di Rivoli aver Bonaparte costretto gli Austriaci ad evacuare il Piemonte e la Venezia, mentre la vittoria di Goito, per non avere saputo giovarsi del tempo, nel 1848 condusse alla perdita di Vicenza ed alle funeste giornate di Custoza e Novara. Garibaldi in Sicilia aveva respinto gli attacchi di Monreale, di Parco e Corleone edebellato intieramente il nemico a Cablatimi e nella stessa capitale dell'Isola. I Borboniani disordinati ritiravansi davanti all'impeto dei mille Garibaldini e ritraevansi nelle fortezze situate sulle coste orientali del paese. Un generale avveduto ed energico avrebbe quindi creduto necessario impedire il concentramento delle loro forze e con un'abile manovra nell'interno dell'Isola rompere e disperdere le truppe separate del nemico e presentarsi davanti a Messina prima che venisse munita ed apparecchiata alla difesa. L'inazione di Palermo poteva compromettere il tutto, se la fatale fortuna di Garibaldi non avesse con lui congiurato.

XIV.— Tali riflessioni, in altre circostanze potrebbero sembrare giustissime, ma nelle terribili angustie nelle quali Garibaldi in que' giorni versava non erano né opportune né solide. L'esercito borboniano, benché vinto e disfatto e malgrado le numerose diserzioni che giornalmente lo affievolivano, ammontava a non meno di quaranta mila soldati: il più piccolo corpo napoletano superava di gran lunga l'intiera armata garibaldiana. Avventurarsi nell'interno dell'Isola, tuttavia percorsa e tenuta dai Regii, stato sarebbe quanto esporsi all’attacco di innumerevoli distaccamenti nemici, ciascuno de' quali poteva bastare a resistere ai cinquecento volontari che soli oggimai rimanevano atti a sopportare le fatiche del campo. Per lo che, se l'inazione d'un mese concedeva al nemico la facoltà di riaversi dalle tocche sconfitte e di apparecchiarsi a nuove contestazioni, essa dava pure a Garibaldi agio e potere di formare un'armata e di trarre dall'Alta Italia, seggio di patriottismo e valore, nuove schiere di amici e di prodi. Oltre di ciò il Dittatore non doveva abbandonare Palermo senza aver prima riordinato e riformato l'amministrazione dell'Isola, e senza farsi con savii ordinamenti una base ed un appoggio per le future operazioni di guerra.

XV.— Né gli amici dell'unità nazionale inoperosi frattanto giacevano. L'entusiasmo suscitato dalla fortuna e dal successo della prima spedizione elettrizzava la gioventù e trascinavala in massa a dare il nome per una futura spedizione. Moltissimi che, o per la distanza o pel secreto e la celerità colla quale fu eseguita la prima partenza da Genova, non poterono avervi parte, altamente gridavano per una futura imbarcazione che li trasportasse in Sicilia. Verso il finire del maggio circa quattro mila uomini raccolti nelle principali città circumpadane attendevano con generosa impazienza l'istante di salpare da Genova.

XVI.— Siccome il descrivere minutamente il viaggio delle spedizioni ulteriori ci porterebbe in lungo assai più che noi consenta l'indole del nostro lavoro, crediamo conveniente restringere in poche pagine, e quasi in un quadro, tutto ciò che si riferisce alle spedizioni suddette ed agli incidenti principali che v'ebbero luogo. In tal guisa perverremo altresì a semplificare la storia dei fatti, non essendo ad ogni istante costretti ad interrompere la narrazione per ricordare sotto la, rispettiva loro data gli arrivi in Sicilia dei nuovi patriotti. Dai primi di giugno a tutto settembre una intiera flotta si trovò continuamente occupata a trasportare da Livorno e da Genova le numerosissime schiere di volontari che all'appello di Garibaldi parevano ripullulare e centuplicarsi fra noi.

XVII.— Dopo la partenza di Garibaldi una profonda scissura si manifestò tra coloro a cui aveva egli dato l'incarico di provvedere all'arruolamento ed alla spedizione di nuovi corpi di volontari in Sicilia. Al dottore Agostino Bertani aveva affidato la missione di raccogliere la gioventù mentre il colonnello Giacomo Medici veniva destinato ad istruirla e condurla. A tenore della lettera di Garibaldi in data 5 maggio Bertani era il solo autorizzato a rappresentare il Generale durante la campagna dell'Isola. Bertani assumeva in conseguenza la rappresentanza ufficiale del capo della spedizione e fondava in Genova la Cassa Centrale dei soccorsi a Garibaldi aggregando all'ufficio d'amministrazione Federico Bellazzi, Antongina e Brambilla.

XVIII.— L'istituzione della Cassa Centrale parve ben tosto sospetta al partito che avrebbe voluto frenare lo slancio della nazione e che in ogni evento apparecchiavasi a stringere nelle proprie mani la somma delle cose. Era stato impossibile trattenere Garibaldi nell'inazione a cui lo si aveva condannato dopo il suo ritiro dall'Italia del centro: tuttavia il partito medesimo non disperava di approfittare delle eventuali vittorie dei Mille per accrescere ed allargare la propria influenza. Siccome il partito che più aveva a cuore l’adempimento dei nazionale programma e che maggiormente pareva infervorato per la causa della rivoluzione era appunto quello che s'era mai sempre vilipeso ed osteggiato, non volevasi lasciargli la gloria di avere compiuta da sé cosi grande intrapresa. Garibaldi poteva cadere, ma eziandio la vittoria poteva incoronare i suoi sforzi: in ogni caso i moderati volevano che la nazione non potesse accusarli di non avere favorito le operazioni guerresche dei Mille. Il partito moderato, capitanato dallo stesso conte Cavour, non mai sarebbesi indotto a rinunciare alla sua parte nelle glorie nazionali ed a lasciare agli avversarii il vanto d'avere essi soli cooperato alla liberazione di si gran parte d'Italia.

XIX.— Ma il conte di Cavour, politicamente vincolato dalle convenienze diplomatiche, non poteva prendere negli affari della Sicilia, almeno ufficialmente, quella parte che avrebbe voluto. Egli aveva condannato ne' dispacci e ne' suoi discorsi al Parlamento la spedizione di Garibaldi: come ministro e come alleato di Napoleone doveva avversare in Italia ogni movimento rivoluzionario e popolare. Dall'altro canto come capo della rivoluzione italiana non era di suo interesse abbandonarla in balìa di se stessa. Non potendo frenarla egli sforzavasi a dominarla e guidarla ad una mela che punto non offendesse le aspirazioni e l'interesse dei moderati. A tale oggetto egli si serviva di un uomo in Italia notissimo e che da più anni s'adoperava a regolare le cospirazioni patriottiche secondo le mire del suo illustre padrone. Quell'uomo fu il La-Farina.

XX.— Giuseppe La-Farina, Siciliano di nascita, un tempo seguace di Giuseppe Mazzini e focoso odiatore dei Re, cattivo letterato e storico peggiore, s'era da più anni assunta la missione di scavalcare nell'opinione dei cospiratori la popolarità del suo antico maestro. Nel 1848 eletto deputato all'Assemblea Siciliana divenne ministro della pubblica istruzione: ma ben tosto, non bastandogli il posto che occupava, brigò ed ottenne la carica di ministro della guerra. Nel 1849, ricaduta la Sicilia sotto il dominio borbonico, si recò all'estero dove riprese la vita del cospiratore sotto l'alta autorità di Mazzini. Dopo il 1853 comparve in Piemonte con una sua storia d'Italia abborracciata alla meglio e da cui trasse un discreto peculio. Ben presto l'aura della capitale subalpina produsse il non singolarissimo effetto di cangiare un demagogo fremente in un campione della moderazione e dell'ordine. Unitosi al marchese Giorgio Pallavicino egli fondò in Torino la così della Società Nazionale, il cui scopo era quello di bilanciare l'influenza della cospirazione mazziniana nelle schiave provincie d'Italia e di moderare la rivoluzione a beneplacito e secondo le istruzioni del più grande fra gl'italiani ministri. In tal guisa La-Farina divenne il capo visibile d'un'immensa propaganda politica diramatasi dall'estrema Sicilia all'Isonzo.

XXL— Si vuole che La-Farina abbia fatto la sua conversione dopo essersi effettivamente convinto che l'avvenire ed il bene d'Italia esigessero da lui il sacrificio delle antiche opinioni. Non contestiamo agli uomini onesti il diritto di ricredersi da un'erronea opinione ogni qualvolta, dietro un più maturò esame dei fatti, la riconoscan per tale. Nella stima del vero e del falso la natura umana è sovente peritosa ed incerta: sedotta da vane apparenze essa può cadere in errore, ed è privilegio delle anime nobili il farne onorevole ammenda. Ma lo storico imparziale osserverà con un riso che il vantato sacrificio del signor La-Farina fu troppo largamente ricompensato dalla nuova sua posizione, da onori e da cariche; com'egli, abbandonando Mazzini, siasi elevato alla dignità di capopartito e di fondatore d'una immensa propaganda politica, laddove, se fosse rimasto fedele alle antiche dottrine, non mai si sarebbe innalzalo al di sopra dei cospiratori volgari. Se disinteressato e spontaneo il sacrificio è lodevole e santo: ma quando se ne traggono de' vantaggi o materiali o morali perde il suo naturale prestigio ed assumo le esigue proporzioni d'un calcolo. È lecito perciò dubitare della rettitudine politica del signor La-Farina: non è facile decidere se la sua conversione alle idee moderate sia stata ispirata da profonde convinzioni o dall'amor di se stesso.

XXII.— Del rimanente nessuno contesta a La-Farina il suo amore all'Italia. Come cospiratore, come letterato e come caposcuola s'adoperò con istudio indefesso al bene ed alla futura liberazione della patria comune. La Società Nazionale da lui nel 1854 fondata a Torino si diffuse rapidamente per tutto il paese e produsse buonissimi effetti. Egli avrebbe potuto fare assai più: e forse l'azione di lui sarebbe stata ben altrimenti vantaggiosa all'Italia s'egli stato non fosse vincolato dagl'interessi della fazione che aveva ultimamente sposata. Le ispirazioni del partito moderato frenarono lo slancio dell’antico settario, ed egli fu condannato a rattenere l'impeto di quella rivoluzione che come cospiratore dovea suscitare dovunque. Singolare destino degli uomini collocati in una falsa posizione si è quello di trovarsi sovente costretti a disfar colla destra ciò che hanno colla sinistra operato.

XXIII.— La-Farina, per metà mazziniano e per metà convertito alle più vantaggiose opinioni del moderantismo, cospiratore ad un tempo e servitore devoto, era l'uomo più adatto a compir la missione che i suoi nuovi maestri affidavangli. Era ovvia la via che doveva percorrere: primamente bisognava conservare la popolarità col cessare da una ingiusta ed illiberale opposizione ai piani di Garibaldi, ed in secondo luogo accentrare nelle meni di gente fedele e sicura l'amministrazione delle spedizioni e l'arruolamento dei volontari; A sorvegliare i movimenti del partito italiano, onde non prorompesse ad alti ostili o compromettenti il governo, era d'uopo che gli ufflcii ed i comitali interamente da lui dipendessero. Se non che la Gassa Centrale istituita dal deputato Bertani parca composta in guisa da escludere perfino il sospetto che La-Farina mai polisse esercitarvi veruna influenza.

XXIV.— Allora si ricorse ad altri spedienti. A fianco della Cassa Centrale fondavasi in Genova, pochi giorni dopo la partenza dei Mille, un Ufficio militare, destinato al medesimo oggetto, quello di raccogliere armi, danari e soldati per Garibaldi. La-Farina, che non osava o non volea comparire siccome l’anima della nuova istituzione, la facea rappresentare dal colonnello Giacomo Medici. Ambedue questi ufficii, sovente discordi e talvolta in aperta collisione fra loro, gareggiavano ciò non pertanto di zelo e d'attività nell’inviare al condottiero italiano frequenti e numerosi soccorsi.

XXV.— Durante il maggio i volontari accorrevano numerosissimi a Genova ed impazientemente attendevano che un nuovo trasporto li conducesse in Sicilia. La vittoria di Calatafimi e l'espugnazione di Palermo avevano suscitato nell'Alta Italia un entusiasmo indicibile, e la gioventù generosa anelava a raggiungere il suo naturale condottiero ed a dividere con lui le glorie ed i pericoli della presente campagna. La seconda spedizione era pronta e solo attendevansi da Marsiglia i vapori, a tal uopo acquistati, a trasportarla in Sicilia.

XXVI.— Fu allora che nacque tra la Cassa Centrale e l'Ufficio militare il primo dissidio. Appoggiandosi al desiderio espresso da Garibaldi, Bertani voleva colla seconda spedizione approdar negli Abbruzzi ad oggetto di operare una diversione ed impedire al governo di Napoli di mandare nuove truppe in Sicilia. Ma siccome lo scopo principale del piano suddetto era quello di compromettere diplomaticamente il governo e di trascinarlo ad abbracciare la politica della rivoluzione, le ragioni addotte da Bertani in sostegno de' suoi progetti non potevano a La-Farina sembrare ammissibili. Si obbiettò, ed a ragione, che mentre Garibaldi si trovava con soli mille uomini di fronte all'esercito regio sarebbe stata follia e temerità disseminare le forze anziché concentrarle dov'era maggiore il bisogno. Militarmente parlando i La-Fariniani dicevano il vero: uno sbarco nelle Romagne o negli Abbruzzi poneva i volontari nella necessità di lottare cogli eserciti pontificio e borbonico e forse anche colle truppe della occupazione francese. All’opposto in Sicilia non aveasi a combattere che l'armata già vinta e disordinata del Lanza, né era credibile che la Corte di Napoli, in vista dei movimenti insurrezionali manifestatisi eziandio nelle città di terra ferma, osasse spedire nuove forze nell'Isola.

XXVII.— Il partito migliore la vinse la seconda spedizione fu diretta in Sicilia. I vapori acquistati dai signori Finzi e Mangili a Marsiglia gettarono verso i primi di giugno l’ancora a Genova. Due fra questi, l'Helvetie e l'Oregon (il primo de' quali issando bandiera americana assunse il nome di Washington), si fermarono a Genova: il terzo partì per le acque toscane ove un corpo di 800 uomini lo attendeva con Malenchini a Livorno. I preparativi per la partenza si fecero colla massima celerità: se non che l'affluenza dei volontari era tale che i legni acquistati non bastarono a condurli in Sicilia. In conseguenza si noleggiarono un clipper americano, il CharlesGeorges ed il piroscafo l'Utile che dovea rimorchiarlo (118). Questi ultimi furono i primi a salpare: essi presero il largo la mattina dell'8 giugno nelle vicinanze di Cornigliano con oltre 900 soldati. Il mattino del 10 furono seguiti dall'Oregon e dal Washington che lasciarono Sestri con circa duemila e cinquecento volontari ed ufficiali.

XXVIII.— La seconda spedizione fu fatta precipuamente e diretta dai La-Fariniani, ed i volontari, specialmente quelli del clipper, lamentavano che mentre s'avea rifiutato l'iscrizione di giovani colti e virtuosi si fossero tra i moltissimi buoni arruolati non pochi di borsaiuoli e di ladri. L'accusa è grave, ma la troviamo espressamente formulata nel giornale di un Garibaldino inserito nei fogli di Genova (119). Esso biasima acremente la condotta del comitato; i fatti che rapporta sono piani ed espliciti; l'ingegnere Luigi Tentolini veniva derubato d'una borsa contenente cento e dieci lire; un ufficiale, Carcano di Milano perdette due viglietti di banca ammontanti a cinquecento lire; un terzo Garibaldino (io fremo in accordargli tal nome) fu posto in catena qual ladro (120). Quando si confronta la cura che Garibaldi già mise nel raccogliere i volontari della prima spedizione onde non avesse ad introdursi nelle file alcun sinistro elemento, colla negligenza del signor La-Farina, non si può non esprimere indignazione e sorpresa. Forse La-Farina, ad uomini illuminati e d'inconcussa fede rivoluzionaria, preferiva esteri ed ignobili che non avevano alcuna opinione o che non rifuggivano all'uopo di venderla a prezzo. Esseri si fatti si trovane pur troppo tanto all’alto che al basso della scala sociale e sono il disonore del partito nel quale s'intrudono (121). Forse voleasi con ciò preparare il terreno a rendere le calunnie probabili che si rovesciarono poscia sul benemerito esercito dell'Italia Meridionale: calunnie che, sebbene stolte ed assurde, non mancarono di trovare credenza presso una parte del popolo. Pur troppo v'ha taluno che guasta tutto dove pone la mano.

XXIX.— Alle otto mattutine del giorno seguente 9 giugno due legni napoletani da guerra, l'Ettore Fieramosca ed il Fulminante raggiunsero il clipper e l'Utile mentre questi, girando il promontorio Corso, veleggiavano verso le acque Toscane. Nell’avvicinarsi i due legni borbonici innalzarono il grido di viva Garibaldi e l'Italia: i volontari, non sospettando l'agguato che loro tendevasi, risposero al grido traditore con fragorosissimi applausi. I Napoletani, fatti certi che i due legni appartenevano alle spedizioni garibaldiane, issarono bandiera borbonica ed intimarono loro di arrendersi. I due navigli, comeché destituiti d’ogni difesa, costretti trovaronsi ad obbedire all’imperioso comando accompagnato da qualche colpo di cannone che per fortuna non arrecò nessun danno (122). I Borboniani attaccarono l’Utile.

XXX.— Più fortunati l’Oregon ed il Washington (123) salparono il giorno dopo dal medesimo porto e si ancorarono il 15 in vista di Cagliari, ivi sostarono ad ordinare militarmente le truppe, a formare le compagnie ed i battaglioni, a vestirli ed armarli, giacché volevasi pervenire in Sicilia con milizie già pronte ad entrare in campagna. Quindi ripresero il largo condotti dalla stella che aveva guidato Garibaldi a Marsala, e dopo una prospera navigazione gettarono l’ancora nella baia di Castellamare alle cinque e mezzo pomeridiane del giorno 17 maggio. Di là i volontari si riposero la sera stessa in viaggio e giunsero ad Alcamo, e quindi si diressero per la via di Partinico e Monreale a Palermo.

XXXI.— Partito da Genova Medici, il commilitone ed amico di lui colonnello Enrico Cosenz ricostituì l'Ufficio militare, e di concerto colla Cassa centrale, si accinse ad ordinare la terza spedizione. Questa fu in pochi giorni completa: e l'affluenza dei volontari., accorrenti a dare il nome alla patria, parve sì grande che si credette necessario sollecitare la partenza per dar luogo a chi doveva arrivare. Il 29 giugno salpava il Medeah con seicento cinquanta reclute (124), e fu il 2 luglio seguito dal Provence e dal Washington (a tal uopo richiamato di Sicilia) il primo con settecento settanta, il secondo con mille duecento settanta soldati. In pochi giorni, compiuto il tragitto, ritornava il Provence per un nuovo viaggio, ed unitamente al Samnon ripartiva il successivo 9 luglio colla forza complessiva di mille trecento uomini (125). Se non che il numero degli affluenti era tale da non poter capire sui legni di già apparecchiati: per cui si trovò necessario noleggiare due altri trasporti, l’Isère il quale con quattrocento volontari inviavasi il giorno dopo in Sicilia e la City of Aberdeen che ne portava con sé novecento. Finalmente il 13 salpava da Genova il vapore l'Amazon coi volontari del Clipper e dell'Utile, i quali, dopo un mese di prigionia sopportata a Gaeta, rilasciati dal governo borbonico, ansiosamente accorreano in Sicilia a misurarsi coi loro oppressori ed a prendere la loro rivincita.

XXXII.— A mezzogiorno dell'11 il Clipper e l’Utile, rimorchiati dalle fregate napoletane che li avevan sorpresi, entrarono nel porto di Gaeta. Durante quell'angoscioso viaggio furono essi di frequente fatti segno e bersaglio alle ire de' soldati borbonici, i quali credevano forse ricattarsi delle tocche sconfitte coll'infierire sui prigionieri e gl'inermi. Il tragitto dal Capo Corso, dove i due legni vennero presi, a Gaeta aveva durato quarant'ore all'incirca: ed i volontari tutto quel tempo passarono nella dolorosa apprensione di vedersi da un momento all'altro colati e sommersi. Infatti i legni napoletani tenevano tre pezzi di cannone ciascuno appostati contro i nostri vascelli e pronti a far fuoco al minimo segnale del lor comandante (126).

XXXIII.— Un ufficiale appartenente alla marina borbonica saliva sul Clipper pochi momenti dopo il suo arrivo per domandare le patenti di navigazione. Enrico Wathson (tale è il nome del benemerito capitano del Clipper) allora comparve sul cassero e ricevette il visitatore con quella fredda urbanità che è solito indizio d’animo fiero e imperterrito. Alle intimazioni dell'ufficiale che pretendeva ad ogni costo visitare le carte di bordo l'intrepido americano freddamente rispose: «Non esser egli solito ad esibire la patente a pirati ¡ a gente che senza o con simulata bandiera aveva osato insultare l'americano vessillo ed assalire e catturare navigli da quello coperti e protetti. Dichiarò non avrebbe mai se non alla forza brutale ceduto: ma in ogni evento ammoniva lo sgherro di Francesco II del pericolo che il suo padrone poteva correre ove le cose fossero portate all’estremo. Rammentò che gli Stati Uniti possedevano flotte sufficienti a vendicare l'ingiuria ed a devastare tutto il litorale del Regno. E concluse infine protestando che non avrebbe in verun caso consegnate le carte se non al console rappresentante in que' lidi l'americano governo. Queste dichiarazioni sull’ardito navigatore costernarono l’ufficiale nemico: e gli astanti malignamente osservarono la strana impressione che le parole di Wathson facevano nell’animo di lui.

Durante il colloquio il borboniano convulsivamente sfogliava una rosa che a caso tenea fra le dita, e mostravasi titubante ed inquieto, quasi versasse in misterioso pericolo. Egli si ritirò dal Clipper portando seco lo scherno di tutti.

XXXIV.— Mezz'ora non era trascorsa quando un altro personaggio, come il primo appartenente alla regia marina e che i volontari credettero il governatore del forte, comparve sul Clipper seco lui conducendo un tale che presentò come console americano. Se non che la sagacia e l'acutezza di Wathson valse a smascherare la frode: il sedicente console non era che un miserabile impostore a prezzo comprato nell'intendimento di trarre in inganno l'oculato navigatore ed indurlo a consegnar le patenti. Le proteste di Wathson furono dignitose ed energiche, quali s'addicevano ad uomo che si aveva vilmente cercalo sorprendere. Dopo un assai vivo colloquio i due napoletani, frustrati ne' loro disegni e scornati e vilipesi dall'intiero equipaggio, ritornarono a terra a rendere conto al governo dell'infruttuosa loro missione.

XXXV.— Nel porto e nel forte regnava frattanto la massima costernazione: i Napoletani parevano allarmati dalla stessa loro vittoria. Forse in que' momenti non altro avrebbero meglio desiderato quanto il non averla ottenuta. Avevano essi catturato una intiera spedizione, ma erano le conseguenze del fatto, ingigantite da superstizioso timore, che più gl'impaurivano. Non si dissimulavano l'agitazione che quell'avvenimento doveva suscitare nell'Italia superiore e nello stesso Regno delle Due Sicilie: né dall'altro canto la cattura di due trasporti poteva avere sulla guerra che ferveva nell'Isola quell’importanza che decide delle sorti d'un governo e di un popolo. Fra le numerosissime spedizioni che giornalmente eseguivansi dalle coste liguri e toscane due sole imbarcazioni, e forse le meno importanti, erano state sorprese ed arrestate dalla flotta borbonica. Se i Napoletani avessero avuto la fortuna e l'audacia d'impadronirsi del Piemonte e del Lombardo nel primo loro viaggio la guerra di Sicilia sarebbe stata finita sul nascere. Ma dopo che Garibaldi, sbarcato a Marsala, era entrato vittorioso in Palermo la presa dei due legni diventava un fatto di picciol momento né poteva esercitare sui destini d'Italia veruna perniciosa influenza. Ecco perché, in luogo di infiammare l'entusiasmo dei Borboniani, la cattura del Clipper e dell’Utile inspirava loro un sentimento di dubbio, d'allarme e paura.

XXXVI.— Ed in vero tanta apprensione, sebben prigionieri ed inermi, i volontari destavano, che il governatore della fortezza si credette obbligato a prendere le più rigorose misure per vietar loro qualunque contatto sia cogli abitanti sia coi soldati medesimi: temevasi che il fuoco sacro della libertà s'insinuasse in quell'anime educate ai capricci ed alle tirannie della Corte borbonica. Ai volontari fu quindi impedito lo scendere a terra: stipati com'erano sui loro legni eglino dovettero rimanere a bordo, né per qualunque preghiera od istanza fu loro concessa la benché menoma relazione colla città o colla truppa. Il Governo non dimenticò veruna precauzione per torre ne’ nostri la possibilità di penetrare nella fortezza; e le precauzioni stesse mostravano l'apprensione da cui era dominato. Due fregate da guerra, con cannoni livellati e già pronti, guardavano i volontari: e rartiglieria del forte minacciava d'aprire il fuoco e mandarli a picco al primo segnale che dato le fosse. E quasi ciò non bastasse, da dieci a dodici barche vennero collocate al loro fianchi alfine di esercitare una sorveglianza più vicina e più pronta. In tal guisa, esclusi dal mondo e prigionieri sui propri vascelli, quegl'infelici rimasero destituiti d'ogni umano soccorso: solo il 23, e dopo lunghissime pratiche, ottennero dr bagnarsi nel mare sotto gli occhi medesimi dei loro guardiani' e solo dopo venti giorni durati fra le più ardue torture, fra le privazioni ed i terrori pervennero a ricuperare la lor libertà.

XXXVII.— Sulle prime Francesco II resisteva alle sollecitazioni che da ogni parte venivangli fatte in favore de' suoi prigionieri. Egli altamente reclamava il sovrano diritto a punire coloro che accorrevano a turbare la tranquillità del suo regno, dimenticando che i deboli non hanno diritti o gli hanno soltanto per vederli violati. In appresso, e per le vittorie di Garibaldi, e per la pessima piega che gli affari prendevano eziandio nella capitale stessa del Regno, smessa l'usata baldanza. assunse più miti consigli: e dopo mille dichiarazioni e proteste cedette alle istanze di tutti e risolse rimettere in libertà l'equipaggio ed i legni. Alle sei pomeridiane del giorno 28 il viceconsole sardo residente a Gaeta, per incarico avutone dal governo di Napoli, recava ai volontari la fausta notizia che i due vascelli erano liberi ed avrebbero potuto nel seguente mattino salpar da quel porto. Non è a dire l'impressione che produsse la grata novella: chi la portò venne accolto da fragorosissimi applausi ed evviva alla indipendenza e all'Italia. Que' prodi sembravano trasportati di gioia non tanto per la ricuperata libertà quanto per la speranza di prendere la rivincita sui loro nemici e di raggiungere i vittoriosi compagni.

XXXVIII.— Lo stesso giorno il governo borboniano permise che il comandante della spedizione noleggiasse altri legni pel trasporto de' suoi volontari. Il pericolo che quella agglomerazione di uomini, da venti giorni accatastati in si piccolo spazio ed esposti a spaventevoli disagi, potesse produrre un contagio avea costretto il comandante italiano a domandare al governo la concessione suddetta. S'imbarcarono la medesima sera le necessarie provvigioni: ed al vegnente mattino i volontari, salutati dalla regia corvetta il Miseno, abbandonaron quelle acque dirigendo il corso su Genova dove, dopo qualche incidente di ninno o di piccol rilievo, arrivarono. Il Clipper e l’Ulile gettarono l’ancora alle ore tre del nono giorno di luglio, appunto un mese dalla loro partenza. I volontari con essi tornati ripigliarono, dopo soli quattro giorni di riposo, il viaggio, sull'Amazon alla volta dell'Isola.

XXXIX.— I vapori e gli altri legni noleggiati dalla Cassa Bertani, dall’Ufficio militare e dai Governo dittatoriale siciliano andavano continuamente e venivano da Genova a Palermo e da questa a quella città. Il 16 salpava il Provence con quattrocento cinque volontari: il susseguente 18 la Città di Torino portavane tre mila quattrocento trentacinque (127). Il Franklin si metteva in viaggio la sera del 21 con cinquecento sessanta quattro e fu seguito nell’intervallo di poche ore dall’Amazon con trecento novanta reclute (128).

XL.— Oltre queste spedizioni, durante il caldissimo mese di luglio, partirono: l'Isère (23) con quattrocento ventitré volontari, l'Oregon (7) con quattrocento quattro, e per la quarta volta il Provence (20) con cinquecento ottantadue (129). Il 9 successivo agosto nuovamente salpava il Provence con duecento undici. ed il 16 partiva il Sidney Hall con cinquecento quarantadue (130). Per tal guisa, senza tener calcolo dei volontari imbarcati a Livorno e sul litorale toscano, durante i mesi di giugno e luglio e la prima quindicina d’agosto ben tredici mila quattrocento diecisette giovani si portarono dall'alta Italia a rinforzare le file ed a condividere le vittorie dei Mille.

XLI.— Furono. le spedizioni, come si vide, numerose e frequenti pii forse di quanto sarebbesi prima pensato: ciò nullameno il patriottismo della gioventù era ben lungo dall'avere esaurito i suoi sforzi. L'entusiasmo generale aumentava a misura che Garibaldi avanzavasi e la speranza del riscatto italiano si faceva più certa e vicina. Verso la metà dell'agosto forse venti mila inscritti, veneti, lombardi, romagnoli, toscani e trentini domandavano chi li trasportasse e li conducesse in Sicilia. Uomini appartenenti a tutte le classi sociali con generosa emulazione riunivansi in un sentimento comune di libertà, d'eroismo e di patria. Moltissimi adolescenti, fuggiti dalle famiglie o dai collegi, abbandonavano gli agi e le comodità della vita, e d'ogni parte accorrevano ad ingrossare le fila dell'armata liberatrice. Spesse volte si videro fanciulli ancora imberbi piangere d'ira e disperazione perché non erano, da chi presiedeva all'arruolamento dei volontari, stati accettati in ragione della loro età o della lor complessione Si notarono de' giovinetti che nell'atto della partenza ricusarono di abbracciare i parenti, accorsi a salutarli, per tema non li costringessero a rimanere con essi e rinunziare alla vagheggiata campagna. Il dottore Michele Caffi veniva in Milano seriamente minacciato nella vita da pochi giovani ch'egli avea dimenticato avvertire dell'ora della partenza. Quando un popolo compie tali e si segnalati prodigi di virtù nazionale è ben meritevole d'esser libero, grande e felice.

XLII.— I Comitati di provvedimento e le associazioni politiche, mazziniane o lafariniane, gareggiarono di attività e di zelo nel servire la causa della unità e dell'Italia. Agirono tutti o quasi tutti in que' giorni, quasi ogni dissenso o contestazione fosse sparita, non come ispirati dall'amore di parte ma nell’unico intendimento di giovare alla patria? L'Italia dev'essere grata a coloro eziandio che nelle sue vittorie miravano al trionfo del proprio partito, perché sebbene animati da impuri disegni operarono a favore di lei: ciò la storia, con severa compiacenza, registrerà ad onore di tutti. I comitati di provvedimento siccome le altre associazioni disseminate nelle valli del Po e dell'Arno corrispondevano al medesimo tempo con Bertan e La-Farina, ed inviavano indifferentemente gl'inscritti alla Cassa Centrale od all'Ufficio militare purché venissero o in un modo o nell'altro al più presto diretti in Sicilia. Lo zelo medesimo che i cittadini mettevano a raccogliere i volontari per l'armata garibaldiana avrebbero essi adoperato a1 servire la politica loquace del conte Cavour, se questi in luogo del soldato nizzardo avesse iniziato l'opera liberatrice nell'Italia meridionale. Interamente devoti alla nazione gli uomini che più faticarono a raccoglierne i brani dispersi non appartenevano a veruna camarilla o fazione e più dei partiti prediligevano l'avvenire e la libertà del paese.

XLIII.— Nella formazione dell'esercito meridionale ebbero fra gli altri molti, grandissima parte i Comitati politici di Milano e Ferrara. Il Comitato di rappresentanza politica per l'Emigrazione Veneta in Milano presieduto dal solerte conte Correr può vantare d'aver esso solo raccolto e mandato in Sicilia oltre otto mila volontari, appartenenti in gran parte alle provincie tuttavia occupate dall'Austria, trentini cioè e veneziani (131). Moltissimi ne raccolse il Comitato politico risiedente in Ferrara, in allora condotto da Paolo Da Zara la cui attività fu tale da meritare la riconoscenza e l'encomio dello stesso general Garibaldi (132). S'intiepidiva soltanto la generosa attività dei patrioti allorquando la famosa circolare del 13 agosto veniva a vietare e condannare gli arruolamenti per l'armata di Sicilia e di Napoli. Da quel giorno i Comitali dovettero rallentare se non troncare del tutto i loro lavori: ed un arruolamento clandestino, comeché in proporzioni più esigue, continuava a preparare soldati alla causa che deve, malgrado gli ostacoli, tosto o tardi trionfare.

XLIV. Ora cade in acconcio toccar brevemente la celebre spedizione cosi detta di Terranova, sulla quale da amici e nemici cotanto si disse e si scrisse. È questa una pagina tetra ed oscura dei contemporanei annali italiani né fu per anco dilucidata con quella cura che l’onore del vero e la dignità della storia richiedono. I giornali oltramontani ed italici giudicarono, secondo il proprio colore, o con troppa severità o con soverchia passione: locché diede luogo ai commenti, alle narrazioni più contraddittorie ed assurde. Noi quindi senza accordare agli uni piuttosto che agli altri credenza, cercheremo di sceverare i fatti dalle esagerazioni che li avviluppano, ponendo, le cose? nella piena e naturale lor luce.

XLV.— Partendo Garibaldi colla prima spedizione da Genova tracciava il piano per estendere alla Terraferma napoletana ed alle Marche la fiamma rivoluzionaria ch' egli andava a rianimare in Sicilia (133). Argomentando che il Governo sardo, stretto nel magico cerchio delle convenienze e vincolato dalla diplomazia, mal potesse seguirlo nell’ardua missione, divisava i mezzi per compiere da sé l’intrapresa. Quel programma acclamava il principio dell'Unità nazionale: ma un principio, sebbene ammesso in diritto, abbisogna della sua applicazione per passare nel regno dei fatti. La nazionalità italiana era allora, legalmente parlando, un anacronismo, un sofisma, una finzione giuridica, mentre i Borboni regnavano in Sicilia ed a Napoli, come lo è pure oggidì col Pontefice a Roma e gli Austriaci a Venezia. L'unità del paese non si ottiene già col proclamare in un documento più o meno ufficiale o nella Camera dei deputati il Regno d'Italia, ma col raccogliere le sparse membra della penisola sotto la stessa bandiera ed intorno al medesimo trono. Aspettare il beneplacito della diplomazia a costituir fa nazione sarebbe stato quanto rinunciare ad una cara speranza o per lo meno rimandare a tempo indefinito il compimento d'un voto comune. Ma se il Governo piemontese non poteva senza grave pericolo muover guerra al Borbone ed al Papa era pur necessario che altri il facesse ed operasse per lui e suo malgrado. Indipendentemente dall'azione governativa la rivoluzione doveva scoppiare e propagarsi dai confini delle Marche all'estrema Sicilia: lo spettro delianarchia, abilmente evocato, avrebbe costretto la diplomazia a riconoscere le ambizioni legittime del Governo italiano ed a tollerare l'annessione delle nuove provincie. Avrebbero i gabinetti d'Europa energicamente protestato contro un'ostile invasione dei Sardi negli Stati del Papa e di Napoli: ma una volta che la rivoluzione trionfasse era certo somma per essi ventura che i Piemontesi vi penetrassero a farla cessare. L'Europa ufficiale non avrebbe potuto permettere che la rivoluzione si assodasse nell'Italia del Sud: e l'annessione delle Due Sicilie e delle Marche alla monarchia italiana sarebbe quindi sembrata necessità ineluttabile. Inoltre speravasi che una volta trascinato alta guerra il Governo non avrebbe potuto rattenere l'impeto delle masse e sarebbe stato suo malgrado costretto a proseguirla sino al finale compimento del proprio programma.

XLVI.— Altre riflessioni, non meno profonde e sagaci, avevano a Garibaldi ispirato quel piano: oltre i fini politici concorrevano a farlo adottare possenti ragioni strategiche. Partendo per la Sicilia non egli dissimulavasi le difficoltà dell'impresa né le forze del governo che andava ad affrontare ed abbattere: e fidando nel proprio suo genio più che nelle truppe di cui disponeva accingevasi a vincere. Volevasi quindi con una potente diversione dividere e sparpagliare le forze nemiche ed impedire al Borbone lo inviare nuove truppe nell’isola. La rivoluzione delle Marche, minacciando gli Abbruzzi, ov'erano gli animi alle novità già pronti ed aperti, avrebbe da quella parte attirato l'attenzione dei Napoletani e costretto Francesco II a pensar seriamente alla difesa della sua capitale. Ella è cosa evidente che in tali condizioni non solo non avrebbegli potuto spedire altre truppe contro Garibaldi, ma sarebbe stato eziandio obbligato a richiamare o per intero od in parte quelle che teneva nell'isola. Forse la rivoluzione delle Marche dilatandosi negli Abbruzzi poteva provocare la rivolta di Napoli: ed in tal caso le sorti della guerra sarebbero state definitivamente risolte senza ulteriori conflitti.

XLVII.— Tale era la missione che Garibaldi affidava a Zambianchi quando nel partire da Talamone inviavate con circa cinquanta de suoi verso i confini romani. La piccola schiera, nel cammino ingrossata dai volontari toscani accorrenti all'appello garibaldiano, penetrava a norma delle avute istruzioni nelle provincia tuttavolta soggette ai Pontefice e dirigevasi sopra Lutera. Ebbe quivi a sostenere lo scontro di un forte corpo di gendarmeria, ed usci dal conflitto vincente: le popolazioni le fecero buona accoglienza, ma senza sembrare disposte a prender parte all'azione. Soltanto alcuni guardacoste e pochi uomini appartenenti alla polizia pontificia agli insorti s'unirono: mentre da ogni parte le truppe papali accorrevano a soffocare nel suo nascere un incendio che potea, propagandosi, divenire fatale. I volontari, in numero di circa trecento, mal potevano resistere all'urto di più migliaia di soldati: la situazione loro sempre più grave facevasi per l'abbandono delle popolazioni cui Io spavento alienava dalla causa d'Italia. In tali frangenti si divisò di procrastinare per qualche giorno l'invasione, di ritirarsi ne' monti e di fortificarvisi. Eglino si accamparono sulle alture a Grotta di Castro (134).

XLVIII.— Pareva intenzione dei capi lo attendere ristante opportuno per marciare alla volta d'Orvieto e quindi gettarsi nelle gole dei monti nell'interno dell'Umbria e colà mantenersi sinché l'arrivo di nuovi soccorsi li abilitasse a riprendere un moto offensivo. Ma le numerose milizie che opposero i. papalini sventarono l'ardito disegno. Frattanto i soccorsi mancarono: l'invasione che se fosse rimasta vincente avrebbe attirato migliaia di volontari, avendo subito uno scacco non invogliava nessuno. I confini toscani erano inaccessibili: il governo avrebbe potuto favorire un tentativo riuscito, ma Don volea compromettersi con un'impresa fallita: ed anzi, simulando temere una imaginaria inva' sione del territorio di recente acquistato, rinforzava con truppe piemontesi i presidii dei confini toscani (135). Cosi la prima spedizione negli Stati papali fu miseramente perduta.

XLIX.— Stretti dall’armata pontificia ed abbandonati da tutti, quegl'infelici trovaronsi quasi assediati nelle loro posizioni senza viveri e senza comando. I loro capi erano spariti oppure trovavansi in situazione da non potere comunicare con essi. In tale posizione vissero più giorni sinché più non valendo a resistere ripresero con incredibili stenti la via dei confini toscani, e dopo qualche esitazione si dichiararono prigionieri delle truppe italiane (136).

L.— Né, sebbene abortito quel primo disegno, Garibaldi abbandonava il prediletto suo piano: e Bertani era in Genova incaricato della sua esecuzione. Questo fatto spiega, se non giustifica l’ostinazione dello stesso Bertani in volere che la seconda spedizione, lasciando a sé la Sicilia, si dirigesse ad ogni costo verso le spiaggie romane. La nostra ragione, come pure il buon senso, c'induce ad applaudire il ministerialismo di La-Farina e di Medici per aver essi in quel frangente impedito a Bertani di compiere un'impresa cotanto importuna e che poteva essere cagione di fatali disastri. Se non che le recenti vittorie avevano agli Italiani assicurato il dominio dell'Isola: e sul finire di luglio, mentre stava attendendo l'istante di valicare lo Stretto, Garibaldi ricordò quel suo primo pensiero e scrisse a Bertani ordinando che le operazioni negli Stati pontificii venissero spinte ad oltranza (137).

LI.— S'adoperava impértanto Bertani ad allestire una truppa che potesse all'uopo bastare, e ne affidava la direzione suprema al colonnello Luigi Pianciani. L'intiero corpo di spedizione componevasi di sei brigate: le prime quattro venivano raccolte sul litorale di Genova agli ordini dei colonnelli Eberard, Cantini, Thorena e Poppi, e le due rimanenti trovavansi nello Stato toscano ed erano comandate dai colonnelli Canori e Nicotera (138): le prime dovevano agire per mare, per terra le altre.

LII.— Il piano d'invasione nelle provincie papali era cosi concepito: Il colonnello Caucci pel primo colla sesta brigata (diminuita però d'un battaglione messo a disposizione di Nicotera) doveva ad un dato segnale passar il confine pel Monte Feltro. Siccome il paese, sendo ineguale e difficile, non poteva percorrersi col corpo riunito, si stimava opportuno invaderlo da più parti ad un tempo per mezzo di compagnie complete e staccate, le quali in appresso si sarebbero ad un punto designato ricongiunte al lor corpo. La provincia sguernita trovandosi, dava a Cancri facoltà di condursi nel modo che gli paresse di sua convenienza. Eseguito con rapide mosse il concentramento dei suoi alla Fratta avrebb'egli minacciato le città di Urbino e di Gubbio: in caso di pericolo si sarebbe ritirato sull'Appennino a cavaliere dei due versanti, conducendosi in guisa da impedire la riunione dei corpi nemici acquartierati nell'Umbria con quelli che presidiavan le Marche. Per ultimo egli doveva, se costretto da forze imponenti, operare a destra e riunirsi a Nicotera (139).

LIII.— Abbandonando Castel Pucci,ove teneva la sua residenza, Nicotera doveva colla quinta brigata ed un battaglione della sesta, in tutto due mila soldati, valicare sull’imbrunire il confine toscano, ed approfittando. dell’oscurità, marciare inosservato a Perugia. Egli avrebbe dovuto assalirla il seguente mattino sull'alba, e tutto porta a credere che i volontari se ne sarebbero resi agevolmente padroni. Il presidio era scarso e insufficiente, l’assalto impreveduto: ed inoltre le popolazioni, anelanti a libertà, avrebbero senza dubbio grandemente cooperato alla sua espugnazione. Che se in onta alle previsioni Nicotera avesse trovato la città più munita di quanto a que' giorni sapevasi, e fosse divenuto impossibile cosa occuparla, aveva ordine di non ostinarsi in inutili attacchi e di ritirarsi invece negli Appennini prendendo la via del Piegavo ove trovato avrebbe l’intiero corpo di spedizione. Riuscendogli di occupare Perugia avrebbe cercato propagare la rivoluzione nei paesi limitrofi e fortificato la città in guisa da resistere ad ogni attacco nemico (140).

LIV.— Contemporaneamente Pianciani divisava sbarcare colle quattro rimanenti brigate a Torre Montalto, piccola terra situata alla foce del Fiora, sei miglia distante dal confine toscano e venti circa da Civitavecchia. I volontari avrebbero il medesimo giorno probabilmente pernottato a Toscanella, appena venti miglia lontano da Torre Montalto. Il successivo mattino sarebbesi Pianciani diretto a Viterbo, ove teneva assai relazioni ed ove un battaglione di truppa indigena, con mezza batteria, di presidio dicevasi pronta ad arrendersi. In ogni evento non era a temersi che avrebbe osato resistere a cinquemila volontari entusiasti e chiedenti battaglia: e di più calcolare potessi sul concorso del popolo. Scopo di Pianciani era quello di marciare esteramente ad Orte, luogo situato in una forte posizione sulla linea del Tevere, di riunire colà le sue truppe e di dare battaglia a Lamoricière a Terni, o a Collescipoli, o a Narni (141).

LV.— Erano le truppe raccolte, il piano tracciato: soltanto mancava eseguirlo. Verso il finire di luglio la spedizione era pronta sia dal lato di mare che quello di terra. Tutto era andato sino allora a seconda: la vittoria era certa o per lo meno probabile, ed i vantaggi che se ne potevano trarre immediati e brillanti. Se non che la camarilla moderata guardava biecamente un'impresa la cui iniziativa avea già per sé riservata. Poteva essa lasciare indiviso al partito d'azione il vanto d'avere da sé liberato l'Italia bassa e centrate? Poteva essa tollerare un movimento contro il suo volere eseguito e che essa non valeva a dirigere? Poteva essa lasciarsi trascinare nei vortice dei popolari sussulti e porsi in balla dalla rivoluzione irrompente? Doveva essa lasciarsi guidare da uomini che aveva in faccia al mondo stigmatizzato siccome demagoghi e de' quali affettava disapprovare i principii, d'uomini ch'essa temeva o fingeva temere? A che avrebbe servito il genio trascendente del conte Cavour ove non fosse nemmeno riuscito a troncare le trame di pochi fanatici? Era di sommo interesse pei moderati; anzi di suprema necessità, che la spedizione degli Stati romani non potesse condursi ad effetto.

LVI.— E come d'altra parte vietare un'impresa che Garibaldi aveva promossa e si attuava per sua ispirazione? Opporsi apertamente i moderati non avrebbero osato: era troppo grande la popolarità dell'audace guerriero per cozzare di fronte con lui. Fu necessità ricorrere. all'arte, ai secreti maneggi, alla cospirazione mendace, misteriosa, ingannevole; e con tali mezzi, comunque codardi ed indegni, si ottenne l'intento bramato.

LVII.— Due mesi prima La-Farina aveva potuto sventare i disegni da Bertani formati sulla spedizione comandata da Medici: avrebb'egli saputo ottenere altrettanto in agosto? A quanto pare i moderati non si fecero illusione sull'abilità del— Tinquieto settario: egli avea fatto troppo misera prova di sé nei fatti recenti dell'Isola perché gli si dovesse affidare un mandato sulla cui riuscita i padroni cotanto contavano. L'autorità di La-Farina era spirata col decreto Dittatoriale che lo espelleva dalla sua stessa terra natia: e nessuno voleva fondare le sue speranze sulla valentia d'un uomo che avea si di recente subito un terribile scacco. Si ricorse impertanto ad altri spedienti. Verso il fine di luglio lo stesso ministro Favini recavasi a Genova ad ordire la trama che avrebbe troncate le fila seccete della mazziniana congiura:

LVIII.— In un abboccamento avvenuto tra Farini ed il deputato Bertani si stabilirono le norme seguenti: Essere il governo dello stesso avviso coi partito trazione intorno alla necessità di liberare le provincie romane: essere per lo addietro stata quistione di tempo fra i due partiti, non d'altro, volendo i garibaldiani precipitare ed i cavouriani rattenere gli eventi. Allora pertanto convenire nello stesso pensiero: essere necessario cioè si facesse al più presto. Ma non potendo il Ministero tollerare che ostensibilmente paresse favorire un tentativo sulle provincie papali, i volontari partirebbero da Genova a drappelli coll'intervallo tra l'uno e l’altro almeno d'un giorno. Eglino si raccoglierebbero al golfo degli Aranci sulle coste della Sardegna ove avrebbero trovate le necessarie provvigioni e le armi, cui la prudenza governativa vietava che eglino seco portassero. Del resto non erano che vane formatità messe in uso soltanto per salvar le apparenze ed ammutire i reclami dei gabinetti europei. I volontari, raccolti ed ordinati in Sardegna, partirebbero per quella direzione che amassero meglio, avendo però riguardo di prima toccare le coste di Sicilia. Su tali basi Bertani firmava una convenzione la quale rendeva impossibile la spedizione degli Stati romani (142).

LIX.— Dieci legni dovevano comporre la spedizione: Il Bisantino, l'Isère, l'Amazon, il Garibaldi, il Torino, il Calatafimi, il Yeasel, il Veloce (destinato a partire dopo gli altri colle armi) e due Clipper cui avrebbero condotti a rimorchio il Garibaldi e il Veloce. A norma della convenzione Bertani-Farini, dovevano i legni suddetti l'un dopo l'altro partire da Genova e navigare verso il golfo degli Aranci in Sardegna. punto destinato al concentramento dell'intiera flottiglia. E fu stabilito che l'ultimo a giungere al luogo fissato fosse appunto colui che avrebbe dovuto prima di tutti gli altri arrivare, cioè il colonnello comandante la spedizione collo Stato Maggiore del corpo (143).

LX.— Sul cominciare d'agosto il Torino partiva pel primo alla volta della Sardegna: ma come giunse in prossimità del luogo designato allo sbarco, ecco avvicinarsi la Gulnara, piccolo avviso da guerra della marina sarda che bordeggiava in quell'acque, ed intimare al comandante a nome del Governo l'ordine di volgere immediatamente la prora a Palermo. Il comandante intimidito dai cenni imperiosi di chi tutto poteva, ubbidì, e senza attendere pii oltre istruzioni si diresse in Sicilia.

LXI.— L'Amazon e l’Isère ricevettero lo stesso messaggio, tuttavia si ostinarono a rimanere nel golfo. Se non che i volontari veduto allontanarsi il Torino e trovandosi abbandonati e sprovvisti si lasciarono guadagnare da irresistibile panico e costrinsero i comandanti a partir per Palermo. Cosi l'uno dopo l'altro i legni appartenenti alla spedizione vennero con iscaltrezza e con arte mandati in Sicilia. Ultimo il colonnello Pianciani comparve e trovò le spiaggie deserto: non una sola compagnia attendeva colà il comandante d'un esercito destinato a liberare si gran parte d'Italia. Vittime di cabale inique e di vergognosi raggiri i soldati erano tutti scomparsi: invece d’un'armata, su cui aveva posto le più belle speranze, Pianciani trovò lo stesso general Garibaldi il quale, non si sa come mutato parere, invitavalo a secolui recarsi in Sicilia.

LXII.— Era per tal modo la spedizione per mare abortita: rimaneva infrattanto ad impedire quella che doveva operarsi dalla parto di terra, e per mezzo dei soliti inganni si ottenne l'intento. Il barone Bettino Ricasoli governatore in Toscana simulava dapprima un esagerato attaccamento a Giuseppe Mazzini e si accaparrava la fiducia di Caucci e Nicotera. Egli aveva concesso l’arruolamento dei volontari e ceduto la villa Castel Pucci perché loro servisse di quartier generale e dove potessero esercitarsi nelle manovre militari e nelle evoluzioni di campo. Aveva accordato vestiari viveri, armi e foraggi, e più ancora prometteva, di quanto era stato largito. Ricasoli giunse a dichiarare allo stesso Nicotera (questi almeno lo afferma) ch'egli era pronto a propugnare le idee di Mazzini e che qualora il governo di Torino volesse costringerlo avrebbe gettalo la maschera e sarebbesi posto con essi. Ma più tardi i consiglie i comandi del conte di Cavour lo fecero mutar di parere: e trovò più vantaggioso seguir la dottrina del grande ministro che correr sull’orme dell'esule.

LXIII.— Fallito l'affare Pianciani a Nicotera venne intimato di sciorre il suo corpo e di rimandare i volontari alle loro famiglie. Come si può di leggieri supporre ricusò francamente d'obbedire al dispotico cenno. Allora altre misure si presero: poiché agevole impresa non era strappar l'armi per forza a due mila soldati già istrutti, entusiasti e deliberati a combattere. Se un conflitto ne fosse seguito l’Italia intiera sarebbesi levata a protestare contro il fratricidio insensato: ad ogni modo abbisognava provocare uno scandalo tale che valesse a giustificare il Governo ne' suoi liberticidi disegni. Ed è quanto si fece arrestando Nicotera: egli venne sorpreso di pieno meriggio sulla piazza del Duomo a Firenze e tradotto in prigione. Forse credevasi col terrore strappargli un''adesione che lo avrebbe avvilito; oppure volevasi provocare una sommossa de' suoi per aver poscia la gloria di sventarla e reprimerla. Tuttavia, in onta alle previsioni moderate nulla avvenne di ciò: Nicotera ricusò sottoscrivere il licenziamento del corpo preferendo rimanere in prigione anzi che riacquistare la libertà con sì vile bassezza: e dal canto loro i volontari, abilmente condotti, serbarono la più dignitosa disciplina, limitandosi a domandare col mezzo di una deputazione il rilascio del lor colonnello. Sebbene gli animi oltremodo agitati sembrassero non s ebbe a lamentare il più picciol disordine.

LXIV.— Altri mezzi a riuscire occorrevano. Nicotera fu tratto di carcere ed accolto coi modi più urbani e cortesi. Gli si disse il Governo dolentissimo pel fatto accaduto: fosse certo che tale Aon fu mai l'intenzione del barone Ricasoli; obbliasse il disgraziatissimo equivoco. Ed il governatore stesso non ¡sdegnava rappresentar la sua parte nell'astuta commedia. Egli si lagnava con Nicotera che la sua posizione officiale non gli permettesse d'operare come ne aveva la brama pel bene d'Italia. Tuttavolta egli sempre sarebbe disposto a favorire la spedizione con tutti i mezzi compatibili colla sua dignità: non aver mancato né mancherebbe mai alla data parola. Desiderare sommamente che la spedizione si compisse: ma non potere, come governatore, tollerare che partisse dal suolo soggetto alla giurisdizione toscana. Essere mestieri transigere colle circostanze del momento ed almeno salvar le apparenze. Del resto non trattarsi del merito dell'impresa, ma solo di un lieve mutamento nella sua esecuzione. Si portassero i volontari a Livorno e prendessero il mare: egli avrebbe accordato trasporti, navigli, viveri e danaro. Una volta usciti dalla Toscana e toccato un porto qualunque di Napoli pigliassero la direzione che meglio lor convenisse. Su queste basi una convenzione venne fissata la quale prolungò d'un mese nelle Marche e nell'Umbria il pontificio dominio e l'agonia di que' popoli.

LXV.— I volontari furono in conseguenza diretti a Livorno e prestamente imbarcati. Le armi che a tenore della convenzione suddetta furono consegnate a Giuseppe Dolfi, dovevano seguirli in apposite casse. Disarmati e come acciughe stipati nei loro navigli i volontari rimasero più giorni sotto il sole cocente d'agosto, né le armi giungevano, né indizio di salpare appariva. Fa loro vietato severamente di scendere a terra e di tenere la minima relazione col popolo e colle medesime truppe. Finalmente un mattino s'ode battere la generale: le vie di Livorno formicolano d'uomini armati: la truppa si distende al davanti del porto: l'artiglieria delle navi e dei forti rivolge i cannoni contro i volontari, e la Guardia Nazionale si dispone in battaglia. Allora un commissario di polizia accompagnato da un ufficiale dei Carabinieri sale arditamente a bordo del Provence su cui era il colonnello Nicotera ed a nome del Governo lo invita a condurre il suo corpo a Palermo od a scioglierlo, ammonendolo che in caso di opposizione egli sarebbe considerato ribelle e come tale processato a termini di legge. Nicotera protestò ed invano: abbisognava venire ad un conflitto fraterno o cedere, e i volontari cedettero e furono tradotti in Sicilia.

LXVI.— Tale fu l'esito delle due spedizioni che fecero tanto rumore: s'evaporarono ambedue, come una vaga illusione, davanti i secreti maneggi della consorteria moderata. Turpe commedia, sostenuta da un lato colla più fina scaltrezza ed astuzia e dall'altro colla ingenuità e le disposizioni ottimiste che distinguono i liberali di tutti i paesi. Così fu salvata la patria: poiché vennero impedite le comunicazioni tra i liberali del nord £ del sud dell'Italia e resi alla rivoluzione inaccessibili i confini dell'Austriaco dominio. Sventato il pencolo di vedersi loro malgrado trascinati ad una guerra precoce coll'Austria i moderati applaudirono ai proprii maneggi e s'accinsero ad approfittare dei risultati ottenuti. Frattanto due semplici convenzioni bastarono a tranquillare le giuste apprensioni del Lamoricière e i serafici sonni del santo Pontefice. Il Papa rimaneva ancora un mese possessore delle Marche e dell'Umbria; e nell'intervallo potè, come sopra accennammo, smungere ancora un poco e martoriare quelle infelici provincie.


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LIBRO VIII

Ripresa delle ostilità. — Battaglia di Milazzo

I.— Arduo sarebbe descrivere quali fossero a que' giorni le condizioni del Regno di Napoli. Le vittorie di Garibaldi avevano oltrepassato le umane previsioni: la rivoluzione accampata e stabilita a Palermo da un istante all'altro poteva dilatarsi ed irrompere nelle provincie eziandio situate a di qua dello Stretto. Le popolazioni di terraferma, male affette al Governo, non altro attendevano «che la comparsa della bandiera italiana per rivoltarsi ed insorgere: e l'esercito, smagato dai tocchi disastri, appariva animato da tutt'altro sentimento da quello di lottare e difendersi. Nel Governo stesso molti già appartenenti alle vecchia camarilla borbonica e che nei giorni di prosperità erano stati larghi di consigli e di cure a reprimere i moti popolari, mostravansi in quel frangente titubanti ed incerti come non bene sapessero a quale partito appigliarsi. Molti inoltre, che ne' giorni felici avevano con zelo e ferocia servito i Borboni, parevano pronti ad abbandonare la tirannia soccombente, quand'essa più non valeva ad assicurare la loro dignità ed il loro soldo. Segnaci di tutte le scuole, parassiti di tutte le fazioni trionfanti e servitori di tutti i padroni, costoro sono apparecchiati mai sempre a mutar di bandiera a seconda del vento che spira: turpe razza di bipedi, contro cui giustamente inveiva la musa sdegnosa di Giusti (144). Alcuni di costoro non si vergognavano di corrispondere clandestinamente coi Comitati La-Fariniani instituiti e diffusi per tutto lo Stato, e di tradire alla setta l'ansie, i terrori e perfino la copia degli atti del governo che avevano giurato servire. La famiglia reale medesima offriva l'immagine dell'anarchia e del disordine: la mania dell'italianismo era penetrata persino ai piedi del trono borbonico: il conte di Siracusa sperando sottrarsi al naufragio che già prevedeva imminente de' suoi, parteggiava per la libertà e per l'Italia: e non trovando a' suoi consigli accoglienza prendea volontario la via dell'esigilo. ¡Pur troppo la Casa dei Borboni fu condannata lungo i secoli a vedere i suoi membri rinnegare per un'ombra di vana popolarità gl'interessi e le tradizioni del sangue

II.— Che fare, che risolver poteva il giovine Re, circondato com'era da timidi amici od infidi; da ministri corrotti, da cortigiani egoisti od inetti, disertato da' suoi consanguinei e tradito persino nel proprio governo? Le popolazioni all'intorno fremevano, l'esercito minacciava sfasciarsi al primo urto, i comitati secreti, oltremodo accresciuti di numero, sordamente scalzavano le basi stesse del poter e la polizia era divenuta cieca a scoprirli od impotente a reprimerli. Le voci le più allarmanti, i più sediziosi libelli venivano divulgati stampati sotto gli occhi stessi delle autorità senza ch'esse valessero a svelarne o a punirne gli autori. La rivoluzione aveva da per tutto i suoi partigiani, o i suoi complici, nella polizia, nel ministero, nel foro ed in Corte: ed essa avviluppava nelle sue innumerevoli spire, alto stesso tempo, il Monarca e lo Stato. Il trono dei Borboni doveva cadere: l'odio accumulato di quattro generazioni e la corruzione sistematica dei precedenti tre regni concorrevano del pari a distruggerlo. Vittima, forse innocente, d'avversi destini, doveva Francesco II espiare le colpe de' suoi antecessori e le carnificine immani del 1799, del 1815, del 1821 e del 1848.

III.— Gl'inviati d'Inghilterra e di Francia incessantemente esortavano il Re ad accordare ai suoi popoli una costituzione liberale, sulle basi di quella che il Monarca Sabaudo aveva largito al Piemonte. Ben egli comprendeva che la costituzione richiesta, lungi dal consolidare il suo trono, ne avrebbe accelerato lo sfascio. Con ciò avrebbe legalmente spalancato le porte alle cospirazioni 0 alle sette e posto lo Stato in balia delle dottrine unitarie vagheggiate nel nord dell'Italia. Francesco II non poteva né doveva lusingarsi od illudersi: sotto il pretesto di libertà ed indipendenza la rivoluzione mirava a spodestarlo ed a fondare l’unità nazionale. D'altronde se il Regno doveva cadere, la costituzione, in tal modo elargita, non era certo il cemento più atto a restaurarlo: la guerra che ferveva era lotta di vita o di morte: abbisognava sincere 0 rassegnarsi a soccombere, ma valorosamente e coll'armi alla mano.

IV.— Eppur non valse il resistere la rivoluzione, misteriosa ed invisibil potenza, propagavan in tutte le parti: ed in Napoli stessa a chiari segni appariva, che stava già per prorompere. I cittadini oramai, non in secreto 0 a bassa voce, ma francamente ed a pieno giorno facevano voti ed auguri pei trionfo dei Mille: e il grido di Viva l'Italia talvolta echeggiava fin sotto le finestre stesse del Re. La vittoria, di sua natura, aumenta le forze di chi la riporla e nella propria e nella opinione di chi la subisce: e il popolo e la Corte, animati da opposti sentimenti di speranza 0 terrore, convenivano in esagerare l'importanza numerica dell'armata italiana. L'esercito tremava al nome di Garibaldi e nei soldati manifesta appariva l'avversione ad affrontare sul campo le italiane legioni. E nessuno più ornai dubitava che il Duce dei Mille non fosse per invadere le provincie di Apulia e Calabria appena il permettesse lo stato degli affari nell'Isola.

V.— Né la diplomazia bastava a deprecare l'imminente e fatale sfacelo del regno borbonico. Invano Francesco II ricorse ad amici e nemici mendicando protezione ed aiuti; dimenticava che i topi persino abbandonano la casa che minaccia rovina. Gli ambasciatori napoletani a Londra, a Parigi ed a Vienna fecero quant’era possibile a stornar la procella che fremeva sul capo del loro padrone: ma non ottennero verun risultato. L'imperatore Napoleone, a cui l'unità d’Italia non era gran fatto simpatica, affermava desiderare che le Due Sicilie continuassero a formare uno Stato indipendente sotto la dinastia dei Borboni, ma credeva necessario che il governo mutasse sistema; e in tal guisa senza nulla promettere, la Francia dava consigli, mentre non di consigli era d'uopo, ma di armi e soldati (145). L'Inghilterra all'opposto che agognava acquistare, a scapito della Francia, simpatia ed influenza in Italia apertamente favoriva le velleità annessioniste del partito unitario. Finalmente l’Austria, sui cui appoggio il governo di Napoli potea maggiormente coniare, limitandosi ad esternare la sua simpatia per la Casa borbonica, dichiarava non trovarsi in condizioneda prestare assistenza o soccorso a Francesco II (146).

VI.— A tale verso il principio di giugno eran giunte le cose quando il governo francese, desiderando arrestar la carriera dell'armi italiane, interponevasi presso il Borbone, vivamente sollecitandolo perch'egli coll'accordare la costituzione e coll'allearsi al regno d'Italia cercasse evitare, se pur era possibile, la catastrofe che già gli pendeva sul capo. Il Borbone si sentiva perduto e perciò acconsentiva: il 25 giugno comparve un reale proclama che annunciava ritornata in vigore la tante volte giurata e ritolta costituzione. L'esperienza nel giro di pochi mesi stabilì ancora una volta l'incompatibilità del sistema rappresentativo col dominio borbonico (147).

VII.— Contemporaneamente la Francia, sollecita in attraversare il disegno dell'unità italiana, adoperavasi a Torino per indurre il governo a frenare lo slancio patriottico del generale Garibaldi. Ormai la Sicilia apparteneva all'Italia, e già presentivasi che il Borbone avrebbe più che volentieri rinunciato a' suoi diritti nell'Isola sempreché gli venisse assicurato il regno di Napoli. Il governo piemontese, che nella Sicilia vedeva una preda già certa, di malincuore tollerava che Garibaldi, coll’iniziar nuove imprese, s'esponesse a riperderla. Nessun prevedeva a quali conseguenze la conflagrazione di Napoli avrebbe potuto condurre: e, da consumato diplomatico, il conte Cavour, ai pericoli d'una nuova campagna, preferiva il sorriso di Francia e il pacifico possesso dell’Isola. La nuova conquista avrebbe, momentaneamente almeno, potuto soddisfar l'ambizione del ministro, ma essa era ben lungi dal risolvere il problema intavolato dal partito italiano. Se i desiderii dei moderati avessero in que' giorni prevalso, Francesco II calcherebbe tuttora il suo trono.

VIII.— Le difficoltà consistevano in ¡strappare di mano a Garibaldi il potere che s'avea colla spada acquistato. Certamente non era facile indurlo ad abdicare la dittatura nelle mani a colui ch'egli a ragione od a torto stimava un ostacolo al compimento del programma unitario. Il nome di Cavour, nella mente di Garibaldi, associavasi all'idea d'immobilità, del moderantismo e della cessione di Nizza e Savoia: né mai persuaso sarebbesi ad affidargli, in que' momenti, le sorti future d'Italia. A costringerlo non era né anche a pensarci: tanto più che al governo mancava il plausibil pretesto per un'armata invasione in Sicilia. Se non che tutto si poteva sperare dall'arte, dalla cospirazione moderata e dai consueti maneggi: e l'arte, la cospirazione e i maneggi furono indarno sprecati.

IX. —La-Farina fu l'uomo prescelto a mandare occultamente ad effetto un disegno che il conte Cavour ricusava compire in palese. Umile servitore, La-Farina accettava con gioia il mandato di cui compiacevasi il padrone onorarlo, e pochi giorni appresso salpava alla volta dell'Isola colle necessarie istruzioni e con auspicii sinistri. Dopo un viaggio ben diverso da quello dei Mille e per emozioni poetiche e per superati pericoli, sano e salvo toccava le coste della terra natale ed entrava a Palermo. Colà giunto accingevasi, a beneficio e per ordine del conte Cavour, a riannodare nel silenzio le fila della vecchia congiura, cui la vittoria del popolo dall'oscurità del mistero portata avea fra i tumulti di piazza o fra farmi sul campo di guerra. Gesuiti mascherati da filosofi, antichi borboniani camuffati da liberali, spie, poliziotti, bargelli, malcontenti d'ogni genere e specie, nobili ambiziosi, popolani ignoranti od illusi, bacchettoni e pinzocchere infoila affluivano alle porte del grande settario a consultarne gli oracoli e a cospirare con lui. Oltre moltissimi personaggi eminenti e per virtù cittadina e per alto sentire che agivano per impulso di cuore e principio, La-Farina può vantare di avere sotto le bandiere della moderazione arruolato la feccia, il rifiuto del popolo. Né mancavano lusinghe, promesse o danari: la publica coscienza vendevasi e compra vasi a un tanto per giorno. Gli affigliati alla setta ne divennero tosto gli apostoli, più zelanti quanto più era recente la lor conversione: i secreti convegni si moltiplicavano a dismisura in città e al di fuori: in pochi giorni un movimento di piazza era già apparecchiato che La-Farina ritenea irresistibile.

X. —Nei piani di Garibaldi la Sicilia diveniva siccome una leva necessaria a sommuovere il Regno di Napoli: ed era questo appunto il disegno che isventare volevasi. Unico scopo di tanti maneggi era quello di provocare nel popolo una dimostrazione imponente che valesse a determinare o a forzar Garibaldi a desistere dall'opera sua ed a precipitar l'annessione. Ammessa la votazione prevedevasi che il popolo siciliano si sarebbe all'unanimità dichiarato per l'unione col Regno d'Italia: compiuto il plebiscito La-Farina avrebbe afferrato il potere, (per cui seco forse recava il diploma ufficiale ¿Investitura) e condotto secondo le idee moderate le sorti future dell'Isola. Raggiunto l'intento i volontari sarebbero stati disciolti, Garibaldi, ridotto alla condizione di privato cittadino, rimandato a Caprera, ed anticipati di quattro mesi i tristissimi fatti d'ottobre. Arbitri degli avvenimenti i moderati avrebbero ridotto all'impotenza il partito unitario e troncato a metà della via la più gloriosa campagna dell'èra moderna. Per somma ventura le sorti d'Italia aveano disposto altrimenti: e mentre La-Farina apparecchiavasi ad effettuare il suo colpo di Stato e quando, tutto arridendogli, securo teneasi del trionfo, la cospirazione fu scoperta e repressa e le arti dei tristi sventate. La sera del sabato 7 di luglio il sacerdote Gusmaroli scortato da due guide presentava al sig. La-Farina il passaporto e un decreto di sfratto (148). L'agitatore rimase annichilito tanto più ch'egli non sapea persuadersi che il Dittatore potesse osare cotanto con lui. La-Farina protestò, strepitò, minacciò, ma convenne obbedire: l'ordine dittatoriale era perentorio ed esplicito, gli si concedeva soltanto d'indicare il naviglio sul quale desiderava imbarcarsi. Egli scelse la Maria Adelaide, ancorata allora nel porto: e tornossene scorato e oppresso a bordo del legno medesimo che portato lo aveva in Sicilia. Di là passò sull'avviso la Gulnara e corse a Genova e a Torino a sfogar coi padroni e sui giornali l'impotente sua rabbia (149). Cosi La-Farina, il presidente della Società Nazionale, l'alter ego, così egli spacciavasi, del conte Cavour, fu espulso dal suolo nativo come fomentatore di tumulti e di scandali e quale incorreggibile perturbatore della pubblica quiete. Ecco gli eroi moderati: eppure costoro in faccia all'Europa s'arrogano il vanto d'impedire i sollevamenti popolari e si costituiscono campioni dell'ordine!

XI.— La-Farina partiva, ma come si dice del diavolo, lasciavasi addietro la coda. L'agitazione annessionista aveva messo troppo salde radidi perché si potesse d'un tratto estirpare: e la congiura, disanimata non spenta per la sventura del capo, rialzava ben tosto la testa più fiera, più accanita che mai. Durante Pintiera campagna ebbe la Dittatura a lottare contro una fazione che unicamente studiavasi a sbarrarle la via: l'opposizione a Garibaldi era divenuta in certe sfere una frenesia ed una moda. Lo stesso Depretis che succedette a Garibaldi nell'amministrazione del paese incontrò Pagitazione medesima, sorda, misteriosa, instancabile. Scoprirne la fonte o l'origine era certo difficile impresa: eppure mille indizii rivelavano l'esistenza del vasto complotto. Depretis stesso non trovò miglior modo a difendersi se non quello di scacciare dall'Isola i cospiratori che La-Farina vi aveva mandato a continuare l’opera da lui cominciata.

XII.— Frattanto il Dittatore, sciolto dalle cure politiche, nuovamente volgeva il pensiero alle cose di guerra. Prima di tutto abbisognava assicurare il possesso dell'Isola: e Nino Bixio, elevato in que' giorni alla dignità di general di brigata veniva col suo corpo mandato a promulgare e stabilire il nuovo governo nelle valli di Mazzara e di Demona. La marcia dei volontari traverso il paese fu un vero trionfo: le popolazioni plaudenti da tutte le parti accorrevano a festeggiare ed applaudire il vessillo italiano; e il nome di Vittorio Emanuele veniva acclamalo dalla punta di Trapani all'estremità del promontorio Passero.

Nino Bixio e il suo corpo visitarono rapidamente Corleone, Caltanisetta, Girgenti e Catania: e con lunghissimo giro, seguendo la spiaggia del mare orientale, raggiunsero a Messina l'armata trionfante (150).

XIII.— Verso il finire del luglio il Dittatore si accinse a riaprir la campagna. Le sue truppe con quelle che Medici e Malenchini aveano condotto da Livorno e da Genova, sommavano forse a cinque mila soldati. L'armata era piccola, confrontata con quella di cui il Borbone tuttavia disponeva: ma il difetto del numero era largamente compensato dall’influenza della bandiera sotto cui comhattevasi, dall'ardire e dal personale valore dei militi. Oltre questi vantaggi esso poteva contare sul nome di Garibaldi che solo era una potenza tanto per entusiasmare i volontari quanto per isgominare le file nemiche.

XIV.— I preparativi erano stati spinti con alacrità durante il mese di giugno. I Picciotti, inscritti in gran numero, si trovavano ordinati regolarmente ed istrutti nel maneggio dell'armi e nelle evoluzioni di campagna. Fino alla partenza da Palermo le manovre ebber luogo regolarmente due volte per giorno, al mattino cioè ed alla sera (151). L'indole pronta e svegliata dei volontari e dei Picciotti parea facesse miracoli: ed invero, dopo si breve tempo gli uni e gli altri compivano gli eserciti militari come se non troppe raccogliticcio od improvvisate, ma fossero stati veterani appartenenti alla più vecchia e disciplinata armata d'Europa.

XV.— Il 26 giugno fu il giorno fissato a ripigliare la guerra. Per ordine e sotto la direzione del Dittatore le truppe vennero schierate sul molo e passate in rassegna. Esse dovevano partire alla volta di Messina sotto il comando di Giacomo Medici al quale Garibaldi dava le necessarie istruzioni per ogni eventualità che potesse incontrare per via. L'armata si pose Osto in cammino; e non sarà, crediamo, discaro ai lettori conoscere dalla descrizione stessa d'un volontario le particolarità e le emozioni d'un viaggio nella parte più nota e più colta dell'Isola.

XVI.— «Lunedi 26 del mese di giugno, a a cinque ore di mattina, abbandonammo Palermo prendendo la via di Bagheria. La strada che a dovevamo percorrere, per la massima parte, è comoda e piana: alla nostra diritta era il mare, e a sinistra una lunga serie di colline, le une sovrapposte alle altre. e tutte egualmente pittoresche ed amene. Temperava i calori del giorno e la placida brezza del mare impregnata da effluivii odorosi emananti dagli innumevevoli boschetti di limoni e d'aranci che adornano quelle terre deliziose al pari e felici. Distratto da tante e si dolci impressioni fu il nostro viaggio lieto e gradevole: e alle undici ore di sera giungemmo alla meta.»

XVII.— «Bagheria, è piccolo paese, situato nel centro dell'istmo che mette ad un'angusta penisola terminata dal capo Zafferano. Negli ardori della state è luogo di ritiro pei ricchi palermitani, a le ci superbe villeggiature si elevano lungo le spiaggie del mare o sul pendio de' prossimi a colli. Immensi parchi e giardini le circondano: il loro aspetto è imponente e grandioso. Tuttavia, malgrado una rigogliosa vegetazione non inferiore a quella dei tropici, e malgrado lo sfoggio di magnificenza e di lusso che vi si ammmira, la mancanza di disegno e di gusto rivelano la decadenza della civiltà e dell'arte. Da certi minutissimi indizii che mi venne fatto raccogliere giudicai essere pessima l’indole di quegli abitanti: infatti noi fummo trattati malissimo..

XVIII.— «Dopo due giorni di riposo la sera del 28 ripigliammo la marcia alla volta di Termini. È questa una città ragguardevole, situata a in posizione amenissima, eppure, come sempre, di aspetto miserrimo e squallido. Ritrovammo a colà un'accoglienza entusiasta e vivissima: e le cure di que' buoni cittadini ci fecero dimenticare in gran parte le sofferenze del lungo viaggio. Una chiesa fu la nostra caserma: ed avemmo a nostra disposizione le campane ed un organo abbastanza accordato. I soldati approfittarono tosto di tanta fortuna: le sacre volte del tempio per tutta la notte, e forse per la prima volta, echeggiarono di profane armonie di polcke e mazurcke accompagnate da evviva e da baccani indicibili. Credo che que' buoni terrazzani rimanessero scandalezzati a tanta profanazione e tuttavia ponno essere alcuni tra essi a cui la nostra partenza dispiacque solo per non poter più sentire dal loro organo ripetere le dolciarmonie di quell'allegrissima notte.»

XIX.— «Sabato 1.° luglio partimmo da Termini u dirigendoci a Cefalù, altra città situata sul mare e ventiquattro miglia da quella discosta. Questa fu la parte più allegra e più splendida del nostro viaggio: traversammo il Fiume Grande le cui rive ridenti serpeggiano fra le sinuosità di un terreno ubertoso ed opimo: e percorremmo forse la più bella fra le strade dell'Isola. Agli sguardi nostri s'offrivano sempre nuovi miracoli, sempre nuove vedute: vasti boschi d'aranci, di limoni e fichi barbarici: stupende pianure intersecate da montagne o torrenti; ed infine una non interrotta continuazione di castelli feudali diroccati o cadenti distribuiti sui ciglioni d'impraticabili roccie le cui cime selvaggio e nerastre si riflettono sulle onde tranquille ed azzurre del Mediterraneo. Una risplendentissima luna guidava coi raggi d'argento i nostri passi durante la notte: essa pareva amorevolmente guardarci dall'alto dei cieli quasi fosse una sorella o un'amica..

XX.— «Giungemmo a Cefalù il successivo mattino alle undici ore. Quegli abitanti ci accolsero con cordialità riservala, di cui bentosto sperimentammo gli effetti pel modo col quale venimmo alloggiati. Il giorno appresso ci riponemmo in viaggio, sempre costeggiando la marina alla volta di Santo Stefano circa otto leghe lontano.»

XXI.— «Potrei male descrivere i patimenti e gli orrori di quella marcia d'inferno. Furono ben ventiquattro miglia d'impraticabili montagne, a destra e a sinistra circondate da precipizii ed abissi, ignude per gran tratto e deserte. Strade non erano, ma sentieri e viottoli appena tracciati tra gli scoscendimenti delle roccie, ingombri sovente da cespugli e burroni e talvolta eziandio da enormi massi di granito cui il lento lavoro di secoli distaccò dalle rupi precipitandoli nelle gole soggette. Valicammo quel giorno due fiumi o torrenti il Pollina e il Patineo le cui acque scorrono tra profonde voragini: e dopo sedici ore d'incredibili stenti e fatiche sani e salvi toccammo la tanto bramata Santo Stefano..

XXII.— «Di là, con una marcia dalla precedente non guari dissimile, ci portammo a Sant'Agata, dove ripigliammo il cammino alla volta di Patti. Questa, quando voglia confrontarsi alle due precedenti, fu una marcia abbastanza gioconda. A Capo Orlando, dopo dodici miglia perle corse, fu concesso un po' di riposo. Quivi ci le attendeva una grata sorpresa: gli abitanti di Naso e delle vicine località avevano, con gentile pensiero, apparecchiato pei volontari un copioso rinfresco; per gli ufficiali consistente in vino e gelati; ed in vino egualmente, in carne ed in le pane pe' militi. Alle due antimeridiane del giorno seguente, rifocillati e contenti, prendemmo la via di Gioioso, nove miglia da Capo Orlando discosto e nove miglia pure da Patti, dove egualmente trovammo fraterna accoglienza,»

XXIII.— «Entrammo a Patti per un lungo viale ombreggiato da piante diverse e magnifiche, applauditi e festeggiati da tutto il paese. Patti, posta in situazione superba e città di non grande importanza, giace a cavaliere d'una vaga collina che sporge sul mare, ad oriente del Capo Calnava, d'incontro a Milazzo (152). .

XXIV.— Dall’altra parte il generale nemico non si tosto conobbe che i volontari erano rientrati in campagna, concentrò le sue truppe a Messina, appoggiando le due estremità dell'esercito alle piazze forti di Scaletta e Milazzo. Per tal modo eziandio la costa orientale dell'Isola veniva abbandonata dai presidii borbonici, ove però se ne eccettui la cittadella di Siracusa cui l'importanza del luogo e la difficoltà degli approcci avevano invitato a difendere. I Napoletani occupavano quindi l’angolo più angusto e settentrionale della Sicilia: ed era là che doveva decidersi dei fatti dell'intiero paese.

XXV.— Il generale napoletano nella persuasione che Garibaldi, seguendo la grande strada centrale di Misilmeri e Randazzo, dovesse avvicinarsi a Messina dal lato del sud, aveva da quella parte disposto le sue migliori difese. Ma i volontari avevano, come si vide, seguito una strada diversa: decisamente il generale borbonico era condannato a farsi ingannare dalle arti del suo tremendo avversario. Medici, percorrendo la riva del mare, era improvvisamente comparso davanti a Milazzo nell'istante e nel punto in cui meno aspettavasi. Convenne allora che Bosco mutasse i suoi piani: egli diede le necessarie disposizioni per recarsi ad incontrare l'armata di Medici: e i campi di Milazzo furono scelti come il luogo più adatto alla decisione del grande contesto.

XXVI.— Bosco frattanto lasciato a Messina un numeroso presidio tanto per proteggerla da un attacco nemico quanto per tenere in freno que' cittadini che ben conoscea male affetti al governo, coll'esercito che rimanea disponibile moveva il mattino del 3 verso Milazzo. Egli movea, guidato da avversi destini, ad incontrarvi quel generale che avevalo consecutivamente vinto cogli stratagemmi a Parco, a Piana de' Greci e a Palermo, e che or si accingeva a batterlo a Milazzo colla forza delle armi. Le truppe che seco condusse in campagna sommavano appena a sei mila soldati: ove a questi s'aggiungano forse altri quindicimila rimasti di presidio a Messina e nei forti si può congetturare che l'intiera armata napoletana in Sicilia non oltrepassasse i venti mila combattenti. Le defezioni, le malattie e la guerra avevano sì grandemente ridotto un esercito che allo sbarco di Garibaldi a Marsala contava non meno di cinquantamila soldati!

XXVII.— E Medici dall'altro lato lentamente avanzavasi. Il 12 i volontari valicarono il Patti e si diressero sulle colline di Tindaro e Castro: e l'intervallo che divideva i due campi a poco a poco diminuiva e spariva. Il mattino del 13 Medici occupò Barcellona e Limeri (153), piccole terre situate sulla via di Messina, e spinse gli avamposti ancora più avanti nella direzione medesima.

XXVIII.— Verso la sera del giorno medesimo '¿rasi divulgata la voce che i regii, scendendo le alture di Gesso, marciassero sopra Rausa. In conseguenza si presero le disposizioni perché i volontari al primo allarme si trovassero pronti ed apparecchiati alla pugna. L'allarme infatti fu dato alle due antimeridiane del 14: in un batter d'occhio tutti erano allestiti, sotto l'armi e al loro posto i due reggimenti della brigata coi loro colonnelli alla testa si schierarono sul torrente Limeri ad attendere il nemico che già si credeva vicino. Ma le ore passavano, né i regii si vedean comparire: i volontari rimasero schierati sino allò ore cinque di sera. Allora il generale, fatto certo che Bosco tuttavia si trovava ben lungi, ordinò ai comandanti delle compagnie di abbandonarsi alle consuete manovre: ed i volontari, dopo aver vanamente aspettato la pugna, tristi e pensierosi adattaronsi agli usati esercizii.

XXIX.— Il mattino del 15 gli esploratori, mandati a spiare le mosse nemiche, annunciavano che Bosco, scendendo la montagna, celeramente marciava sulla via di Rausa, senza dubbio ad oggetto di gettarsi nel campo trincerato di Milazzo. La linea che i Napoletani dovevan percorrere era parallela alla fronte di battaglia dei nostri: ragione per cui poteva credersi vicino un conflitto. Medici impertanto dispose le truppe sul largo e profondo torrente Limeri che scorre da levante a ponente di fronte a Milazzo: posizione di per sé stessa assai forte e resa quasi imprendibile dai lavori che i nostri vi avevano improvvisamente elevato. Il colonnello Malenchini col secondo reggimento si distese sulle due rive del torrente alla sinistra tino alle spiagge del mare: il colonnello Simonella con tre battaglioni del primo occupava Limeri, ed il capitano Guerzoni, faciente funzione di maggiore, schieratasi col quarto battaglione del primo sulle alture di Santa Lucia all'estrema destra del campo. Formavano l’antiguardo sul centro i maggiori Cadolini e Migliavacca coi rispettivi lor battaglioni.

XXX.— «Quanto era bello, scrive un garibaldino, il veliere schierata in ordine di battaglia quella eletta gioventù, speranza unica e somma d'Italia!» Alle ore nove mattutine i volontari notarono che gli avamposti della estrema destra avevano incominciato un movimento retrogrado: segno evidente che il nemico, sì a lungo aspettato, oggimai vicino trovavasi. Un profondo silenzio regnava su tutta la linea: i soldati coll'armi imbrandite e gli ufficiali colle spade sguainate alla testa delle loro compagnie ansiosamente attendevano l’istante d'irrompere. A vederle avresti detto non esser quelle truppe raccogliticcie e volontarie, ma schiere regolari di veterani educati alla disciplina dellle armi e al fragor della zuffa.

XXXI.— Fosse ordine ricevuto o divisamento di Medici, i volontari non si mossero dalle lor posizioni. Prima cura di Medici apparentemente doveva esser quella d'impedire la congiunzione del corpo condotto da Bosco colle truppe che stavano di presidio a Milazzo. Il che avrebbe potuto agevolmente ottenersi intercettando la strada di Spadafuori, unico passaggio che al generale nemico restasse per effettuare il suo piano. Ma il generale dei volontari, o giudicasse la posizione occupata di troppa importanza per indursi ad abbandonarla, o temesse esporsi a qualche inopinato rovescio, o non dovesse per istruzioni avute avventurarsi tropp'oltre, si tenne sulla stretta difesa e lasciò che il nemico tranquillamente compisse la marcia ideata.

XXXII.— Celeramente sfilavano i regi davanti alla linea dei nostri. La colonna sulla via di Spadafuori a Milazzo occupava più miglia in lunghezza per modo che, mentre la fronte si trovava vicino alla fortezza, il retroguardo marciava tuttavia da Rausa. In quel punto due delle nostre guide discesero dal colle di Santa Lucia ad oggetto di esplorare da vicino i movimenti dell'armata nemica. I Napoletani, come videro le terribili camicie rosse avanzarsi si credettero attaccatidall'intiero esercito di Medici; e presi da improvviso e irresistibil terrore si diedero a precipitosa fuga disperdendosi pei burroni e per le roccie delle vicine montagne. Forse oltre mille Napoletani furono sgominati e dispersi dai due volontarii: eglino traversando la montagna si ridussero sulle rive del mare donde, per mezzo di alcune barche a bella posta inviate, vennero il giorno appresso trasportati a Milazzo. Ciò prova quanto stata sarebbe agevole cosa disordinare e distruggere nella marcia l'armata di Bosco se Medici l'avesse pensato o voluto (154).

XXXIII.— Il giorno seguente passò tranquillissimo. I Napoletani approfittarono del breve respiro a riprendere il coraggio perduto ed i volontari a prepararsi al trionfo. Dopo ([nasi due mesi d'intervallo i volontari il 47 luglio finalmente rividero la faccia dei regii.

XXXIV.— Da Milazzo per la vasta pianura si distende una strada tortuosa ed angusta che mette a Limeri. Ad oriente di questa sedevano due cascinali composti di pochi meschini tuguri abitati dai villici: punti di nessuna importanza, ma che erano stati tuttavolta occupati dai nostri avamposti. Archi è il primo e più vicino alla strada: raltro cascinale, un po'più grande e discosto 5 si chiama Coriolo. Forse ottocento Napoletani attaccarono la mattina del 7 nel cascinale di Archi i cento settanta volontari che vi stavano a guardia coi capitani Mangili e Cattaneo. I Garibaldini bravamente lottarono e per lungo tempo rintuzzarono l’audacia borbonica: ma soprafatti dal numero dovettero in appresso ripiegare a Limeri. In quel primo scontro i volontari lasciarono sul campo' dieci morti ed altrettanti feriti, e perdettero inoltre circa venti compagni rimasti prigionieri col bravo Cattaneo. I Napoletani, restati padroni del campo, breve dimora vi fecero; poco stante il teatro di tanta ferocia scombro restava e deserto.

XXXV.— Quel piccolo scacco subito, lunge dal disanimare i volontari, gli accendeva di nobile ardire: ali annunzio dell'accaduto un grido d’indignazione e vendetta scoppiò da tutti i cuori, s'udi su tutte le labbra. Due battaglioni del reggimento Malenchini furono in tutta fretta mandati a reprimere e a castigare l'insolenza borbonica: eglino s'Insignorirono di Archi e Coriolo, mentre ì Napoletani, presi dalla solita paura, si ritraevano prudentemente dietro le loro trinciere. Calsi con piccoli scontri ed attacchi si preludiava da una parte e dall'altra più seria e decisiva tenzone.

XXXVI.— In questo mezzo Garibaldi, presentendo vicino il conflitto e stimando la propria presenza necessaria sul campo, affidava il 8 il governo dell'Isola nelle mani di Sirtori, suo Capo di stato maggiore, e partiva la sera medesima per mare alla volta di Patti. Egli raggiunse la brigata il giorno 19 a Limeri: e la sua comparsa venne salutata dagli unanimi e fragorosissimi applausi dei volontari e del popolo. Il Dittatore commosso arringò le truppe e le lodò del contegno tenuto in campagna e in battaglia: e con suo ordine del giorno dato in Li meri dichiarò la brigata Medici aver bene meritato della patria (155). La sera medesima il Generale si portò sull'alture di Santa Lucia affine di esaminare la piazza cui voleva assalire ed esplorare le opere e le difese e la disposizione delle forze borboniche.

XXXVII.— Milazzo, città ragguardevole ed una delle principali fortezze dell’Isola, giace sull’istmo che mette ad un angusto promontorio di poco più che tre miglia in circuito ed è terminato col Capo Bianco: essa si divide in due parti; la borgata inferiore od aperta e la città superiore o murata. Al di sopra di questa torreggia un castello antichissimo, avanzo delle passate generazioni ed edificato sulla roccia in situazione pressoché inespugnabile. Le muraglie tetre e grigiastre si riflettono sull’acque ove Augusto, diecinove secoli addietro, in conflitto navale sconfisse la flotta di Sesto Pompeo. Elevasi il castello sulla punta nord-ovest della città sopra l’antico porto, e domina a mezzogiorno e a ponente il campo trincierato, la campagna ed il mare. Ai piedi del castello medesimo giace un grandioso edificio che alle truppe napoletane solea servir di caserma e per la porta del quale si transita dalla bassa alla città superiore. Due strade quasi parallele, ma runa rettilinea e l'altra tracciata con qualche leggiera sinuosità, discendendo dall'alto mantengono le comunicazioni del campo trincierato col forte, e mettono, ambedue ricongiunte, alla porta Messina.

XXXVIII. —Fuori appena di Milazzo la strada piega a sinistra e si dirige costeggiando la montagna a Messina. Da questa, a breve distanza dalla città, un’altra strada diramasi, la quale correndo a mezzogiorno conduce a Limeri, dove allora trovavasi il centro del campo italiano. Ed il campo trincierato tenuto da Bosco per l'appunto occupava lo spazio che stendesi sul davanti della città sino al bivio indicato. Codesto campo, munito di una linea di difesa, da una batteria di campagna e varii fortilizi, appoggiavasi alle due estremità sulle rive del mare che bagna a levante e a ponente la città e la penisola. Per ultimo un piccolo fiume o torrente che scorre tra il campo e la città ed è traversato da un solo ponte meschino ed angusto compie le naturali ed artificiali difese d'una piazza cotanto munita.

XXXIX.— Garibaldi vide, conobbe e risolse. Ritornato da Santa Lucia si pose a meditare il suo piano d'attacco ed ai mezzi di porto ad effetto. Né le difficoltà del luogo, né le formidabili difese che i Napoletani vi avevano eretto valsero a sgomentarlo e ad indurlo ad abbandonar un'impresa dalla cui riuscita doveano dipendere i destini d'Italia. Con imperturbabile sangue freddo e con quella fronte serena ch’egli sa conservare tra i più gravi pericoli emanò gli ordini opportuni perché sull'alba del giorno vegnente si avesse ad incominciare l'assalto.

XL.— Il 20 luglio, alla punta del giorno le truppe italiane trovavansi sotto l'armi schierate e già pronte a marciare. Il colonnello Malenchini doveva col suo reggimento occupare il piccolo villaggio di San Pietro situato a sinistra del campo verso il mare, ed assalire pel primo il nemico alla estrema sua destra. Contemporaneamente il Dittatore recavasi col battaglione Gaeta e col battaglione Dunne ad occupare alcuni cascinali che giacciono ai fianchi della strada di fronte al centro borbonico. A destra il maggior Migliavacca avanzatasi col suo battaglione, col battaglione Gaeta, colla terza compagnia capitano Croff, e colla prima compagnia del battaglione bersaglieri Cosenz, il solo della brigata che in tempo sia giunto a partecipar della gloria di quel memorabile giorno. Il quarto battaglione del primo reggimento ed il maggior Cadolini col secondo battaglione vennero destinati l'uno di riserva sul centro e raltro all'estrema sinistra.

XLI.— Alle ore cinque mattutine s'udirono le prime fucilate. Era il colonnello Malenchini che occupato San Pietro vigorosamente caricava il nemico sin dietro le sue trinciere. Con eguale celerilà e fortuna Garibaldi insignorivasi dei cascinali del centro ed apriva il fuoco di fianco alla strada. Dal canto suo Migliavacca assaliva la destra borbonica, ed in poco d'ora il combattimento si accese micidiale e terribile su tutta la linea.

XLII.— Esteriormente al campo trincierato il terreno, comunque eguale e spazioso, era ciò non di meno frastagliato ed ingombro di canneti e di boscaglie di amandorle, di aranci e di fichi barbarici e presentava agli assalitori innumerevoli e, se non gravi, noiosissimi ostacoli. Non è a dire quanto quegli accidenti favorissero la linea dei Regii, i quali combattevano coperti e nascosti dalle loro difese e dal lussurioso fogliame d'una vegetazione non inferiore a quella dei tropici. Senza artiglieria e scoperti erano i nostri costretti a lottare contro un nemico invisibile, munito di tutti i mezzi e riparato dietro i suoi fortilizi.

XLIII.— Avevano i Napoletani collocato tre pezzi d'artiglieria, l'uno sulla strada di Limeri e gli altri due sui fianchi non lungi dal primo. Il fuoco incrociato ed abilmente diretto dal lor generale fulminava il centro dei nostri, molte cagionando lagrimosissime perdite all'armata italiana. I Garibaldini rispondevano alla meglio all'infuriare nemico e con eroica persistenza mantenevano la; lor posizione.

XLIV.— Così con eguale accanimento e fortuna combattevasi da una parte e dall'altra, senza che la vittoria inclinasse a favore dell'una o dell'altra bandiera. Il Dittatore nel centro, a cavaliere d'un tetto che cuopriva una miserabile capanna, osservava attentamente le mosse de' Regii e de' 'suoi. I Napoletani sópra tutto pesavano sulr estrema lor destra e sul centro e precisamente sullo stradale di Limeri e parevano risolti a tentare un colpo decisivo sulla linea medesima comandata dal generale Garibaldi. Verso le ore undici la somma delle cose annunciava vicino un urlo terribile.

XLV.— Bosco allo stesso tempo mandava una colonna composta delle migliori sue truppe sullo stradale di Spadafuori coll'ordine di portarsi alla destra dei volontari e girarla ed attaccare di fianco le schiere del maggior Migliavacca. Eseguivano i Borboniani il comando: eglino marciavano rapidamente proietti dai canneti e dalle macchie al punto indicato. In quel mentre Garibaldi, non sospettando di quella mossa nemica, avea mandalo a Migliavacca istruzioni di spingersi avanti e di snidare dalla strada suddetta i corpi Napoletani che la occupavano. Accingevasi Migliavacca ad eseguire il comando, allorché si accorse della colonna che a passo di carica sfilava sulla sua sinistra mezzo ascosa tra i cespugli nello scopo evidente di avvilupparlo e rovesciarlo sul centro. Fu mestieri cangiar di proposito: per mezzo di un ufficiale d'ordinanza il maggiore ne diede pronto avviso al Generale, e nel tempo stesso dirigeva la sua linea contro i Borbonici. Questi, vistisi scoperti e trovandosi da assalitori assaliti, ruppero gli ordini e si diedero precipitosamente a fuggire, inseguendoli i nostri fra i boschi e le macchie sin dentro le loro trinciere.

XLVI.— A sinistra il combattimento prendeva una piega diversa. Assalito da forze immensa, mente superiori alle sue, Malenchini fu costretto a retrocedere e ripiegare sul villaggio San Pietro che i volontari tenevano a stento. Quella mossa, retrograda veniva ció non per tanto eseguita con sangue freddo ammirabile: gl'Italiani cedevano a passo a passo il terreno ed opponevano la pii. ferma resistenza all'invasione dei Regii. Verso mezzogiorno l'armata italiana, vincitrice a destra, era perdente a sinistra e il centro conservava la. sua posizione: per tal modo il risultato della zuffa e la fortuna del giorno equilibravasi: pure se vi era vantaggio esso in quell'istante pendeva! dal lato dei Regii.

XLVII.— Allora il Dittatore comprese esser giunto Pistante di tentare un attacco decisivo sul centro. Incontanente ordinò il quarto battaglione Guerzoni di riserva a sinistra e il battaglione Cadolini venissero a marcia forzata a raggiungerlo.. Contemporaneamente spinse in avanti il battaglione Gaeta, mandò Missori e Statella colle guide, e coi carabinieri genovesi ad assalire il cannone che bersagliava la via di Limeri, e finalmente dispose che Dinne coi Picciotti costeggiando la strada attaccasse di fronte i Borbonici. Missori e Statella dovevano a traverso i canneti avanzarsi e penetrare inosservati sino al muro di cinta e questo superato scagliarsi sul pezzo ed insignorirsene. Il Generale medesimo si condusse sul luogo dell'azione a partecipare dei pericoli de' suoi volontari ed a dirigerne le mosse e il valore.

XLVIII.— Primi i Picciotti, guidati da Danne, a gran passi avanzavano sino al punto ove la strada, perdendo la tortuosità primitiva, in linea diretta si stende all'entrata delle trinciere borboniche. I Napoletani, che li attendevano al varco, li salutarono allora con una triplice scarica d'artiglieria a mitraglia, rovesciando i più esposti e spargendo il disordine nell'intiera colonna. All'improvviso disastro i Picciotti s'arrestavano titubanti ed incerti: e gli ufficiali si adoperavano invano ad infonder coraggio nelle fis sottoposte ai loro ordini.

XLIX.— Approfittando del piccini vantaggio ottenuto Bosco slanciò a caricarli uno squadrone di cavalleria di riserva. Come videro i Picciotti il nemico avvicinarsi a briglia sciolta lungo la strada più non ascoltarono che il fatale spavento da cui stranamente parevan compresi: ed, abbandonata la posizione e smarrito ogni sentimento di pudore e vergogna, si salvarono a destra ed a sinistra fuggendo pel campo. I cavalieri napoletani, trovando la strada già sgombra, rapidamente oltrepassarono e discesero verso Limeri (156).

L.— Ma la rotta dei Picciotti per fortuna era stata più apparente che vera: sulla destra un lunghissimo muro, folte macchie a sinistra bastarono a contenere ed arrestare il loro sgomento e la fuga. Colà riannodati si disposero in linea, pronti a sostenere l’assalto dei Regii ove questi avessero osato cercarli nella nuova posizione occupata. Ad essi tosto si congiunse una compagnia di Malenchini ed una piccola squadriglia di bersaglieri.

LI.— Nel frattempo Missori e Statella? accompagnati da forse cinquanta guide e carabinieri, avevano con pari accortezza che slancio eseguita la mossa che stata ora loro ordinata. Eglino celeramente marciando fra le macchie erano riusciti a superare non visti la linea indicata e si trovavano davanti al terribile pezzo che tanti danni avea già cagionato. Garibaldi li attendea sulla strada a piedi e colla sciabola in pugno: e certo la sua presenza era necessaria ad effettuare un disegno dal cui risultato dipendea la battaglia, il cannone borbonico in quel punto fa fuoco e vomita una grandine di mitraglia: dei volontari alcuni cadono morti o feriti mentre gli altri a tutta corsa si slanciano, ed uccisi o dispersi gli artiglieri, s' insignoriscono del pezzo e lo rivolgono contro i nemici (4).

LII.— La cavalleria napoletana che scorrea vittoriosa sul grande stradale sentivasi in questo mentre ricominciare alle spalle il fragore dell’armi, e rivolgendosi a tutta corsa volava o a soccorrere i suoi od a salvarsi in Milazzo. Ma il ritorno non era senza pericolo: perocché i Picciotti schierati accanto alla strada raccolsero con un vivo e ben nutrito fuoco di moschetteria cagionandole gravissime perdite. Sotto il tempestar delle palle la cavalleria napoletana passò come turbine e già si credeva al sicuro, quando il Dittatore, Missori e Statella con cinque o sei uomini le intercettarono il passo e le intimarono la resa (157)..

LIII.— Alla intimazione di Garibaldi l'ufficiale borbonico rispose con un colpo di sciabola: il Dittatore lo para e nell'atto medesimo lo ferisce di rovescio alla gola e lo caccia per terra. Si precipitano allora i Napoletani sul Generale che si difendea bravamente, quando Missori come un leone si scaglia nel mezzo e mentre colla persona difende il suo capo, allontana gli assalitori a colpi di revolvers e di sciabola. Infiammati dal nobile esempio i volontari fecero egualmente il loro dovere: e i Borboniani dopo breve difesa rendettero le armi e si dichiararono prigioni di guerra (158).

LIV.— Il Dittatore rannodati quanti più volontari poteva penetrò nel campo nemico ad inseguire i Regii che vinti ed atterriti da ogni parte fuggivano. Nel medesimo tempo Migliavacca superata la linea nemica per la strada di Messina vittoriosamente avanzavasi, inseguendo i Napoletani colle baionette alle reni, verso il ponte che dà accesso in città. E Bosco veduta la sinistra ed il centro sbaragliato ed oppresso incominciò la ritirata fuggendo in castello.

LV.— Una battaglia è una successione fortuita di fatti e incidenti che non si può, rigorosamente parlando, delineara esattamente o descrivere. Si possono bensì numerare e raccogliere i più. lievi accidenti, il cui grande risultato finale è una battaglia guadagnata o perduta; ma non già stabilire l'ordine o il punto nel quale essi accaddero, pesare in giusta lance il loro reale valore e determinare per quali cause ed in quale proporzione abbia ciascun d'essi sulle sorti del giorno influito. La vittoria o la sconfitta è la somma collettiva d'innumerevoli fatti parziali, la cui importanza mai sempre dipende dalle molteplici e volubili circostanze di luogo e di tempo, e i cui rapporti ci sfuggono nella serie infinita delle gradazioni che si sottraggono all'analisi dell'umano pensiero (159).

LVI.— La destra dell'armata napoletana che, respinti i volontari di Malenchini, vittoriosa marciava a San Pietro, correva in tal modo pericolo di venire separata dai suoi e travolta nel mare il che sarebbe senza dubbio avvenuto se il corpo di Garibaldi fosse stato più forte od i militi meno affaticati. Come i Borboniani s'accorsero della disfatta subita dal centro e dalla loro sinistra lasciarono Malenchini e precipitosamente fuggirono verso Milazzo, con qualche stupore de' nostri che non sapeano la cagione di tale spavento. Ogni ordine di disciplina era rotto: i soldati anelanti correvano al ponte e promiscuamente si precipitavano nella città. I Garibaldiani gli inseguiano d'appresso, ma non tanto però da impedire che; il nemico raccogliesse tutte le sparse sue schiere sotto il cannone del forte (160).

LVII.— Primo a penetrare sino al ponte Ai il maggiore Migliavacca col suo battaglione. 1 Regii, non ritenendosi sicuri nemmeno in Milazzo, s gettarono a precipizio nel forte. Le strade e la campagna, poco prima gremita di truppe borboniche appariva già sgombra e deserta: né un solo soldato nemico trovatasi nello spazio che giace tra il ponte e il castello.

LVIII.— Adorai cannoni del forte cominciarono a tirare a mitraglia: il maggior Migliavacca gloriosamente cadeva alla testa del suo battaglione, già decimato da sei ore di lotta incessante. Pure ogni sforzo suo fu inutile: l'intera linea garibaldina avanzavasi vittoriosa ad investire la città. I volontari vi penetrarono a viva forza sotto un'orribile pioggia di palle e proiettili: e rasentando le case o percorrendo le vie laterali si portarono ad occupare il molo e la piazza medesima situata davanti al castello. Colà giunti proseguirono il combattimento senza nessun risultato per una parte o per l'altra: né le artiglierie reali potevano recar nocumento ai volontari schierati sotto le mura stesse del forte o dietro le case della perduta città, né i Garibaldiani coi fucili valevano a recar danno al nemico coperto dalle grosse muraglie del castello.

LIX.— Vincitori i volontari si distesero sulla penisola ed occuparono i punti donde meglio potevasi bersagliare gli artiglieri nemici. Il Dittatore ordinò che si costruissero barricate all'intorno del castello al fine d'impedire qualunque sortita che Bosco pensasse intraprendere, ed appostò tre distaccamenti sul Molo e sulle alture del Molino a vento e di San Leucio, al nord e al nord-ovest, con istruzione di sorvegliare e molestare le truppe borboniche. Di là i volontari nutrivano un fuoco incessante e vivace contro le cannoniere del forte sebbene con pochissimo frutto.

LX.— Avea Garibaldi disposto che Tuckery, sul quale era giunto a Patti unitamente alle guide e al battaglione Cosenz, si portasse nel golfo della Madonna, onde potesse al primo cenno avanzarsi e cannoneggiare il castello. Il momento era giunto di porre ad effetto quel piano: ma nel viaggio Tuckery avendo perduto una ruota fu per esso impossibile il prendere parte alla zuffa.

LXI.— Ma il giorno seguente il vapore, la City of Aberdeen, il quale aveva a Patti esso pure sbarcato il rimanente della spedizione colonnello Enrico Cosenz, proseguendo, a norma delle ricevute istruzioni, il viaggio, comparve davanti a Milazzo. Il Dittatore lo raggiunse su piccola barca: e presane la direzione, abile del pari nelle operazioni di mare e di terra, egli stesso il condusse all'attacco del forte.

LXII.— Il combattimento durava così per due giorni senza che perciò si cangiassero le sorti dei due contendenti. Da una parte i volontari mancavano dei mezzi voluti ad espugnare il castello, e dovevano quindi unicamente accontentarsi a bloccarlo: Bosco dall'altra, circondalo e rinchiuso, non poteva sperare di sottrarsi ad una resa oramai inevitabile. Oltre cinque mila Borboniani, d’ogn’arma e di varie lingue e paesi, stavano colà rintanati; le provvigioni erano insufficienti per modo che già quasi mancavano i viveri il secondo giorno del blocco. Quello che non potevano i Garibaldiani il poteva la fame, la nemica fatale e inflessibile delle fortezze assediate. Per poco che quello stato di cose fosse ancora durato stato Bosco sarebbe costretto ad arrendersi a discrezion del nemico. I volontari, con un sorriso, osservavano dall'alto del castello il telegrafo arrovellarsi a chieder soccorso: ben eglino comprendevano il significato di quel muto linguaggio: il presidio versava in angustie pressanti e terribili (161).

LXIII.— Verso le dodici meridiane del 23 successivo gli avamposti italiani scoprirono un vapore che, spinto a gran forza, navigava alla volta del porto issando bandiera borbonica. Altri vapori non lungi il seguivano; e ben tosto un' intiera flottiglia nemica comparve davanti a Milazzo. Ma le intenzioni dei sopravvenuti non erano ostili se dovea giudicarsi dalla bianca bandiera parlamentare che sventolava attaccata all'albero di prora del primo vapore. Il Dittatore, avvertitone, faceva incontanente schierare i suoi militi in linea di battaglia, e spediva il colonnello Cenni dello Stato Maggiore a ricevere le proposte dei Regii. Salito sopra una lancia sormontata da due piccole bandiere, l'una tricolore e l'altra bianca, Cenni recavasi a bordo del legno nemico, donde mezz'ora dopo tornava accompagnato da un colonnello e due ufficiali napoletani incaricati a trattare col general Garibaldi.

LXIV.— Dopo cinque ore d'animato colloquio vennero stabiliti i patti per la resa del forte sulle basi seguenti: Escirebbero i soldati napoletani coll'onore dell'armi,e s'imbarcherebbero sui legni medesimi ancorati in vista del porto. La fanteria porterebbe seco quanto le apparteneva; la cavalleria lascerebbe i cavalli che sarebbero consegnati allo Stato Maggiore italiano. Delle tre batterie di cannoni da fortezza e da campo che tuttora in castello trovavansi, una mezza batteria di campagna sarebbe stata conservata dai Napoletani il resto verrebbe ceduto. Finalmente i Regii s'impegnerebbero a non portare entro un determinato spazio di tempo le armi contro ì volontari sia in terraferma o nell'Isola.

LXV.— A dieci ore del mattino 24 luglio i volontari si schierarono lungo la strada che mette dal porto al castello a sorvegliare la partenza e rimbarco dei Regii. A mezz'ora dopo il meriggio dal lato opposto e precisamente dal lato del molo s'intese un rumore dapprima confuso che in seguito si tradusse in grida ed in fischi acutissimi: era Bosco, il quale prevedendo gli onori che i volontari gli avrebbero resi, da una porta segreta del castello scendeva sul mare dove una lancia attendevalo per condurlo a bordo d'un piroscafo regio.

LXVI.— Lo sgombro dei Regii cominciava alle due e mezzo pomeridiane. In quel giorno s'imbarcarono 400 soldati d'artiglieria, mezzo battaglione del primo cacciatori e circa 200 uomini di cavalleria: marciavano questi a piedi, gli uni dietro gli altri, tristi ed umiliati per cotanta sventura. La prima compagnia reggimento Simonetta venne un'ora più tardi incaricata a ricevere la consegna del castello, non che dei 140 cavalli e 96 muli che a tenore della capitolazione dovevan trovarvisi.

LXVII.— «Imponente è l'aspetto di quella fortezza (cosi un garibaldino descrive le proprie impressioni): fabbricata sulla roccia essa dote mina il mare da tre lati e dall'altro la soggetta città. La cingono grosse e doppie murate glia da quindici a venti metri d'altezza e guernite di circa quaranta pezzi d'artiglieria di vario calibro, con polveriere e magazzini e con; u tutto il necessario per una lunga difesa, meno tutta volta i viveri. Maravigliai di trovarmi là dentro: ma più assai mi fece stupire la presenza di forse quattromila Napoletani che umiliati e malconci io vedeva prostesi sul nudo terreno. Eglino erano bene armati, ben vestiti ed istrutti: eppure non aveano saputo resistere a noi, soldati improvvisati, in malissimi arnesi ed animati soltanto dall'amore di patria e dall'ardire a che infonde una santissima causa..

LXVIII.— Alle undici antimeridiane del giorno seguente i Napoletani rimasti nel forte s'imbarcarono essi pure e partirono: mezzo il primo battaglione, l'ottavo ed il nono cacciatori e il primo reggimento di linea; gli artiglieri ed i cavalleggieri marciavano a piedi. La fortezza in tal guisa evacuata venne per intiero occupata dai nostri che vi piantarono sugli spaldi la bandiera italiana.

LXIX.— Alla punta del giorno ventesimo-sesto di luglio, lasciato Milazzo, la brigata Medici si dirigeva a Spadafuori, posizione eccellente e, strategicamente parlando, di grande importanza; si aspettavano i nostri incontrare qualche truppa di Regii che lor contendesse il passaggio ne' monti, e non è a dire qual fu la generale sorpresa, quando, entrati in paese, lo trovarono libero e sgombro. Seppero poi da quegli abitanti come i Regii l'avevano per vero occupato, ma che dopo i rovesci di Milazzo se n'erano allontanati portandosi a Gesso. A tre ore di notte, il 27, l'avanguardia comandata dal colonnello Fabrizi inoltravasi fra le gole che mettono all'alture di Gesso dov'era seguita dall'intiera colonna. Entrarono inpaese dopo cinque ore di marcia alle otto antimeridiane e lo trovarono allo stesso modo abbandonato dal fuggente nemico.

LXX.— A quattr'ore pomeridiane i volontari proseguirono il viaggio internandosi in un labirinto di scoscese montagne fra le cui gole s'apre la strada che sola ed angusta conduce a Messina. Ma trascorse quattro miglia appena i Garibaldini raggiunsero un superbo altipiano tracciato sulla vetta della montagna e procedente con leggero declivio al meriggio: opera stupenda della natura che sembra un belvedere ideato dall'ingegno dell'uomo. I volontari rimasero estatici davanti l'immenso panorama che s'apriva ai loro occhi a destra vedeano la Sicilia già libera ed i campi di Limeri e Milazzo, il teatro delle loro recenti vittorie, contemplavano a sinistra l'azzurra ed irrequieta superficie del mare Ionico le cui onde spumeggiando frangevansi contro gli scogli della muta Calabria: di fronte sorgeva Messina colla sua cittadella e i suoi forti al di sopra dei quali torreggiavano nel lontano orizzonte le vette nevose dell'Etna. SI magnifico spettacolo accompagnò i volontari sino al termine del loro viaggio: eglino, pervenuti a tre miglia da Messina, si arrestarono e posero il campo.

LXX1.— Bivaccarono, si può dire, la notte coll'armi sul braccio e pronti al minimo allarme a disporsi in battaglia e a marciare. Pure le ore passarono abbastanza tranquille: i Napoletani avevano tutt'altro pel capo che la voglia d'impegnarsi in novelli conflitti. Il seguente mattino una convenzione fu stipulata tra i generali Medici e Clary, mediante la quale i Regii abbandonavano la città di Messina ed i forti, meno però la cittadella, ove le truppe borboniche si sarebbero accasermate coll'obbligo, se non provocate, di non molestare la città né combattere contro i volontari sino a guerra fluita. Medici dal canto suo si obbligava a permettere che il presidio della cittadella facesse le sue provvigioni in Messina nel modo e nel luogo a ciò fissato. Colla stessa convenzione i Regii cedettero eziandio la importantissima cittadella di Siracusa. Il giorno stesso i Garibaldiani entrarono in Messina e vi presero il possesso a nome della patria italiana.

LXXII.— Entro pochi giorni si radunarono a Messina tutti i corpi appartenenti all'armata meridionale. Nino Bixio, dopo fatto il suo giro a traverso dell'Isola raggiungeva colà il Dittatore; la spedizione Cosenz già era arrivata. In que' giorni l'esercito Garibaldiano coniava non meno di dodicimila soldati.

LXXIII.— La battaglia di Milazzo aveva definitivamente deciso delle sorti dell'Isola: la convenzione di Messina annichiliva la resistenza borbonica. Garibaldi vincitore e securo alle spalle poteva rivolgere il pensiero all'effettuazione della seconda parte della sua gloriosa campagna. Da quel giorno i volontari unicamente attendevano l'ordine di tragittare lo Stretto e di portarsi in Calabria.


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LIBRO IX

Passaggio del faro.— Combattimento di Reggio.

I.— Durante la guerra del 1859, e nell'intervallo che separò le due campagne di Lombardia e di Sicilia, la Francia non cessò un solo istante d'adoperarsi a frenare e rattenere lo slancio rivoluzionario del? Italia meridionale e centrale. Lo spettro dell'unità italiana turbava i sonni di Napoleone: se non che alla frenesia unitaria delle popolazioni invano il Governo francese ave» opposto i patti di Villafranca e Zurigo. Aveva Napoleone desiderato vedere l'Italia indipendente dall'Alpi all'Adriatico, ma non riunita e non fusa in un sol corpo politico; e vista l'impossibilità di applicare il concetto federale aveva sul Mincio arrestato la carriera dell'armi abbandonando l'Italia alla metà della guerra. Nel trattato di Zurigo imponevasi il riconoscimento degli antichi Stati sotto i legittimi Duchi od Arciduchi cui l’avversione dei popoli spinti aveva in esilio. Ma invano con tali mene credevasi porre un argine all'irrompente patriottismo della gioventù, alle passioni politiche del popolo nostre. Gli avvenimenti, malgrado gl'inciampi e gli ostacoli, procedevano oltre} e le combinazioni diplomatiche completamente abortirono davanti alla perseverante fermezza italiana. E ai primi giorni del maggio l'ambasciatore francese a Torino, con più dispiacere che meraviglia, sentiva la partenza di Garibaldi e dei Mille, recantisi a liberar la Sicilia (162).

II.— Le recriminazioni che allor si levarono a tutti son note: la diplomazia francese ne mosse speciali lagnanze a Napoli, a Torino, a Parigi ed a Londra. L'ardito tentativo di Garibaldi, troncando le esitanze e gl'indugi, aveva interamente rovinato i piani di Napoleone e posto l'avvenire d'Italia sulla sua vera e legittima base. L'Imperatore dei Francesi erasi adoperato ad evitare il pericolo di vedersi elevare ai fianchi una monarchia potente e i disastri a cui l'improvvida conflagrazione della penisola avrebbe eventualmente potuto condurre. Era della politica napoleonica doppia l'azione ed uno l'intento} e mentre s'arrovellavo a Torino a comprimere il movimento unitario, a Napoli esortava il Borbone a cangiare di sistema ed entrare francamente nella via delle liberali riforme affine di torre al Piemonte il pretesto' a compire la tanto avversata unità (163); Tuttavia dobbiamo osservare che l'ostinazione tenace di Francesco II contribuiva non meno delle vittorie garibaldiane a sventare un progetto che avrebbe reso impossibile il Regno attuale d'Italia.

III.— Verso i primi di giugno si sparse in Europa la falsa notizia che Garibaldi già vinto e disfatto si fosse rifugito tra le montagne inaccessibili del centro dell'Isola. Nella supposta disfatta dei Mille il ministero napoleonico intravvide la possibilità d'un accordo: e Thouvenel proponeva al conte Cowley che cercasse d'indurre il governo inglese a riunire i suoi sforzi con quelli della Francia affine di prevenire, consigliando la tregua, uno inutile spargimento di sangue in Sicilia (164). Ed era specioso il pretesto in quanto che intromettendosi e salvando gli avanzi dei Mille dalle forche borboniche, oltre all'ottenere l'intento bramato, avrebbero i Napoleonidi nel tempo medesimo acquistato un diritto alla gratitudine della democrazia italiana. Ma il sogno si dileguò come un'ombra: l'espugnazione improvvisa di Palermo bastava a dissipare la vana illusione e la tregua proposta diveniva un pio desiderio.

IV.— Caduta la capitale siciliana ed inaugurata la dittatura di Garibaldi la Francia tornava a formulare la vecchia canzone, desiderando che l'Inghilterra, si unisse con lei a consigliare ai combattenti una sospensione temporanea delle ostilità, e sperando con tal mezzo arrestare il corso delle vittorie garibaldiane. La medesima proposta fu fatta a Torino ed a Napoli, ma collo stesso infelice successo, poiché le condizioni la rendevano reciprocamente o illusoria o inaccettabile. Il Re di Napoli dichiaravasi pronto ad una tregua di tre mesi in Sicilia a condizione che il Piemonte vietasse ogni ulteriore spedizione di volontari nell'Isola (165). Inoltre Francesco II acconsentiva ad accordare la costituzione del 1812 colla riserva eziandio di modificare la clausola relativa alla separazione dei due Stati, sempreché le due corone rimanere dovessero allo stesso sovrano (166). Dall'altra parte il governo piemontese per prima condizione poneva che i Siciliani fossero lasciati in perfetta libertà a decidere dei loro destini (167): e il governo borbonico aderiva, a patto però che i Siciliani non potessero pronunciare un mutamento di dinastia (168), il che equivaleva a rompere le trattative diplomatiche.

V.— Circa la libertà da concedersi ai Siciliani di decidere dei propri destini il governo borbonico inoltre obbiettava che vera libertà non sarebbe mentre fosse la votazione avvenuta sotto il dominio ed in presenza di Garibaldi e de' suoi (169). E il conte Cavour esprimeva l’opinione che mentre Messina trovavasi in potere dei Regii era vano proporre al generale Garibaldi la tregua ((170)).

VI.— A tenore della tregua proposta Garibaldi sarebbe rimasto padrone di Palermo e Catania, del centro e dell'ovest dell'Isola: le piazze forti di Messina e Siracusa e quasi l'intiera costa orientale avrebbero continuato in potere dei Regii (171). Se Francesco II avesse aderito sarebbe stato quanto abdicare a' suoi dominii di là del Faro; la diplomazia medesima era convinta che ove si fosse pe' Siciliani trattato di votar l'annessione questa avrebbe senza dubbio ottenuto la quasi unanimità de' suffragi (172): e i Napoletani credevano la causa regia non essere pervenuta al punto di dovere sottomettersi a tutti i danni che risulterebbero appena da una rotta completa (173). Eglino possedevano tuttavia le principali fortezze e le più forti posizioni dell'Isola, ed in loro sentenza nutrivano fiducia che le sorti della guerra potessero ancora rivolgersi in loro favore. Invano l'ambasciatore inglese osservava che la disfatta poteva condurre più lungi di quello che si calcolava, e che l'annessione della Sicilia, compiuta senza preventivo accordo col Governo, assai probabilmente avrebbe trascinato la perdita di Napoli e la caduta della monarchia (174): Francesco li era inflessibile: egli preferiva perdere tutto anziché salvare nna parte del Regno con atti codardi ed indegni.

VII.— Ma coll'avvicinarsi del pericolo nel Re diminuiva la fermezza e l'ardore guerriero: la sventura è potente a snervare i sentimenti del cuore e ad abbattere ogni più saldo proposito.

Allarmato dall'agitazione popolare, che ognor più dilatavasi acquistando in dimensione ed in forze, e dall'abbandono in cui si vedeva lasciato, finalmente Francesco II acconsentiva ad accettar le condizioni che gli si volevano imporre. Pochi giorni dopo a Londra e Parigi, con soddisfazione o dispetto, si seppe che il governo napoletano avea definitivamente richiamata l’armata dall'Isola, abbandonando il paese a se stesso ed in facoltà di regolare le cose in quel modo che meglio gli fosse piaciuto (175). »

VIII.— Napoleone avversava l'impresa di Sicilia sotto il vano quanto specioso pretesto che l'annessione dell'Isola avrebbe tosto trascinata quella di Napoli, poscia delle Marche e da ultimo la guerra coll'Austria, il che avrebbe seriamente compromesso l'opera francese in Italia. Il vero si è che Napoleone osteggiava l'unità perché la giudicava in opposizione agl'interessi al disegni ed alla politica tradizionale della Francia. Se non che le circostanze aveano mutato: la Sicilia era inevitabilmente perduta e sarebbe stata follia pensare soltanto di risottometterla al vecchio regime: per impedire che la penisola si costituisse in un solo Stato abbisognava, più che riconquistar il perduto, conservar quella parte che stava in procinto di perdersi. Il gabinetto francese considerava il richiamo delle truppe napoletane dall'Isola come la più saggia misura e più atta a scostare gli ostacoli che opponevansi ad un componimento fra i Re di Piemonte e di Napoli: pokhè non poteasi sperare nelle trattative fra i due governi mentre in Sicilia continuasse ad infierire la guerra (176). A tale erano giunte le cose quando la vittoria di Milazzo (20 luglio) giungeva improvvisa a troncare i discorsi e ad attraversare l'esecuzione eziandio di quest'ultimo sforzo.

IX.— Dal sin qui detto appar manifesto che il Governo francese, non volendo addossarsi l’odiosa missione d'impedire da sé solo la rovina della monarchia napoletana, desiderava che l’Inghilterra s'unisse con lui nell'esecuzione di questo disegno. Fortunatamente gl'interessi di quest’ultima potenza in Italia erano in aperta opposizione con quelli che vi aveva la Francia. Osteggiando prima e durante la guerra del 1859 la causa dell'emancipazione italiana l'Inghilterra perdeva nella penisola quella popolarità e simpatia che nel 1848 acquistato le aveano i discorsi e le ciarlatanesche passeggiate del famoso lord Minto: mentre la simpatia per la Francia s'era giustamente accresciuta pel soccorso recatoci e pel sangue prodigato sui campi di Montebello, Magenta e Solferino. E già lord John Russell maliziosamente avea rimarcato che la politica del gabinetto francese era stata da varii anni più attiva in Italia di quello che il fosse la politica del ministero britannico (177).

X.— Avventurosamente per l'Inghilterra la poetica francese ed italiana seguivano nella penisola una direzione diversa: quella voleva un'Italia confederata, questa volevala unita: indi recriminazioni e discordie. Ammessi contrarii principii riuscire le conseguenze del pari dovevano opposte; la Francia in onta all'unità imponeva il trattato di Zurigo ed attraversava la dedizione della Toscana e dell'Emilia, e la spedizione garibaldiana nel sud; e gl'Italiani per contro e in onta alla confederazione votavano l'annessione a Bologna e a Firenze e s'accingevano a compirla coi popolari suffragi di Palermo e di Napoli. Nell'amichevole dissenso sopravvenuto fra il governo francese e la popolazione italiana l'Inghilterra intravvide l'opportunità di riacquistare, a spese della Francia, in Italia gran parte della perduta influenza; influenza di cui essa sopratutto si serve ad estendere il suo commercio e ad aumentare i suoi traffichi. Nulla contribuisce a cattivare la simpatia ed il favore dei popoli quanto il vezzeggiare le loro passioni politiche: e l'Inghilterra, veduto che la pubblica opinione in Italia inclinava all'unità, si pose a seguir la corrente e si fece essa stessa unitaria. Cosicché, mentre apertamente affettava la maggior deferenza alle osservazioni del governo francese, di soppiatto approvava e favoriva le mire annessioniste del. conte Cavour. Tale politica veniale ispirata non tanto dal desiderio di contrabbilanciare l'influenza francese quanto dall'amore del guadagno e del lucro: aveva essa col Piemonte un trattato di commercio che le era sommamente vantaggioso: sotto il sistema del libero scambio essa inondava delle sue manifatture lq provincie sabaude, ed era a sperarsi che allargandosi il Regno la sfera eziandio degli affari allargata sarebbesi (178).

XI.— L'Inghilterra avea molto a guadagnare dall'annessione delle provincie meridionali al Piemonte, e nulla dalla conservazione del Regno borbonico: quindi l'indirizzo della sua politica non poteva esser dubbio. Francesco II ebbe sempre il cervello un po' pigro e bisbetico, e non trovò di suo genio la sublime teoria del libero scambio: ed il ministero britannico saggiamente abbandonava ai suoi destini un governo che non volle mai riconoscere la missione progressista e civilizzatrice dei prodotti industriali di Londra e Manchester. Ben inteso che la sua simpatia od antipatia sarebbesi unicamente limitata a qualche parola d'incoraggiamento o di biasimo; il Borbone poteva mille volte trionfare o cadere senza ch’esso s'inducesse ad abbruciare, pro o contro, una cartuccia od a spendere un obolo.

XII.— Ciò nullameno, sollecitato dalla Francia, John Russell finalmente s'indusse a tentare presso il conte Cavour una riconciliazione, forse temuta, col Regno di Napoli, la sospensione delle spedizioni da Livorno e da Genova e la cessazione immediata delle ostilità in Sicilia. Sopra tutto volevasi che il governo piemontese s'adoperasse ad impedire a Garibaldi il tragittare lo Stretto (179); disegno ch’egli, al punto in cui erano le cose né voleva, né forse avrebbe potuto, compire. Alle prime richieste il ministro sardo rispose essere il suo governo presto ad acconsentire: ma per ciò che riferivasi a Garibaldi dichiarò non avere sopra di lui alcuna autorità: disse che il Dittatore si regolava indipendentemente dalle suggestioni di chicchessia, come l’avea provato scacciando da Palermo il signor La-Farina (180). Che ciò nullostante avrebbe pregato Sua Maestà a raccomandare con una lettera privata al Dittatore di desistere da ogni attacco contro la terra ferma napoletana (181). Pochi giorni dopo però soggiungeva aver egli di fatti consigliato il Re ad inviare a Garibaldi una lettera del tenore indicato, ma che nel frattempo essendo sopravvenuta la battaglia di Milazzo non poteva rispondere dell'impressione ch'essa avrebbe prodotto sull'animo del Generale (182). Le trattative importante, e forse così si voleva, inefficaci eziandio questa volta rimasero.

XIII.— Ma indarno spendevansi maneggi e parole ad invitar Garibaldi a desistere e troncare un'impresa la cui riuscita facea la principale speranza di tutti i patriotti. La lettera di Vittorio Emanuele fu recata da un'ordinanza della Casa Reale, incaricata eziandio a ricevere e a riportar prontamente la risposta a Torino (183). Garibaldi ben sentiva la terribile responsabilità che addossavasi: ma d'altronde poteva egli esitare? S'egli avesse ceduto la sospirata emancipazione di Napoli sarebbesi rimandata a tempo indefinito, perduta l'occasione a costituire l’unità e ripetuta sul Faro l'ignominiosa convenzione del Mincio. Poteva egli rinunciare ad un'idea cosi cara al suo cuore abbandonare un progetto intorno al quale tanto avea travagliato, e compromettere persino il risultato delle sue prodigiose vittorie? Garibaldi nol doveva e nol fece: egli conobbe nel colpo che gli veniva diretto la mano misteriosa che lo aveva scagliato, e ricusò sottomettersi. La risposta alla lettera di Vittorio Emanuele rivela il più profondo attaccamento alla persona del Re, ma in pari tempo la sua irremovibile volontà di costituire l’Italia. Non posso, egli scrisse, arrestarmi a metà della via: ma tosto che abbia adempiuta la santa missione io deporrò ai piedi di Vostra Maestà i miei poteri e me stesso (184).

XIV.— Finalmente Napoleone comprese che a frenare l'ardore guerriero di Garibaldi né miglior mezzo, né più securo rimanea della forza: ed anche a questo sarebb' egli giunto se avesse per avventura trovato più condiscendente ed arrendevole il gabinetto britannico. Thouvenel impertanto invitava il ministro John Russell ad accordarsi con lui nell'intenzione di spedire agli ammiragli delle squadre francesi ed inglesi nel Mediterraneo l'ordine espresso di significare a Garibaldi ch'eglino gli avrebbero ad ogni costo vietato il tragitto del Faro (185). Il ministro rispondeva: «essere opinione del suo Governo non doversi dipartire dal principio generale del non-intervento.» D'altra parte obbiettava l'inutilità di una misura in se stessa impolitica e ingiusta. «Garibaldi non basta da solo» cosi ragionava lord Russell, «a rovesciare il governo di Napoli: se la flotta, l'esercito e gli abitanti sono veramente attaccati al Re loro il Dittatore, sarà senza dubbio disfatto: se dall'altro canto sono essi disposti a riceverlo la nostra intromissione diverrebbe un intervento negli affari interni del Regno, ed avremmo violato una legge da noi medesimi primamente formulata e sancita (186). Se poi, continuava lord Russell, la Francia vuole interporsi da sola noi ci limiteremo a disapprovare la sua condotta, ad una formate protesta. Secondo noi i Napoletani debbono esser padroni di respingere a loro talento o ricevere il general Garibaldi» (187).

XV.— Per amore del vero dobbiamo accennare ad un fatto che parrebbe incredibile se nei documenti ufficiali della diplomazia irrefragabilmente non fosse affermato. Gli sforzi tentati da Napoleone per condurre ad un accordo i gabinetti di Torino e di Napoli, aveano risollevato le cadute speranze di Francesco II. Fu un istante in cui i Borbonici credettero alla possibilità d'un'alleanza col Piemonte non solo ma eziandio sulla rivendicazione dei diritti nella perduta Sicilia. Francesco II lusingavasi che Garibaldi avrebbe ceduto alla perseverante insistenza dell’Imperatore ed anzi che passare lo Stretto stato sarebbe forzato a restituire Palermo all'antico signore. Illuso da tali speranze e rassicurato dagl'interni terrori il governo napoletano poteva pensare agl'ingrandimenti territoriali ed appetire la sua parte nelle spoglie del santo Pontefice. In que' giorni s'apparecchiava a mandare i suoi plenipotenziari a Torino a trattarvi e concludervi la sospirata alleanza: e fra le istruzioni che loro si diedero era quella di riconoscere il Vicariato di Vittorio Emanuele nelle Legazioni a condizione però che il ministero sardo accettasse per le Marche e per l'Umbria il Vicariato di Francesco Borbone. E il Papa che in appresso anatomizzava l'ambizione del Re di Piemonte non ebbe che parole teneramente fraterne per l'ambizioso Re di Napoli. Cosi spesso le nozioni del giusto e dell ingiusto dipendono dagli interessi o dal capriccio degli uomini! (188)

XVI.— Mentre la diplomazia in tal guisa agitavasi e pasceva Francesco II di belle speranze, Garibaldi, sbaragliate le truppe di Bosco a Milazzo, apparecchiavasi a sbarcare in Calabria, obbietto precipuo delle sue operazioni. Da Milazzo egli aveva presso di sé richiamato il suo capo di stato maggiore Sirtori rimasto a Palermo (189), dandogli a successore alla direzione suprema del governo il deputato Depretis (190). Quindi si recava a Messina con tutto l'esercito, e dispose le sue forze sulle spiaggie del mare, aspettando che l'occasione propizia s'offrisse ad eludere la vigilanza della flotta reale ed a tentare il tragitto.

XVII.— Ai primi d'agosto l'armata meridionale componevasi di quattro divisioni la decimaquinta, decimasesta, decimasettima e diciottesima, comandata dai generali Stefano Türr, CosenzEnrico, Giacomo Medici e Nino Bixio. A questa dovevasi aggiungere la diciannovesima destinata a Giuseppe Sirtori e non per anco formata. Contava inoltre quattro battaglioni di Cacciatori dell'Etna, il battaglione dei Carabinieri genovesi, due battaglioni di Cacciatori chiamati delle Alpi, uno squadrone di Guide, un reggimento dei Figli della libertà (nel quale figuravano varii stranieri) comandati da Dunne, e due batterie di artiglieria di campagna agli ordini del generale Orsini, insieme i diversi corpi ammontavano a circa quindici mila soldati, cifra non grande, gli è vero, se paragonata alla superiorità numerica dell'esercito regio, ma prodigiosamente forte a fronte delle immense difficoltà superate a raggiungerla. I periti dell'arte possono essi soli comprendere e degnamente encomiare un generale che dal nulla, in tre soli mesi, seppe creare ed ordinare un esercito atto a sostenere lo scontro di tutte le forze di un regno, ricco di danari e di mezzi e difeso per terra e per mare (191).

XVIII.— Durante la prima quindicina d'agosto l'armata si trovava disposta nel modo seguente: La sedicesima divisione Cosenz, di due brigate agli ordini di Malenchini e di Sacchi, occupava l'estrema sinistra del campo alla punta del Faro dove la roccia di Cariddi elevandosi a picco sull'acque d'un mare mugghiente ed inquieto anticamente atterriva i navigatori italici e greci. La decimaquinta divisione Türr s'accampava non lungi da Sant'Agata, ameno soggiorno dei ricchi messinesi durante il bollor della state, in que' luoghi soffocante e caldissima: ed essa pure comprendeva due brigate condotte da Eberhard e Spangaro. Medici colla decimasettima divisione teneva il centro nel porto e nei dintorni di Messina: ed era formata dalla brigata Simonetta e dal reggimento Dunne. Finalmente Bixio colla diciottesima guardava Giardini e Taormina e la strada di Scaletta: e componevanla tre reggimenti comandati dai colonnelli Dezza, Piva e Taddei: l'artiglieria stava alla sinistra colle guide ed i carabinieri presso la divisione Türr.

XIX.— I mezzi di trasporto erano adequati alla difficoltà dell'impresa. La massima parte della flotta siciliana aveva ordine di concentrarsi a Messina o nelle rade adiacenti: essa componevasi di undici legni e poteva tragittare circa undici mila soldati colla rispettiva artiglieria, le munizioni e gli attrezzi (192). Inoltre in due piccoli laghi situati

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nelle vicinanze del Faro e che il Dittatore avea posto per mezzo d'un canale in comunicazione col mare, stavano in bellissimo ordine disposti oltre duecento cinquanta battelli e barche di varia dimensione portanti venticinque cannoni rigati. E tutti codesti trasporti venivano collocati in maniera da non aver nulla a temere dalla flotta napoletana che incrociava nello Stretto (193).

— Né tuttavolta la posizione di per sé stessa eccellente dei nostri era scevra di rischi e pericoli. La linea dell'esercito Garibaldiano occupava uno spazio di oltre venti miglia in lunghezza, e quindi malagevolissima a difendersi contro un attacco o una sorpresa della flotta nemica. Alla estrema sinistra sul Faro, a nove miglia circa nord di Messina, avevano i volontari eretto alcune trincicre, munite d'artiglieria, ma non cosi forti da poter resistere ad un serio assalto combinato di mare e di terra. La costa, specialmente in prossimità del Faro, è aperta ed accessibile ai legni di non grande portata: e se i Napoletani avessero osato tentare, alle spalle dei nostri, uno sbarco, la posizione del Faro e Sant'Agata poteva trovarsi seriamente compromessa. Avventurosamente i Regii avevano abbandonato per sempre il pensiero di riacquistar la Sicilia, e solo miravano ad impedire a Garibaldi il passaggio in Calabria (194).

XXI.— L'armata nemica sotto gli ordini dei generale Briganti in que' giorni accampavasi a Reggio e guardava con numerasi presidii le fortezze di Villa San Giovanni, Alta Fiumara, Scilla e Saline, situate lungo la costa calabrese di fronte alla linea stessa dei Garibaldini. La flotta frat tanto distribuita nei porti di Scilla, di Palmi e di Reggio continuamente solcava le acque dello Stretto ed invigilava le mosse dei nostri: pronta ad accorrere ed a schiacciare col suo peso le imbarcazioni italiane quando queste s'avventurassero a salpare dall'Isola (195). Quanto Fumana prudenza od astuzia poteva suggerire, in opera tutto dai Regii fu posto a render impossibile un attacco nemico: ma la doppia linea di difesa terrestre e marittima dietro cui trincieravansi nulla valse contro la fortuna di Garibaldi e il valore de' suoi.

XXII.— Da più giorni i volontari aspettavano l'ordine d'imbarcarsi e portarsi in Calabria, la terra promessa delle sospirate e future vittorie, e con generosa ansietà misuravan lo spazio che tuttavia separavali dai loro nemici. Quand'ecco divulgarsi pel campo la strana notizia che il Generale abbandonando per pochi giorni l'esercito, si era improvvisamente allontanato da Messina per un ignoto e lontano viaggio. Nessuno, meno gl'intimi suoi, conosceva la direzione che il Dittatore avea preso: e pertanto, come avviene in simili casi, fra i soldati correvan le voci più assurde ed opposte. Chi lo voleva a Palermo chiamatovi da urgenti necessità di governo, chi a Livorno od a Genova a sollecitare rinvio di nuove truppe; mentr'egli, ottemperando invece a secrete ispirazioni si recava nelle acque di Cagliari a contromandare in persona l'ordine dato al Comitato di Genova per l'invasione delle Marche, ed a condurre in Sicilia i soldati che doveano far parte di quella intrapresa (196). Com'egli riuscisse al lettore è già noto: la politica del ministro Farini ottenne per quel viaggio la sua piena esecuzione, ed il colonnello Pianciani, lasciando il prediletto suo piano, venne rimorchiato a Palermo co' suoi (197).

XXIII.— Soffermatosi poche ore nella capitale dell'Isola e date le istruzioni opportune ai ministri pel buon andamento dell'amministrazione, ripartiva colle truppe di Pianciani alla volta del Faro. Il suo ritorno fu dai soldati accolto e festeggiato con frenetici evviva: poiché tutti sapevano che la sua presenza preludiava al compimento del piano tracciato. Diffatti gli apparecchi vennero spinti con nuova alacrità e vigore: e nulla restava oggimai che attendere l'istante opportuno a salpare.

XXIV.— La notte del 12 agosto, dopo essersi imbarcato quasi sotto gli occhi della crociera napoletana, il maggiore Missori collo squadrone delle guide da lui comandato e coi bersaglieri di Cosenz, trecento nomini in tutto, con incredibile audacia tentava e felicemente compieva il passaggio del Faro e poneva piede pel primo in Calabria. Dall'estrema sinistra del campo italiano Missori, favorito dalle tenebre, tagliava alla spiaggia opposta una retta e prendeva terra in un punto isolato tra Scilla ed il forte Cavallo e sotto il tiro dei cannoni di entrambi. S'avvidero, ma tardi, i navigli napoletani dell'ardita manovra ed accorsero sul luogo ad impedirla quando non era più tempo. Tuttavolta l'allarme fu dato: l'artiglieria dei prossimi forti tuonò nel silenzio con orrendo fragore, annunziando ai volontari rimasti sul Faro che la lotta era già incominciata dall'altra parte del mare.

XXV.— La piccola truppa radunavasi sulla costa sostenendo colla solita intrepidezza il terribile fuoco a mitraglia che avviluppavate del pari a destra e a sinistra. Nelle file, tale era l'ordine, mantenevasi il più rigoroso silenzio, il che fu cagione che sulle prime gli artiglieri nemici, attesa l'oscurità, mal potessero aggiustare i lor colpi. Ma la notte era giunta al suo termine: e l'alba sorgendo nel sereno oriente indorava le vette dei monti e spargeva d'un fioco chiarore le campagne ed il mare. Coll'apparir della luce i Napoletani s'accorsero del piccolo numero de' volontari contro cui avevano sprecato il loro valore e le or munizioni: e fatti coraggiosi pel numero marciarono ad incontrarli in aperta campagna, nello scopo evidente di schiacciarli, ributtarli in mare o costringerli a deporre le armi (198). Ma bentosto a proprie spese si avvidero aver essi calcolato sul numero non sull'invincibile valentia dei loro avversari.

XXVI.— Se la nuova luce ai Napoletani additava la possibilità di soverchiare la piccola truppa italiana, essa offeriva nel medesimo tempo a Missori la maniera di sottrarsi alla certa ed imminente catastrofe. Erano i volontari trecento; né, comunque valorosi ed a battere avvezzi non a contare i nemici, potevano essi affrontare le migliaia di Regii. da tutte le parti accorrenti all'ineguale conflitto.

XXVII.— Previde Missori il pericolo e seppe evitarlo con quella prontezza e precisione che gli era abituale e che degno facevalo della fiducia del condottiero alla cui scuola era stato educato. Con un rapido movimento di fronte, precorrendo gli avanguardi napoletani, passò inosservato. tra le loro colonne e si ritrasse a salvamento co' suoi fra le dirupate montagne che s'elevano a settentrione di Reggio. Quell'abile ed astuta manovra venne con tale celerità ed audacia eseguita che il nemico di nulla si accorse: pervenute le truppe borboniche sul luogo occupato pochi istanti prima dai nostri trovarono lo spazio già sgombro e deserto ed amaramente dovettero rimpiangere la lor delusione. Forse l'orgoglio dei soldati si senti lusingato dal pensiero di avere fugato un nemico il cui valore avrebbero essi con renitenza assaggiato in battaglia.

XXVIII.— Diversi distaccamenti furono tantosto spediti ad inseguire i fuggiaschi, la squadra cioè di Missori: ma tutti gli sforzi riuscirono inefficaci od inutili. Coperti dalle ineguaglianze e difficoltà del terreno e protetti dalle roccie e dai boschi i volontari respinsero con' gravissime perdite i primi assalitori: e talvolta, scendendo le alture, percorrevano i villaggi soggetti e battevano alla spicciolata i corpi separati dell'esercito nemico sino alle porte stesse di Reggio.

XXIX.— Trecento, siccome gli eroi delle Termopili, eglino tenevano si può dire in ¡scacco le truppe di Briganti e i presidii delle vicine fortezze. Missori pose il campo sui gioghi di Aspromonte, stupendo gruppo di montagne che si spiegano in varia direzione e le cui estremità orientali e meridionali si bagnano nelle acque del ionio e del mare Mediterraneo. E i volontari accampati sulle rive di Messina e Sant'Agata tutte le notti contemplavano i fuochi dei loro compagni al di sopra di Reggio, segnale precedentemente convenuto tra Garibaldi e Missori per indicare la loro dimora.

XXX.— Passato Missori, la vigilanza esercitata nello Stretto dalla flotta napoletana divenne più attiva e severa: quindi nuove difficoltà per trasportare sul continente il grosso delle truppe italiane. A trarre in inganno il nemico e scostare gli ostacoli, Garibaldi faceva giornalmente eseguire da' suoi delle marcie e contromarcie strategiche: e minacciando al tempo medesimo tutto il litorale studiavasi mascherare le proprie intenzioni e nascondere il punto sul quale ideava effettuare l'imbarco. Ciò spiega i numerosi movimenti osservati a' que' giorni nell'armata italiana, come pure gli ordini continui e contrordini emanati dal suo Generale.

XXXI.— La mattina del giorno 14 un grande affaccendarsi fu notato nel campo dei nostri: il Dittatore aveva 'ordinato alle truppe di tenersi allestite pel cader della notte. Sul far della sera un contr'ordine sopravenne a sospendere la mossa di già incominciata, e i volontari dolenti si ritrassero nei loro alloggiamenti. Per comando dittatoriale la divisione Bixio il 15 abbandonava Giardini recandosi alla volta di Geri, magnifico paese situato sul mare ed ai piedi dell'Etna: e colà raggiungevate il 16 un espresso di Garibaldi che le richiamava a Giardini (199). Gli stessi tentativi facevaosi da Cosenz e Medici tutte le notti dal 14 al 18: e tutti del pari infruttuosi riuscivano (200).

XXXII.— Bixio il 18 si ripose in marcia per Gerì, dove riceveva un dispaccio che gli annunziava l'arrivo di due piroscafi appartenenti alte marina dell'Isola, il Torino ed il Franklin. Il Generale recavasi a bordo, a dare le disposizioni opportune: ma come il capitano del Torino rifiutava tragittare i volontari in Calabria e quello del Franklin si schermiva adducendo che la nave faceva acqua e che le pompe non bastavano a estrarnela, ambedue li fe' porre agli arresti e prese egli stesso il comando dei legni (201).

XXXIII.— A mezzogiorno giungea Garibaldi. La brigata Eberhard, della divisione Türr, ch’era stata riunita alla diciottesima divisione, occupava già i due vapori. L'intiero corpo spedizionario, sfilando in bell'ordine davanti alla rada, celeramente ed in silenzio recavasi a bordo, ed alle ore sette della sera rimbarco era già terminato. Garibaldi ponevasi alla direzione del Franklin, lasciando il Torino al comando di Bixio: era in quattro mesi il secondo viaggio che i due fortunati argonauti insieme, alla conquista d'un Regno, imprendevano.

XXXIV.— Alle nove della sera col massimo silenzio salparono e trasversalmente scorrendo sul mare diressero il corso all'estrema punta del suolo continentale italiano. Protetti dall'oscurità e dalla buona stella garibaldiana, il Torino ed il Franklin oltrepassarono le nemiche crociere, ed alle ore quattro e mezzo del mattino seguente sani e salvi toccarono la costa bramata (202).

XXXV.— Il Franklin, diretto dalla mano maestra del Dittatore, felicemente approdava, ed accingevasi in fretta e con ordine ad operare Io sbarco dei militi. Non cosi il Torino, che un solo istante negletto da Bixio, per inettitudine od ignoranza del pilota, investiva in uno de' numerosissimi banchi di sabbia che ingombrano quella spiaggia per poco deserta, rimanendovi profondamente sepolto fino alla metà della chiglia. L'accidente non apportò verun danno alle truppe, tranne un primo ed invincibile sgomento cagionato, dall'urto improvviso del vapore contro la costa: e i militi, come nulla fosse avvenuto, tranquillamente discesero a terra e si disposero in linea sulle alture che dominano il mare e la rada ov'eran sbarcati. Così il mattino 19 agosto Garibaldi prendeva terra in Calabria a mezzo miglio dal villaggio di Melito, non lungi dal luogo, ove il cavalleresco Autari, tredici secoli addietro, verso il 587, poneva l'estremo confine della monarchia Longobarda.

XXXVI.— Mentre i volontari, accampati sulle prossime alture, per brev'ora s'abbandonavano a un dolce e necessario riposo, il Franklin adoperavasi a liberare e rimorchiare il vapore arenato. Se non che il Torino giaceva così profondamente confitto nelle sabbie che inutili riescirono tutti gli sforzi a cavamelo. Il Franklin ostinavasi tuttavia al di là di quanto il comportasse il pensiero della propria salvezza: esso corse pericolo di perdervi la macchina. Finalmente dopo più ore di stenti infruttuosi e fatiche s'avvide che rimanendo più oltre sarebbe stato quanto porre a sbaraglio la libertà e forse anche l'esistenza della ciurma e del legno: e disperando salvare il compagno tutto solo. rivolse la prora a Messina.

XXXVII.— Verso le ore otto le vedette notarono due navi napoletane che volando sulla calma superficie del mare pareano dirigersi al punto dove i volontari erano a terra discesi. Incontanente l'allarme fu dato e le truppe imbrandito il fucile si allinearono in ordine di battaglia sul colle di fronte alla quieta marina. I Napoletani diffatti navigavano in tutta fretta verso il Torino, ch'essi già scoprivano dall’alto, fermo ed immobile, vicino alla spiaggia. Forse la presenza e l'immobilità del naviglio li trasse in inganno: e potevano essi credere che le truppe non fossero ancora sbarcate ed accorrevano in conseguenza a sorprenderle nell'atto che a terra scendessero.

XXXVIII.— Non potevasi dubitare che i Napoletani non venissero ad assalire e catturare il Torino sguernito di truppe e difese, al cui bordo solamente trovavansi pochi marinai e macchinisti. Bixio impertanto distaccava una compagnia e di concerto con Garibaldi mandavala ad occupare il naviglio ed a difenderlo nel prossimo assalto.

XXXIX.— In questo mentre i Napoletani avvicinatisi a tiro di cannone dal Torino aprirono il fuoco coprendolo d'una terribile gragnuola di bombe e di palle. L’ufficiale comandante la compagnia da Bixio inviata a difenderlo, come giunse alla riva, trovò l'equipaggio in piena fuga e abbandonato e vuoto il naviglio, l’ufficiale allora afferrò per un braccio il capitano del Torino ingiungendogli di ritornarsene a bordo e ricondurvi i suoi marinai: ma gl'innumerevoli proiettili che pioveano, pur durante l'alterco, d'intorno, al tapino toglievano la volontà d'obbedire. Dall'altra parte il Garibaldino aveva una consegna della quale doveva rispondere, ed un ordine cui bisognava ad ogni costo eseguire: e per conseguenza si credeva obbligato a minacciare il capitano colla pistola alle tempie per indurlo a risalire sul legno lasciato. Se non che le minaccie non valsero meglio delle preghiere: le une e le altre son mute allorquando domina sovrana la paura nel cuore dell'uomo. In quel punto Bixio, che sempre si trova tra i primi quando trattasi d'affrontare i pericoli della guerra, sopravenne ove fervea la contesa tra il capitano e l'ufficiale. Bixio vedendo impossibile oggimai difendere un legno per metà perduto, ordinò all'ufficiale di desistere e di ritrarsi colla compagnia sulle alture a raggiungervi il resto del corpo (203).

XL.— Frattanto le due fregate, sempre più appressandosi al lido incominciavano a mitragliare i Garibaldini dalle alture stesse dove preso avean posizione. Mancando di artiglieria per rispondere alle insolenti provocazioni nemiche Garibaldi fece indietreggiare le truppe oltre il tiro di cannone, e colà risolse aspettare i Napoletani se pur questi avessero avuto la temerità di sbarcare e d'inseguirlo entro terra. Ma i Borboniani, soddisfatti di avere con si piccolo rischio costretto Garibaldi alla ritirata, si rivolsero invece a raccogliere i frutti di tanta fortuna.

XLI.— I Napoletani si accostarono colle debite precauzioni alla spiaggia, ed esplorato il Torino, ed assicuratisi ch'era già abbandonato, valorosamente salirono a bordo in cerca di preda e bottino. Munizioni, viveri, attrezzi, vele e cordami, fu tutto saccheggiato o disperso e distrutto o per ispregio gettato nel mare: come i ladri del deserto gli eroi di Francesco II lasciavano dietro a sé la devastazione ed il nulla. Per vero dire il bottino fu magro, né i soldati vi rinvennero quello che aveano sulle prime sperato; i Garibaldiani erano troppo poveri perché le loro spoglie bastassero ad arricchire i famigli di Casa Borbone.

XLII.— Impossessatisi cosi del Torino i Napoletani risolvettero rimorchiarlo a Sapri od a Napoli affine di mostrar al padrone una testimonianza della loro solerzia e valore. Ma per quanto si adoperassero non venne lor fatto di smuovere il naviglio dalle sabbie in cui sembrava inchiodato. Allora vi appiccarono il fuoco; e le dense colonne di fumo che poco stante elevaronsi al cielo annunciarono ai Garibaldini la catastrofe del legno perduto. Poche ore dopo il Torino era affatto scomparso: e la carbonizzata carcassa e pochi frantumi fumanti e 'dispersi qua e là sulle rive e sulle onde indicavano il luogo dove prima esso aveva approdato. I Borboniani abbandonarono la spiaggia e la nave che tuttavia abbruciava nutile trofeo d'ingloriosa vittoria.

XLIII.— Alle ore tre antimeridiane del 20 l'armata italiana si ripose in viaggio lasciando a sinistra Saline, ed oltrepassato Pentadattilo si diresse alla volta di Lazzaro ove giunse alle dieci ed ove riposò fino alle sei della sera. Come il sole piegava all'occaso le truppe si trovavano in ordine e pronte a partire; e Garibaldi, arringati in quell'ora solenne i volontari, dichiarò volerli condurre la notte stessa all'assalto di Reggio, la capitale della Calabria ulteriore. Le parole del Dittatore produssero il solito effetto: l'entusiasmo dei soldati era al colmo, e gli evviva al Generale e all'Italia proruppero spontanei da mille cuori abituati sotto lui a lottare ed a vincere.

XLIV.— La strada che mette da Lazzaro a Reggio era abbastanza buona e spaziosa quando paragonala ai viottoli che i volontari aveano dovuto percorrere sulle coste e nell'interno dell'Isola. Eglino proseguirono silenziosamente la marcia sino a circa la metà della strada ove Garibaldi avea divisato fermarsi e dare le disposizioni pel prossimo attacco. Quivi il Dittatore raccolse gli ufficiali superiori delle spedizioni dando loro gli ordini opportuni sia in riguardo alla marcia, sia per l'assalto di Reggio: poscia procedette oltre.

XLV.— Innanzi a tutti marciava Nino Bixio, il suo aiutante di campo, due ufficiali d'ordinanza, due guide con un altro ufficiale ed un maresciallo d'alloggio: indi seguiva l'avanguardia formata dal primo battaglione di Bersaglieri sotto il comando di Menotti Garibaldi. Poi il reggimento comandato da Dezza e la seconda brigata Eberhard appartenente alla Divisione di Türr. Il secondo battaglione di Bersaglieri chiudeva la marcia e formava la retroguardia del corpo.

XLVI.— Ad un punto fissato Garibaldi abbandonò lo stradale avvicinandosi al piede delle montagne che dividono nella sua lunghezza il paese da Maida a Mileto. Aveva egli deliberato assalire la fortezza di Reggio dalle colline che si dirigono a settentrione della città verso le giogaie d'Aspromonte ove stava in quel tempo accampato il maggiore Missori co' suoi. Inoltre il Dittatore desiderava allontanarsi dal mare per non esporsi alle artiglierie della flotta che non avrebbe mancato di accorrere in aiuto all'assaltata fortezza.

XLVII.— Alle quattro mattutine del giorno 21, dopo un viaggio felicissimo e senza incontrare un solo soldato napoletano, le truppe di Bixio penetrarono nel sobborgo di Reggio sino alla gran piazza ove stavano accampate due compagnie di nemici. A quella vista i volontari non seppero più contenersi, ma inebbriati d'ardore marziale proruppero in frenetici evviva all'Italia. I Napoletani bruscamente dall'improvviso fragore svegliati diedero di piglio alle armi: ed una viva fucilata ne seguì con orribili danni da una parte e dall'altra. Il generale Nino Bixio rimase ferito al braccio sinistro ed ebbe ucciso sotto il cavallo: molti dei nostri caddero per non mai più rilevarsi al fragore delle patrie battaglie. La breve distanza che divideva i due campi spiega la gravità delle perdite da entrambe le parti sofferte. Se non che i Borboniani, dopo quel primo slancio, abbandonarono la lor posizione, correndo a precipizio in cittadella a salvarsi.

XLVIII.— Tintiero presidio consisteva in otto compagnie di linea, mezzo squadrone di lancieri ed una batteria da campagna, e comandavalo il generale Gaietta cui la voce pubblica attribuiva non ordinari talenti e somma perizia nelle cose di guerra. Eppure né quelli, né questa, né il personale valore di cui si pretendeva fornito, bastarono a salvarlo dall’onta di una capitolazione non dissimile da quelle che Lanza e Bosco avevano dovuto accettare a Palermo e a Milazzo.

XLIX.— I volontari, inseguendo col ferro alle calcagna i fuggiaschi, confusamente con essi penetrarono in città ed in poco d’ora se ne reser padroni: e Bixio già disponevasi ad assalire un piccolo forte situato nella parte meridionale sulla riva del mare. Nel frattempo il generale Calotta dispose le truppe in maniera da proteggere la cittadella ed impedire Inaccesso alle truppe italiane. Spediva quindi un distaccamento ad assaltare nell'interno di Reggio i volontari o per lo meno a trattenere la loro marcia alla volta della fortezza.

L.— Un battaglione del reggimento Dezza fu tosto mandato contro il distaccamento dei Regii che già s'avanzavano sul grande stradale che congiunge la città alla superiore fortezza. I volontari s’inoltrarono a passo di carica, e dopo un vivo combattimento riuscirono ad accerchiare ed avviluppare il nemico ed a costringerlo a deporre le armi. Nel tempo medesimo Bixio stringeva il piccolo forte della marina, il quale separato dalla cittadella e circondato dalle truppe italiane, dopo una difesa che durò ben quattr’ore si credette obbligato ad arrendersi. La bandiera tricolore innalzata sugli spaldi del forte annunciava a Garibaldi che Reggio intieramente trovavasi in potere dei nostri.

LI.— Garibaldi frattanto colla brigata Eberhard celeramente marciava sulla vetta dei colli nell'intenzione di attaccare la cittadella dal lato del nord-, mentre Bixio l'avrebbe assalita dalla parte del sud. Alle ore nove del mattino dopo incredibili fatiche sostenute con eroica rassegnazione? il Dittatore pervenne sul luogo di già destinato' Allora il combattimento s'accese all'intorno e sotto le mura stesse del forte, bersagliando i nostri con fuoco incessante il nemico dietro gli spaldi medesimi della sua cittadella. I Napoletani, muniti di numerosa artiglieria, inutilmente sprecavano i colpi, mentre i volontarii nascosti dietro gli alberi o nelle case e tra le sinuosità del terreno colle loro terribili carabine inglesi, sola arma che avessero, prendevano di mira ed atterravano gli artiglieri borbonici sin dietro le lor cannoniere. Moltissimi soldati napoletani caddero per tal modo feriti od uccisi e fra questi il valente colonnello De Lorenzo precipitava colpito da palla italiana e moriva gridando evviva al suo Re: guerriero generoso ed intrepido, degno d'una causa migliore e di migliori destini (204).

LII.— Già da oltre quattr’ore durava la zuffa quando al Dittatore pervenne Pannunzio che il generale Briganti, che batteva la campagna sulla costa di fronte a Messina tra i forti di Villa San Giovanni e Punta dal Pizzo, a marcia forzata veniva in soccorso alla pericolante cittadella di Reggio. Immediatamente Garibaldi lasciò il combattimento e presa con sé mezza la brigata Eberhard la condusse incontro ai Borbonici, i quali viste comparire da lungi le terribili camicie rosse volsero il tergo ritirandosi sotto il cannone di Alta Fiumara. E il Dittatore, visto il nemico già in fuga, senza più oltre inquietarsi, ritornossene al campo e diede colla sua presenza una impulsione novella all'assalto.

LIII.— Verso il mezzogiorno la lotta ferveva concentrata all'intorno del forte cui i volontari dappresso più sempre stringevano: tutti i distaccamenti regii accampati fuori della cittadella erano caduti prigionieri, mentre il presidio assediato in si piccolo spazio e destituito di speranza e coraggio minacciava gettare le armi e darsi esso pure prigione o disperdersi. Allora il generale Calotta ordinò s'inalberasse la bandiera bianca, e le ostilità furono immediatamente sospese da entrambe le parti. Poco dopo un falso allarme sconvolse l'intera città: vociferavasi e con insistenza asseritasi che la flotta borbonica navigasse a tutta forza alla volta di Reggio. Allora ebbe luogo una scena indescrivibile, e si vide l'effetto contrario che il medesimo avvenimento produce sull'animo del vile e del prode: i volontari corsero all'armi e si disposero ad aspettare il nemico, salutando la nuova battaglia siccome il preludio di un'altra vittoria: e gli abitanti per contro, presi da irresistibile panico, abbandonavano le loro case e precipitosamente fuggivano seco asportando le cose più care e preziose. Se non che verificata la cosa, le ansie e i terrori cessarono: i cittadini rassicurati tornarono alle abitazioni loro, e la cittadella alle ore cinque della sera venne consegnata alle truppe italiane. Tutto il materiale da guerra esistente nel forte, cioè otto cannoni da campagna, otto alla Paixhans da ottanta, sei da trentasei, diciotto pezzi da posizione, tre mortai di bronzo e forse mille duecento fucili oltre i magazzini di vestiarii e munizioni, e muli e cavalli caddero in potere dei nostri. I soldati napoletani uscirono cogli onori di guerra: alcuni di essi si unirono ai volontari e molti disertarono e presero il largo dei campi (205).

LIV.— La notte fu spesa a costituire un governo provvisorio, a proclamare la Dittatura di Garibaldi e l'unione all'Italia ed a diramare le opportune istruzioni ai villaggi della provincia: il resto fu dato al riposo ed al sonno. Il mattino 22 per tempissimo Garibaldi rimettevasi in marcia dirigendosi per la via delle colline verso Alta Fiumara dove disegnava sorprendere le truppe del generale Briganti e disfarle completamente o costringerle a deporre le armi. Cosenz e Missori la notte, per mezzo di segnali concertali a tal uopo, avevano appreso le mire del Generalissimo e ciò che per essi restava a tentare. Il maggiore Missori, già disceso dai gioghi d'Aspromonte che gli furono per più giorni inespugnabile asilo, avanzavasi traverso le creste dei monti ad occupare una posizione eccellente situata all’estrema sinistra de' Regii. Pervenuto colà s'appiattava in una fitta boscaglia attendendo in silenzio l'istante di assaltare il nemico alle spalle, mentre Garibaldi, col grosso dell'esercito lo avrebbe urtato di fronte, e Cosenz colla sua divisione lo venisse a sorprendere a tergo.

LV.— Il 21 ad un'ora di notte, la divisione Cosenz trovatasi già pronta a salpare sulle barche cui il Dittatore aveva fatto a tal uopo raccogliere alla punta del Faro. Elleno presero il largo e raggiunsero senz'altro incidente la spiaggia calabrese dove approdarono tra Scilla e Forte Cavallo nel punto medesimo che prima toccarono i soldati del bravo Missori. Avvedutisi del fatto i presidii dei forti vicini incominciarono in vivo cannoneggiamento, durante il quale, i volontari operarono silenziosi lo sbarco senza perdite gravi o molestie. Impediti dalle tenebre gli artiglieri napoletani dirigevano a caso i loro colpi: le palle passavano fischiando sopra la testa dei nostri ed andavano inutilmente a colpire le cime degli alberi o cadeano in distanza sulla spiaggia od in mare. Terminato lo sbarco il colonnello con sollecita marcia attraversando inosservato la linea dei Regii getta vasi nel centro del paese e per la linea dei colli si portò ad occupare le alture di Pedavoti e Solano. Intanto la flotta borbonica accorreva, ma tardi come sempre al luogo dello sbarco: trovò i volontari di già approdati e scomparsi e si accontentò della cattura di poche miserabili barche che non avevano potuto tornare in Sicilia e le rimorchiò qual trofeo di non ottenuta vittoria a Sapri, a Salerno ed a Napoli (206).

LVI.— Il generale nemico, temendo che i volontari de' quali ignorava la forza e le mosse, riuscissero alle sue spalle, come avvenne di fatti, ed intercettassero la via di Bagnara e Rosarno, avea fatto occupare le alture di Solano da un forte distaccamento de' suoi ad oggetto di conservare per ogni evento la ritirata a Cosenza ed a Napoli. Se non che le speranze de' Regii vennero rovesciate dallo sbarcò e dalla marcia di Cosenz. L'avanguardia italiana, inoltrandosi sulla via di Solano incontrava un nemico a fuggire più atto assai che a difendersi: e i Borboniani, ancorché superiori di numero e collocati in posizione eccellente mal resistendo all'irresistibile furia dei nostri, dopo poche scariche gettarono l'armi e si sbandarono a destra e a sinistra per le vicine montagne.

LVII.— Cosenz, proseguendo con rapida marcia il viaggio penetrò fra le gole di Moni Allo e raggiunse la vasta catena d'Aspromonte dove accampavasi in attesa degli ordini del suo Generale Il seguente mattino scendendo dalle rupi che loro servirono, durante la notte, d'asilo, i volontari si misero in comunicazione col corpo di Missori, che operava sulla medesima linea, ma più a levante e al di sopra di Reggio. In tal guisa l'esercito garibaldiano trovavasi concentrato sul versante meridionale della montagna distendendosi quasi in semicerchio da Reggio alle falde di Mont'Alto, a settentrione di Villa San Giovanni e d'Alta Fiumara.

LVIII.— La notte del 22, per ordine di Garibaldi, l'armata riprese il movimento offensivo incontro alle triplici forze nemiche. I volontari giravano per cosi dire sulla loro destra, nella marcia descrivendo presso a poco la medesima linea. Sui gioghi più elevati, traverso burroni spaventevoli ed abissi, marciava la decimasesta divisione: più basso veniva Missori e il suo piccolo corpo ed in fine Garibaldi in persona col grosso dell'armata sfilava sui colli sovrastanti alle posizioni dell'esercito regio.

LIX.— Aveva il Dittatore disposto che Cosenz si portasse alle spalle di Briganti, e si appiattasse fra le gole delle montagne donde a un dato segnale potesse od assalire il nemico od unicamente sbarrargli la via di Mileto. Missori dal canto suo doveva fermarsi alle falde del Mont'Alto, occultandosi fra le folte boscaglie che ingombrano il versante meridionale della montagna medesima ed apparecchiarsi ad attaccare la sinistra dei Regii, mentre Garibaldi, venendo da Reggio avrebbe manovrato sulla fronte della lor posizione. Cosi il corpo di Missori veniva ad accamparsi sul centro dell'armata italiana ed a servire di punto di ravvicinamente fra le truppe condotte da Garibaldi e da Cosenz. Quel piano, audacemente concetto, fu con altrettanta fortuna e bravura eseguito.

LX.— Garibaldi unicamente mirava a raggiungerò il generale Briganti: ed a tal uopo abbisognavagli evitare ogni inciampo che potesse rattenere il suo corso e ritardare la marcia de' suoi. Egli seguiva pertanto la linea dei colli, girando alla sua sinistra il forte di Villa San Giovanni. ove il generale Melendez accampava con una intiera brigata di Regii. Infatti i Napoletani s'accorsero del passaggio dei Garibaldini sulle creste dei prossimi monti e vanamente salutaronli con alquante scariche dei loro fucili. Il Dittatore passò oltre senza nemmeno degnar di rispondere.

LXI.— Allora Melendez, indovinati i disegni dell'astuto avversario, abbandonò colle sue truppe la posizione affidatagli e corse precipitoso a congiungersi col grosso de' Regii stanziati con Briganti ad Alta Fiumara. Così riunite le truppe napoletane formarono un'armata imponente quando paragonare si voglia alle esigue forze di cui disponeva il Generale italiano. D'altra parte i Garibaldini, divisi in tre colonne, occupavano i punti che loro avea Garibaldi indicato. Per tal modo, a seconda del piano tracciato, i Regii avevano il Dittatore di fronte. Missori all'estrema sinistra ed alle spalle il corpo di Cosenz.

LXII.— Prima però d'impegnare la zaffa, sull'esito della quale ornai più non potevasi concepire il menomo dubbio, Garibaldi cercava ottenere l'intento evitando al tempo stesso una inutile effusione di sangue fraterno. Un parlamentario venne quindi spedito con ordine di esporre a Briganti e a Melendez le misure che il Duce italiano avea prese, la scabrosa ed arrischiata situazione nella quale essi stessi versavano e la necessità di rassegnarsi al destino e di arrendersi. I generali borboniani rimasero muti e sorpresi: ciò nullameno eglino rifiutarono i patti che Garibaldi offeriva, ma immobili rimasero e concentrati nelle loro linee né mostrarono premura a combattere: forse essi pure prevedevano la loro sconfitta quando la fatalità li avesse costretti a lottare coll'invincibile espugnatore di Calatafimi e Palermo. Dall’altro canto il Dittatore che aveva divisato acquistar la vittoria senza punto ricorrere all'armi tranquillamente attendeva che i Regii si decidessero da sé a deporre il fucile.

LXIII.— Le truppe di Cosenz, fino allora nascoste fra le gole dei monti, improvvisamente comparvero sulle alture alle spalle ed in vista dei Regii, già schierate ed in atto di scendere al piano. Contemporaneamente Missori disponeva i Bersaglieri e le Guide sui colli e minacciava la loro sinistra e Garibaldi avanzandosi loro presentava la battaglia di fronte. Tutti codesti movimenti furono dai nostri eseguiti con celerità e precisione mirabile: Garibaldi, Cosenz e Missori formavano quasi una cerchia di ferro all’intorno del campo nemico. Briganti e Melendez non potevano illudersi: a destra avevano il mare: a tergo, a sinistra ed a fronte il nemico, cui il terrore dei soldati vieppiù rendeva terribile. Ritirarsi non era possibile; ogni via di salvezza era chiusa: o bisognava accettar la battaglia ed esporsi ad una rotta completa od arrendersi. Lo sbigottimento dei Regii non è descrivibile: eglino si sentivano soggiogati dal genio superiore dell'uomo che avea con forze sì esigue operato si grandi prodigi. Eglino vedevano i Garibaldini sorgere come per incanto dal suolo guidati da una volontà sopranaturale alla distruzione della monarchia che invano essi avrebbero voluto difendere. Quelle anime abbrutite dal dispotismo non sapeano farsi ragione di quanto accadeva davanti ai loro occhi e parevano come colpite da superstizioso terrore: né con tali soldati potevasi tentare la sorte delle armi. I generali borboniani il sentivano e ad una seconda intimazione del Dittatore accettarono i patti che lor vennero imposti e che prima avevano respinti. A tenore della capitolazione sottoscritta il medesimo giorno i soldati napoletani abbandonarono le armi, cedettero le fortezze di Alta Fiumara e Forte Cavallo e si ritirarono dimessi e scorati per la via di Bagnara. La resa dell'armata d'Alta Fiumara e Forte Cavallo trascinò altresì la caduta di Villa San Giovanni e di Scilla, la formidabile fortezza di Scilla che resistette nel 1808 ben trentasette giorni ad un intiero corpo d'esercito comandato del generale Regnier (207).

LXIV.— Una volta sfondate, le crociere napoletane più non valevano ad impedire ai volontari stanziati in Sicilia il tragitto in Calabria: parca che il terrore medesimo onde fu invasa l'armata di terra si fosse eziandio comunicato alla flotta. Le navi borboniane si ritiravano nei porti di Sapri o di Napoli e libero rimaneva lo Stretto ed il mare contiguo. La sera del 22 Medici imbarcavasi colla divisione a tre miglia circa da Messina e felicemente raggiungeva a Villa San Giovanni i Garibaldini che se Aerano di già insignoriti. Il 24 e il 25 passava pur anche la divisione di Türr, ed in tal guisa tutta l'armata garibaldiana, meno la brigata Eber ed i depositi, si riuniva sui lidi calabresi per le future operazioni campali.

LXV.— Garibaldi, non volendo al nemico dar tempo a riaversi ed a concentrar le sue forze, tosto rivolse il pensiero ad approfittare dei vantaggi ottenuti ed a spingere colla massima energia e celerità le operazioni guerresche. Egli più non trovavasi nella condizione penosa che a Palermo obbligavate a temporeggiare e suo malgrado a differire il compimento della santa intrapresa: in Calabria sentivasi forte abbastanza per affrontare la monarchia alle porte stesse della sua capitale. Aveva egli impertanto divisato piombare all'improvviso tra le diverse divisioni dell'esercito napoletano accantonate nella Basilicata e nelle Calabrie e batterle separatamente e disperderle, e inoltrarsi nel cuore stesso del Regno prima che il nemico potesse avvisare ai mezzi d'opporsi efficacemente e difendersi. Perciò, senz'attendere l'accentramento di tutto l'esercito, postosi a capo delle divisioni di Bixio e di Cosenz, riprese la via di Bagnara e di Palmi per Mileto e per Maida

LXVI.— Prima però di partire spediva in Sicilia il colonnello Lodovico Frapolli con missione di raccogliervi i volontari, già appartenenti alla spedizione di Terranova, e che nel frattempo doveano essere giunti a Palermo, e di trasportarli per mare a Paola od a Sapri ad intercettarvi l'unica strada militare che le Calabrie congiunge con Napoli. Era questa una manovra audacemente concetta e di somma importanza nella sua esecuzione: una volta penetrati in Basilicata avrebbero i Garibaldini, troncato le comunicazioni della capitale delle provincie orientali del Regno e costretto i varii presidii borboniani delle città calabresi a defezionare o ad arrendersi. Se i Regii avessero accettala la battaglia che loro Garibaldi offeriva sulle alture di Monte Leone o Cosenza, i volontari sbarcati a Paola potevano accorrere ad assalirli da tergo ed a prenderli così tra due fuochi; in caso contrario avevano ordine di operare un movimento offensivo sopra Salerno (208).

LXVII.— Dal mattino 24 agosto i volontari correvano sulla via di Bagnara e di Palmi costeggiando la spiaggia del golfo di Gioia. Erasi sparsa voce che il generale napoletano Cardarelli, con una divisione rinforzata dai presidii di Catanzaro, Gerace ed altre vicine città, non che dalle truppe fuggiasche di Briganti e Melendez, intendesse difendere l'altipiano di Monte Leone e i gioghi che dominano Catanzaro stessa e Cosenza. Perciò Garibaldi sollecitava la marcia desiderando affrontare il nemico prima che questi si fosse fortificato in quelle posizioni di loro natura cotanto eccellenti. I volontari procedettero con tanta celerità che giunsero a Mileto appena ventiquattrore dopo il retroguardo della decimata divisione Melendez.

LXVIII.— A Mileto il 25 compivasi un'orrenda tragedia. Ritirandosi da Villa San Giovanni il decimoquinto reggimento di linea napoletano bivaccava in quel giorno sulla piazza e per le strade della città. La truppa inasprita dai sofferti disagi ed indisciplinatissima, come sovente avviene degli eserciti in fuga, sordamente mormorava contro i suoi generali e contro il governo: né gli ufficiali che la conducevano, scoraggiati o guadagnati eglino pure dallo spirito di ribellione, si davano la minima pena a tenerla in dovere. I soldati con terrore numeravano le faticosissime tappe che loro a fare restavano, e ripudiando il mestiere delibarmi, chiedevano il congedo illimitato e il ritorno alle loro famiglie. Giunse in questo il generale Briganti a cavallo ed accompagnato da un solo domestico: e come i soldati il riconobbero salutaronlo con grida furiose di abbasso e di morie. Il generale, senza punto curarsi di tali schiamazzi, passò oltre volando ed usci da Mileto. L'infelice correva già in salvo sulla strada di Monte Leone, quando, o vergogna il prendesse, o lo richiamasse il sentimento del proprio dovere, o quell'arcana potenza che si chiama destino, rivolse il cavallo e rientrò coraggiosamente in città. Non si tosto comparve, i clamori e le gride ripigliarono con nuovo e crescente furore. Briganti arrestavasi intrepido ed accennava voler parlare, quando tre colpi di fuoco gli uccisero sotto il cavallo. Con sangue freddo mirabile sbarazzavasi il povero vecchio dalle staffe e raddrizzavasi in piedi, opponendo il petto scoperto alle palle di que' vili assassini. I soldati un istante esitarono, lo schiamazzo calmavasi: e il generale avvicinatosi parlava della sua età già cadente e delle cure paterne che alle truppe aveva prodigato in tanti anni della sua militare carriera. Il venerando sembiante, le parole ed il nobile contegno del vecchio generale parevano aver disarmato la furia di quei miserabili, quando un basso ufficiale a bruciapelo tiravagli un colpo nel petto e stramazzavalo moribondo per terra. La vista del sangue riaccese la rabbia ed inebbriò la ferocia di quell'orda selvaggia: oltre cinquanta fucili vennero inumanamente scaricati sul muto cadavere. Né paghi di ciò i soldati lo trafissero con replicati colpi di baionetta e di sciabola, né fu senza grave fatica e pericolo che alcuni pietosi riuscirono a sottrarre dalle loro mani il corpo mutilato e nasconderlo nella prossima chiesa. Cosi periva Briganti per mano di pochi e codardi assassini. Felice lui se fosse caduto combattendo sotto le mura di Reggio o sotto Alta Fiumara! (209).

LXIX.— Ebre di furore e di sangue quelle jené si rivolsero a saccheggiare le botteghe propinque e le chiese: parevano dominate da una potenza infernale. Quindi, conosciuto il luogo dove la vittima loro giaceva nascosta, sfondarono le porte del tempia ed afferrato pei piedi il cadavere lo trascinarono ignudo e sanguinante per le vie di Mileto. Chi gli strappava i capelli o la barba, chi lo punzecchiava colla baionetta, chi lo calpestava imprecando: gli vennero strappati gli occhi, lacerate le orecchie, peste, fracassate le membra: non v'è oltraggio ed obbrobrio da cui quegl'infami rifugissero. Stanchi alla fine si riunirono sulla piazza ed ivi deposte di comune concerto le armi, sbandaronsi, ciascuno prendendo la via del proprio paese. Cosi i miserabili, soliti a tremare ed a fuggire davanti a pochi nemici, ebbero l'infame ardimento di trucidare un debole vecchio ed inerme, ed ignominiosamente oltraggiarne eziandio il mutilato cadavere.

LXX.— L'insurrezione prendeva frattanto delle enormi proporzioni alle spalle ed ai fianchi dell'armata borbonica, e precedeva la sollecita marcia del Generale italiano, dovunque preparando il terreno per la sua recezione. A Solano, a Palmi, a Drosi, a Rosarno, a Mileto e in ogni luogo i volontari venivano accolti con immensi trasporti di giubilo ed acclamati quali redentori dei popoli. Sopratutto Garibaldi era oggetto d'ammirazione spontanea, universale, vivissima: egli giungeva applaudito, benedetto e festeggiato con illuminazioni, danze e tripudii, e partiva seco portando i voti più vivi e cordiali del popolo. Felice chi poteva parlargli o soltanto avvicinarlo o toccargli la mano o la veste: egli diventava per ciò solo l'oggetto della curiosità universale. Ben a ragione il Dittatore scriveva all'amico suo Giuseppe Sirtori: la nostra marcia traverso questo paese è un vero e continuo trionfo.

LXXI.— Da per tutto in que' giorni istituivansi comitati o società patriottiche, veri governi provvisorii, che assumevano ed accentravano in sé la sovranità d’intiere provincie. E ciò non in secreto o davanti ai Regii, ma apertamente ai loro fianchi ed a tergo e fino sotto gli occhi medesimi delle autorità borboniane. A Catanzaro ed a Cosenza, siccome a Gerace, e a Reggio codesti comitati funzionavano di già costituiti e riconosciuti dalle popolazioni amiche e plaudenti. I Napoletani occupavano alcuni punti isolati d'un suolo che loro sfuggiva dai piedi: rinchiusi nelle loro fortezze miravano con terrore e sgomento svolgersi correndo tempesta che tutti minacciava inghiottirli. La sconfitta e l'indisciplina li rendevano inerti ed incapaci di resistere al voto che manifestatasi loro d'intorno: erano quasi stranieri accampati in paese nemico.

LXXII.— Il generale napoletano Ghio teneva a Catanzaro e ne' vicini paesi un corpo d'armata ammontante a circa quindici mila soldati e che giornalmente aumentavasi colle reliquie delle brigate Melendez e Briganti e coi presidii dei forti situati lungo il litorale del Mediterraneo. Com'era da supporsi il generale napoletano apprestavasi à coprire l'importante città di Cosenza occupando l'unica strada militare che da Reggio conduce a Soveria. Obbietto precipuo delle operazioni dei Regii doveva esser quello di rincacciare l'armata italiana nella bassa Calabria o per lo meno di ritardarne la marcia. A tale oggetto diverse posizioni si offrivano alla scelta del generale borbonico e tutte egualmente eccellenti e suscettibili di lunga difesa, tali erano le alture di Monte Leone, la linea del fiume Lamato, celebre per la sconfitta sostenutavi dai Francesi nel 1806, e finalmente le gole scoscese ed alpestri di Tiriolo e Soveria. Sembra che Ghio sulle prime avesse prescelto il magnifico altipiano di Monte Leone: ma sia ch’egli credesse impossibile antivenire colà l'arrivo dei nostri od altre considerazioni il movessero accampavasi sui gioghi dietro a Tiriolo.

LXXIII.— Garibaldi per la via di Mileto e di Maida celeramente avanzavasi desideroso di misurarsi col nuovo generale che la Corte di Napoli mandavagli incontro: e contemporaneamente gl'insorti calabresi concentravansi in vari punti e battevano il paese ai fianchi ed alle spalle dei Regii. Il generale Ghio bentosto s'avvide che la sua posizione diventava sempre più scabrosa e difficile: ostinarsi a tenerla sarebbe stato quanto esporre l'armata al pericolo di certa e totale sconfitta. In circostanze si anguste una sola speranza rimanea di salvezza, ed era la pronta ritirata a Soveria al di là di Catanzaro sui colli che dividono questa città da Cosenza. La ritirata s'operò con somma precipitazione e con qualche disordine: i Napoletani occuparono Soveria, determinati ad aspettarvi il nemico e sperando, in caso di rovescio, mantenere le comunicazioni colla Basilicata e con Napoli.

LXXIV.— Il Dittatore frattanto con rapida marcia presentavasi sulle alture vicine a Soveria di fronte alla linea borbonica: e seco aveva la decimasesta divisione Cosenz e la brigata di Sacchi allora appartenente al corpo di Türr. Il barone Stocco (vecchio patriotta del 1848, esigila to in seguito agli avvenimenti del maggio e rimpatrialo coll’armata italiana) con grossa schiera d’insorti oltrepassava inosservato le linee dei Regii portandosi alle loro spalle ed intercettando la strada di Catanzaro a Cosenza. Altre squadre d'insorti o guerriglie romoreggiavan tra le giogaje dei monti propinqui ed allarmavano continuamente i nemici colle loro scorrerie, le fughe simulate e gli assalti improvvisi. Inoltre veniva al generale borboniano annunziato che una forte divisione di volontari, sbarcata a Paola, dirigevasi sopra Cosenza, e gli rendeva in tal modo ogni idea di ritirarsi impossibile. Ghio non sapeva a quale partito appigliarsi: alla sua sinistra elevavansi le inaccessibili giogaje degli Appenninica destra stendevasi Inazzurra superficie del Mediterraneo, di fronte avea Garibaldi, ai fianchi ed a tergo gli insorti, le squadre di Stocco e il corpo spedizionario di Paola. Egli prese impértanto una eroica risoluzione, quale seppero prendere, durante l’intiera campagna, i generali di Francesco II. Dopo avere scambiato alquante fucilate cogli avamposti italiani ed assaggiato alcun che del valor nemico, Ghio stipulava un accordo mediante il quale, obbligandosi a non combattere più mai né contro i Garibaldini né contro gli insorti ed abbandonando le artiglierie, i cavalli, i muli e le provvigioni da guerra e da bocca di cui era copiosamente fornito, assicuravasi la ritirata a Salerno ed a Napoli.

LXXV.— Il generale di brigata cavaliere Cardarelli, comandante di piazza in Cosenza, come seppe la capitolazione di Ghio e l'assassinio di Briganti, colpito da invincibile panico scese egli pure agli accordi e stipulò col Comitato locale la resa della città e del forte. E procedette ancora più oltre: egli offerse al Comitato medesimo di riunirsi all'esercito italiano in un colle truppe che stavano sotto i suoi ordini. Ottimi sembravano i patti, pure se ne declinò l'accettazione deferendone al giudizio del Dittatore di Sicilia e Calabria: e Garibaldi ricusando in massima la lusinghevole offerta, esigette che i soldati fossero lasciati in libertà d’incorporarsi ne’ suoi reggimenti o di ritornare alle loro famiglie, e che il generale si obbligasse a rimanere prigione di guerra a Cosenza. La fortezza, uniti i materiali e i magazzini, passava in potere dei nostri.

LXXVI.— Colle capitolazioni di Ghio e Cardarelli compivasi la redenzione di tre grandi provincie, la Calabria Citeriore e la prima e seconda Ulteriore. Il vasto paese che stendesi dall'estremità del Capo Spartivento a Cosenza, tanto al di qua che al di là degli Appennini, sgomberato e ceduto dai Regii. libero diveniva e italiano. In soli nove giorni dal suo sbarco sulle coste di Melito Garibaldi batteva il nemico sotto le mura di Reggio, costringeva ben cinque generali nemici ad arrendersi, disperdeva o metteva fuori di combattimento quattro corpi di armata ed insignorivasi di forse venti città e fortezze, alcune delle quali formidabilmente munite dalla natura e dall'arte. In nove giorni incominciava e conduceva a metà una terza campagna non meno delle altre grandiosa e brillante: era aperta la via di Salerno e di Napoli: e le operazioni dei volontari da quell'istante assumevan l'aspetto di una semplice passeggiata militare a traverso le provincie del Regno.


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LIBRO X

Marcia a Salano. — Entrata in Napoli

I.— Se pure Francesco II aveva un istante potuto sperare che la costituzione valesse a ricondurre nel Regno la tranquillità e la pace, gli avvenimenti sopraggiunsero tosto a trarlo dai sogni dorati e a dissipare ogni vana illusione. Invano la diplomazia esauriva i suoi sforzi a galvanizzare un cadavere per metà putrefatto: invano i Napoleonidi cospiravano colle tradizioni italiane a rassodare sul capo del giovine Re la pericolante corona di Ferdinando II. Ispirata alle idee di un secolo intieramente diverso dal nostro, la monarchia napoletana era condannata a sfasciarsi al primo urto dell’Italia risorta. Il trono di Francesco Il avrebbe abbisognato per reggersi che l’Austria fosse eternamente rimasta dominatrice della valle del Po ed avesse continuato colla sua mana di ferro a comprimere l'intera penisola. Gli Italiani non domandavano al governo di Napoli leggi o riforme: non era la libertà od il patto costituzionale, ma il dominio stesso dei Borboni che i tempi ed errori infiniti avevano reso impossibile.

II.— L'opera lenta e perseverante della Giovane Italia aveva recato i suoi frutti: dopo sei lustri di cospirazioni e di sacrificii il programma politico di Giuseppe Mazzini otteneva l'adesione dei popoli e stava oggimai per raggiungere la sua pratica applicazione eziandio nel campo dei fatti. Gli Italiani correvano sull'orme del grande maestro: e postergando ogni considerazione di gloria o d’interessi locali, di convenienze politiche, di libertà e di governo, unicamente miravano a costituire l'unità del paese. Invasi e dominati da tale pensiero non eglino chiedevano libertà o riforme, ma un Regno od uno Stato che tutte abbracciasse le diverse regioni della penisola dalle Alpi alla estrema Sicilia.

III.— Nelle fortunose vicende avvenute nel 1859 lo scopo s'era a metà per lo meno raggiunto: il primo soffio della rigenerazione italiana avea bastato a rovesciare le piccole monarchie di Firenze, di Parma e di Modena: ed il paese fiducioso attendeva che la spada garibaldiana egualmente infrangesse lo scettro di Francesco II e la terrestre corona del santo Pontefice. Sotto l'impero di tali aspirazioni stato sarebbe impossibile indurre l’Italia ad accettare un dualismo monarchico sì contrario alle speranze ed ai voti dei popoli. La penisola divisa in due regni appariva; allo sguardo dei più siccome un'utopia un controsenso, un errore politico: errore che ad ogni costo dovevasi evitare e respingere.

IV.— Il programma federale era il solo che poteva salvare dall'estrema ed imminente rovina la dinastia dei Borboni: ma questo, osteggiato del pari dalle società secrete e dalla pubblica opinione, era ornai divenuto impossibile. L'Italia a que' giorni presentava lo strano fenomeno di un popolo che unicamente riceveva le sue ispirazioni dalle occulte congiure che ne dirigeano i voleri ed i moli. Minato in tutti i sensi e lungamente agitato da innumerevoli affigliazioni politiche il paese nostro per mezzo della cospirazione soltanto si poteva guidare e condurre. Dalla caduta di Napoleone all'avvenimento di Pio IX gli affigliati alle varie congreghe furono i soli che osarono parlare alle popolazioni di libertà, di nazionalità e di patria: e non è quindi meraviglia che gl'Italiani in essi soli riconoscessero i loro condottieri naturali e maestri, che li seguissero con eroica ostinazione in esigilo, negli ergastoli e sui patiboli e che ne accettassero le dottrine e i consigli.

V.— Per somma sventura della dinastia borboniana tutte le cospirazioni liberali surte dopo il 1814 in Italia aveano sin da principio adottato la divisa unitaria. Come vivessero in un mondo novello ed infinitamente diverso dal nostro, i Re di Napoli mostrarono non avvedersi della voragine che si apriva all'intorno del trono: confidando nelle armi e nella fortuna dell'Austria i due Ferdinandi e Francesco I non pensarono menomamente ad assicurarsi una via di salute pel caso d'un rovescio che potesse toccare ai loro augusti patroni. Stoltamente imprevidenti non vollero o non seppero in tempo scongiurar l'uragano che loro fremeva sul capo: ed al torrente delle cospirazioni che straripava da tutte le parli opposero l'immobilità dei loro cervelli, la forza brutale, gli esilii e i patiboli, quasi le baionette e le forche bastassero ad arrestare i pensieri dell'uomo. Pur troppo gli orgogliosi della terra non sanno persuadersi che le idee, comunque incorporee, esercitino un irresistibile fascino sulla inerte materia, e come, essendo per natura espansive, acquistino in rapidità ed intensità quanto più si spende di tempo e di sforzi a comprimerle.

VI.— Nel 1848 Ferdinando II avrebbe dovuto comprendere quanto labili fossero le basi della sua dominazione e la necessità di creare una politica a suo beneficio, di farsi capo di alcuna delle innumerevoli sette che minavano la penisola e di adoperarla come mezzo di popolarità e di governo. Egli forse sarebbe riuscito, opponendo programma a programma e cospirazione a cospirazione, ad arrestare la propaganda unitaria che doveva tosto o tardi rovesciare il suo trono. Egli avrebbe dovuto avvedersi del modo col quale le secrete conventicole disponevano della pubblica opinione, davano e toglievano la popolarità, creavano ed atterravano gl'idoli ed estendevano la loro misteriosa potenza in tutta l'Italia. Sfortunatamente la legittimità lo accecava: e invece di cospirare coi popoli oppressi, cercò salvezza congiurando coll'Austria e col Papa, coi gesuiti e i sanfedisti, a danno del paese e involontariamente pur anche a detrimento dei propri interessi. Sebbene accorto politico e profondo conoscitore del cuore umano, Ferdinando II non comprese né allora né mai l'opportunità di collegarsi coi popoli: ma stringendosi fra le pastoie d'un odioso passato ed ispirandosi alle illiberali tradizioni della propria famiglia accelerò la rovina della sua dinastia. Erede sfortunato della politica antitaliana del padre, dell'avo e del bisavolo, Francesco II era condannato a subire la catastrofe che i predecessori suoi legato gli avevano.

VII.— Non è facile immaginare quanto potente e diffusa la cospirazione unitaria fosse in que' giorni in Sicilia ed a Napoli. L'esito glorioso della campagna lombarda aveva grandemente contribuito ad elevare le speranze e le pretese del partito italiano: è mentre, prima della guerra, moltissimi accontentali sarebbersi d'una confederazione di Stati liberi ed indipendenti, dopo le vittorie di Magenta e Solferino, i fatti dell'Italia centrale e la portentosa spedizione di Garibaldi in Sicilia, altamente domandavano l'unità del paese sotto le medesime leggi ed intorno ad un unico centro. Per tal modo la sconfitta dell'Austria e il non-intertento, come regola di condotta della Francia e dall'Inghilterra accettato, avea lasciato il trono di Napoli senz'appoggio e difesa in balia delle secreto congiure e delle aperte popolari sommosse.

VIII.— Effettuata la spedizione dei Mille, prima cura della consorteria moderatrice stabilita a Torino e capitanata dal La-Farina fu quella di accingersi a sfruttare le vittorie dei volontari italiani e gli sforzi del partito dazione. In sul principio i moderati speravano imporsi a Garibaldi ed al ministero Siciliano e sedere a Palermo regolatori degli avvenimenti e della pubblica cosa: ma tosto, sventato quel vago disegno, rivolsero i loro sguardi ai continente napoletano dove meglio credevano aperto il terreno alle loro dottrine. Diffatti una mano invisibile, comeché conosciuta, in poco tempo e con perseverante tenacità travagliando nel senso, e secondo gl'interessi, dei moderati, raccoglieva intorno ad un centro le innumerevoli associazioni politiche disseminate fra le provincie del Regno e dava moto e direzione comune agl'incomposti conati dei popoli, fino allora lasciati in balia di se stessi. La Società Nazionale di Torino acquistala l'adesione del Comitato napoletano, e per mezzo di questo ponevasi in comunicazione coi circoli insurrezionali dagli Abbruzzi all'estrema Calabria (210). Col mezzo di mandatari ed esploratori, a bella posta inviati sul luogo, corrispondeva con tutte le società stabilite nel Regno, ne ispirava la condotta e sorvegliavano gli andamenti e le mire. Prima ancora che Garibaldi passasse in Calabria l'intiero continente napoletano era già acquisito alle idee moderate del signor La-Farina e de' suoi illustri patroni.

IX.— Per tal guisa Napoli, immensa e popolosa metropoli e già centro di numerose e diversissime associazioni, diveniva il quartier generale di una vasta propaganda La-Fariniana e unitaria. In breve, come accade sovente, le varie sètte aderivano a quella che capitanava l'opposizione alla Corte, e tutti i malcontenti e i nemici dei Borboni raccoglievansi intorno lo stendardo della rivolta che gli unitarii aveano di già sollevato. Le reliquie del bonapartismo e del muratismo, gli antichi mazziniani e carbonari e gli adelfi abbracciavano l'opportunità di misurarsi, coi loro nemici ed accorrevano volonterosi ad aumentare le file del Comitato nazionale. Senza distinzione di colore o d'intenti le frazioni liberali formavano una sola falange che impegnava la sua ultima zuffa col governo abborrito di Casa Borbone. E i popoli, amanti di novità od avversari dichiarati del vecchio ordine di cose, cooperavano potentemente alla rovina dei loro signori.

X.— A tale, sul finire del giugno, era pervenuta l'esaltazione degli spiriti che nessuna forza valeva oggimai a contenere la rivolta irrompente. I liberali parevano moltiplicarsi in progressione geometrica: il numero dava l'impunità, e questa giornalmente accresceva le file del partito unitario. Né solo le classi colte ed agiate, per lo addietro tenute in sospetto di liberalismo, ma eziandio la moltitudine ignorante e fanatica a poco a poco passava nel campo nemico al governo.

XI.— Fra le cause che maggiormente contribuirono ad estendere la cospirazione, alcune ve n'erano generose e lodevoli: né per ciò vorremmo affermare che i motivi dominatori di tutte le menti fossero del pari disinteressati e sinceri. L'immensa maggioranza del popolo, giova almeno sperarlo, respingeva Francesco II per amore all'Italia, pel desiderio di costituire l'unità nazionale e per fondare su basi durevoli l'avvenire e la libertà del paese nativo. Ma oltre que' magnanimi, che tutto avrebbero sacrificato alla patria, i nemici della Casa Borbone si reclutavano fra i malcontenti e i reietti del vecchio regime, fra gli amatori dei trambusti e delle rivolture sociali, fra gli smaniosi di onorificenze e d'impieghi, tra gli ambiziosi infine e gli scioperati che nel cangiamento del governo si lusingavano trovare la propria fortuna. Moltissimi erano liberali per principio, alcuni per interesse ed altri finalmente per soddisfare le proprie individuali passioni. E la popolazione ignorante seguiva il corso delle idee che non sapeva o non poteva comprendere e lasciavasi trascinare dall'ascendente del costume e della moda che esercita sempre una incalcolabile influenza sulle azioni e sui pensieri degli uomini.

XII.— Tuttavia non si dee misconoscere che il vero e principale movente di tanta avversione proveniva anzi tutto e sopra tutto dalla pessima amministrazione e dalla infame ed antinazionale politica del governo borbonico. Sembra che dopo la morte del celebre ministro Tannucci i Re che si succedettero al trono di Napoli fossero tutti condannati a servirsi degli uomini più ignoranti ed odiosi, |i quali senza saperlo, travagliavano indefessi alla rovina de' loro padroni. Non seppero i Borboni o non vollero mai comprendere che la forza e l'autorità del monarca unicamente riposa sull'obbedienza e l'adesione dei sudditi, e che il trono più fermo e più stabile è quello che ha per base la sicurezza sociale e l'amore dei popoli. Le proscrizioni sistematiche, gli arresti arbitrarii, le spogliazioni e le vessazioni politiche a cui la Corte abbandonavasi per istinto ed abitudine, aveano più ancora delle società secrete contribuito a diffondere e propagare ridea italiana. Nel tempo medesimo la generale corruzione che diffamava la gerarchia amministrativa toglieva al governo la propria influenza e ne diminuiva l'autorità ed il rispetto agli occhi degli stranieri e de' sudditi. Mentre l'odio accumulato di quattro generazioni, a guisa di irresistibile uragano, veniva a rovesciarsi sul trono reale, la corruzione dell'esercito e del governo accelerava la sua distruzione. Certo le cospirazioni liberali avrebbero dato seriamente a pensare ai Borboni, ma nulla avrebbero esse potuto mentre l'armata fosse stata fedele al suo Re, ed il popolo attaccato alle leggi e alla persona del principe. La stessa diplomazia è costretta a riconoscere che non tanto alle suggestioni venute da Torino od all'opera delle cospirazioni quanto alle inique e brutali misure della polizia, attribuire si dee il malcontento che metteva in que' giorni a soqquadro lo Stato di Napoli (211). Cosi agli occhi stessi dei diplomatici la rivoluzione della Sicilia e della terraferma napoletana appariva un atto di legittima difesa contro le provocanti escandescenze e l'arbitrio brutale dell'autorità governativa (212). Come potevano le popolazioni rispettare o sostenere l'autorità di un governo che non rifuggiva dai mezzi più abbietti e più vili per mantenersi ed imporsi al paese? Un governo che abusava della forza brutale fino ad adoperare l'anarchia ed il disordine come mezzi di repressione, e che non si vergognava di violare i più sacri fondamenti del patto sociale, rilasciando gli assassini ed i ladri dalle prigioni di Palermo e Messina? (213) Che per libidine di strage e rovina faceva dai poliziotti travestiti e dai ladri insultare le truppe affine di provocare un conflitto ed allagare di sangue le sue più fiorenti città? (214) Come poteva un simile governo reggere e durare in onta alla civiltà e all'onore d'Europa? Qual meraviglia che le popolazioni abbracciassero con tanta effusione l'opportunità di liberarsi dai loro carnefici, e che il più lieve sintomo d'un migliore avvenire le facesse palpitare e commuovere? (215).

XIII.— Fu dopo la promulgazione delle concessioni costituzionali che la febbre rivoluzionaria raggiunse lo stadio di vero parossismo politico. L'agitazione popolare divenne in pochi giorni cosi generale o minaccievole che il governo si vide o si credette costretto a proclamare nuovamente lo stato d'assedio. Cosi le promesse di liberali riforme si alternavano colle comminazioni delle pene più sanguinarie e dispotiche: ed invano prodigavansi lusinghe e minacele ad arrestare la corrente dei fatti che stavano già per compirsi.

XIV.— Per lo addietro il governo di Napoli avea riposato sulla fede mercenaria dell'esercito, istituito unicamente ed educato a comprimere le velleità liberali dei popoli, e sull'attaccamento dell'infima plebe, cui la più supina ignoranza toglieva il comprendere e pregiare i vantaggi della vita libera e costituzionale. Ma nei tempi dei quali parliamo, eziandio. quel duplice appoggio o appariva insufficiente o per intero passava nel campo delle idee italiane. L'esercito borboniano avea fatto di sé troppo misera prova sui campi di Calatafimi e Milazzo e sotto le mura stesse delle fortezze palermitane, perché gli si potesse, con ¡speranza di vittoria, affidare i destini del trono. Dall'altra parte la fiamma suscitata già da Masaniello era stata abilmente riaccesa tra i Lazzaroni napoletani: e il governo poteva contare oggimai altrettanti nemici in coloro medesimi che aveano per lo passato accanitamente sostenuto la sua autorità.

XV.— A tale eran giunte le cose quando a Napoli perveniva Pannunzio che Garibaldi, tragittato lo Stretto, aveva sbaragliato e quasi senza battaglia distrutto le truppe che guardavano la Calabria citeriore e ulteriore. Non è a dire quanto l'improvviso avvenimento giungesse opportuno a diminuire il terrore ispirato dallo stato di assedio a cui di recente era stata la città sottomessa. L'entusiasmo popolare andò al colmo allora quando si conobbe che il Dittatore, superate le alture di Monteleone e Tiriolo e minacciando Catanzaro e Cosenza, accingevasi a marciare trionfante su Napoli.

XVI.— La consorteria La-Fariniana, allarmata delle successive e strepitose vittorie dei Mille e desiderosa di arrestare il progresso del moto italiano, apparentemente studiavasi di troncare il corso delle armi, di prevenire il Dittatore e di attribuirsi l'onore di avere essa stessa e da sola rovesciata la monarchia dei Borboni. Bisognava a tale oggetto precipitare l'insurrezione di Napoli e per questo mezzo costringere Francesco II a fuggire a Gaeta od a Capua, lasciando la sua capitale in balìa del tumulto e del disordine. Se l'intento avesse potuto riuscire, i La-Fariniani, di già apparecchiati, avrebbero afferrato il potere, presentandosi eziandio davanti all'Europa siccome i vindici ed i restauratori dell'ordine nella città abbandonata dall'antico padrone. Una volta poi pervenuti a dominare la pubblica cosa avrebbero potuto provocare ed imporre l'annessione immediata delle provincie meridionali al Regno italiano ed impedire a Garibaldi l'avvicinarsi di troppo al confine romano ed austriaco. Votata l'annessione si avrebbe potuto ordinare al Dittatore di sciogliere l'armata o deporne il comando nelle mani di persone più benevise e simpatiche E la rivoluzione, trascinanlesi tra le montagne calabresi sulle orme dell'esercito garibaldiano, priva del suo centro legale, sarebbe stata decapitata e distrutta in sul nascere. I volontari da ultimo avrebbero dovuto rimanere fra i monti e le pianure della Basilicata nella stessa anormale e bruttissima situazione in cui s'erano già trovati durante la marcia da Marsala a Calatafimi, a Monreale, a Parco e a Palermo.

XVII.— Ma il piano dei La-Fariniani, sebbene abilmente architettato, portava in sé stesso le cause della propria rovina. Prima di tutto avevano essi bisogno di suscitare l'insurrezione di Napoli: se non che l'esperienza dimostra che i popoli insorgono solo quando il bollore delle passioni politiche ha ecceduto ogni limite e l'entusiasmo siede arbitro e dominatore dei cuori e delle anime. La rivoluzione è un uragano, un turbine, una febbre che accende migliaia e migliaia di petti e li trascina misteriosamente alle barricate e alla Jotta: ma essa trova in sé sola la propria ispirazione e la propria condotta. Nessuna forza umana vale a provocare od a reprimere un movimento di piazza quando è generale e determinato dalle cause che sole possono fanatizzare la folla e trarla a combattere. La rivoluzione che si prepara da un uomo o da una setta e che si crede poter governare a beneplacito di qualsiasi padrone, non è rivoluzione popolare, ma un tumulto, un aborto, un semplice fuoco di paglia. Finalmente la rivoluzione era di sua natura Garibaldiana e liberale non La-Fariniana e moderata: e mentre la comparsa dei Mille avrebbe posto in conflagrazione l'intiera città le istigazioni di pochi ed illusi settarii non potevano riuscire che a vani ed impotenti conati.

XVIII.— I La-Fariniani come potevano essi adoperare l'entusiasmo rivoluzionario delle masse quale elemento di riescita, se appunto loro studio era quello di arrestarlo e comprimerlo? Come potevano essi parlare alle moltitudini di barricate e di lotta mentre sperano mai sempre adoperati a raccomandare la tranquillità e la conservazione dell'ordine! In qual modo dovevano essi parlare d'insurrezione quando aveano dichiarato esser essa un ostacolo alla redenzione italiana? Volevano eglino ordinare una rivolta colle forme diplomatiche: ignoravano o fingevano ignorare che la diplomazia spegno talvolta, ma giammai non crea l'insurrezione. Oggetto d'altronde dei loro maneggi era quello di frenare e dominare e non di suscitare i moti popolari: e sebbene camuffati da liberali erano pur sempre i campioni del moderatismo e dell'ordine. Coi loro sforzi e raggiri agitare potevan bensì ma non già sollevare la folla.

XIX.— Malgrado tali contraddizioni i La-Fariniani credettero un istante che tutto fosse a sperarsi dai mezzi di cui disponevano. Per la massima parte i comitati avevano riconosciuto la loro fittizia autorità: bastava quindi che formulassero il loro pensiero perché questo fosse in un lampo ripetuto per tutto il paese. Avevano inoltre denari da spendere e profondere senza riguardo: e potevano promettere onorificenze ed impieghi ai zelanti fra i loro servitori ed impertanto contare sugli ambiziosi, sui vani e su tutti coloro i quali in un cangiamento non altro vedevano che un mezzo di cangiare di condizione e fortuna. I comitati, è duopo render loro giustizia, fecero del loro meglio per soddisfare le brame dei loro padroni; e se, per allor, non riuscirono, non fu loro colpa, ma bensì delle circostanze e dei tempi ribelli alle loro pretese. Quanto diverse andrebbero sovente le cose se l'intenzione dell'uomo bastasse a governare ed a reggere il mondo!

XX.— In Napoli alcune case avevano ricevuto considerevoli somme a disposizione di certi individui che in quei giorni godevano di grande autorità fra i comitati e le sètte politiche. Donde i danari venissero non è conosciuto: ma è noto che i capi dell'agitazione popolare, specialmente appartenenti all'infima classe, spendevano e prodigavano a destra e a sinistra, al?uopo assoldando a contanti gli addetti e i seguaci. Era forse piccolissimo il numero di coloro che percepivano una sovvenzione od un soldo come prezzo del loro liberalismo: né il fatto è per questo men significativo o meno notorio.

XXI.— Fino dal mese di giugno i comitati di Napoli avevano clandestinamente arruolato una piccola squadra di circa duecento persone, scelte fra i più risoluti ed intrepidi artigiani e plebei della vasta metropoli. Percepivano queste la mercede quotidiana d'una piastra: e si obbligavano per contro ad accorrere al primo segnale armate ed apparecchiate ad una impresa di cui stavasi macchinando il disegno. Il secreto sì a lungo e tanto gelosamente custodito, era né più né meno d'un colpo di mano improvviso che trattavasi d'eseguire contro lo stesso Castello di Sant'Elmo, formidabile fortezza che domina e minaccia finterà periferia della grande capitale. Sembra però che i La-Fariniani meno confidassero nel valore e nell'audacia dei loro duecento che nell'efficacia de' mezzi secreti di cui disponevano. Nel tempo medesimo ch'eglino invocavano il braccio dei popolani acquisivano eziandio il concorso di un alleato nella stessa fortezza cui si voleva sorprendere.

XXII.— L'affare venne conchiuso e stabilito nel modo seguente. Alcuno degli ufficiali superiori di presidio nel forte Sant'Elmo, lasciatosi evidentemente sedurre dall'oro o dalle arti dei comitati, prometteva consegnare la fortezza nelle mani del popolo, nell'ora però e nei modi che fossero di comune concerto fissati. Solamente egli poneva per condizione che i popolani si presentassero sotto il Castello in numero sufficiente a scusare e giustificare la sua dedizione. I duecento, il cui patriottismo era stato cosi accaparrato ad una piastra per giorno, furono gli eroi destinati e prescelti alla esecuzione dell'ardito progetto. Dovevano eglino impértanto ad un dato ordine concentrarsi nei punti a ciò stabiliti ed avvicinarsi quietamente alla fortezza: ed avventandosi sulle sentinelle isolate e sul corpo di guardia insignorirsi dell'entrata e costringere alla resa chi non altro aspettava che la loro comparsa per cedere.

XXIII.— La notte susseguente alla partenza di Francesco II pel campo di Salerno (ov'egli portavasi a frenare i progressi dell'insurrezione ed il corso delibarmi italiane) venne scelta a inaugurare un'impresa sì poco arrischiata e che ciò nondimeno speravasi cotanto gloriosa. Le risoluzioni del comitato furono durante il giorno comunicate ai valorosi duecento: venne stabilito il luogo e l'ora della riunione loro. Le armi di cui dovevano trovarsi muniti, i segnali a cui avrebbero obbedito e la via destinata a percorrere. Tutto si previde e calcolò con precisione matematica: s'avvisò agli ostacoli che inopinatamente potevano sorgere ed ai mezzi più adatti a prevenirli od a vincerli: nulla mancava oggimai alla piena riuscita che l'audacia di pochi mercenarii satelliti, e questa per l'appunto fece difetto. I comitati disponevano di duecento uomini che s'erano obbligati a servirli per amore del soldo e sulla cui fedeltà ed intrepidezza contavano al di là del bisogno: ma non eglino sapevano infondere nelle anime dei loro seguaci quell'ardore entusiasta e marziale che a Calatafimi e a Palermo avea reso invincibili i Mille. L'irresistibile audacia che compie miratoli non è virtù che i moderati valgano ad ispirare o a sentire.

XXIV.— I comitati affaccendaronsi per tutto quel giorno a stabilire il piano dell'assalto e ad apparecchiare gli animi e i mezzi per la buona riuscita dei loro disegni. Mezzi e comandi, esortazioni e lusinghe si diramavano e prodigavansi da tutte le parti, mentre la feroce polizia borboniana o non vedea perché cieca, o fare lasciava perché connivente.

XXV.— Se non che inutilmente sprecavasi la fatica ed il tempo: un solo accidente (accidente d'altronde comunissimo in simili casi, ma che la bonaria inesperienza dei La-Fariniani non aveva nemmen sospettato) bastava a rovesciare sì belle e sì vaghe speranze. La notte i duecento si fecero lungamente aspettare e mai non comparvero: sette soltanto aveano risposto all'appello dei loro padroni: ed è presumibile che quei sette eziandio si presentassero sapendo che i loro compagni non sarebbero intervenuti e che quindi non avrebbe avuto luogo conflitto veruno. Gli altri si accontentarono dello stipendio toccato per circa due mesi né trovarono ragionevole il risicare la vita per obbedire ai comandi od appagare ('ambizione di pochi fanatici. Per tal guisa i La-Fariniani rimasero, come si suol dire, colle mani piene di vento: avevano eglino creduto potere impunemente scimmiottare l'audacia del generale Garibaldi e rinnovare sul Sebeto i prodigi operati a Palermo. Ma il disinganno seguiva da vicino si belle speranze: e tosto dovettero eglino persuadersi che non sempre senza scorno si assumono imprese alla cui esecuzione le forze non bastano. Anzi il risultalo de' loro sforzi e maneggi riuscì del tutto contrario ai voti formati: e mentre ostinatamente travagliavano ad allontanare Garibaldi da Napoli non altro facevano che appianare la strada ed accelerare l'arrivo de' suoi volontari (216).

XXVI.— Verso gli ultimi giorni d'agosto Francesco II lasciava la sua residenza e prendea la campagna ad oggetto di opporsi in persona ai progressi del Duce italiano. Per vero egli allor si trovava nelle dura condizione di non poter confidare in alcuno degli antichi ministri o satelliti, nemmeno negli intimi suoi, in coloro che nei tempi di prosperità erano stati maggiormente colmati d’onorificenze, di gradi e ricchezze. I suoi generali o defezionavano o tradivano o chiedevano la loro dimissione: gli altri, cui un resto di pudore o di fedi tenea tuttavolta attaccati alla regia bandiera, mostravano non avere de]Parte della guerra imparato che volgere il tergo e fuggire. Poiché le cose dello Stato volgevano a male si notavano le solite defezioni che ingombrano gli annali di tutte le dinastie soccombenti. Ciascuno pensava a sé stesso e nel cataclisma che minacciava inghiottire ogni cosa unicamente mirava a salvare la propria persona e le proprie ricchezze. Coloro che avevano avuto maggior parte alle proscrizioni arbitrarie onde fu ricoperto d’obbrobrio il governo, più d'ogni altro studiavano a farsi perdonare, ostentando il più avanzato liberalismo, il sangue che avevano fatto versare. Le spie, i sanfedisti. i poliziotti, divenuti ad un tratto italiani, erano tra i primi e i più pronti a coprire le colpe passate inchiodandosi al petto od all'occhiello dell’abito le più appariscenti ed enormi coccarde. Era il Re la sola persona del Regno la cui lealtà non fosse dubbia e sulla quale si potesse contare che non avrebbe disertato o tradito la causa del Re.

XXVII.— Prima però di abbandonare per sempre la sua capitale Francesco II si credette obbligato a discendere all'ultima umiliazione, quella di inviare un messaggio al fortunato Generale che avevagli tolto metà de suoi Stati ed agognava spogliarlo del resto. Le trattative intavolate col governo di Torino non avevano ottenuto alcun risultato mercé la subdola e misteriosa politica del conte di Cavour: e Francesco stimò di maggior convenienza il rivolgersi direttamente ad un nemico più aperto, ma che egli aveva ragione di credere più generoso, più franco e leale, e da cui poteva bensì esser vinto ma non mai ingannato. Se non che l'ambasciata non poteva produrre l'effetto bramato: poiché Garibaldi non domandava patteggiar coi Borboni ma solo costituire l'unità del paese.

XXVIII.— Era una lettera autografa che il Re dirigeva al vincitore di Landi e di Bosco: essa portava la data del 25 agosto e veniva consegnata a Garibaldi mentr’egli da Soveria si accingeva a passare a Cosenza. Chiedea Francesco la pace, e le condizioni che per ciò proponeva erano onorevoli e belle, ma tuttavia non bastavano ad appagare i desiderii del partilo italiano, né rispondevano alle grandiose speranze che il paese aveva fondato sulla fortuna e sul valore di Garibaldi e de' suoi. Il discendente di Ferdinando I e di Carolina d'Austria domandava la pace al figlio del popolo sottomettendosi ai patti seguenti: avrebbe egli primamente riconosciuta l'indipendenza della Sicilia e ceduto i suoi diritti ai dominii situati al di là dello Stretto: obbligherebbesi in secondo luogo a sborsare in contanti all'armata italiana tre milioni di ducati (circa dodici milioni di franchi) ed accorderebbe al Dittatore la facoltà di levar volontari in tutte le provincie del Regno. Coopererebbe il Re finalmente colla flotta e con cinquanta mila soldati di truppe terrestri alla prossima guerra coll'Austria ed al finale riscatto della terra italiana. Ma tutte le condizioni vennero ignominiosamente respinte e continuarono le ostilità il loro corso (217).

XXIX.— Occupate frattanto le vantaggiose posizioni di Catanzaro e Nicastro, e con saggi decreti ordinata l'insurrezione della Calabria Ulteriore, Garibaldi anzi che marciare volava sulla via di Rogliano a Cosenza. L’instancabile attività del Dittatore non apparve mai manifesta si come in que' giorni: egli pareva moltiplicarsi, tanto celeramente viaggiava e quasi simultaneamente mostravasi in luoghi affatto diversi e discosti. Disprezzando fino alla temerità gli sforzi che il nemico potevagli opporre fra le gole di quelle montagne ed intieramente fidando nel suo e nell'astro propizio d'Italia, lasciava il grosso dell'esercito a Tiriolo, a Nicastro e a Soveria, e quasi solo avventuravasi nell’interno del paese improvvisamente assalendo la Basilicata e il Principato Ulteriore. I Regii per contro, sgominati e confusi ritiravansi davanti al fortunato Generale di cui avevano assaggiato il valore in tante battaglie e presi da indescrivibile terrore gettavano le armi e volgevano il passo sbandati alle loro famiglie. L'esercito d'occupazione nella Basilicata e nelle Calabrie aveva ammontato a circa quaranta mila uomini di tutte le armi sotto il comando dei generali Ghio, Cardarelli, Melendez e Briganti: esso fu per intiero annientato dallepoche fucilate di Reggio, dalle operazioni strategiche d’Alta Fiumara e Soveria e dalla rapida marcia del condottiero italiano.

XXX.— Nella storia non riscontrasi esempio d'una campagna inaugurata con si favorevoli auspicii e come questa eseguita a passa di corsa o di carica. Ventidue tappe comuni separano Reggio da Napoli: e i volontari le percorsero in soli sedici giorni, tre dei quali furono dati al riposo nelle stazioni di MarceUinara e Cosenza. Garibaldi avanzavasi con tanta celerità che nessuno e nemmeno i suoi generali sapevano dove con precisione cercarlo. Egli passava pel turbine delle insurrezioni, acclamato e favorito dai popoli e protetto dal proprio suo nome: davanti,i suoi passi sparivan gli ostacoli e i nemici si disfacevano al suo avvicinarsi. La fama delle sue gesta riempiva le intiere provincie e gli era sufficiente salvaguardia contro le insidie o gli scoperti conati della vinta fazione borbonica. La fervida fantasia meridionale, ispirata ad un cielo di fuoco, attribuiva alla sua persona poteri eccedenti ogni limite umano: la sua comparsa quanto le prodigiose vittorie da lui riportale, gli uni riempivano di superstizioso terrore e di amore entusiasta e rispetto gli altri. Nessuno avrebbe osato attentare alla vita di lui, difesa, come là supponevasi, da un'egida fatale e divina che il rendea invulnerabile. Più ancora la mente del volgo, ristretta alle idee di religione o fanatismo, associava il nome di Garibaldi alla interminabile gerarchia dei santi, profeti ed arcangeli, cui l'abitudine piuttosto che l'intima convinzione del cuore paga sì largo tributo d'incensi e di lodi; quasi ciò che si eleva oltre il comune degli uomini debba partecipare alcun che dell'essenza increata e divina. Toccare Garibaldi, fra le montagne calabresi, sarebbe impertanto sembrato, più che delitto, un sacrilegio inespiabile.

XXI.— Ed il Dittatore pareva sentire il vantaggio della sua posizione e con nobile orgoglio sapea approfittarne Ciò spiega e giustifica l’inconcepibile audacia con la quale inoltravasi in paese nemico senza punto badare alle insidie od ai colpi improvvisi cui la disperazione poteva suggerire ai fuggenti Borbonici. Garibaldi era e sentiva essere la più nobile creazione del genio italiano, la personificazione più completa e più pura dei sentimenti e delle idee del popolo nostro. A lui solo appartiene la gloria delle sue strepitose vittorie: ma l'aureola che circonda il suo nome e l’irresistibile fascino che esercita sulla gioventù nazionale e straniera appartengono a tutta l'Italia.

XXXII.— Medici colla sua divisione stava il 24 accampato nelle vicinanze di Villa S. Giovanni non lunge dal teatro ove accadde la incruenta disfatta dell’infelice Briganti. Aspettavano colà i volontari che il Generale indicasse per quale destinazione dovessero eglino partire, giacché vociferavasi di importanti mosse strategiche che volevansi eseguite dall'armata italiana. Gli ordini non si fecero diffatti aspettar lungamente: e Garibaldi, che già contava al più presto assalire il nemico a Monte Leone o a Tiriolo. ingiunse a tutte le squadre di portarsi a marcia forzata a Mileto. Medici in conseguenza la notte seguente imbarcatasi co' suoi a bordo dell'HckGrv e dopo sette ore di viaggio prese terra a Nicotera, città situata sul golfo di Gioia e non lunga dal grande stradale di Pioppo e Mileto. La sedicesima divisione cosi precorreva l'intiera spedizione, ed era la prima a marciare su Monte Leone.

XXXIII.— Ignari del paese e delle posizioni dei Regii, i volontari bivaccarono colle armi sul braccio nel centro d'una piccola valle, dopo essersi premuniti da ogni pericolo di assalti notturni o sorprese. Alle ore quattro del mattino seguente ripresero il viaggio alla volta dj Mileto dove posero la sera medesima il campo, e dove furono tosto raggiunti dalle brigate Eberhard e Sacchi e dallo stesso general Garibaldi.

XXXIV.— Il 28 sull'alba partirono alla volta di Monte Leone, l'antica Ippona, che aveva il nemico di già abbandonata. Quivi La decimasettima divisione Bixio, ch' era lasciata di retroguardia, operò la sua congiunzione colla quasi totalità delle truppe che il Generale intendeva condurre all'assalto di Maida o Tiriolo.

XXXV.— Per quanto i volontari accelerassero la marcia non riuscivano a raggiungere un nemico atterrito che dileguavasi loro dinanzi e che eglino avevano indarno sperato trovare a Monte Leone e fra le gole de' prossimi colli. Pieni di nobile slancio ed ardore non eglino sapevano farsi ragione dello strano sgomento dei loro avversari. In quattro giorni di viaggio traverso un paese che presentava la maggiore possibilità di resistenza e difesa, non videro la faccia d'un solo soldato borbonico, ove si eccettuino però i disertori e i fuggiaschi che si sbandavano da tutte le parti. Anelanti alla pugna ed al trionfo ad ogni istante attendevansi di venire alle mani: ma non eglino doveano trovare i Borboniani in atto di battersi che sulle rive del Volturno e sotto le mura della formidabile fortezza di Capua.

XXXVI.— Le innumerevoli bande che battevano e scorazzavano all'intorno il paese da sé sole bastavano a sgominare ed espellere le ultime reliquie dell'esercito regio. Codeste bande armate di tutto punto e condotte da capi nazionali di provetta abilità e pratici dei luoghi furono d'un'immensa utilità durante la guerra come si vide nella capitolazione dei generali Ghio e Cardarelli. Elleno precorrevano l'armata garibaldina e si appostavano di dietro, davanti ed alle spalle dei Regii, molestandoli senza posa, intercettando le loro comunicazioni e minacciando affamarli nel centro stesso del paese più ricco e più ubertoso del mondo. Nella loro condotta e nella loro importanza ricordano le celebri guerrillas spagnuole ch'ebberosì gran parte, e si portarono con tanto onore nella guerra d'indipendenza dal 1808 al 1814.

XXVII— Il generale Ghio, che a' quei giorni ancora teneva Tiriolo e Nicastro, spingeva i suoi avamposti alla distanza di venti miglia a levante sino alla linea del fiume Carnato e del piccolo villaggio di Bevilacqua situato nel centro del Golfo di Sant'Eufemia. In quest'ultima posizione successe il 28 uno scontro fra gl'insorti calabresi ed i Regii: l’esito, come al solito, riuscì favorevole alla causa italiana: le truppe borboniche dopo mezz'ora di combattimento votarono il tergo e si dispersero per le attigue montagne, lasciando le armi e le munizioni e forse una ventina di morti e feriti in potere dei nostri. Questo fatto, insignificante in se stesso, apriva tuttavia e sgombrava all'armata italiana la strada di Cortale, di Maida e Tiriolo.

XXXVIII.— I volontari lasciavano Monte Leone alle ore quattro e mezzo pomeridiane del giorno 28 e giunsero a Pizzo. Elevasi Pizzo sulle ultime ondulazioni degli Appennini alla riva del Golfo di Sant'Eufemia in situazione amenissima: ma come gli abitanti per fama dicevansi attaccati alla causa borbonica i volontari pernottarono sulla publica strada, forse ad oggetto di evitar qualche insidia. E non a torto sospettavasi che i cittadini di Pizzo aderissero al governo di Francesco II: la cattura accidentale di Gioacchino Murat avvenuta nel 13 ottobre 1815 aveva attirato sulla città per più lustri le grazie e i lavori reali: molto avevano eglino a perdere e nulla a guadagnare cangiando padrone e governo.

XXXIX.— Alle due e mezzo mattutine del giorno 29, ripostisi in marcia, i volontari raggiunsero a Bevilacqua la divisione di Stefano Turr. Colà riposarono fino alle sei della sera, e si rimisero quindi in viaggio alla volta di Tiriolo, ove i Regii si dicevano accampati in posizione eccellente frammezzo alle gole dei monti. Camminarono eglino tutta la notte ed arrivarono il seguente mattino alle dieci, estenuati dalla fatica, dal caldo e dalla fame, e per ordine del Dittatore si schierarono di fronte a Tiriolo. Fu allora che successe il breve combattimento, in seguito al quale i Napoletani firmarono la famosa capitolazione di Soveria che apriva a Garibaldi la via di Cosenza e di Napoli fino a Salerno.

XL. —Invitato dai cittadini di Cosenza, cui la resa di Cardarelli avea liberi lasciati e padroni di sé, Garibaldi immediatamente partiva abbandonando il grosso dell'esercito nelle posizioni di Tiriolo e di Soveria. Rimasero le brigate Simonetta ed Eberhard, composta la prima dei reggimenti Cadolini e Vacchieri, incompleta la seconda e comandata dal suo generale. La decimasettima divisione occupava Catanzaro, capoluogo della seconda Calabria ulteriore, città situata a cavaliere dei monti che separano il Mediterraneo dalle acque del golfo di Squillace.

XLI.— Dal 30 d'agosto al 2 luglio i volontari restarono nelle loro stazioni in attesa di ordini che mai non giungevano. Unicamente occupato a guadagnar terreno, Garibaldi pareva dimenticarsi perfino de' suoi valorosi. Dall'altro canto le truppe sentivano la necessità del riposo dopo i patimenti sostenuti nella lunga e faticosissima marcia da Reggio a Soveria. Nessun esercito che non fosse stato animato da eguale entusiasmo avrebbe potuto tollerare le privazioni e gli stenti che i volontari in que' giorni con eroica costanza aveano sofferto.

XLII.— Martedì 4 settembre i volontari levarono il campo dirigendosi verso Rogliano, dove giunsero e bivaccarono la notte seguente. All'alba del 5 si riposero in marcia e pervennero il giorno stesso a Cosenza, bella e pittoresca città, capo luogo della Calabria ulteriore.

XLIII.— Quivi i volontari pagavano un debito di patria e fraterna affezione e memoria. Il 24 luglio 1844 Cosenza era stata il teatro d'infausta tragedia: Attilio ed Emilio Bandiera, Domenico Moro ed i loro compagni di gloria e sventura avevano quivi scontato col sangue la temerità giovanile e l'amore all'Italia. Un governo piùequo o meno feroce avrebbe rispettato la loro gioventù e le loro illusioni: ma la Corte borbonica, avida mai sempre di sangue, tutti ad un tratto li fece dannare all'ultima pena. Eglino subirono il loro destino con eroica rassegnazione e costanza: e furono l'un sopra l'altro fucilati dagl'ignobili sgherri di Ferdinando II.

XLIV.— Durante il regno costituzionale del 1848 i cittadini di Cosenza con nobil pensiero ne raccolsero le ossa e lor diedero sepoltura onorevole sovrapponendovi una lapide che ne commemorasse i fatti e la morte. Ma dopo quel breve intervallo di libero vivere ritornata onnipotente l'autocrazia dei Borboni, il monumento fu distrutto, la lapide infranta e le ossa dei martiri gettate in una sepoltura senza pietra o ricordo al di dietro d'un altare in una cappella della chiesa cattedrale di Cosenza. I Borboni sanno agire e governare da despoti: e si vendicano perfino sui morti degli oltraggi recati alla loro autorità.

XLV.— Finalmente dopo rovesciato il governo borbonico, la città di Cosenza pensò nuovamente a riparare le ingiurie onde furono oggetto si a lungo quelle infelici reliquie. Le ceneri vennero di nuovo raccolte e tratte dalla fossa oberano state deposte: ed un altro monumento si eresse alla loro memoria. Così per un singolare destino e per L’avvicendarsi delle cose e dei tempi il riposo di quei generosi doveva essere successivamente molestato dalla mano di amici e nemici.

XLVI.— Alle ore cinque pomeridiane del giorno medesimo abbandonarono i nostri Cosenza dirigendosi a Paola, donde per ordine avuto dovevano per mare e al più presto recarsi a Sapri e a Salerno. dove il Re, coll'esercito sapeasi accampato. Pervenivano i volontari alla destinazione loro dopo un faticoso viaggio che durò per tutta la notte, e quivi, riposatisi alquanto, s'apparecchiavano pel giorno seguente ad imbarcarsi e a salpare. Medici s'allontanava impértanto da Paola nel punto medesimo che Garibaldi, rovesciata definitivamente la dinastia dei Borboni, entrava trionfante nella stessa Capitale del Regno.

XLVII.— Il Dittatore, lasciata Soveria, e conducendo seco soltanto le divisioni Cosenz e Türr, le Guide, i Carabinieri e i Bersaglieri, marciava, come si disse, con incredibile celerità alla volta di Napoli. Egli arrestavasi a Cosenza poche ore, il tempo necessario per dare a quel governo provvisorio ed a' suoi generali le istruzioni opportune per le future operazioni di amministrazione e di guerra. In quel punto inoltre divise la sua piccola armata, mandando il generale Turr colla sua divisione a Paola con ordine di raccogliervi i volontari provenienti dall'isola e di portarsi immediatamente co' suoi nel rada di Policastro od a Sapri. Col rimanente delle forze, seguendo la angusta valle del Crati, ed oltrepassando a sinistra i villaggi di Rende e Monta Ito ed a destra l'antica e spaziosa foresta di Sila, slanciavasi sul grande stradale di Tarsia e Spezzano.

XLVIII.— Da Spezzano il Dittatore passava a Cammarata ed a Castrovillari, percorrendo la vasta e maremmosa pianura dove un tempo sorgeva la superba ed opulentissima Sibari e che ora i fiumi Crati e Cosche hanno ricoperto colla melma delle loro alluvioni. Dell’immensa e popolosa città, la fama della cui dissoluta mollezza sì a lungo riempì l'universo, oggimai non rimane più traccia: essa giace sepolta sotto un fortissimo strato di vegetazione tropicale, in un cielo insalubre: le maestose sue torri, i monumenti, i trofei, ed ì suoi trecento mila abitanti scomparvero: ed ora la più tremenda solitudine regna sul teatro di tanta opulenza; hanno fine in tal modo le pompe e le umane grandezze!

XLIX.— Da Castrovillari Garibaldi colla solita fretta moveva a Morano e a Rotonda e quindi a Castelluccio ed a Lauria. Quest'ultima città fu interamente distrutta nelle fazioni del 1808 dal generale Manhès che vi fece appiccare l'incendio e fucilare gran parte de' suoi abitatori. Essa era il centro delle innumerevoli bande che in quel tempo lottavano contro i Francesi per l'indipendenza del loro paese nativo, e per così dire il quartier generale dell'opposizione a Gioacchino Murat e dei maneggi della proscritta fazione borbonica. Lauria, malgrado la murattiaoa vendetta, risorse ben tosto dalle sue rovine: e crebbe con aspirazioni ed idee liberali ed italiche.

L.— Alcuni giorni prima era a Lauria sopravenuto uno strano accidente. Tre ufficiali garibaldini sbarcati in quel turno a Sapri ed inoltrandosi a diporto nell'interno del paese giunsero nelle sue vicinanze ed entrarono temerariamente in città, tuttavia presidiala dai Regii. I tre volontari, penetrati sino in piazza, s"imbatterono in un corpo di tre mila nemici che vi bivaccavano. Senza smarrirsi per questo, e non mostrando nemmeno avvedersi del pericolo in cui erano incorsi, eglino sedettero tranquillamente al caffè e si posero a parlare cogli ufficiali napoletani che venivano a vederli. Dopo qualche parola cortese scambiata da una parte e dall'altra gli ufficiali di Francesco II dichiararono essere eglino pure italiani e non avrebbero mai combattuto contro i patriotti. Il nostro dovere, soggiungevano, quello sarebbe d'impossessarci della vostre persone, e forse ne potremmo sperare una generosa ricompensa dal nostro governo: ma siccome il nostro cuore batte, egualmente che il vostro, alle idee di libertà e di patria, facciamo piena adesione alla causa da voi propugnata e ve lo proviamo lasciandovi liberi. La notte seguente quel corpo munito di cavalleria ed artiglieria volontariamente si sciolse e disperse: tali erano i sentimenti dell'armata in cui Francesco II doveva riporre l'estrema speranza della sua dinastia!

LI.— Garibaldi rapidamente avanzava, ma l'insurrezione tuttavia precorrevate. Le Calabrie non solo, ma la l'erra d'Otranto e di Bari, la Basilicata e gli Abbruzzi erano simultaneamente sconvolti dal turbine rivoluzionario: a Bari, a Potenza ed a Chieti, siccome a Cosenza e ad Otranto i comitati, non più secreti, funzionavano da veri governi. Gli insorti ordinati in guerriglie pullulavano ovunque e si moltiplicavano in progressione infinita: e verso il finire d'agosto l'autorità del governo borbonico non estendevasi al di là della mura della sua capitale o dei limiti de' suoi militari accampamenti. Noi abbiamo dai comitati o governi provvisorii di Chieti e Potenza proclami ed indirizzi che portano la data del 28, del 27 e fino del 25 d'agosto. Chiunque osava innalzare una bandiera tricolore o porsi a capo d'una dimostrazione, d'un trambusto o d'un moto, era certo di trovare concorso, adesione, obbedienza: era il Re la persona in tutto il Regno ed in que' frangenti meno atta ad esercitare i doveri e i diritti del potere sovrano.

LII.— Da Lauria il Dittatore dirigevasi a Bosco, e di là a Lagonegro, amena città fabbricata sulla strada ed in mezzo ad altissimi monti. Le sue truppe, giornalmente ingrossavano coi numerosi disertori dell'armata borbonica e colte non meno numerose squadriglie d'insorti che mancando di capi nazionali accorrevano ad arruolarsi nei battaglioni volontari. Egli passava in appresso a Sala e alla Polla, ove pose il campo, trovandosi in prossimità delle posizioni tenute dai Regii comandati dallo stesso monarca.

LUI.— Contemporaneamente la decimaquinta divisione imbarcatasi, a norma delle avute istruzioni, nel piccolo porto di Paola, veleggiava con prospero vento alla volta di Sapri. La numerosa flotta napoletana che stazionava in quelle acque avrebbe agevolmente potuto impedire per mare il trasporto delle truppe italiane: ma sia che non amasse impegnarsi in conflitti o la movessero altre considerazioni si accontentava di seguirne e sorvegliarne in distanza i progetti e le mosse. Nell'uscire dal porto di Paola il generale Türr scorgendosi di fronte ancorate le navi nemiche, dispose i suoi legni quasi fosse deciso ad accettar la battaglia che i Regii parevano offrirgli. Egli fece allineare le sue barche, insufficienti a resistere, in forma di mezza luna ponendovi ai fianchi ed al centro i tre soli vapori di cui disponeva. L'audacia dei volontari nell'apparecchiarsi ad una lotta cotanto ineguale e sopra un elemento che non era il loro proprio, poteva essere unicamente giustificata dall'esito; e questo fu lor favorevole. Tosto i Napoletani levarono l'àncora, non già per avanzarsi e combattere, ma per ritrarsi e fuggire davanti un avversario, cui avevano da più mesi imparato a rispettare e a temere. Dopo quell'unico accidente i volontari poterono felicemente compire il viaggio cui il Generalissimo aveva loro indicato.

LIV.— Türr approdava a Sapri mentre Garibaldi correva sullo stradale di Lagonegro alla Polla. Secondo gli ordini avuti egli doveva raccogliere le diverse frazioni del corpo spedizionario di Luigi Pianciani, e marciare in appresso con sollecitudine, seguendo la valle del Sale o la via di Capaccio, sopra Eboli, gettarsi quindi fra le gole del monte Corvino, e di là, disegnando una curva, inoltrarsi dal lato di San Cipriano e San Severino sulle alture della Cava, donde potesse al momento opportuno intercettare la strada di Nocera e di Napoli. Con tali manovre Garibaldi mirava a rinnovare a Salerno i fatti di Alta Fiumara e Soveria, ed a prendere prigioniero il Re con tutto l'esercito. Il che sarebbe senza fallo avvenuto qualora Francesco II si fosse ostinalo a tenere e difendere la sua posizione.

LV.— La decimaquinta divisione, ingrossata dalle truppe disperse di già appartenenti al corpo di Luigi Pianciani state direttamente da Palermo trasportate a Paola, a Scalea, a Policastro od a Sapri, stilava colla massima secretezza e celerità sulla destra dell'esercito regio. A queste forze, già per sé considerevoli, si unirono tosto le bande insurrezionali del paese ed i numerosi distaccamenti dei Calabresi che avevano preceduto la marcia dell'armata italiana. Con tutti questi corpi riuniti, il generale Türr, riuscendo a girare, come gli era stato ordinato l'estrema sinistra dei Regii, avrebbe potuto seriamente compromettere la loro posizione.

LVI.— Dal sin qui detto manifestamente si scorge qual fosse il piano strategico dal Dittatore traccialo. Come ad Alta Fiumara e a Soveria egli invaginava sorprendere l'armata e chiuderla da tutte le parti fra gl'insorti, il corpo condotto da Türr e le forze che egli stesso guidava all'assalto. Se Francesco II non si fosse per tempo ritirato, sarebbesi tosto veduto rinchiuso nel suo campo con Garibaldi di fronte, con Türr alle spalle, colla rivoluzione a sinistra e col mare alla destra. In tale frangente egli è chiaro che non altra via di salvezza gli sarebbe rimasta se non quella di cedere, capitolare ed arrendersi.

LVII.— Ma sia che Francesco prevedesse le mire nemiche e che quindi sentisse la necessità d'una pronta ritirata, sia ch'egli non credesse conveniente accettar la battaglia in condizioni cosi svantaggiose, colla rivoluzione ai fianchi ed a tergo la capitale romoreggiante e mal fida, o non stimasse prudenza contare sul valore de' suoi, i Borboniani inopinatamente levarono il campo e si diressero sulla via di Napoli. Infatti, anche non volendo calcolare sull'esito delle mosse di Türr, che pure non poteva esser dubbio, l'esercito regio non avrebbe saputo resistere all'impeto di Garibaldi e de' suoi. I soldati borbonici a chiari segni mostravano quanto di malavoglia s'attendessero ad un conflitto, com'eglino tremassero al nome solo del fortunato avversario e come fossero già vinti e soggiogati prima ancora di battersi. Dall'altro canto l'audacia, le gesta e le marcie di Garibaldi apparivano cosi prodigiose e si strane che quelle anime ignare e fanatiche amavano piuttosto attribuirle ad una sopranaturale potenza che alla sagacia ed al valore dell'uomo. Le «condite e le perdite sostenute durante la campagna dai Regii furono cosi decisive e si rapide che toglievano loro, non che la speranza, la possibilità di respingere l'invitto invasore.

LVIII.— Ostinarsi impertanto a tenere Salerno stato sarebbe pel Re quanto esporre a certa disfatta l'esercito. Né in tal caso Francesco potea lusingarsi di raggiungere le fortezze di Capua e Gaeta, da gran tempo estremo rifugio delle Case reali di Napoli. Era facile prevedere le conseguenze di un totale rovescio: la rivoluzione della metropoli, fino allor contenuta, avrebbe scoppiato con piena ed irresistibile furia ed avviluppato nei suoi vortici l'armata ed il Re. Egli sarebbesi trovato battuto e rinchiuso fra le montagne ed il mare, con Napoli insorta alle spalle e coi Garibaldini vincitori ai fianchi, di fronte e da tergo. I destini di Casa Borbone sarebbero inevitabilmente stati decisi a Salerno come il furono dopo un mese sulla linea del fiume Volturno.

LIX.— Ai primi di settembre e dopo brevissima assenza Francesco rientrava scorate ed abbattuto nella sua capitale, non già per tenerla e difenderla, ma per fuggire e ricovrarsi fra le mura di Capua. Eppure il suo esercito, malgrado le perdite fatte, ammontava in quei giorni alla cifra di quaranta mila soldati, quindici mila dei quali all'incirca formavano il presidio di Napoli e delle sue vicinanze (218). Era il quadruplo delle forze garibaldiane: tuttavia non valevano a resistere ad un nemico cotanto inferiore di numero. E quando si aggiungano le truppe lasciate di presidio a Capita, a Gaeta, nella l'erra di Lavoro e negli Abbruzzi e la flotta, si può con qualche certezza calcolare l'armata borbonica a non meno di settanta mila uomini di tutte le armi di terra e di mare. Essa inoltre aveva perduto circa settanta mila de9 suoi ra le diserzioni e le sconfitte sostenute in Sicilia e in Calabria.

LX.— Durante l'assenza del Re Napoli aveva presentato l'aspetto dell'anarchia e del disordine. Le piazze e le vie continuamente vedeansi gremite di popolazione anelante a raccoglier notizie del pari e a diffonderle. Le botteghe in gran parte eran chiuse, stagnati gli affari e le officine deserte: l'interesse, la legge e i magistrati tacevano. I comitati La-Fariniani si trovavano essi pure trascinati dall’irresistibile torrente. Avevano eglino concepito il pensiero di padroneggiare la rivoluzione: ma le loro parole e i loro sferzi, bastevoli a provocare, erano in definitiva impotenti a reprimere, i moti del popolo. L'ebbrezza, l’entusiasmo appariva cosi universale e spontaneo che inutilmente oggimai si avrebbe tentato arrestare il suo rapido corso.

LXL— In que? giorni un ultimo slancio di simpatia per la causa reale e d'ardore guerriero si manifestò fra le truppe borboniche. Avvennero diverse risse e contese Ira cittadini e soldati con perdite gravi di morii e feriti da entrambe le parti. I cittadini si difendeano coi sassi o coi bastoni sole armi che la gelosia del governo loro non avesse potuto vietare: e la città in tal guisa riempivasi di stragi, di lutti e tumulti. I Borboniani. abituati a volger le spalle sul campo di guerra prodigavano la loro virtù sugli inermi e sui deboli. Il governo cadente periva siccome le iene, tuffando le zanne nel sangue.

LXII.— Lo stesso barone Brenier. rappresentante del governo francese presso la Curie di Napoli, accorso un giorno fra gli altri a sedare i tumulti, venne dai Regii stramazzato con grave ferita nel capo. A stento il barone riusciva a salvarsi: ed il gabinetto di Francia in appresso ne mosse le più alte lagnanze chiedendo perentoriamente un compenso per l'insulto scagliato sul suo ¿ambasciatore: non sempre nell'odierna Civiltà si rifugge dal ricorrere ai codici de' secoli barbari, i quali stabilivano che le ingiurie si potessero compensare con una somma che appagasse la vanità dell’offeso o fosse fissata da' giudici. Se nonché il governo borbonico avea troppo da fare per. Occuparsi di tali reclami (219)).

LXIII.— Adottando le misure già prese dalle altre potenze d'Europa, aveva il governo italiano spedito nelle acque di Napoli una parte della flotta nazionale con alcune compagnie di Bersaglieri. Sotto colore di proteggere i sudditi del Regno d'Italia nei trambusti civili che già prevedeansi vicini in quella metropoli, apparecchiavasi un corpo di osservazione il quale in certe circostanze poteva servir di presidio dei forti e di aiuto alla consorteria moderata. Qualora la popolazione napoletana, respinto il Borbone, avesse o votato, o semplicemente acclamato l'annessione, i soldati italiani si trovavano pronti, a ricevere la consegna della città in nome del Re e della patria e salvarla dal pericolo, di più tremende conflagrazioni sociali.

LXIV.— Un giorno, verse il finire d'agosto, alcuni bersaglieri discendevano a terra, recandosi a diporto a visitar la città: e la moltitudine coglieva all'istante la propizia occasione per mostrare ai fratelli del nord la sua simpatia e quali fossero i sentimenti che nutrirà riguardo all'Italia. I bersaglieri furono importante l’oggetto di universali e spontanee ovazioni: e gli evviva ai vincitori di San Martino si alternavano colle grida di abbasso gli stranieri ed i despoti. Tanto bastò ad irritar la ferocia dei Regii ed a provocare un conflitto nel centro stesso di Napoli. I Cacciatori reali, fatti audaci dal numero e dalla vicinanza dei loro compagni, ed appostatisi dietro i crocivii, cominciarono ad insultare a parole e finirono coll'assalire i bersaglieri, in prudente distanza, colle lor carabine. Una volta la mischia impegnata altri Regii accorrevano, mentre le guardie nazionali ed il popolo, presa la parte dei nostri, s'adoperavano a ripulsare la vile aggressione. Fu il contegno de' nostri soldati lodevole, fermo dignitoso: e nel difendersi mostrarono la moderazione che è frutte di quella disciplina e coraggio che ognor li distinguono.

LXV.— Il marchese di Villamarina, ambasciatore italiano, accorse egli pure nel luogo, ma tardi ed in tempo che tutto era già terminato. Nella lotta ineguale i bersaglieri, in numero soltanto di quattro (il valore dei Regii cosi bene spendevasi) avevano toccato più o meno di gravi ferite: eglino furono in conseguenza scortati o portati a bordo dei proprii navigli. Villamarina recavasi allora al governo a protestare contro tali atti di nefanda barbarie ed a chiedere un indennizzo pei bersaglieri feriti ma le sue proteste e pretese non ebbero miglior risultato di quello che ottenne la nota del gabinetto francese intorno al ferimento del barone Brenier.

LXVI.— Il 3 di settembre si sparse la voce che il Re, già disfatto a Salerno, marciasse in piena rotta alla volta di Napoli inseguito alle spalle da Garibaldi e da' suoi volontari. Stava la moltitudine nella più viva apprensione poiché assicuravasi che i Regii, trovandosi obbligati ad abbandonar la città, l'avrebbero data al saccheggio e alle fiamme. La strana notizia, comunque imaginaria ed assurda essa fosse, trovava facilmente credenza nella concitazione degli spiriti, e nel paese produceva un fermento indicibile. Vociferavasi di mine apparecchiate per far saltare il Castello Sant'Elmo, la magnifica strada di Toledo e lo stesso Palazzo di Corte. Né mancava chi, le ombre vestendo di corpo e scambiando per bui reali i fantasmi della propria allucinazione, asseriva avere cogli occhi propri veduto gli apparecchi per incendiare e distruggere l'intiera città. L'orgasmo universale aumentava l'universale spavento, e lo spavento accresceva le ire bollenti del volgo.

LXVII.— L'esasperazione e il terror dei soldati egualmente erano al colmo. Accampate sulle piazze e le viedell'immensa metropoli e circondate da un popolo ostile e talvolta aperto nemico, le truppe continuamente vedevansi esposte ai più gravi disastri. Da un istante all'altro le barricate potevano sorgere ed il pepalo correre; all'armi: né in tal caso sarebbe stato, dubbio il conflitto fra dodici o quindicimila soldati affranti, avviliti, indisciplinati e la innumerevole folla animata dall'entusiasmo e dalle più nobili aspirazioni di libertà e patriottismo. Rammentavano i Regii tuttavia con invincibil terrore quanto sangue avea loro costato l'infausta giornata del 15 maggio.

LXVIH.— La fazione retriva, la quale, sebbene già vinta e dispersa, non aveva per anco deposto il pensiero di risorgere all'antica potenza, s'adoperava con zelo e con arte infernale ad istillare net cuor dei soldati la sete di saccheggio e di sangue ed a provocare un conflitto fra popolo e truppa. Gli uomini del passato per tal modo nutrivan fiducia di ritornare, nei cataclisma universale, al governo da cui eran caduti. Fu per loro istigazione che 1 soldati invasero e devastarono l'ufficio dell'uono, piccolo periodico liberale che aveva osato assalire colle sue invettive la riputazione dei campioni dell'ordine. Fu somma ventura, né certo per loro, che Napoli non fosse in que' giorni sconvolta e riempiva di lutti e massacri. Né s'avvedeano che impegnando una lotta disuguale col popolo avrebbero, non ch'altro, precipitato la rovina della causa reale.

LXIX.— L'ufficialità superiore della guardia nazionale, guadagnata essa puro dal partito della moderazione, riesci a scongiurar la tempesta ottenendo che il mistero allontanasse dalla Corte i generali Ischitella e Cutrofiano, cui a ragione od a torto ritenevansi 1 capi e i motori di que' turpi maneggi. Il ministero, i moderati ed i La-Fariniani conginngevano in tal guisa i loro sforzi ad impedire il vicino e decisivo conflitto.

LXX.— Avrebbero i La-Fariniani voluto l’insurrezione, ma tale che non offendesse le suscettività diplomatiche, gl'interessi della loro camarilla e le rigorose prescrizioni dell’ordine. Eglino avrebbero desideralo una insurrezione che dovesse alle loro mani affidare il supremo potere ed allontanare Garibaldi dalle Marche e dall'Umbria: non già. una conflagrazione di piazza, il sovvertimento geaerale delle autorità e delle leggi. Rivoluzionari di nuova stampa, i La-Fariniani volevano una rivoluzione di gabinetto o di camera, non già la rivoluzione vera, popolare, infrenabile. A ragione si pud dubitare (almeno le dottrine che propugnano ci accordano questo diritto) elessi avrebbero so, slenuto il governo di Francesco II piuttosto che vedere la somma delle cose nelle mani del popolo.

LXXI.— Frattanto l'esercito regio, lasciando Salerno, ripiegavasi sulla via di Nocera, ed occupava le alture della Cava e le gole di Monteforte e di Sarno, dai dintorni d'Avellino alla rada di Castellamare e di Vico. Né già che fosse intenzione del Re l'accamparsi e il resistere: egli avea bene compreso la necessità di concentrar le sue forze sulla linea del Volturno e nelle piazzo di Capua e Gaeta. Garibaldi essendo ancor lungi, Francesco marciava a rilento per aver tempo a disporre le cose pel prossimo sgombro della sua capitale.

LXXII.— Oggimai prevedendo il risultato finale di tante e si strane vicende, il Re concepiva il progetto di serbare il possesso delle forze navali o perché non cadessero in poter de' nemici o per servirsene in altra e meno, infausta occasione. Impertanto ingiungeva alla flotta di recarsi a Trieste e di rimanere colà sino a nuove istruzioni. Il colpo, oltre ogni credere, sarebbe riuscito fatale all'Italia, sia che la marina napoletana fosse passata in proprietà degli Habsburgo, o rimasta a disposizione del Re spodestato. Ma l'ammiragliato, il ministero, le troppe e le ciurme ricisamente rifiutarono di conformarsi a quell'ordine. Sopra tutto il ministero rilevò l'incostituzionalità di un atto che poteva considerarsi un tradimento verso il paese. Un memorandum fu steso e segnato da tutti i ministri: esso contenea le ragioni per cui credevasi dover disobbedire al cenno sovrano: nel fatto il governo mirava a salvare la propria responsabilità, ben sapendo che l'Italia fra pochi giorni gliene avrebbe potuto domandare strettissimo conto.

LXXIII— I Comitati di Napoli la mattina del 4 settembre, per via diplomatica, seppero che un vascello appartenente alla marina reale, ancorato nel porto, aveva la notte ricevuto al suo bordo una somma che supponevasi ammontare a trenta milioni di ducati, equivalenti a centoventi milioni di franchi all'incirca. I Comitati, come si suol dire, allargarono gli occhi all'inaspettata notizia e pensarono ai mezzi per insignorirsi d'una somma cotanto vistosa, in nome ed a beneficio, dei nuovi padroni. Ma il vascello che portava l'ambito tesoro stava nel porto scortato da due grandi vapori austriaci da guerra ed era inoltre esso stesso difeso dalla ciurma che sembrava fedele all'avuta consegna. I moderati si limarono per tutto quel giorno il cervello né trovarono la via di effettuare l'impresa. Era un andare e un venire continuo di messaggi e d'istruzioni che i comitati a vicenda si trasmettevano, e riceveano: erano proposte e contro proposte, adesioni, obbiezioni ed osservazioni incessanti, come per solito si fa da coloro che discutono sempre né mai trovano la via di concludere. Le trattative in tal guisa durarono a lungo con estremo stupore del popolo che non sapea la ragione di tenti raggiri.

LXXI.— Fra tante proposte irrazionali più o meno ed assurde, una sola meritava e poteva essere immediatamente applicata ed avrebbe senza dubbio raggiunto lo scopo. Vi fu chi dimentico della parte da lui stesso rappresentata nella turpe commedia, ed in quell'istante ispirato piuttosto alle idee di libertà e di rivoluziono che agli interessi e alle brame de' suoi superiori, ardiva proporre che il fatto si spargesse, cosi come stava, fra la plebe di Napoli e a lei si lasciasse il pensiero e la cura di assaltare e sorprendere il naviglio ed i ducati. Orrore profanazione! I moderati, fedeli alle loro massime, preferivano cento volte che i milioni rimanessero in potere del Re piuttosto che passassero, per via insurrezionale, nelle mani del popolo.

LXXV.— Cosi trascorrea la giornata e la notte seguente in trattative infinite e con nessun risultato. Il 5 all'alba il vascello, o tali fossero gli ordini avuti o lo affrettasse il timore delle macchinazioni che ih secreto tramavansi, prese il largo e scortato dalla flotta dell'Austria si diresse a Gaeta. I danari in tal guisa restarono nelle mani di Francesco II e servirono poscia a prolungar la difesa di quella fortezza. Grazie alla deplorabile inerzia ed all’esagerata apprensione dei Comitati, l'Italia in appresso ebbe pur troppo a lamentare una maggiore effusione di sangue.

LXXVI.— La notte del 5, ritirandosi eziandio da Nocera, Francesco giungeva nella sua capitale, non già per risiedervi ma per apparecchiarsi a sgombrarla e partire alla volta di Capua. Il successivo mattino emanava un proclama (220), rimasto celebre ne' torbidi annali del breve suo regno, nel quale, con ferme e dignitose parole annunziava suoi popoli la risoluzione già presa di allontanarsi con parte dell'armata da Napoli per non esporre agli estremi disastri la città, gli abitanti e le proprietà si private che pubbliche. Il Re dichiarava ritirarsi per salvare dalle rovine della guerra i templi, i monumenti, le collezioni d'arte tutto quello che forma il patrimonio della civiltà e grandezza napoletana e che, appartenendo alle generazioni future, è superiore alle passioni di un tempo. Sentimenti elevati e generosi che onorano la sua caduta e meritano l'approvazione ed il plauso di tutti gli onesti.

LXXVII.— Contemporaneamente una lunga e veemente protesta, da inviarsi agli ambasciatori napoletani residenti presso le Corti europee, venne redatta e sottoscritta dal Re e dal primo ministro. In essa Francesco formulava nettamente le tristi condizioni del Regno e le cause delle quali pretendeva esser vittima: ed a torto additava all'Europa il governo torinese siccome il motore principale od il complice della grande rivoluzione che sbalzato avealo dal trono. Se meno la passione lo avesse accecato sarebbesi il Re agevolmente avveduto che il conte Cavour, lungi dall'essere istigatore della rivoluzione, da lei suo malgrado veniva rimorchiato. Allegava quindi Francesco l'incolumità dei sovrani diritti, la fede dei trattati e il dovere di protestare contro l'abuso della forza brutale che lo avea debellato e contro gli atti, emanati o da emanarsi, del nuovo governo. Tuttavia dopo attenta disamina, dal contesto di quel documento chiaro rilevasi quanto debole fosse nel paese l'autorità dei Borboni e quanto facile cosa rovesciare il loro dominio. Infatti deve credersi quel governo ben pessimo che in cento ventisei anni non seppe crearsi un partito o conciliarsi l'amore o l'affezione di nessuna classe sociale.

LXXVIII.— E tristi e commoventi furono altresì le parole dirette dal Re fuggitive alla Guardia Nazionale di Napoli, «Poiché il vostro» esordi, con piglio di sdegnoso sarcasmo; «ma rimettendosi tosto», soggiunse, «poiché il nostro Don Peppe si avvicina io lascio la mia capitale affidando la sua sicurezza ed il mantenimento dell'ordine alla Guardia Nazionale ed alle Autorità costituite. Io vado frattanto là dove il dovere mi chiama, a combattere indifesa de' miei più sacri diritti. Iddio solo sa il fine di tante sventure, ma qualunque sia il destino che l'avvenire mi serba, nato ed educato in questa terra, sono e sarò napoletano..

LXXIX.— In tal guisa disposte le cose e, per quanto il permetteva l'angustia del tempo, provveduto al mantenimento della publica sicurezza, Francesco II, scortato dalle truppa, lasciava la città sulla quale i suoi padri avevano esercitato il supremo dominio e ch'egli non doveva più mai rivedere. Ponevasi il Re in viaggio la sera stessa, del 6 settembre, soli diciotto giorno dallo sbarco di Garibaldi in Calabria e quindici dalla capitolazione di Reggio: sì rapida era stata la dissoluzione di un governo che l'arte o le perfidie di tre generazioni non avevano saputo stabilire ed ordinare a valida resistenza e difesa. Da quell'istante la, monarchia napoletana spariva dal numero degli Stati europei l’intiera superficie del paese, meno le piazze forti di Gaeta e di Capua, la cittadella di Messina e Civitella del Tronto, apparteneva alla patria italiana. Se in quel punto Francesco ed i due Ferdinando avessero potuto sollevare dal sepolcro lo sguardo sarebbero stati di certo costretti a maledire alla stolta politica che fu causa della rovina del lor successore.

LXXX.— Non si tosto fu sparsa la voce dell'avvenuta partenza del Re e dell'esercito, la moltitudine irruppe da tutte le parti e le passioni popolari minacciarono scatenarsi con nuova ed infrenabile furia. Migliaia e migliaia di fiaccole improvvisamente comparvero a rompere l'oscurità delle tenebre e ad illuminare le piazze e le vie della vasta metropoli: ed innumerevoli vessilli nazionali sventolarono dalle chiese, dalle torri e dalle case. I popolani raccolti in profondissime masse percorrevano le strade o s'attruppavano sulle piazze prorompendo in acclamazioni all'Italia ed in bestemmie ed imprecazioni alla caduta dinastia borbonica. L'entusiasmo universale aveva spento ogni privato dissidio e la libertà ispirava in tutti cuori I sentimenti medesimi. Cogli urli e coi fischi i Napolitani celebrarono il funerale d'un governo da essi cosi giustamente abborrito e che spariva per non mai più funestare quella eletta parte d'Italia.

LXXXI.— Né, malgrado le previsioni o il terrore dei ricchi, il buon popolo meditava alcun che di sinistro o d'atroce. Egli è certo che né le guardie nazionali né le truppe rimaste io custodia ne' forti, avrebbero bastato a contenere un movimento insurrezionale od una conflagrazione quando tale fosse stato il pensiero delle masse. La moltitudine aveva tutt'altro pei capo che di provocare disordini: essa all'opposto accontentavasi ad esprimere, col modo che le è abituale, cogli urli cioè e cogli schiamazzi, la sua piena adesione al nuovo ordine di cose che inauguravasi sulle rovine del caduto sistema.

LXXXII.— Ciò nullameno i moderati, i liberali d'anticamera, i vecchi servitori dei Borboni ed i La-Fariniani medesimi non si teneano per nulla securi. Tutti costoro si vedeano trascinati dal vortice d'una insurrezione impreveduta e spaventevole: impotenti a condurre i movimenti popolari ed a frenare lo slancio dei cuori già liberi si sentivano perduti per poco che quello stato di cose potesse durare. Rivoluzionari dai guanti gialli tremavano al solo pensiero di un moto di piazza.

LXXXIII.— L'ultima squadra borbonica aveva appena abbandonata la città che il prefetto o ministro di polizia Liborio Romano si credette obbligato ad inviare una lettera al general Garibaldi in nome del governo invitandolo e sollecitandolo a portarsi al più presto in Napoli per assicurarvi l'ordine minacciato dall'effervescenza del popolare entusiasmo (221). I medesimi La-Fariniani, che sperano cotanto adoperati ad allontanare i volontari da Napoli, deposto in que' frangenti ogn'altro pensiero, con ansietà ed impazienza attendevano che venissero a contenere l’insurrezione irrompente. I retrivi eziandio lo desiderano come l’unico mezzo che rimaneva a deviare l'attenzione della moltitudine, la quale temean si rivolgesse con ira e disdegno ai passati dolori. Per tale maniera, trascinati dal turbine delle cose, La-Fariniani, moderati e reazionarii divenivano ad un tratto partigiani dell'autorità dittatoriale. Era unico il punto in cui tutti costoro potevano trovarsi concordi: ed era l'abborrimento per tutto ciò che rassembrasse alla vera sovranità popolare o ad un governo di piazza. Sì poco quei signori conoscevano la libertà che pure avevano sempre sul labbro, e cotanto tremavano all'idea di vedersi, eziandio interinalmente, senza padrone. Avrebbero eglino preferito il conte Cavour: ma questi era lunge ed il tempo pressava; per cui dovettero rassegnarsi ad invocare l'autorità del Duce dei Mille.

LXXXIV.— Garibaldi conobbe la ritirata del Re da Salerno mentr'egli nel campo di Polla concentrava le sue forze ed apparecchiavasi all'ultima e decisiva battaglia contro la dinastia del Borboni. L'inopinato ritiro del Re e dell'esercito lo costrinse a cangiare i suoi piani ed a sollecitare la marcia sulla capitale, cui egli credeva che i Regii avrebbero ad ogni costo tenuta e difesa. Né il Dittatore né altri avrebbe mai imaginato che Francesco II dovesse senza lotta lasciar la sua reggia e la sede della sua autorità e potenza. In conseguenza Garibaldi, date le disposizioni opportune perché i suoi dovessero tosto raggiungerlo e concentrarsi a Salerno e Nocera i con soli venti o ventiquattr’uomini di scorta, partiva alla volta di Napoli, senza dubbio ad oggetto di esaminare le posizioni dei Regiie meglio informarsi dello stato in cui le cose versavano. Il Dittatore contava tracciare sul luogo il suo piano per le successive operazioni, per essere in tal guisa, al sopravvenire delle truppe, di già apparecchiato all'attacco di Napoli. Si celere fu il suo viaggio ch’egli giunse a Salerno il mattino del 6, mentre l’avanguardia dell'esercito volontario trovavasi tuttavia alla distanza di circa sessanta chilometri (222).

LXXXV.— Per tutto quel giorno egli stette osservando quale sviluppo o soluzione prendesser gli affari di Napoli. La notte, ad ora assai tarda, gli venne recata la lettera di Liborio Romano, già sopra accennata, e varii altri indirizzi di corpi morali e persone autorevoli che lo invitavano a recarsi immantinente in città. Da tutte questo vivissime istanze il Generale poteva temere che qualche cosa di serio e di strano veramente si agitasse nella vicina capitale: pareva che l'anarchia fesse pronta ad irrompere e ad avvolgere da un istante all'altro nella confusione e nel caos la vasta ed opulenta metropoli. Tuttavia Garibaldi non voleva aderire alle sollecitazioni che gli veniano dirette se prima ii Sindaco ed il Comandante della Guardia Nazionale di Napoli, de' quali aspettava l'arrivo, non fossero giunti. Ciò non pertanto a calmare il terrore e lo sgomento da cui que' signori pareano compresi pubblicò un proclama col quale esortava la moltitudine a conservare la tranquillità e l'ordine pubblico (223). Questo, spedito in forma di lettera, era diretto a Liborio Romano quale risposta alla sovracitata missiva.

LXXXVI. —La mattina medesima senza che nulla avvenisse che sembrasse giustificare gli esagerati terrori della fazione moderata, il ministro di polizia si rivolse egli pure con un proclama alla popolazione, pregandola a mantenere la quiete che nessuno pensava a tartare (224). Il tuono generale di questo documento traspare da tutte le linee: è quello d'un uomo che parla senza essere certo che le sue parole valgano ad ispirare rispetto, e che invoca l'altrui autorità e l'altrui nome per far eseguire la legge di cui è depositario e custode. A tali uomini Francesco II aveva affidato le cariche più alte del Regno!

LXXXVII.— L'agitazione popolare era grande e si grande che fu vero prodigio se non s'ebbero a deplorare gl'Inconvenienti che seno gli effetti inseparabili dei cataclismi politici. Ma il popolo napoletano unicamente pensava a Garibaldi: e pieno di questa idea generosa non altro voleva che aspettare e festeggiare l'arrivo del Duce dei Mille, del vincitore di Calatafimi, di Palermo, di Milazzo e di Reggio. Innumerevoli brigate sino dall'albeggiare si precipitavano a tal uopo fuori della città dalla parte d'oriente ove appunto s'innalza la stazione della ferrovia di Nocera. Napoli era tutta in movimento attendendo la sospirata comparsa del suo liberatore.

LXXXVIII.— Verso le dieci mattutine la Guardia Nazionale schieravasi in bell'ordine per le strade principali di Napoli, sui Larghi (cosi vengono nella bassa Italia chiamate le piazze) e davanti alla stazione della ferrovia. Un numero prodigioso di splendide ed eleganti vetture, senz'alcun invito municipale, inviate dalle case più ricche di Napoli, si allineavano pure lungo la riva del mare e sulla via di Portici. Il Generale giunse alla stazione circa, alle undici e mezzo, e la sua comparsa venne con lunghi e frenetici evviva annunciata all'intiera popolazione. Descrivere l'entusiasmo, l'ebbrezza di quegli istanti diverrebbe cosa impossibile, si generale e spontanea appariva la gioia sul volto di tutti. Garibaldi, accompagnato dal suo segretario particolare deputato Bertani, dal Sindaco e dal Comandante della Guardia Nazionale, e festeggiato dalle benedizioni d'un popolo risorto per opera sua a libera vita, faceva poco oltre il mezzogiorno la sua entrata solenne nella Capitale dei Re e dei Cesari. Egli percorse a lenti passi in vettura e sotto usa pioggia continuata di fiori ad in mezzo al giubilo universale la vasta strada del Piliero fino al palazzo della Foresteria, situato di fronte alla Reggia, ove pose la sua residenza.


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LIBRO XI

Polizia La-Fariniana

I.— La politica, negli ultimi tempi, abbracciata e seguita in Italia meritò e si attrasse le più amare invettive e censure degli estremi partiti che si contendono invano il dominio della pubblica opinione in Europa. Ai legittimisti agli amanti d'un vecchio passato, essa parve rivoluzionaria ed anarchica mentre gli altri che s'arrogano il monopolio delle idee liberali e pretendono per sé soli al diritto di parlare in nome dell'avvenire, l’accusavano di eccessivo conservantismo, di dubbie o retrive tendenze. La politica del conte Cavour non era quale sia gli uni che gli altri amavano fingerla: o per parlare con maggior precisione partecipava in un certo modo egualmente entrambe. Eminente diplomatico ed al tempo stesso in continuo contatto coi rivoluzionarli italiani il conte Cavour ideava unificare l'Italia adoperando a suo luogo la diplomazia e la rivoluzione. Anima dotata di vasta intelligenza ed in sommo grado eclettica, il conte Cavour seppe con fina sagacia giovarsi di tutti gli elementi discordi e convergerli all'unico scopo prefisso quello di facilitare la via all'adempimento dei nazionale programma. Che la sua politica si regolasse sulle norme dell'equità e del diritto non oseremmo asserirlo: d'altronde è già gran tempo che la morale e la diplomazia hanno fatto assoluto divorzio. Né del resto presumiamo indagare l'origine del disegno da lui architettato e con profondo accorgimento condotto quasi al suo termine, né filosoficamente scrutarne i difetti ed i meriti. Espositori dei fatti limitiamo l'opera nostra alla semplice narrazione degli avvenimenti quali essi accaddero; ché la scienza dei fatti ha un linguaggio contro cui nulla vale la logica o le declamazioni dei panegiristi più audaci o de' più acerbi censori.

II.— La base dell'attuale politica italiana fu posta nelle animate discussioni diplomatiche che preludiarono alla conclusione del trattato di Parigi nel 1856. In quell'epoca memoranda il conte Camillo Cavour plenipotenziario Sardo accennava ai pericoli in cui versava la pubblica tranquillità d'Europa per la situazione anormale in cui giaceva l'Italia. «Il più feroce dispotismo (è tale, presso a poco il senso delle sue parole) pesa sulla penisola orientale e meridionale: i governi, lungi dal calmare l'agitazione coll'accordare ai loro popoli le riforme che il tempo ha reso oggimai indispensabili, sembrano disposti ad affrontar l'uragano ed a sfidarne la furia. Ma l'Italia è solcata, è minata da innumerevoli sette e conventicole che dal fondo del loro ritiro sognano e propugnano principi) sovversivi ed i più compromettenti per la sicurezza delle proprietà e dei troni. Quindi noi abbiamo governi ostinati a provocare una conflagrazione, popolazioni esasperate dal lungo soffrire e giù pronte ad insorgere, ed un numeroso partito che s'apparecchia e stringere nelle sue mani la somma delle cose ed a distruggere la società esistente. Se una rivoluzione venisse a scoppiare in Italia sarebbe gravissimo il rischio che le provincie si costituissero in repubblica e che i popoli nel bollore della vittoria rovesciassero l'edificio su cui riposa la tranquillità monarchica di tutta l'Europa.»

III.— «V'ha un solo mezzo (proseguiva l'illustre statista) ad evitare la tremenda e vicina a catastrofe. È necessario anzi urgente che le potenze intervengano in Italia e in un modo o a nell'altro persuadano ai governi della penisola di cangiare l'antico e troppo dannoso sistema a cui sembrano stranamente attaccati. Coll'accordare ai loro popoli una moderata libertà eglino possono sventare le trame dei tristi, soffocare la rivoluzione in sul nascere ed allontanare da sé e dall'Europa il pericolo che tutti egualmente minaccia d'inevitabile morte e rovina. L’assolutismo, l'arbitrario che domina ed infuria in Italia è un continuo fomite al disordine un atei tentato perenne alla civiltà e agli interessi del mondo. Le cose fra noi sono giunte ad un punto a che non si può oltrepassare: i palliativi a nulla più valgono: o la monarchia temperata da regolamenti costituzionali e liberali o la più rovinosa e completa anarchia: tale è il dilemma che gli avvenimenti hanno già formulato in Italia e che attende fra breve la sua soluzione. Per poco che le cose procedano l'Europa sarà tosto chiamata a scegliere nella penisola fra la monarchia e la repubblica.» —

IV.— Osservata dal lato diplomatico la quistione forse non poteva formularsi con maggiore verità od artificio. Nulla meglio valeva per certo a commuovere la diplomazia e ad interessarla in favore della causa italiana quanto lo spettro della repubblica abilmente evocato dal grande ministro sabaudo. Da gran tempo i gabinetti europei, mentre ostentano là più fredda indifferenza pei dolori dei popoli, mostrano la più viva tenerezza per la conservazione di un ordine di cose oggimai divenuto impossibile. Ma la questione, così posta, un lato presenta oltremodo vulnerabile e debole. Si domanda per le popolazioni un po' di libertà ad un governo meno tristo, non già in nome dell’imperscrutabile e sacro diritto nazionale, bensì in vista di una mera opportunità, per evitare maggiori disastri. Il diritto viene, per cosi dire posto da parte e dimenticato; ed in sua vece s'invocano le necessità che possono cangiare colle circostanze e coi tempi. La teorica dell'opportunità è a doppio fendente e può servire del pari alle nazioni ed ai despoti: oggi è opportuno concedere riforme vengono quindi attuate: domani quell'opportunità può cessare od almeno non presentare quei sintomi che impongono un cangiamento: e in allora la libertà e le riforme si rimandano a tempi migliori.

V.— Come agevolmente si potea prevedere, i governi italiani, lungi dal porgere ascolto ai salutari consigli che venivano loro direttasi ostinarono a perseverare nella fatale politica già da essi con ¡stolta prudenza abbracciata. Se non che la rassegnazione dei popoli ha un limite oltre il quale non è che rivolta e rovina: più tardi il fermento cresceva a dismisura e già minacciava trascender in aperta insurrezione, quando a scongiurar l'uragano. sopravvenne la guerra lombarda.

VI.— Mentre gli alleali di vittoria in vittoria marciavano da Montebello e Palestre alle alture di Solferino e Valeggio, i principi dell'Italia centrale, abbandonando i loro dominii, si rifugiavano a Verona sotto l'anslriaco vessillo, e la rivoluzione, unica sovrana in allora possibile, invase ed occupò le lor Reggie. Né per ciò le popolazioni, lasciate in balia di sé stesse, trascorsero ad aiti precipitosi o violenti o minacciarono turbare od interrompere l'ordine delle idee stabilite. Non appena si videro libere che domandarono di congiungersi alle antiche provincie e formare una sola nazione.

VII.— Ma Napoleone, a cui la politica unitarianon era gran fatto simpatica, arrestò sull'altipiano che il Mincio separa dell'Adige il corso di tante vittorie e il progressivo sviluppo delle idee cavouriane. Forse nessun'altra considerazione lo indusse a sollecitare a Villafranca l'armistizio e la pace quanto il desiderio di frenare lo slancio del patriottismo unitario del popolo nostro. Ma invano egli stipulava a Villafranca e Zurigo il ritorno spontaneo dei Duchi e degli Arciduchi ai loro domini): le popolazioni sommamente irritate non ne voleano sapere, cosicché non altro mezzo rimanea a ricondurveli che l'intervento d'un'armata straniera: rimedio estremo ed al quale non si voleva ricorrere.

VIII.— A Firenze, a Bologna a Parma ed a Modena funzionavano I rispettivi governi provvisorii retti bensì da creature del conte Cavour, ma tuttavia indipendenti, con esercito, budget e leggi lor proprie. Era uno stato di transazione dal quale volevasi uscire ad ogni costo e al più presto. Napoleone tuttavolta resisteva a permettere l'annessione dell'Italia centrale alle antiche e nuove provincie del Regno Sabaudo: e l'abilità diplomatica del conte Cavour ebbe assai a penare per vincere l'opposizione del gabinetto francese. Né l'aiuto del partito italiano gli fece difetto.

IX.— Barcamenandosi fra la diplomazia e la rivoluzione il Ministero doveva avanzare e riuscire, ed avanzava diffatti e riusciva. Il secreto della sua politica sta in ciò ch'egli sapea combinare le cose per modo che i discordi elementi de' quali servi vasi, lungi dall'urtarsi ed escludersi, concorressero al medesimo fine. Presentando a Parigi l'Italia siccome minacciata da un moto rivoluzionario e repubblicano era certo di ottenere un'adesione ai principii da lui professati che altrimenti per ninna ragione stata gli sarebbe accordata.

X.— La situazione anormale ed agitata in cui allora si trovava l'Emilia porgevagli il destro di parlare con verità e schiettezza. Le popolazioni animate da sentimenti unitari attendevano impazienti di votar l'annessione. Gli uomini più influenti e più avanzati colà traducevansi dove meglio pareva aperto il terreno alla lor propaganda. L'esercito composto di volontari, esuli per la massima parte od ascritti al partito {fazione, altamente chiedevano si proseguisse la guerra, s'invadessero le Marche, l'Umbria ed il Regno di Napoli e si compisse il programma italiano. Garibaldi stesso che comandava alle forze della Lega (poiché una specie d'alleanza offensiva e difensiva era stata fra que' piccoli paesi conchiusa) non era l'uomo sul quale il ministero potesse maggiormente fidare per l'adempimento delle sue volontà.

XI.— Stimolato da tutte le parti ed animato dalle comuni speranze Garibaldi accingevasi a violare il confine delle provincie rimaste al Pontefice: ed a tale obbietto concentrava le sue forze alla Cattolica e dava le opportune disposizioni per la nuova campagna La guerra sarebbesi in al modo riaccesa nell'Italia centrale se il Ministero non accorreva prontamente ad impedirla. In quel tempo Cavour era (unge dagli affari ma la sua politica tuttavia dominava: era sempre il suo genio che presiedeva alla trattazione del problema Italiano.

XII.— Colto il destro rappresentavasi al governo francese, di già allarmato ed inquieto pei fatti che vedeva agitarsi in Italia, la inesorabile necessità di uscire al più presto da quello stato provvisorio e precario nel quale versava il ministero e il paese. Una più lunga continuazione della falsa politica a cui l'Imperatore abbandonavasi poteva suscitare immense complicazioni e irreparabili mali. L'anarchia più completa minacciava l'Italia del centro: e per poco che le cose procedessero oltre la proclamazione della república nell'Emilia e nella Toscana diventa inevitabile. La logica degli avvenimenti obbligava l'Imperatore a scegliere fra la croce di Casa Savoia ed il rosso berretto di Giuseppe Mazzini. Tale linguaggio non poteva mancar di produrre l'effetto bramato; e l'annessione venne da quell'epoca riconosciuta e ratificata.

XIII.— Caduto in quel turno Urbano Rattazzi sotto l'impopolarità procuratagli dall'informe e mal digesto ammasso di leggi e di codici con cui aveva inondato le antiche e le nuove provincie, Cavour riassumeva le redini del governo, ch'egli avea spontaneamente lasciato dopo l'infausto armistizio del Mincio. La sua ricomparsa agli affari rendeva più facili le soluzioni dei grandi problemi che il suo predecessore aveva lasciati incompiuti. Il gabinetto francese mostravasi con lui più arrendevole che non fosse col ministero caduto. Dall'altro canto Cavour riportava seco lui al governo la sua illimitata devozione alla Francia e la sua abilità diplomatica.

XIV.— La politica del conte Cavour era abbastanza chiaramente tracciata dalla sua situazione. Non egli poteva sperare un ingrandimento territoriale di qualche importanza senza il beneplacito della diplomazia od il concorso della rivoluzione. A quella era egli attaccato pel suo amore alle forme più o meno legali e pel proprio interesse: e si serviva di questa per effettuare i suoi più secreti disegni. I partiti nelle sue mani apparivano altrettanti ¡strumenti ch’egli sapeva adoperare a suo tempo e a suo luogo in via di più gravi ed urgenti bisogna.

XV.— In tal modo abilmente evocando lo spettro dell'anarchia e della repubblica costringeva la diplomazia a legittimare l'ambizione governativa ed a permettergli nuovi ingrandimenti. E lasciando operare la democrazia italiana ed il partito d'azione regolavasi in guisa da appropriarsi il risultato delle loro vittorie. In questo senso il partito repubblicano può con ragione vantarsi d'aver esso fatto l'Italia: poiché senza i suoi sforzi l'Emilia e la Toscana sarebbero forse rimaste o ritornate alle cadute dinastie, come senza il timor che ispirava l'annessione di tante provincie sarebbe restata un pio desiderio. Se in Italia non fosse stato un partito repubblicano il conte Cavour avrebbe dovuto crearlo a suo uso e beneficio.

XVI.— Non è già ch'egli amasse o favorisse il partilo d'azione o i repubblicani. Forse gli abboniva in secreto siccome i nemici di quell'ordine di cose a cui lo legavano le tradizioni della sua casa e l'istinto suo proprio. Ma egli non poteva contenerli senza gravemente compromettere nel paese la sua autorità e quindi lasciavali fare.

XVII.— Ed assai meno egli amava e favoriva quella febbre incessante di patria che ognor vaga di nuove avventure voleva ad ogni costo precipitare la soluzione del problema italiano. Avrebb'egli voluto costituire l'unità nazionale, ma senza scosse, senza gravi pericoli, approfittando delle Circostanze e del tempo. Pago pel momento dei vantaggi ottenuti non egli amava vedersi travolto in perigliose intraprese: e saviamente preferiva la tranquillità e la pace ai dubbi e fortunosi risultati di una nuova campagna. Diplomatico e rappresentante gl'interessi della monarchia e del partito dell'ordine doveva abborrire ed avversare i conati che compromettevano i frutti di tante fatiche e l'esistenza stessa della nazione. Per acquistare od annettere una provincia di più non sapeva risolversi ad arrischiare quanto avevasi di già ottenuto. Donde avviene che se le intemperanze della democrazia furono da un lato sommamente vantaggiose all'Italia esse non mancarono dall'altra di porre ne' più gravi imbarazzi il governo e il paese.

XVIII.— Ritiratosi Garibaldi dall'Emilia, proclamata l'annessione dell'Italia centrale e l’esercito della Lega disciolto od incorporato nell'antica armata Sabauda, la democrazia pareva frenata, spenta la rivoluzione ed ogni causa di guerra rimossa. Se non che mentre i moderati applaudivano ai risultati dei proprii artificii e s'apprestavano a godere dei frutti delle loro vittorie, la notizia dell'insurrezione siciliana piombò come un fulmine a rinnovare gli all’armi ed a sconvolgere di nuovo il paese. Alla sua volta la democrazia poteva sorridere allo strano sgomento dei suoi avversari; la pubblica opinione tornava favorevole alla causa della rivoluzione e della immediata unità. Verso il finire d'aprile raccolti i mille suoi prodi il dimissionario generale Garibaldi accingevasi a salpare da Genova ed a portare soccorso agl'insorti fratelli dell'Isola.

XIX.— L'esame coscienzioso dei fatti ci induce a dubitare che il ministero ritenesse l'insurrezione siciliana pericolosa alla propria ed alla, causa d'Italia. Infatti la lotta impegnata a Palermo e con varia fortuna proseguita nell'interno dell'Isola poteva suscitare nuove complicazioni e turbare la pace e la tranquillità dell'Europa. Certo i moderati avrebbero voluto annettere eziandio quella bella ed ubertosa parte d'Italia: ma eglino temevano della diplomazia, della opposizione delle potenze e della incertezza dell'esito. In ogni moto popolare essi scorgevano la mano di Giuseppe Mazzini e della rivoluzione, pronta a strappar loro dal pugno il frutto degli acquisti già fatti. I moderati abborrivano le insurrezioni per istinto, per interesse e per indole, e detestavano quella vita avventuriera che sempre trascinavali a nuovi pericoli. Avrebbero in ogni caso preferito che i siciliani da sé soli bastassero a trarsi al dominio borbonico, salvo ad intervenire in appresso a rimettere l'ordine nel paese sconvolto dalle civili contese. Ma nel tempo stesso si apparecchiavano a declinare la propria responsabilità pel caso che la rivoluzione avesse subito una rotta ed i Borboni fossero ritornati signori dell'Isola. Da tali uomini i siciliani non avevano gran fatto a sperare protezione e soccorso.

XX.— Ma l'Italia, inspirata alla coscienza dei proprii destini, esigeva si soccorressero tosto con armi e denari i fratelli che tenevano sollevato nell'Isola il vessillo dell'unità nazionale. Né i moderati potevano opporsi a quel voto d'amore fraterno, né il conte di Cavour rinnegare quella pubblica opinione alla quale in si gran parte doveva i successi ottenuti. Comprimere, come la diplomazia avrebbe desiderato, in una cerchia di ferro il patriottismo italiano e frenare lo slancio generoso dei popoli sarebbe stato impossibile e al di sopra d'ogni umano volere: opera del pari impolitica e assurda. Cavour poteva padroneggiare la rivoluzione, a patto però di lasciarsi da essa rimorchiare e di seguir la corrente. L'entusiasmo era giunto a quel limite d'effervescenza che avrebbe agito d'accordo col ministero o contro di lui. Cavour non poteva abdicare in un tratto a quella immensa popolarità che avevalo fatto si grande in Italia e in Europa e ch'era stata egualmente vantaggiosa al partito della rivoluzione e a quello dell'ordine. Egli non doveva abbandonare quella pieghevolezza di condotta e di spirito che fu sempre la scienza dei grandi politici e che gli aveva recato i più bei risultati. Era pure interesse. del principio monarchico che la rivoluzione, con improvvide misure, non fosse trascinata ad operare da sé, isolata e senza sorveglianza e controllo.

XXI.— Ai primi del maggio il corpo spedizionario riunivasi a Genova senza incontrare veruna opposizione. Altre misure non furono prese che quelle necessarie a salvare la responsabilità del governo al cospetto della diplomazia e dell'Europa. Furono sequestrate le armi di proprietà nazionale esistenti nei magazzini del municipio milanese: ma in compenso si consegnarono da parte del La-Farina alcune casse di fucili provenienti da Torino. Si fecero sorvegliare dalla pubblica forza i varii punti d'imbarco lungo il litorale di Genova, ma in pari tempo si lasciava che si involassero i due vapori della società Rubattino nel porto e sotto gli occhi stessi delle autorità. Ad alcuni volontari, sotto diversi pretesti, vennero usate angherie e sopraffazioni ma per contro si permetteva che si concentrassero in Genova ed a grossi stuoli s'imbarcassero nel porto, alla Foce ed a Quarto. Fingevasi di volere vietare la spedizione, ed intanto Garibaldi partiva con armi, uomini e danari per la sua avventurosa campagna.

XXII.— D'altronde perché, a quale scopo, i moderati doveano impedirlo? Qualunque il risultato della spedizione garibaldiana si fosse per essere non potevano che trarne non lieve vantaggio. O l’impresa riusciva, ed eglino avrebbero raccolto i frutti della vittoria: o falliva, e si sarebbero liberati di un nucleo di uomini che a torto od a ragione riteneansi siccome incitatori instancabili di tumulti e di scandali. Gli esaltati, i frementi, gl'incorreggibili seguaci di Giuseppe Mazzini, si sarebbero senza dubbio riuniti a Garibaldi, almeno cosi supponevasi: e si lasciavano andare a combattere dove i loro trionfi potevano tornare giovevoli e dove la loro perdita poteva apparir vantaggiosa. Egli era certo che se Garibaldi fosse rimasto in Sicilia sconfitto, la inesorabile e nota ferocia del Governo napoletano non gli avrebbe dato quartiere, e che i Mille, senza distinzione di grado o di nome, avrebbero servito di contrappeso alle forche borboniche (225). in tal caso la rivoluzione, decapitata e priva di consiglio e di guida, non avrebbe, almeno per qualche tempo, potuto rilevare la testa: i moderati, senza temere ulteriori complicazioni sarebbero rimasti arbitri supremi della politica ed avrebbero potuto dormire in pace ed in tranquillità i loro sonni.

XXIII.— Garibaldi partiva lasciando al deputato Bertani l'incarico di rappresentarlo presso i Comitati e le altre associazioni politiche costituite nell'Alta Italia, e di raccogliere uomini e danari da inviarsi in Sicilia. Tale scelta del Generale non poteva piacere alla consorteria moderata a cui per lo appunto il nome di Bertani inspirava ben poca simpatiae fiducia. Dall’altra parte dispiaceva il lasciare il monopolio del patriottismo ad uomini che pei loro antecedenti e principii si ritenevano di rosso colore. Siccome l'impresa di Sicilia era estremamente popolare i moderati volevano avervi qualche ingerenza essi pure per appropriarsi almeno una parte di quella popolarità che dovea ridondare dalle premure colle quali si sarebbe soccorso il generale Garibaldi. Nel decorso della presente storia abbiamo bastevolmente dimostralo qual fosse la condotta tenuta dal ministero in riguardo al Dittatore, alle successive spedizioni dei volontari ed al governo provvisorio di Palermo.

XXIV.— La spedizione imperiamo avea luogo coll'approvazione secreta e col pubblico biasimo dei moderati e del conte Cavour. Ostensibilmente affettavasi di frapporre de' piccoli ostacoli alla partenza dei Mille; ma favorivasi di soppiatto e sussidiavasi d'armi e danari. Nei documenti diplomatici e ne' suoi discorsi al Parlamento Cavour ostentava disapprovare altamente e condannava l'avventurosa intrapresa: ma insinuava al medesimo tempo la necessità di tollerarla e proteggerla (226). Apparecchiavasi in tal guisa a comparire davanti alla pubblica opinione qual proiettore dei Mille pel caso che avesser trionfato e a declinareil disonore della sconfitta se la sorte della guerra fosse loro stata contraria. Così ira le tergiversazioni e gli artificii attendevasi l'esito degli avvenimenti che non doveva gran fatto tardare.

XXV.— Entrato Garibaldi vittorioso nella capitale dell’isola ogni ostacolo fu tolto all'imbarco ed alla partenza di Medici. I moderati col mezzo di La-Farina gareggiarono col partito d'azione di attività e di zelo nel raccogliere ed inviare in Sicilia armi, danari, munizioni ed uomini. I diecimila fucili, rimasti sequestrati nei magazzini del municipio milanese, ottennero, mediante un simulato contratto di vendita, d'essere sciolti e presero la via di Palermo. I fondi restati nelle mani della commissione delle offerte pel milione di fucili Garibaldi, composta di Finzi, Besana e Mangili, vennero adoperati a comprar tre vapori da porsi al servigio del governo siciliano (227). Così si evitava il dispiacere di vederli passare nella Cassa centrale, nelle mani di genti si poco simpatiche, come sembra essere stata volontà del Dittatore.

XXVI.— Le cose progredirono quietamente sino alla presa di Messina ed alla completa emancipazione del suolo siciliano. I tentativi di La-Farina e altri satelliti avevano fallito; ma i moderati tuttavia lusingavansi di riprendere il più presto il penduto ascendente e di allontanare il pericolo di nuove conflagrazioni. Vagheggiavano il progetto di una rivoluzione pacifica che stavano apparecchiando nel Regno di Napoli: persuasi che Francesco Il dovesse al primo allarme abbandonare la sua capitale e ripetere gli errori commessi dalla casa d'Este, di Lorena e di Parma. Riuscendo i moderati a liberare ed annettere, senza il soccorso della rivoluzione popolare, il vasto reame di Napoli, le glorie di Garibaldi guadagnate io Sicilia sarebbero rimaste del tutto ecclissate. Il disegno era bello ed abilmente ideato: forse troppo sublime perché potesse ottenere sulla pratica arena dei fatti la sua applicazione.

XXVII.— Mentre i moderati consultavano, Garibaldi, troncati gl'indugi, compariva vincitore al di qua dello Stretto, ed accingevasi a rinnovare in Calabria i prodigi strategici di Parco e Palermo. La fama del suo fortunato passaggio perveniva a Torino contemporaneamente all'annunzio della strepitosa ed incruenta vittoria d'Alta Fiumara. La consorteria ne parve costernata, ed i giornali da lei stipendiati sfogarono il loro livore contro la nuova intrapresa dei Mille. In loro sentenza Garibaldi valicando, contro la volontà del Governo, lo Stretto, gravemente comprometteva la tranquillità e l’avvenire d'Italia: ed egli infatti comprometteva i loro interessi e la loro popolartià (228).

XXVIII.— Aveva Garibaldi manifestato il pensiero di compiere d'un tratto e senza deporre la spada l'emancipazione del suolo italiano dall'estremo Capo Passero all'Isonzo. Egli intendeva servirsi della Sicilia e di Napoli siccome di una leva a sommuovere le popolazioni ed a spingerle in massa sotto le mura di Roma e davanti ai fortilizii del quadrilatero. Il piano tracciato dal Dittatore abbracciava l'intiera Penisola, dalle coste meridionali della Sicilia all'Isonzo ed al Brennero. Co' suoi volontari e coll'esercito napoletano acquistato alla causa della patria contava presentarsi sul Mincio o sul Po alla testa di due o trecentomila combattenti, numero senza dubbio bastevole a lottare coll'Austria con qualche probabilità di successo. E la conclusione di questa immensa epopea doveva aver luogo nella eterna metropoli, dove sul Campidoglio sarebbesi posta sul capo di Vittorio Emanuele la corona reale od imperiale d'Italia. Sublime illusione che i tempi ed i maneggi della consorteria moderata dovevano si presto troncare e disperdere (229).

XXIX.— Tale disegno non avrebbe potuto seguirsi senza esporre a gravissimi rischi il paese: e il conte Cavour, o qualunque altro si fosse trovato al governo, doveva ad ogni costo sventarlo ed escluderlo. Abbandonata alle sole sue forze l'Italia non era certamente in situazione di riporsi in campagna il giorno dopo la conclusione della pace: e il buon senso c'induce ad applaudire a coloro che seppero in tempo scongiurar l'uragano e salvare la patria da fatale e forse non dubbia rovina. Ammirando la vastità del concetto garibaldiano e facendo i più fervidi voti perché venga al più presto attuato, noi non possiamo ricusare la nostra simpatia ed approvazione a coloro che a prezzo della propria popolarità si studiarono allontanarne il dubbio e pericoloso esperimento. A raccogliere i due o trecento mila soldati per assalire l’esercito austriaco trincierato nel suo quadrilatero sarebbe stato mestieri ricorrere alla rivoluzione: e poiché la rivoluzione metteva spavento era inutile pensare alla guerra coll'Austria.

XXX.— Il proclama pubblicato all'atto di partire da Genova e col quale Garibaldi annunziava all'Italia la risoluzione già presa di soccorrere i fratelli dell'Isola, manifestamente rivelava le mire e la politica della sua spedizione. Ispirato alle tradizioni unitarie ed ai sentimenti nutriti sino dall'età giovanile, Garibaldi esortava gl'Italiani ad invadere l'Umbria, le Marche, la Sabina e il Napoletano, onde fosse il nemico obbligato a divergere la sua attenzione e a sperperar le sue forze (230). Nel dettare quelle linee il Generale non era che il rappresentante o l'organo di quella politica dalla quale ad ogni costo sfuggire volevasi. Fino dai primordii della campagna siciliana il partito della rivoluzione studiavasi ad estenderla a tutta l'Italia, mentre appunto il governo adoperavasi con tutti i suoi mezzi a limitarne e circoscriverne il teatro e fazione. Di là quelle lunghe e continuate contestazioni che si prolungarono durante la guerra e finirono colla dissoluzione dell'esercito garibaldiano e col ritorno del Dittatore a Caprera.

XXXI.— Nei mesi di giugno e di luglio ebbero i moderati abbastanza che fare nell'impedire l'invasione degli Stati tuttavolta rimasti alla Chiesa. Anzi tutti s'adoperarono con attività sorprendente a strappare di mano a Bertani e ad avocare a sé il monopolio delle ulteriori spedizioni: e se anche non riuscirono in tutto, ottennero di avere la massima parte e la maggiore influenza nella pertrattazione degli affari di Genova. Eglino si rivolsero ai diversi Ufficii provinciali d'arruolamento e cercarono che i volontari venissero diretti all'Ufficio militare regolato da La-Farina, anziché alla Cassa centrale condotta dagli amici del Generale. Né rifuggendo dalle più stolte e banali calunnie asserivano che i Garibaldiani di Genova, non che conformarsi agli ordini ricevuti, agivano per proprio conto e in opposizione ai decreti stessi del Dittatore. Affermavano che le spedizioni negli Stati pontificii si volevano effettuare contro la volontà e i divisamenti di Garibaldi, perché condotte da capi macchiati di pece repubblicana i quali col nome del Dittatore soltanto volevano sollevare in Italia la bandiera rossa ed il frigio berretto. Insinuavano quindi ai volontari, pronti a dare il nome a Garibaldi, che ben si guardassero dall'arti dei loro nemici, e che per non essere condotti a perdizione dovessero arruolarsi e partire con persone già note pel loro carattere ed amore alla monarchia e alr Italia. A forza di maneggi pervennero ad ottenere dai varii comitati delle dichiarazioni che i volontari non sarebbero ulteriormente spediti se non alle persone che verrebbero loro indicate (231).

XXXII.— Si cominciò dall'inviare in Sicilia la seconda spedizione Medici, col pretesto, d'altronde assennatissimo, che non si dovevano dividere e sparpagliare le forze mentre Garibaldi a Palermo versava in istrettissime angustie di armi e soldati. «Quanto all'Umbria e alle Marche, dicevano, ci penseremo dappoi: ora è necessario che i volontari, che diedero a Garibaldi il loro nome, vadano tosto a raggiungerlo. Ottimo pensiero è liberavi d'un tratto l’Italia: ma prima si cerchi di soccorrere i Mille, né si lasci Ga«ribaldi in pericolo di venire da un istante schiacciato dal numero, eccessivamente superiore, dei Regii.» Più tardi il colonnello Luigi Pianciani, destinalo a comandare la infelice e famosa spedizione di Terranuova, vide egli pure abortito il suo tentativo, ed uguale fortuna toccava in Toscana al barone Nicotera che doveva assaltare Perugia e sollevare le Marche contro il governo del Papa.

XXXIII.— I moderati si diedero impértanto a, favorire le successive spedizioni dei volontari n Sicilia al doppio intendimento di potere condurle a norma dei proprii interessi e vezzeggiare la pubblica opinione, e di fortificare l'armata Garibaldiana onde porla in situazione da non aver nulla a temere dai Regii. È bene tuttavolta osservare che Medici non salpava da Genova, ancorché i volontari da più giorni già fossero pronti e raccolti, se non dopo ricevuta la certa notizia dell'espugnazione di Palermo operata dai. Mille. Dall'istante che la Sicilia aveva accettato la Dittatura, promulgata a Salemi e Palermo in nome di Vittorio Emanuele, i La-Fariniani dovevano considerare il paese siccome appartenente di diritto all’Italia o siccome una nuova conquista: e ragione ed interesse volevano che si cercasse soccorrere il Dittatore, già stremo di forze, onde non avesse a subire un rovescio inopinato, una rotta. Ma le cose cangiarono dopo la presa di Messina e il»passaggio in Calabria, intrapreso contro il volere napoleonico e malgrado i contrari avvertimenti del Ministero. Mentre Garibaldi vincitore a Reggio e ad Alta Fiumara, marciava sulla via di Cosenza e di Napoli parve all'opposto opportuno o prudente il cercare che l'esercito da lui comandato non aumentasse di troppo d'ardire e di forze onde poi riuscisse all’uopo impossibile disarmarlo e discioglierlo. Sebbene gli atti del governo dittatoriale si emanassero in nome di Vittorio Emanuele e lo Statuto fondamentale sardo fosse stato di già promulgato a Palermo e in Calabria (232), i moderati tuttavia diffidavano delle intenzioni di Garibaldi o per lo meno di coloro che l'attorniavano, ai quali si attribuivano pensieri ed idee che forse giammai non aveano sognato. Per tutte queste ragioni, e simulando accondiscendere alle prestanti sollecitazioni della Francia e dell'Inghilterra, si pensò a vietare le ulteriori spedizioni di volontari tanto in Sicilia che a Napoli.

XXXIV.— Il 13 agosto comparve in proposito la famosa circolare Farini, vero capolavoro d'astuzia banale e doppiezza. In essa le spedizioni venivano severamente disapprovate come lesive le leggi internazionali che regolano i rapporti degli Stati in condizione d'amicizia e di pace. Il governo, in essa dicevasi, non può tollerare che si violi il territorio altrui e che si ponga a soqquadro il paese soggetto all'autorità dei legittimi principi.

XXXV.— Il passaggio in Calabria produsse a Torino una dolorosa impressione stante le più vive premure mostrate dal governo di Francia a vietarlo. I La-Fariniani temettero veder compromesso il risultato di tanti travagli, mentre col tempo e coll'arte assai meglio s'avrebbe potuto ottenere il medesimo scopo. I giornali moderati ne menarono il pii alto scalpore: ed alcuni giunsero perfino ad accusare di avventata o peggio l'impresa di Napoli. Non potendo attaccarsi a Garibaldi, la cui riputazione e popolarità era al disopra d'ogni calunniaci moderati assalivano colle più amare invettive i suoi amici insinuando che il male, benché fatto in suo nome, veniva da essi operato. Dicevasi Garibaldi incapace di sentimenti ostili al governo ed al paese, ma volevasi debole e facile ad essere raggirato dalle arti di coloro nei quali oltremodo fidava. In tal guisa bellamente si dava al Dittatore un diploma di leggerezza o incapacità o ignoranza politica (233).

XXXVI.— Né d'altra parte la circolare Farini avea fatto spi popolo men trista impressione. La pubblica opinione parve vivamente colpita dal divieto di arruolar volontari mentre il paese abbisognava cotanto di armare. I giornali avanzati alla lor volta gridarono contro l'ingiusto ed antinazionale decreto, e promuovevano delle proteste e delle sottoscrizioni da inviarsi al Parlamento. Fu allora mestieri studiare per porre un tardo riparo allo sproposito fatto con inopportuna precipitazione: ed una seconda circolare Farini riapriva gli arruolamenti pei volontari che sarebbero stati incorporati nell'armata italiana (234).

XXXVII.— Durante il mese di luglio esauriva il governo francese i suoi sforzi a riavvicinare le Corti di Torino e di Napoli. Napoleone voleva che un trattato d'alleanza venisse conchiuso onde con questo mezzo arrestare la marcia dei Mille e sottrarre il trono borbonico dalla completa rovina. Se nonché l'Imperatore trovava in parole una piena e formate adesione, mentre in fatto nessuno voleva o poteva adattarvisi. Il ministero italiano poneva per condizione che la Sicilia fosse lasciata in libertà a decidere de' propri destini: al che il Re di Napoli non voleva acconsentire ben sapendo che in tal caso l'avrebbe perduta. Mentre Garibaldi tratteneasi a Palermo, Francesco Il nutriva fiducia di riconquistare il perduto, sempreché altre bande non sopraggiungessero a rinforzare l'armata dittatoriale. Quindi insisteva a Parigi perché fossero effettivamente vietate le spedizioni dei volontari in Sicilia. Dal canto suo il ministero italiano non poteva aderire, perché opponendosi alla partenza dei volontari sarebbe stato quanto esporre l'Italia al pericolo d'una generale conflagrazione. Più tardi e dopo molte trattative e parole, il governo napoletano umiliato dalla rotta di Milazzo e dalla perdita totale dell'Isola, avrebbe acconsentito all'abbandono dei dominii situali al di là dello Stretto purché gli venissero assicurate le provincie rimaste sino allora fedeli. L'ostinazione di Garibaldi ed il pubblico grido fece sventare quelli ibrido piano, e tutti i conati diplomatici a nulla riuscirono.

XXXVIII.— Verso i primi d'agosto i plenipotenziarii napoletani Manna e Winspeare giunsero a Torino, ov'erano accreditati, e si misero tosto in relazione col conte Cavour. Eglino riconoscevano o fingevano riconoscere i sentimenti benevoli che animavano il gabinetto di Torino e nutrivano impértanto fiducia che le trattative intavolate potessero ottenere felice successo. Dal canto suo il ministro italiano stemperavasi in proteste d'amicizia ed esprimeva il desiderio che l'alleanza progettata a Parigi potesse a Torino concludersi (235). Il vero si è che gli uni e gli altri egualmente scorgevano l'impossibilità di venire ad un componimento amichevole, massime nello stato in cui si trovavano allora le cose e gli animi. I giorni, le settimane passarono in vane discussioni od in fallaci proteste, ed intanto la crisi marciava alla sua soluzione.

XXXIX.— Per certo il ministero italiano trovavasi in condizioni tristissime: Cavour non avrebbe potuto respingerò le negoziazioni senza incorrere nell’ira imperiale, né contrar l'alleanza senza esporre ad inevitabile rischio la propria e la popolarità del governo. Posto fra la rivoluzione popolare che incalzavate da tutte le parli e la diplomazia bonapartista che volea rattenerlo, nel contegno e nelle parole serbava l'impronta della doppia influenza a cui era soggetto. Gli stessi plenipotenziarii napoletani furono costretti od indotti a rendere omaggio ai benevoli sensi del nobile conte ed a riconoscere ch'egli doveva obbedire ad una forza di lui più potente, la pubblica opinione.

XL.— Nel frattempo Garibaldi, superate le Calabrie marciava alla volta di Napoli e precipitava la soluzione di tanti problemi che sembrarono dapprima insolubili. Il momento, sì a lungo temuto, era finalmente arrivato: resistenza e l'avvenire d'Italia poteano dipendere dalle risoluzioni che il ministero stava per adottare. Unico scopo di tanti maneggi fu sempre di allontanare i volontari dall'Umbria, onde la rivoluzione straripando non invadesse le Marche e l’Emilia e li trascinasse ad una guerra precoce sul Mincio (236). Ed era ciò che sopra tutto si potea prevenire, tanto più che un attacco contro l'armata Habsburghese sarebbe stato avversato dalla Francia non solo ma eziandio dal governo britannico, il quale mostrava con grande apprensione aspettare il risultato degli affari di Napoli (237).

XLI.— Rimaneva ai La-Fariniani una sola via di salute e fu tosto prescelta. A prevenire Garibaldi abbisognava lasciare da canto le vane paure ed entrar nelle Marche a suscitarvi o sedarvi la rivoluzione e il disordine. La misura in se stessa appariva assai ardua; ma stato sarebbe d’ogni altro consiglio il peggiore quello di lasciare sì gran parte d'Italia in balia del partito avversario. Napoleone opponevasi: ma si poteva ben credere che, posto nell'alternativa di vedere sulle mura di Perugia e Spoleto il vessillo garibaldiano o l'azzurra coccarda sabauda, non avrebbe un istante esitato a preferire quest'ultima. Egli è un fatto singolare abbastanza per non dire inconcepibile che i bonapartidi, surti e ristorati dalla rivoluzione, la debban cotanto abborrire e temere. La situazione del governo italiano veniva esattamente compendiata nelle celebri parole rivolte dal conte Cavour al signore di Talleyrand il quale in appresso protestava contro la nota diretta al cardinale Antonelli. «Se noi, diceva il nobile conte, non siamo, prima di Garibaldi alla Cattolica, noi saremmo perduti. La rivoluzione invade l'Italia;noi ci troviamo costretti ad agire (238).» Cavour concludeva dicendo che il governo sardo, mentre non poteva arrestare la marcia di Garibaldi su Napoli e sulle Romagne, per lo meno oppor gli doveva una insormontabile barriera lungo gli Abbruzzi.

XLII.— Verso il finire di agosto l’imperatore Napoleone viaggiava per diporto in Savoia a beare di sua presenza que’ nuovi e recenti suoi sudditi: e il governo italiano, colta la propizia occasione, spediva a complimentarlo in Chambéry il generale Enrico Cialdini e Luigi Carlo Farini il ministro. L'obbietto di quella visita di cortesia diplomatica, alla quale sino dal principio si attribuì con ragione una importanza politica, doveva esser quello di esporre all'Imperatore le penose condizioni d'Italia ed intercedere l'assenso per tutto ciò che si voleva tentare. Napoleone sulle prime negava assolutamente di acconsentire ad un invasione delle provincie papali: ma poscia comprendendo che il suo rifiuto non avrebbe che favorito il disegno di Garibaldi, discese a più miti consigli e lasciò si facesse. Le condizioni accettate od imposte per l'ottenimento dell'assenso imperiale rimasero e sono tuttavia un mistero: ma i fatti parlano abbastanza chiaro da sé, ed ognuno, confrontando le date, può di leggieri persuadersi che in quell'abboccamento fu in gran parte deciso il destino delle Marche e dell'Umbria.

XLIII.— Entrava Garibaldi in Napoli il 7 settembre di sera: e il successivo giorno 8 Cavour spediva una nota al ministro pontificio cardinale Antonelli intimandogli di licenziare le truppe straniere di presidio nelle Marche, per torre, com'egli insinuava, ogni forni le al malcontento popolare ed alla rivoluzione. L'indisciplina inerente a tale esercito, l'improvvida condotta dei capi, e le minaccia provocatrici ostentate nei loro proclami suscitare e mantenere un fermento pericoloso oltremodo alla pace d'Italia. Vivere nella memoria delle popolazioni le rimembranze dolorose delle stragi e del saccheggio di Perugia: pensasse il ministro pontificio che tale condizione di cose, per sé funestissima, lo era maggiormente divenuta dopo i fatti accaduti in Sicilia ed a Napoli. La presenza delle truppe straniere ingiuriare il sentimento nazionale ed impedire la manifestazione dei voti popolari: e la vicinanza e le ragioni dell'ordine e della propria sicurezza imporre al governo italiano il dovere di rimediare al più presto a tanto pericolo. La coscienza non permettere di restare in presenza delle sanguinose repressioni con cui le armi de' stranieri mercenarii soffocherebbero ogni manifestazione di simpatia nazionale. Significare per tutte queste ragioni a Sua Eminenza che il governo italiano impedirebbe in nome dell'umanità ai mercenarii pontificii di sevire sulle inermi popolazioni. Provvedesse imperiamo al disarmo ed all'immediato scioglimento di que’ corpi la cui presenza minacciava incessantemente la tranquillità del paese.

XLIV.— Al che Antonelli replicava: I nuovi principii di pubblico diritto posti in campo dal conte Cavour lo dispenserebbero da ogni risposta, tanto gli parevano opposti a quelli riconosciuti da tutti i governi. Ma contenersi nella missiva del conte Cavour offese e calunnie ch'egli dovea rilevare e confutare. Essere odiosa del tutto ed ingiusta e falsa la taccia portata contro le truppe di recente dal governo papale formate: parergli inqualificabile raffronto che gli veniva scagliato, né potere comprendere come si volesse interdire al Pontefice di tenere al suo servizio truppe straniere, mentre molli altri governi il faceano e nessuno l'aveva attribuito a loro colpa. Essere menzogna ed impudente calunnia i disordini che voleansi, con insigne malafede, attribuire alle papali milizie: avere la storia di già registrato quali fossero e donde partite le bande che avevano violentemente imposto alle volontà delle popolazioni, e quali, e da cui macchinate, le arti ond’era di recente stata sconvolta si gran parte d'Italia. Quanto alle disastrose conseguenze della repressione di Perugia doversi esse attribuire, non alle milizie pontificie, ma bensì a coloro che avevano dall'estero promossa quella rivolta. Calunnie le declamazioni contro il pontificio governo: calunnie le accuse scagliate sulle sue truppe, e calunnie le imputazioni fatte ai generali, dandoli a credere autori di minacele provocatrici e di proclami atti a produrre pericolosi fermenti. Respingere del resto le minaccie e le intimazioni pel disarmo e il rinvio de' volontari pontifici!: la Santa Sede forte nel suo diritto ed appellando al jus delle genti resisterebbe impavida a tutte le violenze che le venissero usate (239).

XLV.— In tal guisa la risposta d'Antonelli fu quale ognuno potea prevedere e molti avevano desiderato: la Corte di Roma, come sempre, si mostrò inesorabile. La tempra della pontificia politica non è certamente tale da cedere o piegarsi davanti alle necessità od alle intimazioni di qualsiasi terrena potenza: gli avvenimenti potranno schiacciarla od opprimerla, ma domarla o cangiarla non mai. A Roma domina tuttavia la politica di Alessandro II, di Adriano VI e d'Ildebrando: e si regola quasi ancora vivesse fra le tenebre di un'età che per sempre è sparita. È un governo che vive delle memorie del passato, tenacissimo delle proprie abitudini ed ostinalo alla follia nella stima della propria saviezza e potenza. Esso sparirà mille volte prima d'indursi a riconoscere il progresso che lo avviluppa e minaccia e prima di recedere un iota dalle sue inopportune pretese. È un governo col quale non è dato trattare se non colla punta delle armi: ed all'armi malgrado la riluttanza di molli, si dovette finalmente ricorrere.

XLVI.— La condiziono delle Marche è dell'Umbria facciasi diffatti più minacciosa ogni giorno e più seria. Una banda di quindici a ventimila volontari, appartenenti a tutte le nazionalità ed a tutte le lingue d'Europa, tenevano da padroni e da despoti quelle sventurate provincie. Le notizie della bassa Italia e le vittorie di Garibaldi sollevavano le loro speranze, le quali venivano altresì rafforzate dall'odio che ispiravano i presidii papali. Il generale Lamoricière, supremo comandante pontificio, trovavasi accampato in paese nemico ove tutti misconoscevano la sua autorità, molti cospiravano contro al suo governo e moltissimi si apparecchiavano ad assalirlo colle armi alla mano. L'odio che ispiravano i suoi soldati diveniva fomite di continui tumulti: le leggi tacevano e i magistrati, atterriti od animati dalla pubblica opinione, mancavano di forza odi volontà per farle eseguire. Regnava in tutto il paese una confusione indicibile: erano frequenti le risse, non meno frequenti le uccisioni fra cittadini e soldati: e i delitti sì degli uni che degli altri andavano impuniti, perché gli uni venivano protetti alalia connivenza dei superiori e gli altri da quella delle civili autorità. Il generale legittimista Becdelièvre, faceva bastonare alcuni cittadini perché avevano cercato d'indurre qualche soldato alla diserzione, e ciò pel timore che venendo giudicati dal tribunale ordinario non fossero assolti. Pimodan ordinava che i veri o supposti delitti onde fossero i cittadini accusati venissero deferiti al tribunale militare, poiché non fidava sullo zelo o sulla accondiscendenza delle civili autorità. Una simile situazione non era tenibile: e Lamoricière, a contenere l'avversione ed i moti minacciosi del popolo, si credette ben tosto obbligato a promulgare Io stato d'assedio.

XLVII.— Questo documento, vera emanazione di caserma, pare letteralmente copiato dalle sanguinarie proscrizioni dei Wekìen, degli Haynau e de' Windischgràtz: pure, dopo attenta disamina, siamo costretti a riconoscerlo consono in tutto all'arbitraria legislazione ed alle massime che regolano negli Stati pontificii il corso della giustizia punitiva. Ventisei articoli o paragrafi il compongono: vi sono enumerate diverse specie di colpe o delitti e comminate tre sole pene, l’ergastolo, la confisca e la morte (240). A tenore del barbaro quanto sciagurato proclama di Lamoricière i beni mobili ed immobili del prevenuto dovevano sino dall'arresto essere sequestrati a favore del Fisco. In conseguenza nell’individuo si colpiva l'intiera famiglia e si violavano le basi più inconcusse della più ovvia giustizia: pel capriccio d'una spia o d'un proconsole gl'innocenti potevano essere da un istante ali altro travolti nella miseria. Nella stolta mania d'incutere terrore non si rifuggiva dal ricorrere a leggi e consuetudini che disgraziarono in passato la giurisprudenza europea, e d’avvolgere nella stessa condanna gl'innocenti ed i rei, i padri ed i figli (241). Tuttavia Lamoricière, quasi gli pesasse assumere la responsabilità delle sue barbaro disposizioni, si riferisce agli Editti pontificii del 20 settembre 1832 e dell'aprile 1842, citando in appoggio leggi e decreti anteriori (242).

XLVIII.— Erano o dovevano essere puniti di morte i portatori di armi o di coccarde nazionali, i promotori della rivolta e coloro che avessero divulgato stampe o scritti sediziosi od inviato o ritenuto danaro destinato ad operazioni politiche. Alla stessa pena si sottoponevano coloro che avessero eccitato i soldati papali alla diserzione e coloro che si fossero dati a favorirla. Chi teneva corrispondenza mediante lettere o messaggi coll'estero e con fine politico o cercava, turbare od interrompere le comunicazioni telegrafiche o postali. Tutti questi delitti si punivano coll'ultima pena e con una multa che poteva portarsi a 30,000 scudi romani (243).

XLIX.— La diffusione di notizie allarmanti, il fatto di aver dato protezione o ricetto ad un disertore, l’avere deviato le ricerche delle guardie ingannandole con falsi indizii, il portare o l’occultare emblemi politici, gli attruppamenti, ecc., dovevano essere puniti coi lavori forzati a vita ed una multa estensibile a 10,000 scudi romani. È inutile osservare che la compilazione degli atti di procedura doveva farsi sul tamburro del consiglio di guerra, declinando ogni ingerenza delle civili autorità giudiziarie. Per tal modo la vita e le sostanze di quegli infelici abitanti dovevano esclusivamente dipendere dall'arbitrio di pochi stranieri ignoranti, bestiali e fanatici (244).

L.— Dal suo quartiere generale di Spoleto Lamoricière guardava con ansietà ed apprensione ai contini meridionali delle provincie occupate, ed alla Cattolica, dove le truppe sarde andavano ad effettuare il loro concentramento. Il generale pontificio si trovava cosi tra due fuochi: dal mezzogiorno stringevate la rivoluzione vincitrice e signora del Regno di Napoli: al nord minacciavate un avversario non meno potente o men desideroso di venire alle mani. Inoltre le popolazioni inasprite ed apparecchiate ad insorgere tumultuavano e gl'impedivano di raccogliere le sue truppe sur un punto qualunque del territorio ch'egli occupava e tiranneggiava. L'esercito papalino (se pur merita un tal nome quell'accozzaglia di gente senza principii né patria) assottigliato dalle diserzioni e dai presidii che non si potevano levare dalle città, ammontava appena a dieciotto mila soldati di tutte le razze e di tutte le lingue d'Europa. Con questi dieciotto mila uomini, sfiduciati ed. abbattuti d'animo e di forze, aveva Lamoricière a lottare contro due nemici ad un tempo, ciascuno dei quali, bastava a schiacciarlo da solo. Le stesse minaccie colle quali studiavasi di atterrire le popolazioni tradiscono la secreta ansietà da cui era il generale animato.

LI.— Dal fondo del Vaticano il Santo Padre frattanto sentiva le angustie de' suoi e sollecitamente accorreva a rinforzare la loro fede ed il loro coraggio. Roma è una inesauribile sorgente di ricchezze, di cui il lungo abuso ha diminuito il valore nella stima dei popoli ma non in quella dei preti: eglino le spendono o le prodigano a norma del credito antico. Una volta quelle ricchezze si cangiavano in milioni: ora bastano appena a produrre dei franchi. È merce quasi fuori di moda e che rende assai poco, tuttavia egli è sempre meglio prendere il poco che il nulla. Però se i compratori mancano non mancano già gli accettanti: ed in mancanza dei primi Roma si persuade a profonderla agli ultimi. E poi di tal merce v'è dovizia; una benedizione più o meno non toglie od accresce di nulla il tesoro spirituale del Santo Pontefice.

LII.— Il Beatissimo Padre inviava per atto di sua sovrana bontà una lettera all'arcivescovo di Nisibi Cappellano Maggiore delle truppe papali. In essa lettera, dopo una lunga geremiade sulle tristizie dei tempi e sulle supposte calamità della Chiesa, il Santo Pontefice apre i suoi spirituali tesori e li mette a vantaggio de' suoi valorosi campioni. Conoscendo che i soldati ed i duci stavano per incontrare pericoli gravissimi, per azzuffarsi e combattere con audacissimi nemici, il Santo Padre, per rinforzarli e corroborarli, inviava loro la benedizione, l'indulgenza plenaria e la facoltà di andare in caso di morte, diritti in Paradiso. Non dubitando del trionfo finale della Chiesa, terminala coll’implorare dal cielo una vittoria che il cielo aveva di già condannata (245).

LIII.— Dall’altro lato il governo francese risolveva aumentare i presidii di Civitavecchia e di Roma ad oggetto di proteggere da qualunque eventuale pericolo il trono pontificio e l’unico porto occupalo in Italia dalle truppe imperiali. Nulla aveva Napoleone a temere da parte del conte Cavour, della cui obbedienza e sottomissione viveva affatto securo, ma così non poteva pensare di Garibaldi, il quale, senza velo o mistero proclamava il Campidoglio come la meta delle sue vittorie ed apertamente anelava a cancellare la disfatta subita nel 1819 (246). L’aumento del presidio francese risollevava al tempo stesso le suscettibilità del governo britannico e le speranze del cardinale Antonelli. Questi giunse a credere che l'armata napoleonica sarebbesi opposta alla invasione de' Sardi nei caso che le truppe del Lamoricière non bastassero a respingerli: quello ne mosse alla Tuilleries, speciali lagnanze. Ma tosto l'uno e l'altro dovettero convincersi di avere assai male collocato una folle fiducia ed un più folle timore. L'Imperatore voleva premunirsi contro la rivoluzione e Garibaldi e validamente proteggere la Sede pontificale da ogni disastro, ma lasciava al tempo stesso che i Piemontesi penetrassero ed invadessero l'Umbria e le Marche. Così aveasi stabilito nel convegno di Chambérv, e cosi fu fatto.

LIV.— Se non che Napoleone desiderava declinare la propria responsabilità negli avvenimenti che dovevano prossimamente compirsi. Voleva egli apparire in faccia all'Europa siccome in opposizione ai progetti del Gabinetto di Torino, e contrario ad ogni impresa che tendesse alla soppressione del governo papale. Informava per tanto in via diplomatica il conte Cavour che egli non poteva approvare i suoi disegni, che a lui ne lasciava la responsabilità, e che se ad ogni modo avesse voluto agire il governo di Francia sarebbe stato costretto a richiamare il suo ambasciatore da Torino ed a troncare ogni relazione col gabinetto italiano. Cavour, forse sapendo qual conto doveva fare di tali proteste, non se ne diede pensiero, e i preparativi per la guerra continuarono a farsi colla massima celerità.

LV.— Quando il tempo, che tutto trasforma o modifica, avrà spento gli amori e le ire, attutito le gelosie degl'interessi e calmato l'effervescenza e il bollore delle attuali passioni, lo storico, a cui saranno aperti i diplomatici archivi, consultando i dispacci e gli atti verrà a farsi chiara ragione degli avvenimenti che a noi contemporanei paiono poco meno che enigmi. I posteri potranno esaminare e conoscere a fondo le cause e gli effetti che condussero a ciò che a noi sembra contraddizione e sofisma. Posti in troppa vicinanza dei fatti a noi non resta che l'aiuto della nostra ragione, mercé la quale dobbiamo fondare su dati ipotetici il nostro giudizio ed indovinare, per così dire, la verità traverso errori infiniti. L'intima ragione delle cose si rivela egli è vero dal complesso dei medesimi fatti ed offre circostanze e dati sufficienti a formulare e a stabilire un giudizio spassionato e sincero: ma è necessario che fautore e il lettore adoperino del pari tutto l’acume ad intravederla e a comprenderla. Se a noi fosse dato consultare i documenti secreti della diplomazia diverrebbe realtà ciò che per noi è soltanto un sospetto $ che cioè Napoleone e Cavour, malgrado la forza delle proteste, operarono di pieno concerto ed accordo.

LVI.— I tempi difetti ingrossavano, e stata sarebbe suprema follia differire per vani rispetti 0 paure, o titubare più oltre: l'interesse del governo e quello del principio monarchico esigevano si prendesse al più presto una decisiva risoluzione. Avesse il conte Cavour protratto di pochi giorni l'apertura delle ostilità, le squadre rivoluzionarie, valicando il confine napoletano, avrebbero posta l'intiera penisola in fiamme. E l'Inghilterra, a cui sopratutto premeva di rimandare ad altro tempo la guerra coll'Austria, si dava la massima briga a persuadere il gabinetto italiano della necessità di prevenirla sotto le mura di Perugia e Spoleto. Discusse impertanto in Consiglio dei ministri e stabilite le basi della nuova campagna, Fanti lasciava Torino recandosi alla Cattolica a porsi alla testa dell'armata d'operazione.

LVII.— Le truppe scaglionate lungo la linea del Po e nelle città dell'Emilia andavansi frattanto concentrando verso il confine delle Marche. Verso il principiar di settembre il quarto e il quinto corpo d'armata rinforzati da alcuni distaccamenti schieravansi lungo il confine da Arezzo alla Cattolica. Contemporaneamente parte della flotta salpava da Genova sotto gli ordini del contr' ammiraglio Persano, seco portando un piccolo parco d'assedio alla volta d'Ancona. In tutto le forze di terra e di mare impiegate nell'Italia centrale sommavano a non meno di quarantamila soldati.

LVIII.— Il 9 settembre il ministro Fanti inviava al generale pontificio una lettera del seguente tenore: aver egli assunto per ordine di Sua Maestà il comando dell'esercito concentrato sulle frontiere italiane ad oggetto di proteggere le popolazioni dalle insolenze dei mercenarii papali. In conseguenza avrebb'egli militarmente occupato l'Umbria e le Marche ogni qual volta le truppe pontificie usassero della forza per comprimere i sentimenti nazionali dei popoli, odavvenendo una manifestazione in senso nazionale, i soldati papali non si ritirassero e non lasciassero gli abitanti liberamente pronunziare ed esprimere i loro voti. La presenza de' soldati stranieri essere continuo fomite di malcontento e disordine, nonr solo nelle provincie in tal guisa compresse, ma eziandio nei paesi soggetti al governo italiano. Accettasse il generale Lamoricière le sue proposizioni e risparmiasse ali Umbria e alle Marche la protezione delle armi piemontesi e i disastri che potean derivarne.

LIX.— Lamoricière rispondeva con un aperto rifiuto e dichiaravasi pronto a difendere le provincie al cui comando era stato elevato. Per vero egli non poteva altrimenti rispondere: l'onor militare, la fama delle antiche sue gesta, gli vietavano di accondiscendere a proposizioni che nessun generale o ministro avrebbe potuto senz'onta accettare. La lotta alla quale accingevasi doveva essere senza dubbio fatale per lui: ma in ogni modo era mestieri combattere e tentare la sorte delle armi. La politica ostinata della Corte Romana aveva così stabilito: ed il suo generale, esponendosi a certa sconfitta, ne seguiva fedelmente le traccie e le massime.

LX.— Del resto, malgrado le vociferazioni del volgo, nulla ancora sapevasi del come si sarebbe comportata l'armata francese qualora i piemontesi od i garibaldini avessero violato i confini delle pontificali provincie. Un dispaccio del cardinale Antonelli mostrava credere che il presidio risiedente in Roma avrebbe preso le armi e respinto gli aggressori: e a tal uopo supponevasi l’esercito di occupazione ultimamente aumentato di forze. Il prospetto di si valido aiuto contribuiva senza dubbio ad elevare l'ardore guerriero del Lamoricière ed a predisporlo a valida e disperata resistenza. Dall'altro canto, malgrado le minaccio, non egli poteva persuadersi che le truppe del governo italiano, sottoposte alle tergiversazioni della diplomazia, avrebbero osato uscire dai loro confini. Lamoricière calcolava sulla prudenza o sulle vane paure del conte Cavour, il quale nulla avrebbe intrapreso senza il beneplacito o contro l'espresso volere dell'augusto allealo. Non era presumibile che ove la diplomazia della Francia avesse apertamente vietato ai Sardi d'invadere l'Umbria, il conte Cavour si fosse lasciato indurre ad infrangere il temuto comando.

LXI.— Pochi giorni bastarono a troncare siffatte illusioni: e il Lamoricière, benché tardi, s'accorse che la Francia non intendeva per nulla impedire, né il governo italiano abbandonare, l'impresa. L'esercito sardo diviso in due corpi occupava a sinistra la Cattolica ed a destra la città importante d'Arezzo, ove Fanti teneva il suo quartier generale. L'Umbria e le Marchesi trovavano' impértanto investite da due lati ad un tempo, ed in pericolo d'essere invase e percorse prima ancora che il generale pontificio potesse pensare a difenderle. Le truppe italiane stendevansi in semicerchio lungo il confine dalle frontiere toscane alle spiaggie del mare Adriatico, dalle vicinanze di Fiori alle colline di Pesaro.

LXII.— Il 9 settembre Fanti accingevasi a passare il confine, e con suo ordine del giorno annunciava ai soldati l'intenzione d'intervenire nelle provincie papali all'ine di ricondurvi la pace e la tranquillità. Il giorno seguente, mentre stava per mettersi in marcia, dichiarava sul piede di guerra lo; truppe dell'esercito attivo concentrate intorno alle frontiere papali. Simultaneamente il comandante il quarto corpo d'armata generale Enrico Cialdini emanava dalla sua residenza di Rimini un ordine del giorno che potea considerarsi il manifesto della insurrezione e della guerra. Quell'ordine del giorno appare mirabilmente ispirato all'eloquenza del campo e deve aver suscitato la più viva impressione nel cuor dei soldati. In esso è detto senz'ambagi o reticenze com'egli intendeva condurli contro una masnada di prepotenti sicarii, cui sete d'oro e saccheggio avea tratto nelle belle provincie italiane. In tal modo disposte le cose ed apparecchiato l'animo dei militi alla prossima lotta i generali Fanti e Cialdini contemporaneamente lasciarono i loro quartieri di Arezzo e di Rimini, dirigendosi questi su Urbino e su Pesaro e quegli sulla Fratta e Perugia (247). Quello che stato non era concesso di fare a Zambianchi, a Pianciani e a Nicotera e che s’aveva attirato il biasimo e la condanna della consorteria moderata veniva in tal modo intrapreso dal conte Cavour ed approvato o tollerato dallo stesso Napoleone: a tale condussero le recenti vittorie dei Mille ed i fatti di Napoli.


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LIBRO XII

Campagna dalle Marche. — Vittoria di Castelfidardo

I. —Accondiscendeva Napoleone alla campagna dell'Umbria al solo fine di evitare maggiori disastri, per salvare gl'interessi del principio monarchico e, come si suol dire, per sottrarre la società da imminente e fatale rovina. Il conte di Cavour aveva ripetutamente dichiarato che non vaghezza di conquista, stimolo d'ambizione od amore sfrenato di gloria il moveva, ma il solo interesse del paese, l'assestamento delle cose italiane e la conservazione dell'ordine. A quest'unico patto la Francia lasciavalo intervenire nelle provincie rimaste in poter del pontefice e gli concedeva facoltà di battere e sperdere i mercenarii papali. Tale convenzione, occultamente ed apertamente formulata, era la sola e la più ovvia a prodursi nelle circostanze gravissime in cui allora versava l'Italia. E forse non tanto premeva all'Imperatore quanto al conte Cavour di arrestare la marcia dei volontari e troncare i disegni del fortunato lor capo. L'Inghilterra stessa che s'era fatta, a parole, campione dell'italiana unità, mirava con grave sgomento il progresso delle armi garibaldiane ed ansiosamente bramava che un fine si ponesse alla loro carriera. Per conseguenza sull'impresa delle Marche i governi di Torino, di Parigi e di Londra, dopo l'apertura delle ostilità, per la prima volta si trovavano d'accordo ed agivano nel medesimo senso: tanta era l'apprensione che in tutti destavano la fortuna e il valore di Garibaldi e de' suoi vittoriosi soldati.

II.— Se non che per occupare le provincie papali e ripristinarvi o rimettervi l'ordine diveniva suprema necessità che l'ordine vi fosse preventivamente sconvolto e turbato. Bisognava provocare un tumulto, un'agitazione, una sommossa qualsiasi, un conflitto fra i mercenarii pontificii ed il popolo, ed intervenire quindi a sedarlo. L'esercito sulle frontiere era già apparecchiato sino dal 6 di settembre, e solo oggimai gli mancava il pretesto ad irrompere.

III.— Né questo si fece aspettare: e si fu ancora la rivoluzione italiana, il partito d'azione, che supplì alla mancanza, ed aperse al governo la via di Perugia e Spoleto. Soldati della nazionalità, i volontari appianano al governo, che ne confisca a suo pro le fatiche e le imprese, la via del trionfo sul campo della diplomazia e in pari tempo su quello di guerra: e paghi che altri se n'abbia il frutto tengono per sé i travagli, i pericoli e i rischi. Sentinelle perdute della libertà combattono sempre nelle prime file: e vilipesi e calunniati rispondono con nuovi sacrificii e novelle vittorie (248).

IV.— Numerosi volontari, arruolatisi per la guerra di Sicilia e di Napoli, erano stati, a tenore della nota circolare Farini, trattenuti nelle varie provincie dell'Italia superiore ed impediti dal raggiungere la bandiera alla quale avevan dato il lor nome. Due o trecento di questi vennero, verso il principiar di settembre, raccolti sulle frontiere dell'Umbria per un'ignota e pericolosa spedizione. I volontari, a cui più dispiaceva il far nulla che avventurarsi in qual fosse più arrischiata intrapresa, spontaneamente s'accinsero a ciò che volevasi loro ordinare.

V.— La notte del 9 settembre, ad ora larda, i volontari, lasciato l'avanguardo italiano, penetrarono proietti dall'oscurità e divisi in piccoli gruppi sul suolo nemico. Era gravissimo il pericolo e l'impresa oltremodo difficile: perocché grossi distaccamenti di dragoni o gendarmi pontificii a cavallo perlustravano il confine esercitando la vigilanza più attiva e continua. Malgrado gli ostacoli i volontari pervennero al punto che stato era loro designato come luogo di concentramento. Colà i comitati secreti dell'Umbria e delle Marche avevano occultamente raccolto e nascosto nella sacristia di una piccola chiesa di campagna buona quantità di fucili e di sciabole e di munizioni da guerra. I volontari, per cui eran destinate quel,l'armi se ne impadronirono, ed allestiti proseguirono il loro cammino. Abbandonando le principali strade ed i luoghi battuti eglino dovevano avanzare traverso le montagne, assalire all'improvviso le comunità circostanti, suscitarvi la rivoluzione e procedere oltre. Fra le altre istruzioni che furono lor compartite era quella di evitare ogni serio conflitto colle truppe ogni qualvolta esso non si presentasse con qualche probabilità di vittoria. Non già perché si desiderasse risparmiarli, ma perché se ne aveva bisogno per le successive operazioni campali.

VI.— La parola d'ordine era stata contemporaneamente diramata ai diversi comitati politici istituiti lungo la frontiera e nell'interno del territorio. La comparsa dei volontari doveva provocare una generale esplosione, tanto era l’odio di quegli abitanti contro i mercenari papali e tanto il desiderio di riunirsi alla madre comune, ali Italia. Quella piccola squadra di generosi doveva impertanto aumentare di numero a misura che avanzavasi nel territorio pontificio e presentarsi davanti ad Urbino in una massa abbastanza imponente per dichiarare la città in istato d'insurrezione. Infatti dove eglino passavano sorgevano bandiere tricolori, si atterravano gli stemmi papali e si acclamava il governo italiano e la sovranità di Vittorio Emanuele. Durante il giorno 10 settembre più villaggi e borgate scossero il giogo dei preti, diverse squadriglie di gendarmi vennero disarmate e fatte prigioni e più miglia di territorio e varie migliaia di cittadini furono ricongiunti alla Nazione. Il risultato di quella spedizione fu oltre ogni credere felice e vantaggioso, poich'esso inaugurava con si prosperi auspicii la guerra.

VII.— Egli sembra indubitato, almeno l'esame dei fatti ci porta a congetturarlo, che il Lamoricière, sebbene con qualche apprensione vedesse l'esercito sardo concentrarsi nelle già Legazioni papali, tuttavia maggiormente temesse Garibaldi ed i suoi volontari che le minaccio e le mosse di Cialdini e di Fanti. Altrimenti non si potrebbe spiegare il perché egli tenesse il suo quartier generale a Spoleto e la massima parte delle sue truppe scaglionata nelle provincie meridionali e lungo il confine degli Abbruzzi. Certamente se Lamoricière avesse potuto persuadersi che sarebbe stato assalito dalla parte del nord non avrebbe disposto l'esercito all'opposta estremità del paese cui doveva difendere. Egli fu colto all'improvviso e quando meno lo si aspettava: e ciò non poco contribuì al disordine col quale esegui in appresso le sue operazioni. La mancanza di strade, le difficoltà naturali dei luoghi, il mal talento delle popolazioni, tutte le circostanze concorrevano a ritardare la marcia de' suoi ed a rendere impossibile un pronto concentramento delle forze nei punti più minacciati.

VIII.— Tre sole vie in que' frangenti rimanevangli a prendere. Egli poteva, abbandonando al nemico la parte settentrionale del paese, ripiegarsi a sinistra, per la valle del Tevere nella Comarca ed attendere colà i Piemontesi, dove questi non avrebbero potuto, senza urtare nei presidii francesi, girarlo e prenderlo a tergo. In secondo luogo poteva spingersi avanti e concentrare l'armata a cavaliere dell'Appennino ed occupare fortemente Gubbio, da dove pesando sulla sinistra si sarebbe assicurato la ritirata per la medesima valle del Tevere. Finalmente marciando con celerità poteva eseguire un movimento di destra sopra Macerata ed Ancona, la quale ultima città gli avrebbe offerto, in caso di rotta, un asilo protetto e difeso. Pare che fra questi tre piani Lamoricière prescegliesse quest'ultimo, che forse era il più rovinoso, come quello che lo esponeva ad essere circondato dal vittorioso avversario e costretto a deporre le armi e ad arrendersi prigione di guerra.

IX.— Ben più commendevole e saggio fu il piano tracciato da Fanti. Obbietto precipuo di tutti i suoi sforzi era quello di precludere al nemico la ritirata nel patrimonio di San Pietro e di costringerlo appunto ad una resa ignominiosa. Se l'esercito papale si fosse. Ripiegato sulla Comarca ed accampato sul suolo che Napoleone voleva inviolabile, la guerra non sarebbe stata si tosto finita né decisiva la vittoria dell'armi italiane. Da quell'asilo inviolato e secare Lamoricière avrebbe potuto prorompere ad ogni propizia occasione e mantenere nell'Umbria uno stato permanente di ostilità e di disordine. Perché la vittoria dovesse apportare i suoi frutti diveniva mestieri battere non solo e respingere, ma distruggere in tutto e disperdere il corpo da lui comandato. Fortunatamente la mossa del generale pontificio offriva al comandante italiano la più bella occasione di compiere il progettato disegno.

X.— La prima divisione e la divisione di riserva del quinto corpo d'armata agli ordini del generale La Rocca dovevano, lasciando Arezzo ed il confine italiano, marciare a Città di Castello e alla Fratta: e di là, piegando al sudest, evitare la stretta del Lago Trasimeno, celebre per la vittoria d’Annibale, e portarsi a Perugia e a Foligno, punto obbiettivo delle loro operazioni. Contemporaneamente Cialdini aveva ordine di assalire col suo corpo Pesaro e Fano, di occupare la cresta degli Appennini e l'importante città d'Urbino ed il passo di Gubbio ad oggetto di cooperare al bisogno col resto dell'armata. Il corpo comandato da Cialdini era per tal modo destinato a prevenire con rapide marcie il generale nemico e ad interporsi fra Macerata ed Ancona pel caso che i Pontificii avessero cercato raggiungere questa fortezza. La divisione mandata ad occupare le gole di Gubbio serviva a mantenere non interrotte le comunicazioni fra i varii corpi dell'armata Italia' na e formava il centro della spedizione. Tali disposizioni si presero dietro la congettura che il Lamoricière, uomo assai più militare che politico, sarebbe accorso sul luogo dove il pericolo appariva e si presentava maggiore e più prossimo.

XI.— L'armata italiana, nella sua memorabile marcia disegnava in tal guisa una curva da Arezzo alle spiagge del mare, e progrediva scaglionata da sinistra in avanti. Volevasi sopra tutto prevenire il generale avversario fra le gole di Gubbio e davanti ad Ancona e in ogni caso precludergli il passo alla valle del Tevere ed il grande stradale di Spoleto e di Terni. Miravasi a sperperare il nemico, a vietargli il concentramento de' suoi, interponendosi con ardite e celeri mosse fra i distaccamenti lasciati in presidio delle città e che in caso di bisogno sarebbero stati richiamati sotto le loro bandiere.

XII.— Lamoricière, o si credesse abbastanza securo alle spalle e sul fianco sinistro per la vicinanza dell'armi francesi o stimasse conveniente o necessario avvicinarsi alla marittima fortezza di Ancona e farne la base delle sue ulteriori operazioni, al primo annunzio delle mosse italiane, lasciato Spoleto, dirigevasi col grosso de' suoi manovrando sulla destra, per Foligno a Tolentino e Macerata. Questo piano riesce per noi incomprensibile, perocché, conosciuto il disegno dell'astuto avversario, egli sembra che H generale pontificio avrebbe all'opposto dovuto marciare colla massima velocità sulla via di Foligno e Perugia alle alture di Gubbio ed affrontare sui gioghi delle montagne il centro dei Sardi, e quindi gettarsi a destra o a sinistra dove la probabilità di un successo si fosse mostrata migliore. Se con un rapido movimento di fronte avesse Lamoricière saputo prevenire sulle montagne l'arrivo delle truppe italiane, sarebbe stato in sua facoltà di raccogliervi i presidii isolati delle vicine città ed occupare una posizione eccellente. In tale emergenza il generalissimo sardo avrebbe dovuto arrestare la marcia de' suoi e concentrarsi nella parte settentrionale del paese, poiché non è presumibile ch'egli avesse osato penetrare a Foligno o a Spoleto lasciandosi intero il nemico alle spalle. L'ardito tentativo avrebbe in ogni modo prolungata la campagna e ritardato i successi dell'armi italiane.

XIII.— Pare che i militari talenti del Lamoricière non si appalesassero, in quel supremo frangente, all'altezza della sua rinomanza. Egli si lasciò cogliere quasi all'improvviso e perdette lutti i presidii 'delle città situate lungo la frontiera. E quando venne il momento d'operare si mostrò titubante ed incerto, quasi non bene sapesse a quale partito appigliarsi. I suoi movimenti furono tardi, inefficaci, e il piano da lui adottato sembra essere stato il pii rovinoso Mentre aveavi necessità della massima energia e prontezza, mentre abbisognava osare disperatamente ed arrischiare il tutto pel tutto, egli perdevasi in conati di nessun momento ed in prendere delle precauzioni che non doveano per nulla giovargli. Egli non seppe né difendere Foligno né Perugia né gettarsi per tempo in Ancona.

XIV.— Alle ore dodici meridiane del martedì li settembre le truppe italiane varcarono il confine nelle vicinanze Arezzo e di Pesaro. Il quarto corpo comandato da Enrico Cialdini si diresse sopra quest'ultima città, e sboccando in tre colonne, contemporaneamente marciò in fretta alla volta di Fano ed Urbino. Pesaro fu presa d'assalto la sera medesima dalla prima divisione guidata dallo stesso Cialdini, mentre il presidio papale si riparava nella vicina fortezza. Questa attaccata vivamente dalle truppe italiane e cannoneggiata per tutta la notte si arrendette il susseguente mattino, deponendo il presidio le armi e dichiarandosi prigioniero di guerra. La tredicesima divisione occupava al tempo stesso l'importante città di Urbino, dove la rivoluzione aveva di già disarmato le truppe papali e proclamato il governo italiano. Circa duemila prigioni e varii pezzi da fortezza e da campo oltre una gran quantità di munizioni e di viveri furono i frutti di quei primi gloriosissimi scontri.

XV.— Lo stesso giorno 11 la brigata granatieri di Sardegna appartenente al quinto corpo, dopo breve combattimento, occupava Città di Castello, facendovi prigione di guerra l'intiero presidio. Il 12 fu speso in marcie e contromarcie ad esplorare il terreno e a deludere la vigilanza nemica sulle operazioni che nei giorni seguenti volevansi compiere. Il 13 l’avanguardia della decimaterza divisione comandata dal maggior generale De-Sonnaz, composta della brigata granatieri di Sardegna, del sedicesimo battaglione bersaglieri, della quinta batteria dell'ottavo reggimento artiglieri e della prima compagnia secondo zappatori del genio, dopo rapida marcia penetrava in Perugia. La città dai mercenari pontificii fu strenuamente difesa: ma dopo un fuoco vivissimo sostenuto di contrada in contrada i nostri s'impadronirono di tutte le posizioni e costrinsero i vinti a rifugiarsi dietro gli spaldi del forte.

XVI.— Questo venne circondato all'istante ed i nostri riaprirono il fuoco. In quel frattempo sopraggiungeva il generale La Rocca colla brigata granatieri di Lombardia, col nono e il quattordicesimo bersaglieri, una batteria da sedici ed una di obici appartenenti all'ottavo, e il combattimento fu ripreso con nuovo e inusato vigore. La fortezza ne fu completamente investita, né agli assediati rimaneva oggimai a sperare che nella generosità de' nemici. Il generale Schmidt, vista la mala parata e l'impossibilità di resistere, si dispose a trattare col generalissimo italiano la resa: ma non avendo potuto convenire sulle condizioni il combattimento si riaccese verso sera con indicibile furia. Il fragore dei cannoni italiani più eloquentemente parlava al cuore del general pontificio che non tutte le minacele di Fanti: sicché dopo brevissimo attacco il presidio s'arrese costituendosi prigione di guerra (249). Da quel # punto l'esercito sardo, avendo operato la sua congiunzione poteva Rivolgersi ad altre e più decisive intraprese.

XVII.— L'estrema sinistra, occupato Pesaro e Fano, giungeva la sera stessa del 13 a Sinigaglia, dove soffermavasi il giorno seguente ad attendervi le artiglierie che in causa delle orribili strade avevano dovuto rimanersene addietro. I soldati pervennero a Sinigaglia affranti dalle fatiche sostenute in lunghe e malagevolissime marcie: non di meno i Lancieri di Milano e parte di due battaglioni della settima inseguirono lo stesso giorno una colonna di Pontificii in ritirata su Ancona, sbaragliandoli completamente e facendone prigioni duecento.

XVIII.— La decimaterza divisione marciava da Urbino per la via di Fossombrone e di Cagli, dirigendosi sulla strada di Cantiano e di Scheggia per Gubbio e fortemente occupando i due versanti degli Appennini per modo da poter mantenere le comunicazioni fra le due ali dell'armata italiana. Il 15 Cialdini, lasciata Sinigaglia, operava in Valle d'Esino, impadronivasi di Jesi e di Torre di Jesi e distendevasi a Genga ed a Sassoferrato e verso Arcevia nelle vicinanze d'Ancona. Contemporaneamente l'estrema destra proseguiva il movimento offensivo nell'interno del paese e presentavasi davanti a Foligno. Questa piccola città, ma importantissima per la sua posizione, come quella che domina la strada di Spoleto e Perugia, cadde la sera del 15 in potere dell'armi italiane. I Pontificii vi perdettero circa trecento soldati e gendarmi, gran quantità di provvigioni d'ogni genere e la possibilità di ritirarsi, in caso di rotta, sull’agro romano.

XIX.— Fino dal giorno 8 Lamoricière erasi da Spoleto lentamente avanzato verso la città di Foligno, dove il generale Pimodan aveva potuto raccogliere i distaccamenti accantonati nelle vicine fortezze. I presidii stazionati lungo le frontiere settentrionali erano stati, comesi disse, sorpresi e costretti ad abbassare le armi} per cut non si poterono concentrare a Foligno se non le truppe anteriormente disposte lungo il confine degli Abbruzzi e nell'interno della provincia. L'armata frattanto che Lamoricière potè raggranellare nel brevissimo spazio di tempo concessogli dalla rapidità delle mosso nemiche ammontava a mal'appena a sette od otto mila soldati. Né con forze si esigue e sproporzionate al numero degl'invasori poteva egli sperare di compire alcun che di vantaggioso odi grande: esporsi con esse ad un combattimento campale sarebbe stato quanto abbandonarsi al destino e gettarsi in non dubbia rovina. Non rimanevagli che cercare una posizione fortificata nella quale potesse racchiudersi e resistere e differire una sconfitta divenuta oggimai inevitabile.

XX.— Un piano fu tosto tracciato e adottato. Consisteva esso in abbandonare senza ulteriore difesa al nemico la parte occidentale e meridionale delle provincie papali, in marciare celeramente sulla via di Tolentino e Macerata, in richiamare le piccole squadriglie tuttora disseminate lungo le coste dell'Adriatico da Ascoli ad Osimo e in gettarsi in Ancona col maggior numero di truppe possibile, prima che Cialdini riuscisse a intercludergli il varco fra le strette di Filotrano e in Cingoli. In conseguenza di tale divisamento egli abbandonava il 14 l'importante posizione di Foligno, marciando sulla via di Serravalle e Valcimara a Macerata. Scegli fosse riuscito a racchiudersi in Ancona colle truppe ancora intere che seco guidava non v'ha dubbio che la fortezza avrebbe potuto per varii giorni resistere all'attacco delle forze italiane. Forse Lamoricière nutriva lusinga che l'Austria o la Francia sarebbero intervenute in appresso ad arrestare i progressi di Fanti. Folle speranza che gli avvenimenti di pochi giorni doveano disperdere come l'ultimo sogno dell'egro. La Francia non voleva né l'Austria poteva assumersi la tremenda responsabilità di riaccendere in Italia la guerra straniera.

XXI.— Conosciuti per mezzo de suoi esploratori i progetti del generale nemico, Fanti, intervertendo il primitivo suo piano, emanava le istruzioni opportune ad arrestarne i progressi e la marcia e a precludergli la strada di Ancona. Alla decimaterza divisione di già pervenuta a Gualdo Tadino si diede ordine di piegare a sinistra, di ripassare gli Appennini e d'inoltrarsi per la via di Potenza sino a San Raimondo ed a San Severino. Al medesimo tempo l'ala destra. accampata a Foligno veniva perla valle del Chienti diretta verso l'Adriatico ed aveva istruzione di occupare al più presto Tolentino e Montolmo. Dal canto suo il generale Cialdini ascendendo la valle dell'Esino si portava a marcia forzata a mezzogiorno di Ancona e impadronivasi senza colpo ferire delle importantissime alture di Castelfidardo. e di Osimo.

XXII.— Il movimento in avanti del generale Cialdini fu eseguito colla massima energia e celerità ed ottenne il più completo successo. I soldati in ventott'ore di marcia forzata traverso un paese montuoso e malagevole e sovente senza traccia di strada militare, percorsero uno spazio di ben trentotto miglia geografiche: eglino giunsero stanchi, trafelati e distrutti dai disagi e dalla fame, senza aver nulla perduto dell'usato valore e della solita audacia. Cialdini dispose la sera sera stessa le sue truppe tra Osimo e Castelfidardo e spinse le due ali per modo da intercettare al tempo stesso al nemico la via che da Sambucheto ed Osimo e quella che da Loreto ad Umana seguendo la spiaggia del mare conduce ad Ancona.

XXIII.— Cosi l'intiera armata italiana stringevasi a guisa di semicerchio intorno il piccolo esercito pontificio ed avviluppavalo da tutte le parti ad un tempo. Lamoricière si trovava nella più critica e desolante situazione in cui generale d'armata si fosse mai posto: da tre Iati aveva il nemico, dall’altro il mare Adriatico. I suoi progetti avevano fallito, i nemici l’avevan prevenuto: né poteva sperare di raggiungere Ancona se non aprendosi a forza la strada e passando sul campo italiano. La necessità costringevate o ad appiccar la battaglia in condizioni sommamente sinistre o a deporre le armi ed arrendersi. Cosi una saggia manovra bastava ad accelerare la soluzione dell'arduo problema ed uno sprecò maggiore di tempo e di sangue.

XXIV.— L'armata pontificia in quel turno occupava sulla sponda sinistra del fiume Potenza. Recanati e Loreto, e spingeva l'avanguardo sulla via di Filotrano e verso le alture di Osimo sino alle rive del picciol torrente Musone, in allora per le abbondantissime pioggie a dismisura cresciuto. La cavalleria accampata presso la riva del mare difendeva la destra e minacciava la linea di Umana e Scirolo.

XXV.— Lamoricière impértanto ubbidiva alla necessità ineluttabile di tentare la sorte delle armi e d'aprirsi, se pur era possibile, un passaggio, alla fortezza d'Ancona. A tale oggetto doveva egli precipitar le sue mosse, perché ritardando sarebbesi esposto al pericolo di vedere le sue truppe avviluppale dall'astuto avversario e prese fra tre fuochi ad un tempo. Se non che a penetrare ad Ancona due sole vie gli restavano: quella di Umana e Scirolo e Massignano lungo la spiaggia del mare, e l'altra per Osimo e Castelfidardo dove Cialdini teneva il suo centro.

XXVI.— Incontanente, col mezze di segnali preventivamente concertati e di apposito messaggio, mandava al presidio accantonato in Ancona istruzioni che miravano ad agevolargli la riuscita di quel suo tentativo. Ad un dato punto le truppe Pontificie lanciandosi oltre il Musone avrebbero furiosamente assalito il campo di Cialdini a Castelfidardo ed Osimo, mentre le schiere della fortezza irrompendo all'improvviso, si sarebbero portate ad attaccarlo alle spalle. Riunendo e convergendo gli sforzi della guarnigione e dell'armata Lamoricière forse ripromettevasi un felice risultato: l'infelice non Sapeva che l'antiveggenza del generale Gialdini tutto aveva di già prevenuto.

XXVII.— Gialdini avea fatto occupare dal brigadiere Gugia il villaggio di Camerano posto nel centro presso a poco ad uguale distanza dalle due strade che mettono da Loreto ad Ancona. Il brigadiere, avente a' suoi ordini la brigata tomo, doveva sorvegliare le mosse del corpo nemico che supponevasi sarebbe uscito da Ancona a sostenere e a cooperare col resto dell'armata papale. Pel caso che il presidio d'Ancona avesse tentalo avanzarsi lungo la spiaggia a Scirolo ed Umana sarebbe stato certissimo indizio che il generale Pontificio divisava ad ogni costo salvarsi nella fortezza col sacrificio eziandio delle artiglierie e dell'esercito.

XXVIII.— Il 18 settembre fu il giorno del grande conflitto. Il mattino una forte colonna pontificia per la massima parte composta di volontari francesi e belgi, guidata dal legittimista generale Pimodan, furiosamente attaccò l’avanguardo dei nostri, formato dal ventesimosesto battaglione bersaglieri, presso il confluente del Musone colf Aspio. L'impeto straordinario del nemico avea fatto sulle prime sospettare che quello non fosse un che finto attacco eseguito soltanto ad oggetto di mascherare o di colorire ignoti ed occulti disegni. Ma durando accanita la zuffa ed accortosi che Pimodan intendeva ad ogni costo superare l'investita posizione, Cialdini mandava di colonnello Bossoli col decimo reggimento di fanteria a sostegno dei bersaglieri i quali benché in piccolo numero valorosamente tuttavia resistevano. Egli intanto portava il nerbo delle sue forze in avanti verso il Musone occupando fortemente il ponte che attraversa l'Aspio dalle Crocette stesse ad Umana.

XXIX.— Il corpo uscito da Ancona urtava frattanto alle spalle Pala sinistra dell'armata italiana già pronta ed apparecchiata a riceverla. Anzi, secondo le avute istruzioni, si lasciò che i Papalini si avanzassero verso Scirolo ed Umana, senza dubbio allo scopo di chiuderli in appresso da tergo o sbarrar loro il ritorno. Le truppe del presidio, ancorché scarse di numero, combatterono con accanimento feroce: ma tutti gli sforzi erano vani contro la fortuna ed il valore dei Sardi.

XXX.— In poco d'ora il combattimento s'estese a destra e a sinistra ed avvolgeva i due competitori in un globo di fumo e di fuoco. Da una parte e dall'altra si lottava con uguale coraggio ed ardore se non con pari successo: da una parte e dall'altra si avevano a deplorare gravissime perdite. Le colonne del generale Pimodan furono ripetutamente respinte e ciò nulla ostante l'ostinato condottiero riveniva sempre più animoso alla carica. A diverse riprese mirava egli ad impadronirsi a viva forza del ciglio dominante la posizione dei nostri, ma sempre colla stessa infruttuosa riuscita. Malgrado le benedizioni del Santissimo Padre la vittoria aveva decisamente voltato le spalle all'armata del Papa.

XXXI.— La battaglia durava già da più ore con evidente vantaggio dei Sardi, ma non col vantaggio che decide delle sorti d'un giorno, tomo quello, memorando e fatale. Sebbene avessero subito gravissime perdite ed ancorché resito della giornata s'inclinasse sfavorevole dal lato dei Pontificii, questi continuavano ad attaccare con disperata intrepidezza e con sempre crescente furore. Al generale Pimodan, caduto mortalmente ferito, succedeva il Lamoricière e il combattimento proseguiva accanito come ancora sembrasse ai Pontificii possibile il vincere. Il Lamoricière in due successivi attacchi venne del pari e con perdite gravi ributtato e respinto; né gli valse rinfrescar la battaglia con tutte le forze che avea di riserva. La giornata appariva irremissibilmente perduta e solo oggimai rimanevagli tentare un decisivo ed ultimo sforzo fra Santa Casa di sopra e Santa Casa di sotto dove stava allineato il centro italiano. È su questo punto che la battaglia fervette per più ore, micidiale e tremenda al di là di quanto potrebbe idearsi.

XXXII.— Era quello infatti ristante che doveva pienamente risolvere il cruento problema di sì memorabile giorno. L'occhio vigile di Cialdini, che spaziava continuamente sul campo e rilevavano i più minuti e particolari accidenti, antevide la mossa del generale nemico ed accorse tosto al riparo. Rinforzi vennero quindi inviati sul luogo che pareva il più minacciato, e date le disposizioni opportune perché i Pontificii nel nuovo attacco fossero accolti con valore uguale alla loro baldanza. In tal guisa i due generali, stanchi forse del lungo contesto, con pensiero uniforme miravano a decidere in brevissimi istanti le sorti del loro vessillo. Consonanza e consociazione d'idee che talvolta s'incontra pur anco, quando posti in condizioni consimili, fra i più accaniti avversari!.

XXXIII.— Lamoricière, per divergere la nemica attenzione, spinse le sue ali in avanti verso le alture che proteggevano a destra e a sinistra l'accampamento dei Sardi. Egli intanto raccolto il maggior nerbo di truppe possibile, lo condusse in colonne serrale e in persona all'assalto del centro. Cosi pure la colonna uscita dalla fortezza, o tali fossero le sue istruzioni o indovinasse le mire del duce supremo, audacemente avanzavasi ad attaccare le spalle di Cugia e ad aprirsi la strada di Umana. Ma Cialdini, non' lasciandosi cogliere dall'arti del valente avversario e ben indovinando lo scopo di quei movimenti, dirigeva specialmente le sue forze a sostenere le posizioni centrali, certo che i Pontificii avrebbero tentato colà l'ultimo esperimento della loro fortuna.

XXXIV.— I Papalini, animati dalla presenza del generalissimo ed esasperati dalle perdite tocche, s'azzuffarono e combatterono con disperato coraggio ed audacia. La resistenza fu pari a quell'urto terribile: Lamoricière dovette persuadersi che invano tentava un' impresa impossibile. I Papalini vennero con orribile carnificina respinti: né per questo atterriti o perdutisi d'animo, approfittando di alcuni cascinali che a case trovavansi sulla loro linea e che presentavano un punto d'appoggio e difesa, vi si trincierarono e riaprirono un vivissimo fuoco. Invano le artiglierie li fulminavano di fronte e dai lati; erano eglino risoluti a contrastare con imperturbabile sangue freddo e sino all'ultimo la già perduta vittoria. Ma tosto dopo, sopraggiunti novelli rinforzi, i soldati italiani, abbandonando le lor posizioni, poterono prendere l'offensiva ed avventurarsi alla loro volta sulle sgominate e debellate schiere nemiche. I Pontificii, dopo la più viva resistenza, furono snidati dalle cascine e successivamente rincacciati al Musone.

XXV.— Da quell'istante la rotta fu piena 9 completa; la resistenza divenne impossibile. Inseguiti dai Sardi colle baionette alle reni i Pontifici i si diedero a fuga precipitosa oltre il Musone sulla via di Loreto. Le ali estreme, trascinate dal torrente, dovettero esse pure ritirarsi in pieno disordine onde l'avversario, vincitore sul centro, non avesse ad avvilupparle e completamente distruggerle. L'armata papalina in quel giorno perdette 400 prigionieri, una moltitudine di morti e feriti tra i quali il generale Pimodan, rinvenuto spirante, poco appresso, dai nostri. Restarono inoltre sul campo le artiglierie, una infinità d'armi, i cassoni, le salmerie, i bagagli ed una prodigiosa quantità di zaini o sacchi cui i valenti campioni del Papa aveano gettato per essere più pronti C spediti alla fuga.

XXXVI.— Veduta la piena e fatale sconfitta de' suoi, Lamoricière abbandonò in tutta fretta il campo di battaglia ed, accompagnato da forse una trentina di guide a cavallo e da alcuni dignitari dell'armata, piegando alla destra per una strada coperta fuggi verso il mare. Approfittando del trambusto e del disordine, inseparabili conseguenze dei decisivi conflitti, egli sperava inosservato percorrere da quella parte la strada di Umana e ripararsi nella vicina fortezza. E la fortuna secondò i suoi divisamento imperciocché gli italiani, unicamente occupati a disperdere e a sbaragliare le schiere nemiche, non s avvidero della fuga di lui se non quando si trovava già in salvo.

XXXVII.— Il generale Cialdini impartiva alle truppe accampate a Camerano l'ordine di portarsi rapidamente verso Massignano ad oggetto d'intercettare la ritirata alle truppe nemiche uscite da Ancona. Il nono reggimento doveva nel medesimo tempo sboccare dal ponte dell'Aspio e dirigersi al villaggio di Umana e prenderle cosi tra due fuochi. Se non che i Pontificii, previsto il colpo, s'erano di già ritirati verso la fortezza non così rapidamente però che al nono reggimento comandato dal brigadiere Avenali non riuscisse assalire il retroguardo e fare duecento e settanta prigioni, fra cui diecisette ufficiali.

XXXVIII.— Allora il generale Cialdini rivolse le cure e la mente a trarre il più ampio vantaggio di sì bella e brillante vittoria. Il nemico promiscuamente accentrato in Loreto e nei luoghi adiacenti, confuso, sgominalo e atterrito dall'avuta sconfitta e privo del generalissimo, doveva trovarsi in un disordine estremo. La stanchezza e il terrore non gli avrebbero permesso, non che ¿li opporre difesa o resistenza, di muoversi. Perciò, giovandosi dell'oscurità della notte, Cialdini diviso l'esercito, mandò ad occupare Sant’Agostino e le Case Lunghe e lo sbocco della vai del Potenza sino a Recanati chiudendo per tal modo ai Papalini qualunque possibilità di ritirata o di scampo. Gli ordini dati da lui vennero felicemente compiuti: ed alla punta dell'alba le truppe italiane si trovarono tutte sulle posizioni che furono loro assegnate.

XXXIX. I Pontificii, vistisi da ogni parte rinchiusi tra l'armata italiana ed il mare, deposto ogn'altro pensiero, chiesero venire a una resa. In conseguenza di ciò quattro mila soldati papali col resto delle guide che Lamoricière non avea potuto il giorno antecedente condur seco in Ancona deposero, davanti a Recanati, le armi e si riconobbero prigionieri di guerra. Gl'Italiani s'impossessarono inoltre di undici pezzi d'artiglieria di campagna, di gran copia di munizioni e bagagli e diversi cavalli e carriaggi. Pochi soldati papali, in numero di circa trecento ed indigeni lutti, poterono soli sfuggire alla sorte dei loro compagni: scambiato il militare uniforme con abili contadineschi e travestiti in tal guisa, riuscirono col favor della notte a guadagnare le vicine montagne e a disperdersi. Ma la sorte fu loro contraria più di quanto temere potessero: eglino caddero il giorno dopo in potere delle colonne mobili appartenenti al quarto corpo ed al quinto che da Gualdo Tadino a Macerata chiudevano le valli del Potenza e del Chienti. Lo stesso giorno 20 settembre l'armata italiana penetrava trionfante in Loreto, e il generalissimo Fanti vi poneva poco dopo il suo quartier generale.

XL.— L'avanguardia del quinto corpo il 19 pernottò a Tolentino, e il 20 con rapida marcia si portò a Macerata dove si riunì colla decimaterza divisione proveniente da Gualdo, e procedette con essa a Recanati e a Loreto. Simultaneamente Cialdini si diresse alla volta d'Ancona, essendo volere di Fanti che fosse la detta fortezza al più presto investita ed espugnata. La squadra reale comandata dal contr'ammiraglio Carlo Pellione di Persano era già pervenuta, sino dal mattino del giorno 18 davanti alla città, ed aveva tentato una ricognizione dal lato del mare. Essa doveva potentemente cooperare coll'armata di terra ed agevolare a Cialdini la scabrosa e difficile impresa.

XLI.— Il maggior generale Brignone alla testa di un corpo composto del reggimento Granatieri, del nono Bersaglieri, della sesta batteria dell'ottavo e due squadroni di Nizza Cavalleria, da Foligno il mattino del 46 procedette a Spoleto davanti alla quale città pervenne il prossimo giorno 17, e vivamente l'attaccò da due lati ad un tempo. I Pontificii trincerati nell'antico castello opposero la più viva difesa nutrendo un fuoco incessante di artiglieria e di fucile. I Sardi assalirono con incredibile slancio l'ingresso medesimo del forte conteso, mentre i cannoni, felicemente appostati, bersagliavano senza posa da una piccola eminenza il nemico e la rocca. Alla sera la breccia era aperta e si aspettava dai nostri il mattino a ritentare con maggiore probabilità di successo l'assalto. Se non che il presidio, perdutosi d'animo, scese la medesima notte agli accordi e si costituì prigioniero di guerra. Ottocento prigionieri, tre cannoni, magazzini di armi, munizioni e vestiarii furono i trofei dell'insigne vittoria.

XLII.— Il 18 settembre, mentre a Castelfidardo si combatteva e vincevasi, lo stesso maggior generale Brignone proseguiva col suo corpo ad occupare le importanti città di Terni, di Narni e Rieti. Circa settecento prigioni furono il frutto di questa novella escursione.

XLIII.— Il corpo dei volontari sotto gli ordini di Orlandi e di Masi, che sino dal cominciar della guerra aveva servito d'avanguardia alle divisioni italiane ed era stato destinato a provocare rivoluzioni e tumulti che Fanti riserbavasi a pacificare in appresso, divenuto parte dell'esercito attivo crasi nel frattempo avanzato ad Orvieto, a Viterbo ed a Civitacastellana. Esso dovunque fu accolto con enfatiche esplosioni di gioia e compì la sua missione in maniera che non si avrebbe potuto desiderare di meglio: al suo avvicinarsi, le borgate e i villaggi insorgevano, i popolani accorrevano ad accrescere le sue file ed a facilitargli la marcia ed il trionfo. Per opera di quei bravi soldati della libertà, la bandiera italiana sventolava il giorno 22 settembre a quaranta miglia da Roma, e il papa dal Vaticano avrebbe potuto vederla fiammeggiare alla luce del libero sole.

XLIV.— Tali furono i vantaggi che i volontari arrecarono alla patria: resta ora a conoscere qual fosse la sorte che i moderati avevano loro serbato. Appena entrate le truppe regolari ad Orvieto e a Viterbo venne ai volontari significalo che per ordine superiore eglino dovevano atristante retrocedere e sgomberare nel termine di quattro giorni le terre delle Marche e dell'Umbria. Quegli infelici che avevano percorso in pochissimo tempo e sempre a marcia forzata ben oltre cento miglia italiane, traversando montagne, valicando fiumi o torrenti e sormontando incredibili ostacoli, giunti alla meta della loro carriera e quando maggiormente trovavansi in necessità di riposo, furono per un capriccio proconsolare condannati a rifare la lunga e penosissima strada ed a ricondursi nelle già legazioni papali. Ed altra scelta non lasciavasi loro che od incorporarsi nell'armata regolare o ritornare alla vita privata.

XLV.— L'ingrata condotta di Fanti in riguardo di quei generosi, comunque essa possa sembrare a taluni inescusabile o strana, era perfettamente logica ed in completa armonia cogl'interessi e principii della consorteria moderata. La missione affidata ai volontari e ch'eglino, conscii od inconscii, spontaneamente accettarono, come sopra si disse, fu quella di precorrere l'esercito sardo e di suscitare o provocare rivoluzioni o tumulti ch'esso sarebbe venuto in appresso a sedare.. Mentre i Pontificii tenevano le città e le castella era utilissima cosa che i rivoluzionarii in mezzo ad essi accampassero e vi mantenessero uno stato di ribellione e disordine: ma posciaché le provincie stavano per intiero in signoria dell'armi italiane la rivoluzione e i rivoluzionarii doveando sparire e ritrarsi. Fanti e Cialdini erano intervenuti nelle Marche al solo fine di mettervi l'ordine: e dove l'ordine regna nulla rimane ai volontari da fare. Un mese più tardi la medesima sorte toccava ai generosi che avevano gloriosamente liberato due regni e riunite all'Italia la Sicilia e e le provincie di Napoli.

XLVI.— Da Loreto Fanti distaccava alcune colonne mobili destinate a battere il paese a distruggere ogni traccia del passato dominio ed a ricondurlo nel grembo della nazionalità italiana. Un forte corpo di truppe, consistente in fanteria, cavalleria ed un battaglione di bersaglieri, venne contemporaneamente spedito alla volta di Fermo e d'Ascoli, dove la pubblica voce diceva trovarsi raccolto buon nerbo di forze nemiche. Come per solito avviene in tempo di guerra, cotali voci non avevano fondamento di sorta: gl'Italiani s'impadronirono delle terre orientali del paese senza incontrare dalla parte dell'atterrito avversario la menoma resistenza od opposizione. Poco appresso trionfalmente penetrarono in Fermo ed in Ascoli e vi fecero ben settecento prigioni con circa ottanta cavalli. Per tal modo il 24 settembre la bandiera tricolore sventolava da Viterbo a Rieti e ad Ascoli e lungo il confine abbruzzese.

XLVII.— Il 22 di settembre l'armata italiana operava il suo concentramento davanti alla fortezza d'Ancona, ultimo propugnacolo rimasto. alla crollante sovranità pontificia. Il 23 di buon mattino recandosi Fanti sul luogo si diede a visitare le posizioni e ad esaminare, secondo il costume di guerra, la piazza. Poco appresso date le disposizioni necessarie all'esercito e presi gli opportuni concerti col conte Persano, strinse ad un tempo la città dalla parte di terra e di mare.

XLVIII.— Ancona, città ragguardevole e di somma importanza per le operazioni commerciali e strategiche, giace a cavaliere d'un colle pittoresco ed ameno che sporge nel mare Adriatico di contro alle coste d'Epiro. Essa, come quasi tutte le città dell'Italia centrale, è d'antica struttura: le strade per la massima parte si presentano anguste e tortuose, le case massiccio e nerastre, le quali cose le danno un aspetto malinconico e triste. La sua forma è quella d'un vasto teatro che stendesi per circa tre miglia e racchiude fra le sue estremità un capace e rinomatissimo porto, l’emporio di presso che tutto il commercio delle antiche provincie papali. Le sue fortificazioni, già celebri nelle guerre dei tempi di mezzo, vennero negli ultimi anni grandemente aumentate e munite con tutte le regole dell'arte moderna; ed inoltre possiede un campo trincierato sufficiente a contenere e a proteggere un esercito di trenta a quaranta mila soldati.

XLIX.— Al di fuori è circondata da una successione di colli, più o meno dirupati e scoscesi, che si distendono a semicerchio guardando il campo trincierato, la campagna adiacente ed il mare. Le ondulazioni loro formano altrettanti punti alti mirabilmente alla difesa ed all'attacco della vicina fortezza. Alcuni di essi e i più prossimi furono non ha guari muniti di opere militari o trinciere ad oggetto d'impedire ai nemici gli approcci e accesso ai sobborghi ed al campo. I colli più discosti furono lasciati liberi, ma la distanza medesima presenta gravissimi ostacoli all'assalto e alla espugnazione della importante città.

L. —L'esercito sardo intorno ad Ancona il 23 di settembre stava disposto nel modo seguente. A sinistra Cialdini col suo corpo occupava le alture che guardavano il Lazzaretto e le fortificazioni del nord: il quinto corpo sotto gli ordini del generale La Rocca si allineava di fronte al Gardetto ed al campo trincierato posto al sud dell'assediala città. Finalmente la flotta incrociava sul davanti del porto.

LI.— Il piano d'attacco venne cosi stabilito. Il generale La Rocca doveva vivacemente assalire le alture fortificate di monte Pelago e di monte Pulito ed aprirsi in tal modo la strada all’attacco del forte il Gardetto. Era quello il punto a cui doveano convergere gli sforzi principali dell'armata italiana, come quello che a Fanti, e a ragione, sembrava il più vulnerabile. Allo stesso tempo la squadra navale, ancorata dietro le falde di monte Acuto e da queste in parte coperta, aveva ordine di battere le fortificazioni pontificie e di agevolare gli approcci dei nostri. Dall'altro lato Cialdini avrebbe col massimo vigore aperto il fuoco a sinistra e battuto la Lunetta Scrima e il sobborgo di Porta Pia. Quest'ultimo attacco era simulato ed avea per oggetto di nascondere al generale nemico le vere intenzioni del Duce italiano.

LII.— Le artiglierie italiane inauguravano il giorno 24 Vassallo fulminando con frequenti e ben aggiustati tiri le opere esterne e gli avamposti nemici. La tredicesima divisione slanciandosi in pari tempo sull'estrema sinistra a viva forza insignorivasi della Lunetta Scrima, mentre la settima, respinto il nemico, occupava la china dei monti Ago e Pedocchio. Né meno gloriosi. sebbene non meno ad ottenersi difficili, furono i risultati degli sforzi diretti alla destra d'Ancona. I Pontificii vennero sanguinosamente rincacciati dalle sommità dei monti Acuto e Pulito e i nostri si misero in posizione di offendere direttamente il forte dei Cappuccini e il Gardetto. La sera il forte San Leo era caduto nelle mani dei nostri che vi fecero prigione l’intiero presidio. La flotta durante quel giorno aveva, per quanto le circostanze il permettevano, potentemente cooperalo al successo dei Sardi.

LIII.— Il giorno stesso, dopo incredibili stenti e fatiche, avevano i Sardi potuto operare lo sbarco del parco d'assedio nel piccolo porto d'Umana. Ordini furono ben tosto diramati che tutti i cavalli ed i carriaggi disponibili dell'artiglieria, del treno e dei quartieri generali si avviassero colà ad accelerarne il trasporto al monte Acuto.

LIV.— Il seguente mattino 26, Fanti, raccolti a consiglio i generali Menabrea e La Rocca, combinava con essi l'attacco di Pietra della Croce, dond'egli sperala potere assai meglio dirigere il fuoco contro le fortificazioni del Pelago. Poco appresso La Rocca date al maggior generale Savoiroux comandante la riserva le opportune istruzioni, spingeva all'assalto la brigata Bologna condotta da Pinelli e il vigesimoterzo e vigesimo quinto Bersaglieri. Le truppe, animate dalla voce e dall'esempio dei loro ufficiali, caricarono con indicibile slancio il nemico e malgrado una vivissima fucilata penetrarono nel villaggio e costrinsero i Pontifici'! a fuggire con orribili perdite. Quasi nel medesimo istante la settima compagnia del trigesimonono e la settima del quarantesimo, reggimento fanteria, procedendo a passo di carica, giunsero agli spaldi della stessa fortezza del Pelago. Allora Savoiroux si mosse colla riserva, mentre Pinelli investiva correndo la posizioni? nemica e vi penetrava inalberando sull’alto de! monte il tricolore italiano. All’esito contribuiva l'undecimo Bersaglieri di Cugia mandato a coadiuvare sul fianco sinistro all'attacco dei nostri.

LIV.— I vincitori non istettero ad esaminare più oltre, ma slanciandosi colla massima furia a perseguitare il fuggente nemico sopraggiunsero con esso alle trinciere di monte Pelago, e malgrado il profondo fossato e il parapetto che queste opponevano se ne resero in pochissimo tempo padroni. Per tal modo i Pontificii vennero simultaneamente respinti da tre posizioni ritenute quasi imprendibili e rincacciati nella periferia del campo trincierato e della fortezza.

LVI.— Il giorno stesso Cialdini otteneva sull'estrema sinistra i vantaggi medesimi. Il quadragesimonono reggimento della brigata Parma secondato dal sesto, dal settimo e dal duodecimo Bersaglieri investiva con l’usato valore il sobborgo di Porta Pia ed espugnatalo obbligando il nemico a rinchiudersi dietro le mura d’Ancona.

LVII.— Il 27 fu speso in ricognizioni. in tracciare i disegni ed in fare gli opportuni apparecchi pel prossimo e decisivo conflitto. A destra e a sinistra il nemico era stato costretto ad abbandonare i posti avanzati ed a perdere l'una dopo l’altra le esterne trinciere sulle quali avea tanto contato. Non rimanevagli oggimai che lo spazio occupato dalla città, e questo ancora mal guardato e difeso per la distruzione delle opere che ne avevano formato il principale riparo. La valentia del Lamoricière e l’ardire disperato del presidio non avevano ad altro servito che ad accrescere la gloria dei loro avversari ed i proprii disastri. Ancona trovavasi rinchiusa in una cerchia di ferro e sottoposta ad un bombardamento generale dal lato di terra e di mare. Gli Italiani s'ostinavano a forza di braccia a trascinare sul vertice del monte Acuto il parco d'assedio che doveva ben presto fulminar la città. Le batterie sarde si vedevano in costruzione sull'alto del monte senza che i cannoni pontificii valessero a molestare gli artiglieri e i zappatori italiani. Per colmo di sventura la notte seguente del 27 al 28 i Papalini perdettero pur anche il Lazzaretto, cui il sesto Bersaglieri, attraversando il braccio di mare che dividevalo da terra, aveva improvvisamente assalito e prestamente espugnato. La situazione del presidio appariva oramai cosi critica che sino, dal 28 in città si parlava della prossima resa.

LVIII.— La notte stessa del 28 il conte Persano, armate le grosse scialuppe della squadra e postosi egli stesso alla testa, tentò con audacissimo colpo di mano spezzare o divellere la salda catena la quale chiudeva la bocca del porto. Tale operazione, sebbene condotta col massimo sangue freddo e vigore, non produsse verun risultato, poiché la catena medesima stava troppo fermamente confitta e giaceva troppo basso sott'acqua perché i Sardi potesser si tosto strapparla. Eglino perdurarono ostinati, malgrado un vivissimo fuoco a mitraglia che veniva vomitato dai vicini ridotti, ma invano: alla fine si trovarono costretti ad abbandonare l'impresa e a ritrarsi.

LIX.— Il 28 settembre la squadra italiana allineavasi in ordine di battaglia davanti alla bocca del porto, e s'accingeva ad oppugnare le nemiche batterie del Molo, del forte Gardetto e dei vicini bastioni. Il sesto Bersaglieri dal Lazzaretto nutriva un terribile fuoco, mentre l'intiera armata con incredibile audacia veniva all'assalto. I Pontificii sul Lazzaretto, che primo diede segni di vita, diressero parte delle artiglierie del campo trincierato, del Molo e di Porta Pia, ma con poco o nessun risultato.

LX.— La principale difesa di mare consisteva nelle artiglierie distribuite sui due Moli, quasi perpendicolari fra loro, che chiudono dal lato sinistro l’ingresso del porto. Sul Molo esterno elevavasi la principale batteria a due ordini di fuochi e. coperta da un ridotto che serviva eziandio di riparo alla polveriera Contro questa la squadra diresse le sue operazioni: e mentre il Carlo Alberto, mantenendosi immobile, batteva dall'alto il ridotto, il conte Persano, avanzandosi a tutto vapore, s'appressava sul Vittorio Emanuele alla medesima batteria ed improvvisamente girando di fianco le inviava una terribile salva di palle e poscia allontanavasi incolume, tranquillo ed affatto securo di sé.

LXI.— Alcuni minuti dopo una densa colonna di fumo innalzavasi dal nemico ridotto e dalle casematte, da cui si vedeano i soldati fuggire disordinati e compresi di visibil terrore. Ma passati brevissimi istanti tutta si conobbe la causa di tanto spavento: un sordo fragore susseguito da un terribile scoppio annunciava ai soldati italiani che il magazzino della polvere era saltato; e come il vento dissipò la densa colonna di fumo scoprirono la nemica batteria ridotta ad un mucchio di rovine sotto le quali aveano trovato il sepolcro ben cento ventisei artiglieri papali.

LXII.— Le batterie collocate sui monti Pelago e Pulito e davanti alla Porta Pia facevano parimenti il loro dovere. I cannoni dei forti vicini erano stati in gran parte smontati, distrutti i ridotti ed aperta la breccia nelle mura stesse della città. Verso la sera si vide per alcuni istanti sventolare dal forte la bianca bandiera parlamentare; ma non presentandosi nessuno al quartier generale de' nostri il combattimento si riaccese più che mai vigoroso e tremendo.

LXIII.— Erano le 10 di notte ed il combattimento tuttavia continuava. Aveva Fanti risolto di non dare più posa al nemico sin che questi non si fosse deciso ad arrendersi. Nel sobborgo di Porla Pia vennero messi in posizione quattro pezzi d’artiglieria a bella posta sbarcati dal Monzambano ed inoltre Cialdini aveva ordine di sgombrare gli ostacoli e di penetrare a viva forza in Ancona. Al tempo stesso il quinto corpo avanzandosi ad assalire le Porte Calamo e Farina doveva esso pure tentarne l'espugnazione o per lo meno sorprendere il forte Gardetto.

LXIV.— Cosi trascorreva la notte, né la stanchezza eccessiva od il sonno rallentava il belligero ardore de' 5 nostri soldati. Dormiva la natura profondamente sepolta in un placido obblio: era queta l'oscurità ed il cielo stellato: solo nell'universale silenzio lo scoppio delle artiglierie e dei moschetti rimbombava con incessante ed orrendo fragore. Le bombe e le palle infuocate guizzavano per l’aere lasciandosi addietro vivissimi solchi di luce, e questa per intervalli rompendo l'opacità delle tenebre vieppiù cupe e spaventose rendevale. Lo spettacolo di un assalto notturno, contro una piazza assediata offre pur troppo l’immagine uva della distruzione, dello spavento e del caos.

LXV.— Mentre più fiero ferveva il conflitto un parlamentario pontificio uscito da Ancona e, secondo il costume di guerra, preceduto da bianca bandiera, dirigevasi al quartier generale dei Sardi. Era il cavaliere Mauri maggiore d'artiglieria e comandante la fortezza, che veniva senza mandato in iscritto a proporre a viva voce un armistizio di sei giorni. Al che il ministro italiano negando annuire, ridusse il limite del tempo domandando soltanto due giorni di tregua. Fanti ricusò nuovamente. Allora il papalino conchiuse col dire che Lamoricière stato sarebbe disposto a trattare la resa della città sulle basi stipulate nella capitolazione di Loreto. Il generale sardo osservò che non sarebbe difficile convenire sulle basi suddette, a condizione però che Lamoricière desse conto d'un'ingente somma in danaro che aveva pochi giorni avanti ritirato dalla cassa romana (250). Aggiunse quindi che il fuoco non avrebbe cessato sin che la dedizione stipulata non fosse e conchiusa. In seguito venne il maggiore licenziato consegnandogli una lettera Fanti pel generale Lamoricière la quale conteneva le condizioni che gli si volevano imporre.

LXVI.— Il combattimento proseguiva frattanto e durava per tutta la notte e il seguente mattino, sull’alba due compagnie del settimo Bersaglieri riuscirono, superando le muraglie di cinta, ad entrare in città ed aprire la Porta Pia che venne ben tosto occupata dai soldati della tredicesima. A destra la colonna del quinto corpo composta del decimoquarto e decimosesto Bersaglieri, del quarto reggimento di linea e d'una compagnia del Genio parimenti espugnava la porta Calamo, mentre la squadra, fatto un ultimo sforzo, sbarcava ed impossessavasi della Porta del Molo.

LXVII— Alle ore nove del mattino lo stesso cavaliere Mauri, accompagnato dal marchese Lepri capitano dei Dragoni, ritornava al quartier generale italiano recando più aperte e concludenti proposte di resa. Fanti, a ricevere le comunicazioni di Lamoricière e a stabilire i patti della dedizione, nominava il cavaliere De-Sonnaz ed il cavaliere Bartolé-Viale. Le discussioni ben tosto incominciarono con vivacità ed ostinatezza da una parte e dall’altra, sin che i parlamentari dichiararono non essere stati autorizzati a soscrivere la clausola che il presidio dopo essere uscito coll'onore delle armi avesse a deporle e costituirsi prigioniero di guerra. Eglino chiesero allora il tempo necessario a dimandare istruzioni, e Fanti permise che uno d'essi rientrasse in Ancona ad ottenere la ratifica del suo generale. Né l'assalto cessava malgrado che la dedizione si potesse stimare conchiusa.

LXVIII.— Ad un'ora e mezzo il marchese Lepri ritornava colla copia della convenzione firmata dallo stesso generale Lamoricière, ed istantaneamente il fuoco venne da entrambe le parti sospeso. Si riapersero le trattative e in poco d'ora si discusse, convenne e conchiuse: e redatti i verbali e l'atto di resa venne questo debitamente sottoscritto dai commissari incaricati all'oggetto, ed alle ore due e mezzo del 29 settembre la campagna delle Marche e dell'Umbria giungeva al suo termine.

LXIX.— La sera stessa le truppe del quarto corpo occuparono la Porta Pia, il Lazzaretto, la fortezza ed il campo trincierato: quelle del quinto la Lunetta di Santo Stefano, il Gardetto e le Porte Farina e Calamo: e finalmente la squadra prendeva possesso del Molo, di Porta del Molo e della Lanterna.

LXX.— Il mattino del 30 l'intiero presidio nemico, in numero di settemila soldati con trecento quarantotto ufficiali e tre generali, usciva dalla fortezza coll’onore delle armi, cui, a tenore della capitolazione, consegnava alla Torretta e si costituiva prigione di guerra. Lo stesso Lamoricière dovette cedere quella spada che aveva con gloria portato, servendo la patria e non un imbelle e abborrito tiranno, fra le sabbie e i deserti dell'Africa. E fu volere d'un provvidenziale destino che il condusse all'estremo della umiliazione in un paese già da lui con ¡stolte parole calunniato ed offeso. L’uomo che aveva osato asserire che gì Italiani mal sapevano battersi dovette vedere le antiche sue glorie atterrate e gli allori sfrondali da mani italiane. Caddero in potere dei nostri ben ventotto cannoni da campo, cento sessanta da fortezza, ventimila fucili, circa quindicimila prigioni, oltre un milione di lire, cinquecento cavalli ed immensi magazzini di vestiari, foraggi di munizioni e di viveri. Diciotto giorni bastarono a liberare il paese da quell'orda di barbari che pel volgere di più mesi ne fecero sì aspro governo.

LXXI.— Il marchese Pepoli e. Lorenzo Valerio, entrambi nominati con decreto del 12 settembre governatori civili delle Marche e dell'Umbria, aveano frattanto stabilito su quelle provincie l'autorità governativa del conte Cavour. Le popolazioni, non meno dell'armata, esultanti del trionfo, salutarono con trasporti di giubilo la nuova èra che loro s'apriva davanti, aderirono ai principii monarchici professati dall'immensa maggioranza de! paese ed apertamente manifestarono il volere di essere congiunti all'Italia. In conseguenza quando esse furono più tardi chiamale a decidere per suffragio universale dei loro destini, la quasi totalità dei voti cadde sullo stabilimento della monarchia costituzionale e sulla italiana unità.

LXXII.— Ricondotta in tal guisa la tranquillità e la pace nell'Italia centrale, il governo sardo poteva rivolgere i pensieri e le cure alla sospirata occupazione del regno di Napoli. Il 6 ottobre Camillo Cavour significava impértanto all'inviato borbonico barone Winspeare la sua ferma intenzione d'intervenire nelle provincie meridionali, dove l'assenza d'ogni regolare autorità lasciava campo alle più sfrenale passioni e minacciava estremi pericoli ai grandi principii sui quali riposa la sicurezza sociale. Chiamato dai voti dei popoli il governo, a cui la provvidenza aveva assegnato la missione di costituire e pacificare l'Italia, non poteva esitare o ricusare la sua cooperazione al ristabilimento dell'ordine. Prima dogn'altra cosa, e postergando ogn'altra considerazione doveva esso preservare l'Italia e l'Europa dall'anarchia e dalla rivoluzione. Winspeare protestava il giorno seguente ed invano.

LXXIII.— Il 2 ottobre Vittorio Emanuele entrava, acclamato da una popolazione entusiasta e frenetica, nella città di Ancona. Egli aveva trionfalmente traversato l’Emilia fra le ovazioni generali e spontanee. gli evviva e le benedizioni dei popoli, cui il suo governo e le sue truppe aveano sottratto dagli artigli della vecchia tirannide. Egli veniva ad assumere il supremo comando delibarmi nella nuova campagna che s' andava di già maturando.

LXXIV.— Il 9 ottobre comparve il famoso manifesto Farini ai popoli meridionali. L’illustre affigliato della Giovane Italia, divenuto partigiano della moderazione e ministro, tracciava la storia degli ultimi anni e ne deduceva la necessità d’intervenire nel regno di Napoli a reprimervi i moti incomposti della insurrezione. Tributando elogi pomposi a Garibaldi insinuava, secondo il vecchio stile, il sospetto su coloro che lo circondavano, a quella fazione, com’egli esprimevasi, che all'ombra d'una gloriosa popolarità e d'una probità antica potrebbe sacrificare il trionfo nazionale alle chimere del suo ambizioso fanatismo. In appresso dichiarava il governo non permetterebbe che l'Italia divenga il nido di sètte cosmopolite che vi si potrebbero raccogliere a tramare i disegni o della reazione o della demagogia universale. E conchiudeva col decretare, egli uomo sommamente rivoluzionario, chiusa in Italia l’era delle rivoluzioni (251).

LXXV.— Questo proclama riassume e completa l'artificiosa politica colla quale il governo italiano demolì lentamente e quindi disperse l'esercito garibaldino pel timore che questo piombasse su Roma o Venezia e trascinasse il paese ad un conflitto colf Austria. Preso del resto come composizione rettorica è cosa di poco momento, poiché in esso si sente quella verbosità e quel vuoto prolisso e sonoro di frasi banali che sì bene caratterizzano gli sproloqui e gli scritti dei piccoli ministri: sembra in quanto alla forma modellato sull'interminabile frasario delle bolle papali. Era un antico cospiratore che a forza di zelo dinastico ed esagerando i principii dell'ordine farsi volea perdonare di avere un giorno appartenuto agli iloti della politica, alla fazione proscritta.

LXXVI.— Le recenti vittorie aveano risollevalo l'entusiasmo dei popoli in favore della consorteria moderata e posto il governo in situazione di costringere il Dittatore ad acconsentire all'immediata annessione. Le truppe italiane sfilavano alla volta degli Abbruzzi e s'apparecchiavano ad invadere le fiorenti provincie di Napoli. Da quell'istante i fati dell'esercito meridionale poteano stimarsi compiuti.


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LIBRO XIII

Battaglia e vittoria del Volturno

I.— Fra i primi atti di Garibaldi, pervenuto al governo di Napoli, fu quello di sciogliere e porre in istato d’accusa il Comitato insurrezionale che negli ultimi giorni s'era colà istituito. Pochi cittadini oscuri od ignari il componevano: nulla o quasi nulla avea fatto e ben poco avrebbe potuto operare, mentre nessuno inclinava a riconoscerlo o a prestargli obbedienza. La principale sua colpa era quella di avere per proprio conto emanato istruzioni e proclami o innocenti od insulsi: per il che non bene si comprenderebbe la causa che dovesse trattarsi con tanto rigore. Garibaldi forse voleva in tal guisa mostrare quanto alieno egli fosse dall'approvare e tollerare principii sospettati di sovversivi ed anarchici: forse la camarilla La-Fariniana, la quale sino dai primi istanti dell'entrata in Napoli si pose a' suoi fianchi, lo trasse in errore, dandogli a credere potesse esser quello un ritrovo di gente venduta, repubblicana o borbonica. Né il Dittatore otteneva con ciò di propiziarsi il favore di un partito che avversavalo con persistenza ostinata: pei moderati il vincitor di Palermo e Milazzo era sempre un capo rivoluzionario e pericoloso, al quale si doveva al più presto strappare di mano il supremo potere: né per quanto Garibaldi facesse sarebbe riuscito a rendersi loro meno antipatico.

II.— Mentre le truppe garibaldiane, disseminate nelle provincie orientali del Regno e in Sicilia, lentamente operavano il concentramento loro sulle rive del Sebeto, rivolgeva il Dittatore il pensiero a riordinare e riformare l'interna amministrazione, ad aumentare l'esercito e a provvedere pe' nuovi e supremi conflitti. Lungo sarebbe enumerare e vano il trascrivere le disposizioni e i decreti in que' giorni emanati e comparsi, alcuni de' quali meritano l'adesione e gli applausi d'ogni anima libera, e tutti provano qual fosse l'instancabile attività del Dittatore. Lo Statuto Sardo venne solennemente promulgato e sancito come la base fondamentale della nuova legislazione: e gli atti del governo, a tenore d'un successivo decreto, dovevano intestarsi col nome di Vittorio Emanuele re d'Italia. I pubblici officiali che non aveano seguito il Borbone, furono conservati ai loro posti: venne interdetta la cumulazione di più impieghi in un solo individuo ed aperta a tutti indistintamente la carriera degli ufficii. I passaporti, cui la stolta gelosia del governo borbonico o negava od accorciava con estrema riluttanza e di rado, dovevano rilasciarsi, dietro semplice richiesta, dalle autorità competenti. Si posero immediatamente in libertà i prigionieri politici, e si nominò una commissione incaricata a studiare i miglioramenti da introdursi nel sistema carcerario, sia in vista dell'igiene, sia in riguardo al trattamento ed alla disciplina delle prigioni. Gli scavi di Pompei attirarono essi pure l'attenzione del Dittatore: e si decretarono cinque mila scudi annuali per la prosecuzione dei lavori.

III.— La rivoluzione, memore dei servigi prestati alla causa italiana, ispirava a Garibaldi la necessità di riabilitare la fama di chi aveva sofferto per lei e di soccorrere le vittime che avevano tutto perduto per essa. Una pensione venne pertanto accordata alla figlia del colonnello Carlo Pisacane, morto a Sapri nel 1857, ed un’altra alla famiglia di Agesilao Milano, giustiziato nello scorso decennio a Napoli per avere tentato di uccidere il re Ferdinando. I castelli che sovrastano alla capitale vennero consegnali alle guardie nazionali, ed ordinata la demolizione del Castello Sant’Elmo, come quello che più valeva in un attacco sulla città che per difesa contro un esterno nemico. I beni, già appartenenti alla Casa Reale od ai maggiorali dei principi od all'ordine di Costantino, vennero dichiarati proprietà nazionali. Si provvide alla successiva e graduale abolizione del lotto, che doveva del tutto cessare col primogennaio del 1861. Insomma non si pretermise nulla che potesse rilevare la moralità ed i sentimenti d'un popolo cui la tirannide in sommo grado avea pervertito e corrotto.

IV.— Fra i numerosissimi decreti, in que' giorni comparsi, i seguenti meritano particolare menzione. Una ordinanza dittatoriale, inserita nel giornale di Napoli, espelleva per sempre dal regno le vaste corporazioni gesuitiche e le loro affigliate. Contemporaneamente un'altra ordinanza evocava allo Stato l'amministrazione delle opime ed immense episcopali prebende, fissando ai vescovi un congruo emolumento che non doveva però oltrepassare i due mila ducati annuali, e costituendo col rimanente una Cassa Ecclesiastica di soccorso all'infimo clero della città e dei villaggi forensi. È questo forse il solo decreto garibaldiano che sembra ispirato piuttosto dalle passioni del momento che dal vero e durevole interesse della libertà e del progresso. Non è coll’impoverirlo che si rende l'alto clero migliore o meno pericoloso o più utile alla causa d'Italia. Inesperienza dimostra che i vizii della Chiesa furono immensamente all'Italia più utili che non avrebbero potuto mai essere le sue più brillanti virtù. Del resto quella ordinanza sommamente rivoluzionaria e che troppo da vicino ricorda le spogliazioni della Convention Nationale di Francia, non potè incontrare il favore dell’avverso partito, il quale appena giunto al potere, l'abrogò o la sospese promiscuamente a molte altre. E fu il marchese Pallavicino-Trivulzio l’eroe rivendicatore delle ricchezze dei vescovi e dei grandi dignitari ecclesiastici delle provincie napoletane.

V.— AI comune del Pizzo in Calabria vennero parimenti levati gli ampli privilegii accordatigli colla patente regia del 18 ottobre 1815, in seguito alla cattura avvenuta colà dell'ex-re Gioachino Murat. Il decreto garibaldiano veniva motivalo sulla necessità di cancellare nell'Italia meridionale ogni triste reminiscenza di un'epoca infelice del pari e funesta, e saggiamente osservava che i popoli liberi non devono conservare vestigio di fatti che ricordano i trionfi dei loro tiranni. Inoltre voleansi punire que' cittadini dell'attaccamento da essi mai sempre mostrato alla casa borbonica. La libertà e la rivoluzione non devono, più che i tiranni e retrogradi, dimenticare né i loro amici, né i loro avversarli.

VI.— Con altri decreti Garibaldi regolava la percezione e l'amministrazione delle imposte, la riforma delle rancide istituzioni borboniche, i pubblici lavori e gli studii. Le innumerevoli disposizioni dittatoriali, concepite e redatte con celerità prodigiosa, mostrano quanto possa un'anima temprata ad alti pensieri ed all'amore del patrio avvenire. In pochi giorni rispetto del Regno sembrò intieramente cangiato: antichissimi abusi disparvero: crollarono i vecchi ordinamenti: e le barbare leggi borboniche, reminiscenze dei tempi di mezzo, fecero luogo ad una legislazione novella, modellata sulla politica nazionale e sulle idee di libertà e di progresso. Più fece Garibaldi in quindici giorni che i moderati non seppero fare in appresso in quindici mesi di regno.

VII.— Né i La-Fariniani frattanto posavano. Avevano eglino invano tentato di arrestare Garibaldi a Palermo: s’erano più tardi adoperati a vietargli l’entrata di Napoli: e nell'un caso e nell'altro i loro maneggi fallirono contro la necessità della guerra e la fortuna dei Mille. Non per questo si perdevano du animo od abbandonavano il vecchio programma: i loro affigliati percorrevanj il paese attivamente lavorando a minare l’autorità dittatoriale a Palermo ed a Napoli. Una vasta cospirazione moderata era ordita che avvolgeva nelle sue spire le provincie della terraferma e dell'isola. Era cosa impossibile che i moderati si dessero pace sinché Garibaldi, deposta la terribile spada, stato non fosse costretto a ritirarsi a Caprera.

VIII.— Durante la terribile crisi che segui la ritirata di Francesco II i moderati e i borboniani, atterriti del pari all'idea d'una conflagrazione popolare, si unirono ad invocare la presenza del Duce dei Mille, come la sola misura atta ad allontanare il pericolo di estremi ed imminenti disordini. In quel punto non eranvi in Napoli divisioni di partiti o diversità di credenze politiche tutti egualmente si professavano garibaldiani. Ma cessato quel primo allarme le divergenze ricomparvero con nuovo e crescente furore. Mentre la massa del popolo fermamente aderiva all'autorità dittatoriale, i moderati ed i borboniani convergevano i loro sforzi a minarla e a distruggerla, quelli per istinto e per indole, questi perché, abborrenti dalla rivoluzione, preferivano le dottrine e il governo dei primi. I borboniani, non osando apertamente parteggiare per la caduta dinastia, si limitavano a fare l'opposizione al Dittatore simulando cospirare a favore dell'unità italiana e dell’ordine.

IX.— Né le conseguenze di tali maneggi tardarono guari a mostrarsi: Garibaldi si vide ben tosto circondato in Napoli dalla stessa sorda e latente cospirazione che mesi addietro cotanto l’avea molestato nell'Isola. I congiurati, o venuti espressamente da Genova o reclutati fra i numerosi malcontenti del paese, gli facevano una guerra occulta e lenta, ma continua e instancabile. Non eglino lasciavano passare veruna occasione per indurre e predisporre i cittadini ad accettare con piena fiducia le loro credenze. Magnificavano la felicità e le benedizioni che sarebbero da ogni parte piovute il giorno che, finito l’interregno dittatoriale, le provincie meridionali si fossero congiunte alla monarchia italiana. Il mal essere generale, effetto inseparabile dei grandi mutamenti politici, ad arte veniva esagerato e ingrandito: ed attribuivasi alla incapacità del governo uno stato di cose ch'era in parte il risultato delle circostanze ed in parte il frutto di occulti raggiri. Si attiravano gli ambiziosi con lusinghe o promesse: gli aspiranti agli impieghi colla prospettiva di larghi stipendii, ed i timidi e gli inesperti col timore dell'anarchia e del disordine. Per tal modo insinuavasi la necessità della pronta annessione: era quella la' panacea salutare che doveva, guarire tutti i mali sociali.

X.— La febbre annessionista, abilmente suscitata e maneggiata, ben presto invadeva il paese e poneva la Dittatura in gravi e continui imbarazzi. Dimostrazioni in senso annessionista avvennero a Palermo ed in Napoli; ma sopra tutto in Sicilia dove i congiurati avevano avuto più tempo e comodità maggiore a tendere le loro reti. Verso la metà del settembre gli animi apparivano così esacerbati da far temere, massimamente in Palermo, un conflitto. Fu allora che Garibaldi, stimando la propria presenza necessaria nell’Isola, salpava a quella volta da Napoli.

XI.— Trovò la Sicilia in confusione indicibile. I ministeri aveano succeduto ai ministeri senza che i mutamenti valessero a guarir la cancrena da cui pareva minacciato il paese. Garibaldi, con un proclama, invitò i Siciliani a differire la bramata annessione sino al giorno che libere fossero le provincie rimaste sotto il giogo del Papa e dell'Austria. Egli mostrava il desiderio che l'unità della patria s'avesse a proclamare non a Palermo od a Napoli ma in Roma stessa, nella eterna città, dall'alto del Campidoglio. Ed era appunto per opporsi all'esecuzione di questo progetto che i La-Fariniani, come si vide, facevano i loro ultimi sforzi.

XII.— Garibaldi, assestate alla meglio le cose dell'Isola, lasciava in sua vece a Palermo prodittatore Mordini e restituivasi a Napoli, dove il chiamavano gli interessi del governo e le necessità della guerra. Prima di partire per la Sicilia aveva egli invitato presso di sé l'economista Carlo Cattaneo, ingegno sublime ed enciclopedico, cui la stolta gelosia o la non meno stolta avversione di Cavour e della camarilla moderata avea lasciato in disparte e condannato all'inerzia con grave detrimento del paese. Il Dittatore che voleva servirsi di tutti gli elementi liberali avevagli offerto la carica di secretario generale: ma Cattaneo è uomo troppo positivo perché potesse accettare una missione irta di tanti e sì molteplici ostacoli. Allora Garibaldi nominollo suo ambasciatore presso il governo di Londra: ma Cattaneo, non sappiamo per quali ragioni, declinò eziandio quell'onore, accontentandosi di rimanere in qualità di consigliere privato presso il gabinetto dittatoriale.

XIII.— L'esercito garibaldiano s'era frattanto concentrato nei dintorni di Napoli anelante a compire l'impresa con sì favorevoli auspicii iniziata e già quasi condotta al suo termine. Primi arrivarono nella capitale del Regno i soldati della brigata Rustow appartenenti alla decimaquinta divisione Turr, il mattino dell'8 settembre. In appresso vennero le divisioni comandate da Bixio e da Medici, ed i numerosissimi corpi d'insorti Calabresi e della l'erra di Lavoro. Per tal modo le forze riunite dell'armata meridionale sommaano a non meno di venticinquemila soldati, allestiti, entusiasti e già pronti a riprendere le dure fatiche del campo.

XIII.— Raccoglievasi intanto l'esercito regio nelle vaste e montuose provincie occidentali del paese, lungo la frontiera romana e dietro la linea del fiume Volturno; e la importante fortezza di Capua diveniva in tal modo il quartier generale e in pari tempo la reggia del vinto monarca. Numerosi distaccamenti borbonici scorazzavano negli Abbruzzi, occupando lo spazio che giace fra Teramo, Foggia e Gaeta. Studiavasi invano Francesco a riaccendere nel petto di que' bellicosi abitanti, i figli dei Sanniti e dei Bruzii, un'ultima scintilla d'affetto per la soccombente dinastia ed un ultimo raggio dell'antico valore. L'immensa maggioranza del paese rimaneva fredda ed inerte alle pressanti sollecitazioni dei vinti: e solo pochi villici, dell'infima feccia, si lasciarono trascinare a combattere sotto il vessillo d'una causa perduta. Il Re fuggitivo cercava in tal guisa d'opporre insurrezione ad insurrezione ed armata ad armata, e strenuamente accingevasi a contrastare ai Garibaldiani le ultime terre cui la sorte delle armi non avevagli ancora rapite.

XIV.— Il giorno 8 settembre a Napoli pervenne la certa notizia che istigati e sostenuti da una forte colonna di Regii, gli abitanti di Ariano aveano sollevato la bianca bandiera borbonica ed acclamato il governo di Capua. I Bersaglieri di Rustow vennero tantosto mandati a sbaragliare il nemico, a pacificare il paese ed a punire i colpevoli. Quella spedizione durò pochi giorni: i volontari raggiunsero i Regii, gli attaccarono e gli disfecero inseguendoli sino fra i gioghi delle vicine montagne, levando loro le artiglierie, i cavalli ed i carri ed un numero strabocchevole di prigioni e sbandali. Ricondotta al dovere l'intiera provincia, carichi di spoglie e ricolmi di gloria, retrocessero arditi e trionfanti a Napoli.

XVI.— Le truppe garibaldiane senza colpo ferire occuparono la città di Caserta dove posero il quartier generale dell'armata, e spinsero i loro avamposti sino a Santa Maria e lungo la linea del fiume Volturno. Verso la metà di settembre e' impadronirono con eguale fortuna della posizione d'Aversa, dove sorpresero e fecero prigione di guerra il piccolo distaccamento nemico che v'era di guardia. Contemporaneamente si distesero lungo le rive del fiume sino a Maddaloni e Limatola, stringendo quasi in semicerchio a mezzogiorno e a levante la importante fortezza di Capua. I Regii dal canto loro tenevano la città, parte della spianata ed il campo trincerato ed il forte Caiazzo.

XVII.— Il 15 avvenne un fatto d'armi di molta importanza. L'antecedente notte i borboniani aveano tacitamente rivalicato il Volturno e fortemente occupato il villaggio di Sant'Angelo in Formis di fronte al centro stesso dei Garibaldiani. Questi il mattino assalirono colla solita furia il nemico, e dopo lungo ed accanito contrasto lo ruppero e il costrinsero a fuggire a precipizio sulla destra del fiume ed in Capua. Da quell'istante rimasero i nostri in possesso del grande stradale che mette da Napoli a Benevento e nelle città degli Abbruzzi orientali, dove i corpi distaccati dell'esercito regio si trovarono per tal modo divisi dai loro compagni ed avvolti dal turbine della rivoluzione. Cosi con prosperi auspicii inauguravasi il termine di sì bella e memoranda campagna.

XVIII.— Appena ritornato dall'Isola Garibaldi procedeva al quartiere generale dell'armata in Caserta a riprendere il comando supremo e le operazioni del campo. Esplorato il medesimo giorno l'accampamento dei Regii e le posizioni adiacenti, il Dittatore volgeva il pensiero a serrare vieppiù l'avversario e costringerlo ad un decisivo conflitto. Egli ben sapeva le mosse dell'esercito sardo e quali fossero le intenzioni del conte Cavour: e quindi sopratutto premevagli precipitar la soluzione della guerra napoletana onde Fanti o Cialdini non avesse in appresso a contrastargli la gloria dei trionfi ottenuti.

XIX.— La fortezza di Capua sorge sulla punta di una vasta spianata in una curva formata dal corso del fiume, dove questo sboccando dai monti vicini rivolge le sue acque verso le spiaggie del mare. Enormi e massiccie muraglie munite d'un largo fossato la cingono: e la difendono larghi bastioni e lunette costrutte, secondo i dettati dell'arte moderna. A settentrione sulla destra del Volturno si stende il campo trincierato, difeso pur esso da batterie e da ridotti e fiancheggiato a levante dal fiume, a borea dalle estreme ondulazioni dei monti Gerusalemme ed all'occaso dal grande stradale di Teano e di Roma. Il Volturno, con giro tortuoso, sboccando dalle aspre montagne del Sannio, si precipita nella Direzione sud-ovest, continuamente piegando alla destra sin presso la sua imboccatura: esso ha rapidissimo il corso ed è soltanto in pochissimi punti guadabile. A ponente ed a qualche distanza dal fiume sulla vetta d'un colle superbo e difficile elevasi il forte Caiazzo che guarda lo stradale di Piedimonte e Melara, il vasto altipiano di Formicola, il campo trincierato di Capua ed un poco più lungi la via di Gaeta.

XX.— Meditava appunto Garibaldi sorprendere con audacissimo colpo di mano Caiazzo e insignorirsi dei monti Gerusalemme e di là minacciare la strada di Teano e Gaeta. Concepito e formato il progetto ne affidava l'esecuzione alla decimaquinta divisione comandata da Stefano Turr. Questi, fatti prima i necessari apparecchi e date le opportune istruzioni, accingevasi a compiere l’audace intrapresa: e il giorno 19 settembre veniva destinato alla sua esecuzione.

XXI.— Il mattino medesimo ed assai di buon'ora i volontari da Santa Maria e da San Prisco portatisi avanti assalirono furiosamente i Borbonici fin sotto le mura di Capua. Era quello un attacco simulato, intrapreso al solo oggetto di attirare da quella parte la nemica attenzione e divertirla dal punto principale che i nostri si aveano prefisso. I Regii, supplendo al valore col numero, si difesero con somma ostinazione e pervennero pur anche a ributtare i Garibaldini sin presso il villaggio di Santa Maria. Ma questi ripreso coraggio nuovamente si spinsero avanti, rincacciarono i nemici sotto le mura di Capua e giunsero a provocare le stesse artiglierie della fortezza. Quattr'ore durava la lotta: poscia i soldati già stanchi da una parte e dall'altra si ritraevano ai proprii alloggiamenti.

XXII.— Mentre ciò accadeva alla sinistra Turr colla brigata Sacchi e parte dei bersaglieri di Rustow e il battaglione degli studenti bolognesi comandati dal maggiore Cattabene, avanzandosi da Sant'Angelo sorprese e sbaragliò alcuni corpi napoletani accampati al di là del Volturno obbligandoli a ripassare alla destra del fiume. Da Limatola, tragittando egli stesso il Volturno, si diresse con rapida marcia lungo la strada che mette da Maddaloni e Caiazzo. Le sinuosità delle colline ed i boschi il proteggevano e l'occultavano alla vista dei Regii, per cui i volontari inosservati ed inattesi pervennero fin sotto le mura del forte senza svegliare il minimo sospetto che tradisse la loro presenza.

XXIII.— Appena giunti e senza aspettare più oltre i volontari si portarono all'assalto del forte, accingendosi ad espugnarne le opere esteriori e l'entrata. Opposero i Napoletani un vivissimo fuoco di moschetteria e mitraglia, ma tutto fu inutile: i maggiori Terracini e Cattabene alla testa dei loro battaglioni fecero prodigi di valore, e malgrado l’imperversar dei proiettili regii guadagnavano sempre terreno. I bersaglieri bolognesi e la linea gareggiarono di coraggio e d'audacia, e dopo una lotta accanita che si prolungò per più ore con orribili perdite da entrambe le parti i volontari penetrarono a viva forza in Caiazzo e se ne reser padroni. Il presidio o depose le armi e sbandossi o rimase prigione nelle mani dei nostri.

XXIV.— Ottenuta sì bella vittoria volle Garibaldi assicurarsi il possesso del forte espugnato dal quale poteva minacciare le spalle di Capua e la via militare di Gaeta. A tale oggetto ordinava al generale Giacomo Medici di staccare dalla sua divisione uno o due reggimenti e spedirli immantinente a presidiare Caiazzo. Perciò la mattina del 20 il tenente colonnello Vacchieri col secondo reggimento della brigata Simonetta ed un battaglione di bersaglieri partirono verso quella nuova destinazione.

XXV.— Come gli ultimi avvenimenti di Caiazzo si divulgarono in Capua la costernazione fu grande nelle truppe ed egualmente nella corte: Francesco ne rimase atterrito e percosso. Non eravi oggimai un istante da perdere: l'esercito garibaldiano, seguendo la vecchia abitudine, mirava a circondarlo ed a stringerlo da tutte le parti e a vietargli i soccorsi e lo scampo. Avessero i volontari potuto solidamente stabilirsi a Caiazzo la posizione dei Regii sarebbe assai presto divenuta fastidiosa, dura e insostenibile. Chiuso lo stradale di Santa Maria e d'Aversa per Napoli, intercettato quello di Benevento e Piedimonte e minacciata eziandio la via militare di Gaeta e Teano, avrebbero i borboniani ben tosto dovuto affrontare le terribili angustie d'uno strettissimo assedio. Impertanto pei Regii diveniva suprema necessità di ricuperare la perduta Caiazzo, prima che i Garibaldini riuscissero a trincierarvisi o d'abbandonare pur anco l’occupata fortezza di Capua.

XXVI.— Egli è vero che l’esercito regio sommava per lo meno al triplo delle forze cui i Garibaldiani disponevano in linea e che, calcolando dal numero, potevano sperare felici successi. Ma i soldati di Francesco II non aveano di marziale che l'abito: e meglio potevano assomigliarsi ad un'orda di barbari che ad un armata regolare istituita da civile governo. Demoralizzate dai vizii e dalle vecchie abitudini del regime dispotico, minate dalle società camorrista ed invase da superstizioso terrore, le truppe napoletane male poteano opporsi agli entusiasti ed audaci vincitori di Reggio e Milazzo. I quarantamila uomini che Francesco raccoglieva sotto Capua diminuivano giornalmente di coraggio e di numero per le continue diserzioni e pel panico ognora crescente. Con tali soldati potevasi bensì prolungare una penosa agonia ma non dar luogo ad alcuna fiducia sull'esito della guerra che ardeva.

XXVII.— Una piccola parte soltanto dei soldati borbonici meritava il nome d'esercito: ed era composta dei volontari svizzeri e bavaresi, gente egli è vero, venduta e spregevole, ma valorosa ad un tempo e fedele. Se non che le defezioni e i disordini del resto delle truppe aveva finito col rompere eziandio la disciplina di quel corpo, sul campo assai rispettabile e che avrebbe solo potuto presentare un punto di appoggio e difesa. Trascinati dalla corrente e guadagnati essi pure dall’universale sgomento, i mercenari in parte non fecero nulla ed in parte non fecero quanto avrebbesi avuto diritto ad attendere.

XXVIII. Ciò nulla ostante Francesco raccolto grosso nerbo di quell'orda. mandavalo la notte del 20 a riprendere Caiazzo. I Napoletani, in numero di ben diecimila con duo batterie da campagna ed un forte corpo di cavalleggeri si portavano ad attaccare forse un migliaio di Garibaldini sprovvisti di cannoni e quasi di viveri.

XXIX.— Il 21 settembre alle undici ore del mattino, spiegando forze imponenti, piombarono i Regii sul piccolo presidio di Caiazzo. Il brigadiere Sarchi avea già, dal primo allarme, disposte le truppe nei punti che alla difesa pareano i più adatti ed attendeva con ammirabile ardire il momento dell’urto. Questo fu oltre ogni dire terribile: i Napoletani con sedici pezzi d'artiglieria fulminavano la linea dei volontari, mentre i Bavaresi s'adoperavano a snidarli dalle alture che avvicinano e proteggono il forte. II colonnello Puppi e i maggiori Cattabene e Ferracini resistettero lunga pezza malgrado la furia nemica, quando la morte del primo diede il segnale della prossima rotta. Sacchi fu allora costretto a battere in ritirata ed abbandonare Caiazzo che venne tosto occupato dai Regii, i quali abbattuto il tricolore italiano vi rialzarono la bandiera borbonica.

XXX.— Il disastro di Caiazzo, militarmente considerato, appare forse non meno glorioso alle armi italiane di quello che avrebbe potuto sembrare un trionfo. Furono circa mille volontari che resistettero per più ore agli sforzi di diecimila nemici e che non si ritrassero dal campo se non dopo avere perduto un valente colonnello e cento ottanta dei loro compagni caduti pugnando sull'agone d'onore. La ricupera di Caiazzo valeva bensì a persuadere i Borboniani 'che i volontari poteano esser vinti: ma doveva in pari tempo accertarli che mari di sangue ed incredibili sacrificii abbisognavano a vincerli.

XXXI.— Si ritrassero i volontari dal campo sulle prime con molta fermezza, colla faccia rivolta ai nemici e pronti a respingerne gli urti quando questi avessero osato approssimarsi di troppo alla bocca dei loro fucili. I Napoletani, già istrutti a rispettare il valore dei nostri e tenuti in dovere dal loro contegno, fidavano piuttosto sul numero che sul proprio coraggio: e perciò preferivano avvilupparli nelle loro ali ed opprimerli col peso di tutte le forze convergenti nel medesimo punto. Travide Sacchi le mire dei Regii ed accelerò la ritirata: e fu allora che i Garibaldini, inseguiti dalla cavalleria napoletana, si diedero precipitosamente a fuggire in pieno disordine. Questo fu causa di nuovi e più gravi disastri: imperciocché i volontari, colti da irresistibile panico ed atterriti più assai dalla propria immaginazione che dall'armi borboniche, si accalcarono sulle rive del fiume e senza esaminare dove fosse o se pur era guadabile vi si gettarono dentro colla massima fretta e confusione: e dove credettero trovare salvezza moltissimi rimasero infelicemente affogati. Pochi dei nostri sbandati e dispersi nelle vicine vallate e nei boschi ebbero a soffrire moltissimo dalle angherie di quegli abitanti ed alcuni vi perdettero pur anco la vita. E forse la sventura di Caiazzo si deve in buona parte attribuire al mal talento delle popolazioni superstiziose e fanatiche fautrici di Francesco II.

XXXII.— Tale fu l'esito della spedizione di Caiazzo, e tale paranco fu l'unico vantaggio riportato dalle truppe napoletane in sei lunghissimi mesi di lotte e rovesci. La reazione europea applaudì alla vittoria di Francesco II, senza punto considerare che vittorie simili a questa possono stimarsi poco più che sconfitte. Furono infatti dieci mila Borboniani che attaccarono un piccolo corpo di volontari, destituiti di mezzi di difesa ed accampati in paese nemico. I Regii trionfarono è vero, ma in forza del numero e della superiorità delle armi, e fu quel trionfo incompleto mentre i Garibaldini riuscirono a guadagnare la sinistra riva del Volturno ed a raggiungere i loro compagni. Se in ciò v'ha cosa che possa ispirare meraviglia egli è solo il vedere come i Garibaldini con forze sì esigue pervennero ad operare la ritirata ed a condursi a salvamento, mentre tutti avrebbero potuto rimanere uccisi o sbandati o prigioni.

XXXIII.— Del resto la ricupera di Caiazzo non recava ai Regii quel vantaggio che avevano prima potuto sperare poiché nulla o ben poco migliorava le lor condizioni. Il fatto stesso della ricupera provava quanto agevole fosse il perdere quel punto e il riprenderlo, per cui aveva a temersi che una nuova irruzione di Garibaldiani il potesse un'altra volta investire ed espugnare. La conseguenza impertanto si fu che i Napoletani si trovarono obbligati a mantenervi un grosso presidio e quindi ad indebolire l'armata di Capua.

XXXIV.— Né dal lato dei volontari Io scacco subito a Caiazzo produsse verun effetto sinistro. Benché fosse svelato il secreto ch'essi pure poteano esser vinti, se non dal valore dal numero, nulla eglino perdettero della solita confidenza ed audacia. Invece di colpirli e disanimarli, la recente sventura infondeva in quelle anime generose il desiderio di una pronta rivincita. I Garibaldini, fidando nella propria e nella stella d'Italia, attendevano con ansietà ed ardore che venisse il momento di riabbassare l'orgoglio dei loro nemici e di vendicare i compagni caduti a Caiazzo ed al Volturno.

XXV.— Verso lo spirar del settembre l'armata garibaldiana allineata sulla sinistra del fiume distribuita trovavasi nel modo seguente. Il maggiore generale Corte colla brigata Basilicata, come suona il suo nome, in gran parte composta di indigeni, occupava all'estrema sinistra la importante posizione di Aversa al limite della grande spianata sulla strada di Capua. La decimasesta divisione, cui il generale Cosenz, divenuto ministro della guerra, aveva lasciato al comando di Milbitz, bivaccava a Santa Maria a cavaliere della strada di ferro per Napoli, ed aveva seco i colonnelli Winckler e Malenchini e il prode La-Masa. Medici colla decimasettima divisione teneva le alture di Sant'Angelo in Formis, dove pure trovavansii Carabinieri di Genova, i Siciliani condotti da Musolino, i bersaglieri di Dunne e i bersaglieri-zuavi. Bixio finalmente accampava alla destra sui colli di Maddaloni e a cavaliere del grande acquidoso, ed aveva con sé Menotti Garibaldi col suo battaglione, composto in gran parte di Siculi, i colonnelli Piva e Taddei, il generale di brigata Dezza e la seconda brigata di Medici, Eberhardt, incompleta e formata di circa mille ottocento soldati.

XXXVI.— Al di dietro della linea di battaglia Stefano Turr comandava la riserva formata del secondo reggimento Cossovich, da un battaglione di fanti ed uno squadrone di cavalleggeri ungheresi, appartenenti alla decimaquinta divisione da lui comandata. La brigata Sacchi, la stessa che aveva il 19 occupato Caiazzo, presidiava le alture di San Leucio alle spalle di Sant'Angelo, sul centro dell'armata italiana. Garibaldi e lo stato maggiore risiedevano a Santa Maria, nel punto più vicino alla fortezza e più esposto alle nemiche escursioni.

XXXVII.— L'artiglieria slava giudiziosamente disposta sui prossimi colli, nei luoghi più adatti all'offesa e dai quali potevasi meglio frenare l'audacia dei Regii, nel caso che questi fossero divenuti audaci ad un tratto. Una batteria garibaldiana elevavasi sul grande stradale di Capua a Sant'Angelo: una seconda guardava la pianura di Santa Maria e una terza e una quarta, costrutte a sinistra e davanti al piccolo villaggio di Formicola, battevano il campo trincierato e il passaggio del fiume. Nino Bixio appostava due pezzi d'incontro al guado che fiancheggia la via di Caiazzo poco più sopra Limatola; ed un piccolo pezzo da otto proteggeva all'estrema sinistra la posizione di Aversa.

XXXVIII.— Sulla riva sinistra del Volturno, laddove questo sboccando dalle montagne dirige le acque alla volta di Capua, apresi una piccola spianata la quale si allarga a misura che scende al meriggio. Essa in qualche modo presenta l’aspetto d'un triangolo isoscele, la cui sommità si disegna dal corso del fiume e dalla direzione dei colli che vengono quasi ad urlarsi presso Limatola, e la cui base si stende da Santa Maria alla fortezza di Capua. Una rete di strade solca in tutte le direzioni il suddetto triangolo; per la maggior parte sepolte o coperte dagli argini laterali e da foltissime siepi. Alcune ondulazioni irregolari del terreno concorrono a dargli una fisonomia affatto speciale e lo rendono attissimo alle militari sorprese e agli agguati.

XXXIX.— Davanti e più al nord di Sant'Angelo, dirimpetto al campo trincierato dei Regii, s'elevavano alcuni cascinali dispersi, abitati da villici; e il più importante e il più vasto si chiama di San Benedetto. L'insignificante villaggio di Formicola, edificato di contro allo scafo principale o passaggio del fiume, giace al nord-ovest ed a breve distanza dal primo. Finalmente lungo le rive del fiume e mezzo coperti dalle sinuosità delle colline e fra gli altieri, altri cascinali si incontrano nelle vicinanze di Maddaloni e Limatola: e tutti o quasi tutti venivano occupati dai nostri che vi ponevano i loro corpi d'osservazione.

XL. —Dal 22 al 30 settembre giornalmente avvenivano de' piccoli scontri, vere zuffe d'avamposti, che non potevano esercitare veruna decisiva influenza sulle sorti dei due avversarli, ma che pure causavano frequenti e dolorosissime perdite da una parte e dall'altra. È duopo osservare che i volontari erano sempre gli assalitori: imperciocché i Napoletani, preferendo lottare da lungi, venivano rare volte alle mani e sempre ritraevansi sotto la proiezione delle batterie. Eglino però continuavano a molestare i Garibaldini coi cannoni e i mortai di cui erano ad esuberanza forniti. I proiettili regii, per ciò solo che riguarda il bombardamento, recavano, è vero, danni insignificanti, essendo i volontari si pochi di numero che difficilmente poteansi colpire; ma nel campo mantenevano un allarme continuo che apportava infinite molestie. Fra tali scaramuccie però meritano particolare menzione le ricognizioni, eseguite il 26 e il 29 settembre dal maggior Consolino e dai Carabinieri di Genova, colle quali Garibaldi faceva esplorare il terreno nell'intento di scoprire la resistenza che i Regii del campo trincierato potevano opporre pel caso ch'egli volesse tragittare il Volturno...

XLI.— Se non che le conseguenze del blocco, comunque incompleto si fosse, incominciavano a farsi con troppa pressione sentire negli alloggiamenti borbonici. Il mal essere generale dell'esercito regio aumentava a misura che il tempo scorreva e che le probabilità di vittoria diveniano più remote ed incerte. Le diserzioni continuamente crescevano, intiere squadre, gettate le armi, tutte le notti sbandavansi o passavano al campo nemico. Bentosto i disordini pigliarono tale proporzione che il giovine Re si credette obbligato a precipitar la battaglia per non essere prima abbandonato da tutto l'esercito e trovarsi debellato senza combattere.

XLII.— La domenica 30 settembre Francesco raccolse le truppe sulla piazza di Capua ad oggetto di dare le opportune istruzioni e di animarle pel prossimo assalto. Con un ordine del giorno, squisitamente elaborato, rammentava ai soldati l'onore della bandiera sotto cui militavano, la santità dei giuramenti, il sacro legame dei doveri e la necessità di combattere e vincere. Esortava quell'egra moltitudine a pugnare pel Re e per la Costituzione ch'egli aveva elargita e giurata e che in qualunque evento volea mantenere inviolabile. In tal modo adoperavasi ad infondere in quelle anime già dome e battute un coraggio ch'egli ornai non sentiva più dentro di sé.

XLIII.— La notte seguente i Napoletani, divisi in quattro profonde colonne, tacitamente marciarono ad assaltare le posizioni nemiche. La prima uscendo da Capua sotto il comando dello stesso Francesco, moveva alla volta di Santa Maria sulla destra dell'esercito regio. La seconda colonna, costeggiando la sponda orientale del fiume, portavasi ad assalire le alture di Sant'Angelo in Formis, dove Giacomo Medici teneva il centro dell'armata italiana. Una terza sboccando in silenzio dal campo trincierato, posto a settentrione della città, tragittava il Volturno allo scafo di Formicola e di là mirava a penetrare fra il centro e la destra dei Garibaldiani. Finalmente un quarto ed ultimo corpo doveva, partendo da Caiazzo, impadronirsi del guado che fiancheggia la strada e procedere quindi a Monte Caro e girare gli alloggiamenti di Bixio ed intercettargli la via di Caserta. Tutti codesti movimenti dovevano allo stesso punto eseguirsi per modo che l‘esercito garibaldiano avesse a trovarsi nelle prime ore del giorno avviluppato da tutte le parti e ravvolto in promiscuo conflitto.

XLÍV.— E i disegni di Francesco II ottenevano sulle prime una piena applicazione. Il generale borboniano Palmieri riusciva a disporre l'esercito sui punti preventivamente di già decretati. Marciando in silenzio e nell'oscurità della notte, ed inoltre protetti dai vapori nebbiosi dell'autunno, i Napoletani pervennero a tragittare il Volturno ed a gettarsi sul davanti dei nostri senza incontrare il menomo ostacolo e senza che il più lieve rumore tradisse la loro presenza. I volontari posavano negli alloggiamenti: eglino erano ben lungi dal sospettare vicina la lotta che doveva decidere dei loro destini e che da lunghissimo tempo aveano desiderato con estrema passione ed indarno.

XLV.— Le prime fucilate si fecero udire davanti a Sant’Angelo nella direzione del piccolo villaggio di Formicola dove i Garibaldini occupavano il punto più avanzato della posizione alla cascina Benedetto che guarda il passaggio del fiume. Incontanente l'allarme fu dato su tutta la linea; e i volontari giulivi e festanti si disposero con incredibile celerità sui colli in pieno ordine di battaglia. Nel frattempo i Napoletani, il cui successo dipendeva sopra tutto dalla rapidità delle mosse, in fretta sfilavano percorrendo remoti stradali a sinistra ed a destra del campo, italiano e pervenivano a tagliare in due punti la linea fra Santa Maria e Sant'Angelo e fra questo villaggio e Maddaloni.

XLVI.— Un fortuito accidente bastava ciò non pertanto a sconvolgere i loro disegni. Di buon, mattino e prima che l'allarme fosse dato nel campo, il Dittatore si recava a visitare le posizioni di Sant'Angelo e percorreva in carrozza lo stradale che da Santa Maria a quella volta conduce. Aveva egli compiuto circa la metà del cammino quando improvvisamente trovava intercetto il passaggio e se quasi circondato dall'irruente esercito regio. Né per questo smarritosi d'animo rapidamente smontava dalla vettura e saliva a cavallo e coi pochi seguaci che l'accompagnavano a tutta corsa sul nemico slanciavasi, il quale colpito dall'inaspettato attacco si credette obbligato a sospendere la marcia e a schierarsi in battaglia. Fu si grande l'audacia e la foga dei pochi assalitori che i Napolitani concepirono il sospetto di avere a lottare con qualche numerosa colonna di volontari. Il piccolo inciampo mirabilmente influiva sulle sorti del giorno, in quanto che i Regii perdevano un tempo per essi prezioso, né in conseguenza potevano colla necessaria celerità compire il piano dalla cui esecuzione dipendeva l'intiero successo.

XLVII.— Alla destra Bixio aveva preventivamente ritirato da Valle il battaglione che v'era d'avamposto e collocato sulle altare di Monte Caro un forte nucleo di bersaglieri ed il primo ballatagliene della seconda brigata agii ordini di Giuseppe Dezza. Pose in pari tempo due pezzi in batteria sulla strada di Valle, facendoli fiancheggiare e difendere da un battaglione dell'Eberhardt. Col rimanente della prima brigata occupò fortemente la posizione di San Michele, mentre la seconda schieravasi a Villa Gualtieri. La brigata Eberhardt teneva i posti dell'acquidotto, il molino ed i colli adiacenti, con ordine di ripiegare a Villa Gualtieri quando le fosse divenuto impossibile conservare le sue posizioni. La colonna Fabrizi veniva collocata di riserva sulla sinistra fra San Salvatore e Maddaloni. Da queste disposizioni chiaro si scorge qual cura Nino Bixio prendesse ad assicurarsi la via di Gaserta.

XLVIII.— La divisione decimasesta comandata da Isenschmid de Milbilz composta delle brigate Milbitz stesso e La-Masa, la quale ultima serviva più ch'altro d'ingombro, allineavasi all'estrema sinistra nel villaggio e nelle adiacenze di Santa Maria. Erano con essa alcuni corpi di bersaglieri calabresi ed apulii, gente dura alle fatiche ma poco atta agli esercizii di guerra. Santa Maria era stata per ordine del Dittatore ultimamente munita di ridotti e trinciere, e resa per quanto le circostanze il permisero, un punto fortificato di somma importanza. Sul davanti della posizione i volontari occupavano la strada ferrata e l’antico anfiteatro Capuano.

XLIX.— Alle ore sei e mezzo antimeridiane de truppe regie furiosamente investirono da destra a sinistra la linea dei volontari. II maresciallo Ritucci che ne aveva il supremo comando si poneva sul centro d'incontro a Sant'Angelo,mentre il generale Van Mickel assaliva le posizioni di Bixio, e il Re stesso col generale Palmieri e i comandanti di brigata Barbalunga e Polizzi avanzavasi a Santa Maria. Dietro i presi concerti il maresciallo Afan de Rivera, comandante in secondo le truppe del centro doveva insignorirsi delle alture fortificate di Sant'Angelo, e di là piegando a destra muovere alla volta di Santa Maria e sorprendervi i volontari alle spalle.

L. —Verso le ore otto la battaglia ferveva impegnata su tutta la linea. A sinistra i Napoletani, sboccando dal campo trincierato e tragittando il fiume in due punti diversi allo scafo cioè del villaggio di Limatola ed al guado di Cajazzo, improvvisamente piombarono sulle truppe di Bixio e di Medici e presero possesso dei pochi cascinali che fiancheggiano il Volturno. Il centro dei Regii distendendosi lungo la riva sinistra del fiume occupava le macchie e gli argini che costeggiano la via di Maddaloni e Sant'Angelo, mentre la loro destra, concentrata nella vasta pianura di Capua assaliva i ridotti costrutti dai nostri sulla strada ferrala e mirava a penetrare di viva forza in Santa Maria. La cavalleria regia schieravasi al di dietro dell'esercito, pronta ad accorrere dove il bisogno poteva chiamarla. Le truppe napoletane impegnate nel conflitto del 1.° ottobre sommavano a non meno di trentacinque mila soldati, mentre i Garibaldiani giungevano appena il terzo di quella rispettabilissima cifra.

LI.— Fino dal cominciar del combattimento gli avamposti dei volontari stabiliti lungo il fiume alla cascina Benedetto, a Formicola e davanti a Maddaloni, oppressi dal numero, si trovarono costretti ad evacuare quelle posizioni e a retrocedere pei stradali di Maddaloni e Sant'Angelo. Eglino in tal modo abbandonavano al nemico la riva sinistra del fiume e la rete di strade che per varie direzioni conduceva ai loro alloggiamenti. Tuttavia i volontari operavano quella loro ritirata con una lentezza ed un sangue freddo ammirabile continuamente molestando i Borbonici e tenendoli a rispettosa distanza. Il che diede tempo al grosso delle divisioni di schierarsi in ordine di battaglia ed apparecchiarsi a ricevere come conveniva l'irrompente nemico.

LII. —Respinto l'avanguardo di Bixio al villaggio di Valle i Bavaresi e gli Svizzeri procedettero in colonne serrate sulla via di Ducente sino allo svolte difeso da due pezzi ed a circa quattrocento passi dalla linea dei nostri. Quivi per gli accidenti del terreno trovandosi al coperto dei fuochi garibaldiani spiegavasi lungo il piede dei colli in tre corpi d'attacco e disponeasi a salire il pendio dominato dai nostri. Contemporaneamente altre truppe, prendendo la cresta della montagna, da Valle miravano alle alture di Monte Caro e da Sant'Agata de' Goti verso il Molino. I Regii s'avanzavano per tal guisa in linea curva, senza dubbio ad oggetto di stringer ed avviluppare l'intiera armata di Bixio.

LIII.— Cominciò allora una vivissima fucilata da entrambe le parti. I Napoletani avendo con sé una batteria di campagna con otto pezzi di grosso calibro principiarono a cannoneggiare con insolito furore, mentre le artiglierie dei volontari, comecché male in arnese e di minore portata, giacevano per la troppa distanza inoperose. Le alture alla destra, l'acquedotto e il Molino vennero successivamente attaccate di fianco: e la brigata Eberhardt mal potendo o sapendo resistere all'urto tentennò sulle prime e bentosto si pose a fuggire in disordine alla volta di Maddaloni.

LIV.— Allo stesso tempo i Borboniani investirono a destra e di fianco le alture di Monte Caro minacciando la via di Caserta. Il secondo battaglione di bersaglieri unitamente ad una compagnia del primo, che vi erano di guardia, sopraffatti essi pure dal numero, dovettero cedere e ripiegare abbandonando al nemico la cresta del colle. Accorse allora il brigadiere Giuseppe Dezza a riannodarli ed a spingerli di nuovo all'attacco, il che fu eseguito con un'audacia maggiore di quanto sarebbesi in quel punto aspettato. Lo stesso generale Dezza in quel mentre ordinava al tenente colonnello Taddei di portarsi con un mezzo battaglione a riprendere le alture perdute; la quale operazione fu tosto con incomparabile slancio eseguita. Nel medesimo tempo il maggiore Bronzetti, con soli duecento bersaglieri appostato sulle vette di Castello Morone, intrepidamente resisteva agli sforai d'una intiera brigata nemica e copriva da quella importante posizione la estrema sinistra di Bixio.

LV. —A destra il nono ed il decimo di linea ed i cacciatori borbonici assalirono lo stradale e la Ferrovia e se ne resero poco stante padroni. Pesando sopra tutto col numero pervenivano a costringere i volontari a ripiegarsi dietro le barricate colle quali avevano munito e difeso gli sbocchi del vicino villaggio. Le artiglierie napoletane, collocate sulla strada ferrata e davanti a Santa Maria, furiosamente investivano i ridotti dei nostri e minacciavano da ogni parte prorompere. Il brigadiere regio Sergardi con due squadroni di Lancieri, un distaccamento di zappatori del genio a quattro pezzi espugnava il cascinale fortificato di San Tamaro allineandosi in tal guisa sull'estremo fianco sinistro dei nostri.

LVI.— Né al centro le cose volgevansi con migliore fortuna. I generali Colonna e Palmieri, unitamente al maresciallo Afan de Rivera respingevano i volontari dal bosco di San Vito e Tifrisco e li rincacciavano sulle alture stesse di Sant'Angelo, di cui miravano ad insignorirsi. Cosi la fortuna del giorno piegava favorevole alle armi borboniche.

LVII.— Da tre ore durava la lotta con evidente svantaggio dei volontari che avevano dovuto abbandonare tutti i loro posti avanzati. Tuttavia se ne togli il disordine accaduto nella brigata Eberhardt, eglino operarono la loro ritirata con incredibile sangue freddo ed intrepidezza, tenendo la faccia rivolta continuamente al nemico e contrastandogli a palmo a palmo il terreno. In vederli avresti detto non essere ritirata quella ma un movimento strategico mediante il quale si ripiegassero a concentrare le forze per quindi tornare più compatti e più animosi all’attacco.

LVIII.— Verso le ore undici antimeridiane i Regii avevano in due punti tagliato la linea dei Garibaldini e rotta la strada di comunicazione tra Garibaldi e Medici e tra Medici e Bixio. Inoltre avevano eglino girata l'estrema destra di Bixio ed occupato le alture alle spalle di lui che mettono alla valle di Caserta. I volontari si trovavano nella più brutta situazione in cui mai possa trovarsi un'armata: erano per cosi dire avviluppati e ravvolti in un nembo di fiamme e proiettili. Qualunque esercito regolare che si fosse trovato in quelle difficilissime posizioni sarebbe stato irremissibilmente perduto: ma i volontari hanno vizii e virtù che gli eserciti regolari non hanno, fra cui non ultima è quella di non ben comprendere il pericolo e quindi di serbare eziandio fra le angustie più gravi la solita calma ela speranza del trionfo.

LIX.— Garibaldi in quel giorno fatale fece prodigii di instancabilità, di previdenza e d'audacia. Egli solo valeva quanto un'armata. Volando fra le truppe sotto il grandinare delle palle nemiche egli era da per: tutto,tutto esaminava ed a tutto poneva riparo. Dov'eglj presentavasi i Garibaldini ripigliavano il sopravento ed i Regii dovevano ritirarsi, dond'egli allontanavasi la vittoria tornava a piegare dal lato di Francesco II. Di lui si può dire che il coraggio e l'audacia che infondeva colla sua presenza nel petto ai volontari era uguale allo sgomento ed alla trepidazione che incuteva nei soldati borbonici. Malgrado le dubbie apparenze della battaglia un osservatore profondo e imparziale avrebbe dovuto persuadersi che dove combattea Garibaldi i volontari non poteano esser vinti.

LX.— Già sino dal cominciar dell'assalto Garibaldi aveva spedito istruzioni al comandante la riserva generale Stefano Turr perch'egli si recasse sollecito a prendere parte all'azione che ormai si sentiva imminente. Thurr obbedendo all'invito del Generalissimo immediatamente partiva sulla strada ferrata alla volta di Santa Maria e giungeva nel momento opportuno a dar l’ultimo crollo alla fortuna dei Regii ed a partecipare all'ultima e decisiva vittoria dei Mille.

LXI.— Era quello diffatti l'istante supremo. I Regii avevano su tutta la linea ottenuti grandi e incontestati vantaggi. L'ala destra comandata da Bixio era per metà sbaragliata: i soldati della brigata Eberhardt, colpiti da irresistibile panico, si disperdevano in piena rotta pei colli di Maddaloni. I Borboniani già signori della sommità di Monte Caro minacciavano il Molino, la punta di San Michele dove stava accampato il colonnello Piva e l'erta stessa di Maddaloni. Inoltre un corpo realista marciava da Sant'Agata de' Goti ad oggetto di precludere ai volontari la via di Caserta e piombare alle spalle di Sant'Angelo e di Santa Maria. Allo stesso tempo la sinistra aveva dovuto ripiegarsi nei punti fortificati che difendevano l'entrata del villaggio, mentre i Regii avanzavansi fin sotto le mura dell'antico anfiteatro capuano. Finalmente il centro respinto dai colli più bassi e tagliato fuori a destra e a sinistra dal resto dell'armata versava in terribili angustie, esposto com'era ad essere schiacciato dal numero. Per colmo di sventura, dopo lungo e sanguinoso contrasto, la piccola truppa comandata da Bronzetti a Castel Morone, morto il maggiore, era stata costretta ad abbassare le armi. I duecento bersaglieri che la componevano aveano fatto prodigii di valore ed audacemente respinto per più ore i replicati assalti di ben quattromila Borbonici. Mancando loro le munizioni si difesero a lungo smovendo e rotolando enormi macigni sul capo degli assalitori; e non cedettero se non quando, esaurito ogni sforzo, la resistenza era già divenuta impossibile. La perdita di Castel Morone lasciava in pari tempo scoperta la sinistra di Bixio e la destra di Medici.

LXII.— L'annunzio di tanti sinistri divulgavasi colla rapidità del fulmine nei paesi contermini e giungeva nella stessa città di Napoli. Fu in quell'istante indicibile la costernazione ed il tremito. Ad accrescere l'universale terrore sopraggiunsero alcuni Garibaldini sbandati, i quali dimentichi dei proprii doveri e dell'onore italiano non ebbero rossore di profanare l'assisa dei prodi che indegnamente vestivano. Narravano questi terribili particolari del campo che forse non avevano nemmeno veduto., e davano come certa la sconfitta dei loro compagni Non per questo la guardia nazionale e le autorità civili e militari smarritesi d'animo, diedero opera a mantenere l'ordine della vasta capitale ed a calmare gli esagerati timori e le apprensioni del popolo.

LXIII.— Il generalissimo napoletano Ritucci, giudicando la battaglia già vinta, rivolse il pensiero ad approfittare dei successi ottenuti ed a compire quello ch'egli credeva la disfatta dei Mille. Ordinò in conseguenza al generale Tabacchi il quale comandava il nono ed i| decimo di linea davanti a Santa Maria di portarsi colle sue genti traverso alle campagne sul fianco sinistro di Milbilz e di caricare da quella parte i volontari. Quasi nel medesimo punto spinse una colonna verso le alture di Sant'Angelo con istruzione di piegare in appresso a destra e di coadiuvare alla mossa del generale Tabacchi. La giornata sarebbe stata perduta pe' nostri se Garibaldi, la cui mente fu sempre di ripieghi feconda, prontamente non accorreva ad arrestare il progresso dell'armi borboniche.

LXIV.— Il Dittatore s'avvide della mossa dei Regii e mandò Malenchini col suo reggimento ed una parte del reggimento Winkler sulla estrema sinistra ad opporsi ai progressi nemici. A passo di corsa Malenchini stilava a tergo di Santa Maria e s'appostava nella campagna ad attendervi i Napoletani in una situazione impertanto e facile alla difesa del pari e all'offesa. Indi a non molto compariva il grosso delle truppe nemiche preceduto dal settimo cacciatori e da una compagnia di Carabinieri, i quali vennero accolti da una terribile salva di moschetteria. I Napoletani colpiti da prima esitarono: il che vedendo i volontari, abbandonata la posizione, si slanciarono alla baionetta, ributtando i soldati di Francesco II e cagionando loro gravissime perdite. Dopo breve resistenza i Regii disanimati ed impauriti volser le spalle fuggendo dispersi per la vasta spianata ed inseguendoli i nostri per buon tratto di strada nella direzione di Capila. Così la sorte delle armi dal lato di Santa Maria in un punto fu ristorata.

LXV.— In quel mentre arrivava la riserva comandata da Stefano Turr ed entrava difilata in azione. Il primo reggimento della brigata Eber accorreva a sostenere Malenchini ed a completare la rotta dei Regi alla sinistra di Santa Maria. Il lenente colonnello Marco Cossovich col secondo reggimento da lui comandato irruppe sul grande stradale di Sant'Angelo da quella parte caricando coll'usato vigore il nemico, il quale già minacciava superare le vette e girare la destra di Santa Maria. Né meno fortunato od audace di Malenchini, Cossóvich ributtava le profonde colonne borboniche ed a precipitosa fuga costringevate verso il Volturno.

LXVI.— 1 cacciatori napoletani frattanto, ignari della nuova piega che prendeano le cose, furiosamente investivano le barricale erette dai nostri a difendere l'ingresso di Santa Maria: tre reggimenti di linea e un forte corpo di artiglieri e due squadroni a cavallo secondavano quel decisivo conflitto. Il Re stesso conduceali all'assalto: e i conti di Caserta e di Trapani seco lui combattevano. La presenza reale infondeva nel cuor dei soldati una qualche scintilla di ardore guerriero od almeno quel po' di vergogna che talvolta rattiene i più vili ed assume sovente l'aspetto di virtù e di militare coraggio: per cui il combattimento infieriva al di là di quanto potrebbe idearsi. L'artiglieria napoletana fulminava la fronte dei nostri: una fitta grandine di proiettili avvolgeva le barricate: la terra, scossa dall'Insolito fragore, ne pareva tremare ed aprirsi. I cacciatori reali da quel lato eziandio si rendeano, dopo duro contrasto, padroni de' primi ridotti ed accennavano penetrar nell'interno. Se non che la disfatta del generale Tabacchi sulla destra e l'inaspettata comparsa de! colonnello Cossovich alla loro sinistra lasciati li aveva scoperti sui fianchi ed esposti al fuoco incrocialo dalle ali garibaldiane. Nello stesso tempo si videro furiosamente assaliti di fronte dal battaglione di fanti ungheresi, dagli usseri e dai cavalleggeri di Napoli che il Dittatore conduceva in persona al conflitto. Da quell'istante ogni resistenza divenne impossibile: i Napoletani, colti dal solito panico, retrocessero in furia e ben presto sbandavansi per la vicina campagna, travolgendo seco nella fuga la stessa persona del Re. Buon numero di morti e feriti, una grande quantità di armi ed attrezzi ed una intiera batteria da campo, vennero abbandonate nelle mani dei Mille. Il sesto ed il settimo cacciatori quasi per intiero sul campo restarono.

LXVII.— La divisione di Medici, che al cominciar della zuffa s'era allineata sul versante dei colli di fronte agl'irrompenti Borbonici, aveva essa pure dovuto dopo accanita resistenza piegare e ripararsi nelle sue posizioni. Assalita colà dal nemico tre volte superiore di numero manteneva per più ore un ineguale contesto nell'imminente pericolo d'una piena disfatta. I Regii spingendosi in masse profonde e serrate tolsero ai volontari alcuni ridotti già eretti a difesa del villaggio e dei prossimi colli, e s'insignorirono pur anche di pochi cannoni ch’eglino atristante inchiodarono. I colonnelli Cadolini e Vacchieri coi due reggimenti della brigata Simonetta, i bersaglieri ed i fanti di Dunneed i carabinieri genovesi operarono prodigi di virtù e di coraggio: in quattr'ore di fuoco incessante, malgrado il numero e la fortuna propizia, i Regii non riuscirono a guadagnare terreno oltre lo spazio di un miglio. Dovunque e sempre trovarono una resistenza indomata, un muro, per cosi dire, d'acciaio, contro il quale spuntavasi la loro baldanza od audacia. Se non che, nel punto che la battaglia pareva definitivamente pei nostri perduta, una vigorosa carica di Vacchieri e di Spangaro riponeva in equilibrio le sorti del giorno e in breve ora le conversero in favore dell'armi italiane.

LXVIII.— A destra i Bavaresi e gli Svizzeri, già signori della cresta di Monte Caro, cui i volontari aveano abbandonato in seguito alla ferita toccata al maggiore Boldrini che comandavali, minacciavano circondare il villaggio di Maddaloni e l'ala intiera di Bixio. Il colonnello Dezza, a cui aveva Bixio affidato la difesa di quel punto importante, raccolte in tutta fretta alcune compagnie di bersaglieri, spingevate contro il nemico. La quarta compagnia del maggiore Menotti Garibaldi veniva ben tosto a raggiungerle: nel frattempo il colonnello Taddei si portava ad assalire di fianco le alture perdute, e lo stesso Dezza colla sua brigata, accorrendo a sostenere i bersaglieri, allo scoperto e di fronte investivate. Lo scontro fu sanguinoso: i Regii resistettero con audace ostinazione al fuoco dei nostri ma slanciatisi questi alla baionetta, piegarono, retrocessero e ben tosto fuggirono.

LXIX.— Rioccupate le creste del Caro e securo oggimai della sua posizione, Dezza ritornava al maggiore Menotti il quale teneva imperterrito le alture di mezzo tra il Caro suddetto e il quartier generale. Strada facendo Dezza si avvide che i Regii, salendo coperti dal bosco che veste la montagna, miravano a riprendere, attaccando alte spalle, i gioghi perduti ed assalire il quartier generale medesimo. Non v'era un istante a perdere: Dezza, postosi alla testa del primo battaglione che v'era di guardia, ordinò egli stesso e diresse la carica, mentre Menotti invcstivali di Ranco. I Regii disordinati e battuti lasciarono tosto l'attacco e fuggirono, inseguendoli i nostri sino all'altipiano di Valle.

LXX.— Nello stesso momento il centro della divisione ributtava la colonna condotta dal generaleVan Mickel: per cui, colto il destro, Dezza accingevasi ad ascendere, coi pochi soldati che potè raggranellare, la montagna allo scopo d'intercettare la ritirata all'artiglieria ed alla cavalleria nemica. Se non che la consegna di mantenere le sue posizioni ispiravagli tosto la necessità di restare ed inducevalo a frenare lo slancio de' suoi vittoriosi soldati.

LXXI.— Un piccolo corpo di borboniani, che durante la battaglia era pervenuto a procedere oltre la linea dei nostri e a portarsi a tergo di Sant'Angelo, sorpreso dalla brigata Sacchi e da parte della brigata Simonetta, si vide bentosto costretto ad abbassare le armi e ad arrendersi. Un altro corpo assai più ragguardevole e composto di circa quattro mila Reali che aveva girato l'estrema destra di Bixio, trovandosi chiuso il ritorno a Capua, procedette sulle montagne di Caserta senza probabilità di salvezza o di scampo e facile preda ai vincitori.

LXXII.— Verso le tre pomeridiane dopo nove ore di fuoco, la disfatta dei Regii fu piena, decisiva e completa. La ritirata ebbe luogo con auspicii sinistri e si converse ben tosto in un salva chi può generale. La confusione, il disordine furono estremi: le compagnie si sbandavano, i battaglioni, i reggimenti e le intiere brigate, rotta ogni disciplina, promiscuamente accalcavansi ad oggetto di riparare al più presto nella vicina fortezza e nel campo. Ogni idea di rossore o vergogna, di dignità o dovere, di onore o virtù militare taceva in quell’anime in cui solo parlavano lo sgomento e il terrore l'onnipotente loro linguaggio. Molti si dispersero per le vicine campagna, moltissimi, gettate le armi, si nascosero ne. propinqui cascinali poiché loro mancava paranco il negativo coraggio della fuga; e non pochi accalcatisi sulle rive del fiume, volendo tragittarlo, affogarono. I Garibaldini vincitori gl'inseguirono sin oltre Formicola, ed a sinistra fino a cento metri dalle mura stesse di Capua (252).

LXXIII.— Il vegnente mattino secondo d'ottobre i Garibaldini s'accingevano a dare la caccia alla colonna borbonica, la quale tuttavolta aggiratasi dispersa fra le montagne del nord di Caserta. Questa, o credesse possibile riprendere Inoffensiva su Napoli, o la movesse necessità di procacciarsi i viveri, di buon ora scendeva alla volta di quella città. All’avvicinarsi dei Regii l'allarme fu dato per tutta la valle! le guardie nazionali di Caserta si schierarono dentro le mura pronte a contrastarle e a difenderle. Se non che i Borboniani si trovarono indi a non mollo raggiunti e rinchiusi tra la brigata Sacchi già di presidio a San Leucio e due battaglioni di bersaglieri Sardi in quelle vicinanze acquartierati. Stretti in tal guisa da tutte le parti i Reali, dopo scambiato qualche colpo, deposero atterriti le armi e si dieder prigionieri di guerra (253).

LXXIV.— I giornali moderati dall’Italia settentrionale in que' giorni spacciarono che l'armata garibaldina stava per essere completamente disfatta al Volturno il 1.° ottobre, e che i due suddetti battaglioni di bersaglieri erano sopravvenuti in tempo a ristabilire l'onore delle armi italiane ed a strappare al nemico una vittoria di già riportata. Tutto ciò è solenne menzogna: non un solo soldato dell’esercito regolare in tutto il giorno 1.° ottobre comparve sul campo di battaglia: perocché sebbene i volontari versassero per più ore in terribili angustie, ed ancorché i bersaglieri accampassero a Caserta Vecchia e quindi in prossimità del luogo dell'azione ed avessero tutta l'opportunità di partecipare alla lotta, non si mossero dai loro quartieri. Eglino soltanto comparvero il giorno dopo la grande vittoria a stringere presso a Caserta le truppe sbandate dei Regii ed a cooperare alla loro capitolazione. Egli è vero pur troppo che molti avrebbero forse meglio desiderato che Garibaldi al Volturno fosse rimasto battuto per appropriarsi in faccia all'Italia la gloria di avere essi soli salvata la patria (254).

LXXV.— Rientrava Francesco la sera alla sua residenza di Capua coll'esercito orribilmente decimato dal ferro dei volontari e dalle non meno numerose defezioni. Da quell'istante costretto vedevasi ad abbandonare ogni idea di riprendere l'offensiva, perocché coll'esporsi ad una nuova battaglia non avrebbe fatto che affrontare una nuova sconfitta. Né Capua poteva lungamente resistere all'urto dei Garibaldini, l'audacia dei quali per le recenti vittorie doveva essere a dismisura cresciuta. Per la qual cosa, e forse anche temendo che più tardi gli venisse intercetta la strada, l'infelice monarca lasciava la difesa del forte ai conti di Caserta e di Trapani, mentr'egli colla moglie riparava in Gaeta.

LXXVI.— Tale fu l'esito della battaglia che decise per sempre le sorti del Regno e della dinastia dei Borboni. Dopo la disfatta subita al Volturno ogni resistenza diveniva inopportuna ed inutile e solo giovava a salvare l'onore delle armi. Trattavasi non già di vincere e di ricuperare il perduto,ma di prolungare un'agonia lenta e dolorosa a cui tosto o lardi doveva seguire l'estrema rovina. Capua e Gaeta erano punti fortificati di somma importanza e potevano per un tempo lottare e difendersi: ma l'esperienza dimostra la inutilità delle fortezze quando non si hanno eserciti da tener la campagna e proteggerle. Le angustie dell'assedio, le malattie, la fame e la mancanza di munizioni che s'esauriscono sempre sono irreparabili mali e valgono essi soli ad espugnarne e demolirne le porte, i baluardi e le mura.


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LIBRO XIV

Arrivo dei Sardi — Rinvio dei volontari

I.— Mentre Garibaldi consolidava al Volturno il governo dittatoriale e la rigenerazione di Sicilia e di Napoli, i moderati di tutta Italia, in quest'ultima città convenuti, davan opera a trargli di mano il potere supremo, frutto di tanti pericoli, di lunghe fatiche e continue e segnalate vittorie. Nella storia del mondo non trovasi esempio di cospirazioni si attive» sì vaste, promosse e dirette contro un partito ed un uomo, nell'atto medesimo che quell'uomo e quel partito operavano cose sì grandi a beneficio speciale dei loro stessi avversari. I Garibaldini avevano ricongiunto due Regni all'Italia, allargato il paese e rassodata la nazionale grandezza: tutta volta dove aspettare poteane riconoscenza ed affetto non ebbero che affronti e soprusi. Ed è fatto notorio che in buona parte i più accaniti avversari degli ultra al valore ed ai trionfi di Garibaldi unicamente dovevano il ritorno alla terra nativa. L'invasione delle Marche e dell'Umbria e l'espugnazione di Ancona elevavano le pretese della consorteria La-Fariniana ed offrivano ai moderati il destro di compiere i vecchi disegni e di accelerare il movimento annessionista nella l'erra ferma e nell'Isola. Le vittorie dei volontari rimasero per poco ecclissate dai trionfi riportati dall'esercito regolare: per cui si credette arrivato ristante opportuno a dare all'armata meridionale il gran colpo cui da più mesi stavasi già maturando.

II.— I successi ottenuti nelle Marche e nell'Umbria avevano assorbito i pensieri e da quella parte attratta l'attenzione dei popoli: i giornali riporlavano le più minute particolarità della breve e brillante campagna, mentre, ad eccezione soltanto di pochi, sdegnavano occuparsi dei latti dei Mille.

La capitolazione di Ancona veniva festeggiata so

lennemente per invito o per ordine dei singoli municipi): si facevano luminarie e baldorie per tutta l'Italia: né d'altro in que' giorni parlavasj

che della splendida impresa compiuta da Cialdini e da Fanti. Ed in mezzo all'universale tripudio 4e vittorie di Garibaldi apparivano siccome in penombra e quasi affogate nel mare magno degli elogi ed applausi tributati ai vincitori di Castielfidardo e Perugia.

III.— Studiavasi ad ogni costo di menomare agli occhi delle popolazioni le splendide gesta dei Mille e con latte farti cercavasi oscurarne la gloria ed attenuarne l'importanza ed il merito. Per questo si sparsero le voci più strane ed assurde sulla loro condotta, sulla loro amministrazione e sul loro governo. Voleasi annientare o per lo meno ridurre alle minime proporzioni l’immensa popolarità del Dittatore, e sfrondar quegli allori che nel pensiero dei posteri saranno mai sempre consociati all'idea dell'Italia risorta.

IV.— Verso lo spirare di settembre le arti dei moderati cominciavano a portare i lor frutti. La popolazione, raggirata e sedotta dai secreti maneggi della consorteria La-Fariniana, tumultuava ed altamente chiedeva l'immediata annessione: i magistrati in gran parte aderivano al nuovo disegno, e fedeli seguaci dell'astro che montava, col numero maggiore ponevansi: siccome aveano abbandonato Francesco II al levarsi della stella Garibaldiana cosi al tramontare di questa schieravansi sotto il vessillo del conte Cavour.

V.— La cospirazione annessionista aveva già invaso tutte le classi. Il disordine s'insinuava bentosto nell'amministrazione e negli affari: l’incertezza siccome un incubo pesava sugli animi. Il mal essere conseguenza di tanti raggiri, ad arte esagerato od accresciuto, veniva con aperta malafede attribuito all'incapacità degli amici della Dittatura, ed aumentava l'avversione delle masse al nuovo governo e la smania unitaria.

VI.— A Napoli, terra aperta nuovamente a libertà, accorrevano pure gli uomini appartenenti alle dottrine avanzate, i capi del partito d'azione, ¿ra cui primeggiava Giuseppe Mazzini. Egli veniva ad appoggiare il governo della sua autorità ed a cooperare al disegno da Garibaldi formato per la completa rigenerazione d'Italia. E questi erano i soli uomini sui quali il Dittatore poteva contare: poiché essi desideravano sopra lutto e prima di tutto assicurare la libertà e l'avvenire dell'intiero paese. Non mai cadde loro in pensiero di osteggiare o impedire l'unità; ma soltanto bramavano differirla e rimandarla a tempo migliore, quando alle provincie già libere si fossero aggiunte Roma e Venezia. Diffidando della diplomazia e della prudenza del ministero torinese preferivano temporaneamente la Dittatura garibaldiana come quella che offriva più certa e diretta speranza d'una guerra col Papa e coll'Austria.

VII.— La comparsa di Giuseppe Mazzini aggiungeva esca all'incendio. I moderati colsero a volo il felice pretesto nel rappresentare alle ignare popolazioni coma Napoli fosse divenuto il ritrovo dei repubblicani e degli anarchisti. Si accusava Ja Dittatura di lasciar libero corso alle passioni rivoluzionarie che avrebbero perduto l'Italia e di porre in sospetto la diplomazia intorno i veri sentimenti del paese. Vociferavasi di estese congiure tramate ad oggetto di scindere la patria e di fondare non sappiamo quale democrazia o repubblica. E l’opinione generale, di già accaparrata alla moderazione, altamente pronunciavasi contro quell'ordine di cose dal quale, dietro quanto era asserito, poteano derivare irreparabili mali.

VIII.— I La-Fariniani esageravano scientemente le loro apprensioni e ingannavamo altri e se stessi sui veri intendimenti di Giuseppe Mazzini, e del partito da lui capitanato. Era stolida ed assurda l'accusa clf egli ri adoperasse a scindere in due o più parti l'Italia ed a fondare una intempestiva e precaria repubblica. Mazzini fu sempre e sopra ogn'altra cosa unitario: come tale cospirò per ben trenta lunghissimi anni d'csiglio: e non era nò ragionevole, né logico il supporre che un uomo come lui potesse a«l un tratto rinnegar quella fede che Io sostenne e lo animò in tutta la sua carriera politica. E se egli come Garibaldi e tanti altri, desiderava procrastinar Pannessionc era appunto per compiere più facilmente e più presto la vagheggiata unità nazionale. E i moderati il sapevano sebbene con tanto rumore spacciassero temere il contrario.

IX. —Non v'ha e non vebbe uomo in Italia che sia o fosse più di Mazzini infatuato dell'idea dell'assoluta unità. Per questo negli anni addietro aveva egli acremente combattuto il sistema dei federali che pur tanto vulcano, meno impedire Paccentramento che, rimandare a guerra finita Passetto del governo nazionale. I federali avevano pur troppo saggiamente previsto come l''immediata unità dovesse condurre ad una dittatura che avrebbe reso impossibile il compimento del programma italiano, od almeno rimandatolo a tempo indefinito. La forza delle cose persuadeva Mazzini, mentre egli trovavasi a Napoli, della giustezza di quella politica: ed in conseguenza avrebbe desiderato che l’applicazione della teoria ¡unitaria venisse posposta alla completa soluzione del problema italiano.

X. —La presenza a Napoli di Giuseppe Mazzini orribilmente pesava sul cuore dei moderati: né risparmiaronsi arti o maneggi per indurlo a partire. Si facevano affiggere pei crocivii de' cartelli insolenti o sui muri scrivevansi irriverenti e minacciose parole: turbe di lazzaroni prezzolati si mandavano sotto le finestre dell'esule venerando a schiamazzare, ed inveire ne' modi più brutali ed indecorosi contro l'uomo che tanto aveva operato e patito per la causa d'Italia. E come ciò non bastava a vincere là calma dell'uomo eminentemente italiano e patriotta il prodittatore Pallavicino Trivulzio poco fraternamente esortavalo con una lettera ad allontanarsi al più presto dal Regno.

XI.— La lettera del marchese Pallavicino, tradotta in volgare, suonava del tenore seguente: Noi non possiamo vivere in parità di condizioni sulla terra medesima, perché non possiamo avere le stesse convinzioni, lo rappresento in Napoli il principio della monarchia e dell'ordine: per conseguenza voi dovete rappresentarvi quello dell'anarchia e della repubblica. So che sono pure le vostre intenzioni e conosco il vostro amore all'Italia: ciò nulla meno voi siete la causa, per Io meno involontaria, di continue macchinazioni sovversive e di scandali. La vostra presenza non va nullamente a genio de' miei superiori: in due noi siamo di troppo: perciò vi prego d'andarvene.

XII.— Al che Mazzini dignitosamente rispose non sentirsi né colpevole né artefice di pericoli al paese, né macchinatore di conati dannosi alla causa per cui tanto aveva sofferto. Italiano in terra italiana stimava suo debito sostenere il diritto che ha ciascun cittadino di vivere nel proprio paese mentr'egli non ne offenda le leggi. Aver egli di già accettato, non per riverenza a ministri o a monarchi, ma bensì al voto nazionale sancito dalla maggioranza, la monarchia colla quale era pronto a cooperare purché conducesse all'unità della patria. Quindi forte della propria coscienza credeva suo debito opporre un aperto rifiuto all'invito di rettogli di allontanarsi da Napoli (255).

XIII.— L’agitazione annessionista aumentava frattanto a misura che i Garibaldiani parevano più risoluti a frenarne o moderarne l'effervescenza e lo slancio. La diplomazia stessa ne era vivamente impressionata e congiungeva i suoi sforzi a quelli dei moderati per condurre le cose a una soluzione conforme a' suoi voli ed interessi I dispacci del ministro inglese sopratutto riboccano di passaggi concernenti gli affari di Napoli ed apertamente dimostrano quale premura si ponesse a precipitare il plebiscito che avrebbe collocato le sorti d'Italia in mani stimate più sicure che quelle di Garibaldi. I negozianti di Londra, che aveano, coll'allargarsi della monarchia piemontese, dilatato cotanto la sfera dei loro traffichi, non potevano adattarsi all'idea di vedere gli sperati e vicini guadagni compromessi da una guerra intempestiva coll'Austria od a Roma. I Garibaldiani, soli a lottare, dovettero ben presto cedere alla inesorabile necessità di lasciare che altri facesse a suo modo e che la vasta coalizione contr'essi promossa ottenesse l'intento.

XIV.— Dal complesso dei tatti in que' giorni accaduti risulterebbe che i moderati temessero da parte dei Garibaldiani incontrare una seria opposizione alle loro pretese d'immediata unità e che in tal caso e con lutti i mezzi s'apparecchiassero a compiere ciò ch'eglino chiamavano il bene e l'interesse comune d'Italia. Non è a dire come gl'Italiani, lusingati da vane apparenze, inclinassero a favorire il partito del moderantismo e come vedessero nella pronta fusione delle provincie meridionali la prospettiva d'un lieto avvenire e la possibilità d'una guerra sul veneto. Perciò la maggioranza altamente biasimava Garibaldi e lo accusava di allontanare le benedizioni che dopo il plebiscito sarebbero d'ogni parte piovute. Già i faccendieri della moderazione parlavano arditamente della ostinazione del Dittatore e facevano travedere la necessità di costringerlo, anche colla forza, a discendere a migliori consigli.

XV.— Ad accrescere l'indignazione popolare Sopraggiungeva il dispaccio che narrava avere il gabinetto Dittatoriale di Napoli spedito al colonnello Tripoli negli Abbruzzi l'ordine di respingere armata mano le truppe sarde qualora queste si fossero presentate al confine. L'esistenza e l'esattezza di tale dispaccio fu ed è tuttavolta un mistero che il tempo soltanto potrà rivelare: il deputato Bertani a cui prima venne attribuito solennemente dichiarò non avere mai dato istruzioni consimili: nè, per quanto ci consta, il colonnello Tripoli asseri mai averle ricevute. D'altra parte, imparzialmente esaminando la cosa, e' pare che fosse una spiritosa invenzione immaginata ad oggetto di dar l'ultimo crollo alla popolarità garibaldiana. Anzi tutto è debito osservare che i Sardi, penetrando negli Abbruzzi, non incontrarono opposizione di sorta da parte dei nostri: il che vorrebbe dire che Tripoli non aveva ricevuto quell'ordine o per lo meno che questo fu rivocato prima della comparsa delle truppe regolari. Ma la questione principale consiste in sapere per qual via e con qual mezzo il telegrafo venne a sorprendere un dispaccio diretto ad un colonnello e che a lui solo doveva essere affidato. È questo un enigma non facile a sciogliersi, massimamente considerando con quale gelosia si debbono conservare i secreti del campo. Né in alcun ordine del giorno diretto alle truppe da Tripoli o d'altri si trova menzione d'un dispaccio si iniquo come quello che avrebbe provocato una guerra fratricida tra i volontari e l'armata regolare. La congettura che più sembra probabile, anche dato che l'ordine venisse trasmesso ad alcuno, si è che fosse una mistificazione ordita da qualche impiegatuccio guadagnato alle idee moderate per accelerare la caduta della già detestata Dittatura garibaldiana.

XVI.— Ai primi d'ottobre una deputazione, composta di alcuni municipali e dei rappresentanti la magistratura e le professioni libere, salpava da Napoli verso Livorno, donde moveva ad ossequiare il Re ed a sollecitare l'entrata delle truppe italiane nel Regno. Essa raggiungeva Sua Maestà il giorno 6 successivo a Grottammare: accolta benignamente espose l'ambasciata e n' ebbe parole di adesione e di lode. In conseguenza, officialmente invitato dalle rappresentanze del paese e chiamato dal voto degli abitanti. L’esercito sardo concentravasi lungo il confine ed il 12 penetrava dall'ascolano sul suolo abbruzzese.

XVII.— Contemporaneamente il Dittatore ne dava l'avviso alle sue truppe ed al popolo. Con espresso ordine del giorno esortava i volontari e gli abitanti a ricevere degnamente ed a festeggiare i fratelli dell'armata regolare i quali venivano ad assicurare la pace delle provincie ed a partecipare ai pericoli che tuttavia a superare restavano. Quell’ordine del giorno fu accolto dovunque con immense ed entusiaste acclamazioni di giubilo: e liberali e La-Fariniani e Borbonici, mossi da varie ed opposte ragioni, si confusero in un sentimento comune di gioia e d'applauso.

XVIII.— A calmare l'agitazione febbrile che intorno fremevagli, il Prodittatore soscriveva ed emanava il decreto di convocazione delle assemblee popolari destinate a votar l'annessione. In esso decreto stabilivasi la formola su cui la votazione doveva aver luogo e conteneansi le necessarie istruzioni per regolare i comizii e raccogliere i suffragi del popolo (256). Questo decreto porta la

Il popolo sarà convocato pel corrente mese «T ottobre... per accettare o rigettare il seguente plebiscito: il popolo vuole l'Italia una ed indWHtiite, con VII

661 data dell'8 ottobre e la Arma del marchese Pallavicino-Trivulzio: ed era stato preceduto da altro decreto consimile promulgato dal prodittatore Mordini il XXXo dello stesso mese a Palermo. La differenza fra i due decreti consisteva in ciò che mentre l'annessione in terraferma doveva votarsi per suffragio universale, nell'Isola doveva aver luogo col mezzo di rappresentanti eletti a tale uopo dalla popolazione. Ma siccome la misura di convocare i deputati parve in appresso troppo rivoluzionaria se ne smise il pensiero, e la votazione, lo stesso giorno Si, segui in Sicilia nel medesimo modo che a Napoli.

XIX.— Già in settembre, quando Garibaldi pensava rimandare ad altro tempo la voluta annessione, era stato emanato il decreto di convocazione dei comizii elettorali per l'elezione dei deputati all'assemblea del Regno, la quale avrebbe dovuto cooperare col governo al mantenimento dell'ordine, alla percezione delle imposte, alla promulgazione delle leggi e all'armamento del paese. Quel decreto area messo l'allarme nel campo dei dissidenti i quali troppo bene capivano che radunata l'assemblea dei rappresentanti del popolo sarebbe divenuto per essi impossibile raggiungere si tosto la meta dei loro maneggi. I moderati tanto fecero e s'agitarono che l'odiato decreto non ebbe altro seguito e venne in appresso abrogatorio Emanuele Re costituzionale, e suoi legittimi discendenti. Articolo primo' del detto decreto.

XX.— Il plebiscito ebbe luogo nel giorno fissalo 21 di ottobre, e come s'era preveduto, ottenne la quasi totalità dei suffragi. Con eguale fortuna compivasi la votazione delle Marche e dell'Umbria che ansiosamente del pari attendeano il momento d'unirsi all'Italia. In tal guisa la piccola monarchia piemontese, usando prudentemente della libertà, diveniva in breve tempo, per la propria e più ancora per l'abnegazione dei patriotti, Regno Italiano.

XXI.— Mentre Napoli e Sicilia festeggiavano l'aurora del nuovo governo e mentre le truppe sabaude lentamente traversavan gli Abbruzzi, Garibaldi volgeva il pensiero a stringere vieppiù e ad espugnare la fortezza di Capua. Trasportati a Sant'Angelo tutti i cannoni di grosso calibro rinvenuti sui forti di Napoli fece erigere diverse batterie sui colli che dominano la città e cominciò il bombardamento. Indarno i Napoletani con diverse sortite tentarono arrestare i progressi e i lavori dei nostri: in tutti gli scontri avvenuti fra il 5 ed il 20 d'ottobre vennero sanguinosamente respinti dietro i loro ripari.

XXII.— Il mattino del 21 i Regii s'accinsero a fare un ultimo sforzo per sottrarsi ad una capitolazione cui le tocche sconfitte avevano già resa, vicina ed inevitabile. Tacitamente usciti da Capua e valicato il Volturno assalirono divisi in due colonne gli avamposti di Sant'Angelo in Formis tentando impadronirsi delle artiglierie collocate sulle prossime alture. La zuffa durò da entrambe le parti accanita ed atroce: ma finalmente caricate a baionetta le colonne reali piegarono e con indicibile confusione abbandonarono il campo fuggendo a precipizio nel forte. Cosi la votazione popolare veniva festeggiata da bella e segnalata vittoria.

XXIII.— Già fin dal settembre un grosso distaccamento di truppe borboniche agli ordini del generale Scotti era stato inviato dal giovine Re negli Abbruzzi a tenere in obbedienza quella montagnosa provincia e forse anche a reclutare soldati di cui tanto aveasi bisogno. Numerosi emissari i regii, protetti dalle armi di Scotti, percorrevano continuamente i villaggi e le città del Sannio sforzandosi a riaccendere nei petti di que' bellicosi montanari un Ultimo raggio di fede alla dinastia soccombente. Se non che il governo borboniano era cosi generalmente detestato che diveniva malagevolissimo l'accaparrare soldati alla sua causa. Le proposte dei Regii erano con isdegno respinte e spesso i mandatari cacciati con minaceie od atti ancora peggiori.

XXIV.— I montanari del Matese e dei gioghi vicini ad Isernia ed alla valle del Sangro furono i soli che prestarono orecchio alle suggestioni venute da Capua. Sedotti da vane quanto larghe promesse o forse comprati dall’oro borbonico, eglino apertamente sposarono la bianca bandiera reale e minacciarono una generale insurrezione. Il generale Scotti accorse tosto a raffermarli in quel divisamento ed a rinforzare colle truppe la vicina rivolta. In tal modo fu accesa la prima scintilla che da due anni devasta col flagello del brigantaggio le già ricche e fiorenti provincie meridionali.

XXV.— Al primo sintomo di reazione il Dittatore, nulla sapendo del corpo di Scotti, inviava un drappella di bersaglieri ed alcune compagnie della guardia nazionale a frenare la sommossa e, se in armi, a disperderla e ad arrestarne e punirne gl'istigatori ed i capi. Il piccolo corpo spedizionario penetrava per la via di Ponte Landolfo e Morcone a Campobasso ed Isernia, dove contro. l’aspettativa, si vide affrontato da un intero esercito regio. I Napolitani di Scotti unitamente agli insorti sommavano a non meno di cinquemila uomini pratici dei luoghi ed addestrati in gran parte alle evoluzioni di guerra. Le guardie nazionali a fronte del rischio imminente ben presto sbandavansi lasciando esposti in paese sconosciuto i volontari appena apamontanti a duecento cinquanta soldati.

XXVI.— Né per questo smarritisi, ma coll'avvicinarsi e coll'ingrossar del pericolo crescendo d'audacia, i Garibaldini osarono intimare al ge> nerale nemico la resa. Era temerità la loro: ma ben può scusarsi considerando com'eglino fossero abituati a lottare ed a vincere senza tenere alcun calcolo della numerica superiorità dei Reali. Questi, avvedutisi delibi esiguità delle forze garibaldiane, giovandosi della conoscenza del suolo, e marciando inosservati fra le montagne, accerchiarono i duecento e cinquanta e li costrinsero a darsi prigioni. Quelli infelici vennero crudelmente maltrattali dalle truppe ed alcuni perdettero ignominiosamente la vita per mano degl'insorti.

XXVII.— Come a Garibaldi pervenne l’annunzio di Unto disastro s'accinse ad inviare una seconda spedizione con espresso comando di far piena vendetta degli assassinati fratelli ed a trar di capo ai montanari la voglia di misurarsi un'altra volta co’ suoi. Se non che lo prevenne il generale Cialdini, il quale marciando per la grande strada militare di Teramo e Chieti inoltravasi nell'interno degli Abbruzzi e tendeva difilato a Capua e Gaeta.

XXVIII.— Il giorno medesimo 21 d'ottobre che Garibaldi batteva i Borboniani a Sant'Angelo e che il plebiscito dello provincie meridionali creava il Regno d'Italia, fu segnalato dal primo trionfo ottenuto dall'armata regolare sui Regii. Esso apriva pel generale Cialdini quella non interrotta serie di successi e vittorie che doveva condurre alla espugnazione di Gaeta, di Civitella del Tronto e Messina.

XXIX.— Il mattino del 28 l'avanguardia di Cialdini raggiungeva la vetta del Macerane nei dintorni di Sandria, laddove la strada, tagliando la valle del Sangro, si volge ad Isernia. Di là il generale Grifllni scoperse l'armata di Scotti la quale divisa in tre colonne avanzavasi evidentemente allo scopo di assalire le truppe italiane. Le forze borboniche potevano valutarsi a circa seimila combattenti, la metà dei quali apparteneva alla gendarmeria, un terzo al primo reggimento di linea e il rimanente composto d'insorti. Gl'Italiani non avevano pel momento da opporre che due battaglioni di bersaglieri ed una sezione d'artiglieria da montagna.

XXX.— Le colonne borboniche marciavano parallelamente alle posizioni dei nostri: l’una sul centro e le altre alle due estremità. La prima seguiva la strada postale, mentre le ali destra e sinistra salivano sui contrafforti laterali minacciando l'altura del Macerone contemporaneamente di fronte, alle spalle ad ai fianchi.

XXXI.— I bersaglieri senza punto badare alla superiorità del nemico si distesero sul versante del colle pronti a rintuzzarne l'audacia. Fra le sei e le sette del mattino incominciava un vivissimo fuoco di moschetteria da entrambe le parti assai sostenuto. Nel frattempo Cialdini, avvedutosi del pericolo in cui l'avanguardia versava, a marcia forzata condueeva la brigata Regina a soccorrerla.

XXXII.— Superata correndo la lunga salita, Cialdini a destra ed a sinistra spingeva alcuni battaglioni ad urtare il nemico ai suoi fianchi, mentr'egli col resto delle forze lo affrontava a cavaliere dello stradale di faccia. Il combattimento durava appena mezz'ora, in capo alla quale i Napoletani sbaragliati e conquisi gettarono le armi e precipitosamente rivolsero ai nostri le spalle e fuggirono. Uno squadrone dei cavalleggeri Novara comandato dal capitano Montiglio slanciossi ad inseguire i fuggiaschi, e coadiuvato dal sesto e dal settimo bersaglieri guidati da Griftìni ne prese buon numero prigioni fra cui lo stesso generale.

XXXIII. —Colla vittoria riportata al Macerone sottraevasi al dominio delle autorità borboniana l'intiero paese che stendesi dalle rive del Volturno e del Sangro alle frontiere papali. La rotta e la prigionia del generale Douglas Scotti finiva per allora a dissipare ed a spegnere ogni sintomo di insurrezione e di guerra fraterna, cui la ribalda polizia del cadente governo aveva con ogni arte cercato attizzare tra le valli del Sannio. Se non che il brigantaggio, momentaneamente depresso dalla energica mano di Cialdini, doveva indi a non molto ricomparire e devastare con furia novella quelle infelici provincie.

XXXIV.— Cialdini continuava la marcia, ed oltrepassata Isernia, già ridotta a dovere, scendeva a Tuliverna e a Venafro dove congiungevasi col resto dell'armata. Il 25 d'ottobre le truppe sarde tróvavansi a due marcio dal campo di Sant'Angelo ed a tre tappe tutto al più da Gaeta.

XXXV.— Con eguale fortuna le truppe italiane valicarono a Rieti il confine abbruzzese e per la via d'Antrodoco e d'Aquila distendevansi nelle sottoposte provincie, di già dai Regii sgombrate. Questi, concentrato il numero maggiore di forze delle quali potevano disporre, ai accamparono dietro la linea del Garigliano sui gioghi di Roccaguglielma, nella evidente intenzione di coprire lo stradale di Gaeta o per lo meno di ritardare il progresso dei nostri.

XXXVI. —Il 21 ottobre Cialdini scriveva da Campobasso al general Garibaldi annunciandogli la disfatta del corpo di Scotti ed esortandolo a spingere i volontari sin verso Boiano. Cialdini stesso contava pel giorno seguente inviare una ricognizione sin oltre Pettoranello. Egli formava in tal modo il progetto d'intercettare ai fuggiaschi del Macerane la via di Venafro, ma indarno: lo spavento avea loro messo le ali alle piante, sicché la notte medesima si erano condutti in salvo al di qua del Volturno.

XXXVII.— L'avvicinarsi dei Sardi era pel Dittatore un incentivo di precipitare gli eventi e di accelerare l'ambita espugnazione di Capua, già quasi ridotta agli estremi. In conseguenza il 26 si recava col generale Avezzana ad osservare le posizioni borboniche ed a tracciare il disegno del prossimo ed ultimo attacco. Dall'alto del monte Sant'Angelo vide che i Regii nel punto stesso accingevansi ad attaccare la destra delle posizioni italiane senza dubbio all'intento d'impadronirsi della cascina Tognini dove i volontari stavano erigendo una batteria di mortai. Egli allora disegnò nella mente il suo piano ed emanò le opportune istruzioni perché venisse fedelmente eseguito.

XXXVIII.— I capitani Consolino e Monca colle guide a piedi, alcuni calabresi ed il battaglione Cicalese occuparono il colle situato fra il bosco che fiancheggia il Volturno e la strada coperta che metteva al campo dei Regii. Il battaglione Galoppo schieravasi dalla Casa Bianca sino al cascinale chiamato il Salsillo. Finalmente la terza compagnia del battaglione del Gargano teneva le alture frapposte alle cascine Salsillo suddetta e Gravante. Stava di riserva la colonna Fabbrizi col battaglione dell'Ofanto: ed una batteria stanziava nella Casa dei Mattoni sullo stradale di Capua.

XXXIX.— Il 27 di buon mattino il nemico stendevasi in profonde colonne sull'estrema destra del campo italiano tentando colla cooperazione delle artiglierie di Capua forzare la posizione tenuta del colonnello Bruzzesi al bosco vicino al Volturno. Ricevettero i volontari colla solita intrepidezza quell'urto, e perdurarono per ben sei ore alla difesa, sinché i Borboniani accingendosi ad assalirli con impeto maggiore e nuove truppe, sopravenne il colonnello Fabrizi a frenarne del tutto lo slancio e il progresso. Dopo due ore di fuoco vigoroso il nemico. incalzato da tutte le parti si vide costretto a battere in ritirata ed a ripiegarsi su Capua, inseguendolo il colonnello Bruzzesi, il quale riusciva in tal guisa ad insignorirsi del primo ridotto dei Regii che fece ben tosto occupare dal battaglione Cicalese.

XL. —Nella notte del 27 al 28, i volontari persuasi che i Regii avrebbero il susseguente mattino cercato riprendere la posizione perduta, vi si rafforzarono costruendovi un parapetto con socchi di terra e fascine e munendolo con due pezzi da campo. Ivi sull'imbrunire 'accadeva uno strano accidente. Un carabiniere borbonico, il quale aveva la sera precedente all'azione portalo a quel posto la parola d'ordine, nulla sapendo che fosse caduto in potere dei volontari tornava la medesima sera ad eseguirvi la stessa missione. Il maggiore Cicalese, accortosi dell'insidia a cui il carabiniere inconscio traevasi, ritardava rispondere alle sue richieste affinché s'accostasse, ed al terzo appello, come d'uso, s'affacciò a ricevere un biglietto scritto che l'altro gli porse, contenente la parola di campo San Demetrio e il motto d'ordine D'Arpignano. In quel mentre, avvistosi dell'errore in cui era caduto, volle il carabiniere voltare il cavallo e fuggire; era già troppo tardi: poiché il Cicalese appuntandogli al petto il fucile intimogli d'arrendersi e il fece prigione.

XLI.— Il seguente mattino 28 i Garibaldini ed i Regii riaprirono il fuoco, tentando questi respingere gli avamposti italiani e quelli cominciando a battere in breccia le mura di Capua. Le artiglierie borboniane spazzavano davanti a sé la campagna e riescivano a distruggere la cascina Gravante le prossime case e la chiesa. Verso il mezzogiorno per indurre i volontari ad uscire dalle loro posizioni i Napoletani simulavano attaccarli dalla strada che mette da Capua a Sant'Angelo, mentre un grosso corpo di cavalleria distendendosi per la spianata accennava girare la nostra sinistra dal lato di Santa Maria. Ma le arti e gli sforzi a vuoto del pari cadevano davanti al valore ed all'astuzia garibaldiana. la cavalleria regia venne sanguinosamente respinta ed inseguita fin sotto le mura del forte. Un ultimo tentativo eseguito dal nemico verso le ore cinque pomeridiane non ebbe miglior esito, per cui dovette abbandonar la speranza di riprendere i punti perduti.

XLII. —In que' giorni sopravveniva ai Reali l’ingrata notizia che l'esercito sardo, superate le creste del Matese e Venafro, sollecitamente marciava alla volta di Capua. Conseguenza della mossa dei Sardi fu che i Napoletani perdettero senza colpo ferire il forte Caiazzo e le alture di monte Gerusalemme, che abbandonarono per l'impossibilità di tenerle e difenderle. Eglino dovettero successivamente sgombrare i punti fortificati ed il campo trincierato posto a settentrione della città, la quale rimaneva per tal guisa da tre lati investita dalle truppe volontarie e regolari.

XLIII.— Il mattino del 30 l'avanguardia dei Sardi comparve sui gioghi al di sopra di Capua, e lo stesso giorno i generali Menabrea e La Rocca conferirono con Garibaldi sul modo d'aprire il bombardamento della fortezza. Durante questo ed il giorno seguente si presero le necessarie misure per incominciare l'attacco, il quale venne per diverse ragioni rimandato alle ore pomeridiane del l.° novembre.

XLIV.— Gli artiglieri piemontesi occuparono le batterie del Casino Reale, sull'estremità del bosco di Carditello, e di San l'amaro: ed i Garibaldini serbavano per sé quelle di Casa Bianca e del colle dei Cappuccini. Il capitano Guberti, sardo, comandava la batteria più avanzata al Casino Tognini Calvarola, a novecento metri da Capua.

XLV. —Stretta cosi la fortezza, doveva aprirsi il bombardamento ad un'ora del pomeriggio 1.° novembre: ma per alcune osservazioni fatte posteriormente si credette opportuno di aggiungere prima due cannoni rigati alla batteria del Casino Reale e di collocare altri pezzi da sessanta a San l'amaro. Per tal modo l'attacco dovea cominciarsi con quaranta e più bocche da fuoco.

XLVI.— A due ore e mezzo notossi uno straordinario movimento nel campo italiano: tosto se nc conobbe la causa. Erasi divulgata la voce del prossimo arrivo di Garibaldi e del Re; e i volontari e i soldati, invasi da eguale entusiasmo, ansiosamente agitavansi aspettando che comparissero. Il Dittatore non tardava guari a sopraggiungere accompagnato da Sirtori ed altri ufficiali di Stato Maggiore: e i volontari, fra i quali vociferavasi già del vicino ritorno a Caprera, il salutarono con immenso trasporto di tenerezza e d'affetto.

XLVII.— Mezz'ora non era trascorsa che Vittorio Emanuele comparve con una semplice scorta e senza pompa di Re in un'angusta vettura;e nel campo ripigliarono le acclamazioni e gli applausi. Il Re si portava a parlare al generale La Rocca residente a Santa Maria e quindi rivolse il cammino alla collina di Sant’Angelo. Garibaldi, avvertito della sua venuta, movevagli incontro. Il Re ed il Dittatore stettero a lungo in istrelto colloquio: il loro abboccamento fu cordiale ed intimo; ché certo nessuno meglio del soldato di Palestre e San Martino era fatto per comprendere il soldato di Parco e Palermo.

XLVIII.— Circa le ore tre e mezzo pomeridiane Vittorio Emanuele ascendeva la montagna di Sant'Angelo, donde dominavasi la valle soggetta, le rive del Volturno, le fortificazioni di Capua e le posizioni italiane. Colà pervenuto il Re piantava di sua mano sulla cresta più alta una piccola bandiera rossa; e come fosse quello il convenuto segnale il campo italiano riapriva in quell'istante il fuoco ed incominciava a bombardare la nemica fortezza.

XLIX.— Alle ore quattro precise la batteria eretta alla Casa Bianca lanciò la prima sua bomba: le artiglierie del forte risposero e le loro palle sfiorarono i pezzi dei nostri. Un minuto dopo le batterie italiane e borboniche si trovarono promiscuamente impegnate nello stesso conflitto. Il tuonar di forse cento cannoni, ripercosso dagli echi delle vicine montagne, riempiva la valle d'orrendo fragore, e dense colonne di fumo, sollevandosi da cento punti ad un tempo, avvolgevano in una nebbia cenerognola gli accampamenti italiani e i ridotti dei Regii. Il Volturno sembrava muggire ed il suolo tremare el aprirsi all'insolito e fragoroso rimbombo, la cui furia parea raddoppiare a misura che la lotta più prolungavasi.

L.— Le truppe italiane, animate dalla presenza del Re che osservava dall'alto il conflitto, gareggiavano le une colle altre di zelo e d'audacia. I primi ridotti dei Regii, fulminati dalle nostre artiglierie, non erano più che mucchio di rottami e rovine: eziandio la fortezza aveva sofferto moltissimo. I Napoletani battevano con molta precisione le trinciere dei nostri; ma i loro proiettili venendo a percuotere nel terreno arrendevole e smosso non producevano effetto veruno. Quattr'ore durava il combattimento sinché la notte discese fittissima mise termine a tanto furore.

LI.— Alle ore otto di sera le artiglierie tacquero intieramente, e il silenzio riprese l'impero su quell'orrendo teatro di rabbia e distruzione. Il seguente mattino i soldati schieravansi nelle loro posizioni, e gli artiglieri ritornavano alle rispettive batterie. Il tempo era malinconico e tetro:, il sole levavasi velato della nebbia d'autunno quasi sdegnasse essere spettatore delle stragi e delle rovine che s'andavano già preparando.

LII.— Erano le ore sette e mezzo. La bandiera rossa tuttavia sventolava dal monte Sani Angelo ma nessun colpo partiva né dalle trinciere né dalla fortezza. Poco prima delle otto un aiutante di campo del generale La Rocca annunciava al capo dello Stato Maggiore garibaldiano che Capua domandava venire agli accordi. Egli sembra che una mezza sommossa degli abitanti i quali desideravano evitare il pericolo del bombardamento abbia determinato il comandante del presidio, generale De Cerni, ad arrendersi.

LIII.— Vuoisi che la risoluzione fosse stata presa alle cinque del mattino medesimo e che si avesse stabilito di mandare all'istante a trattare: ma che l'ora inopportuna, il pessimo tempo, e l'oscurità ed il pericolo che i parlamentari potevano incorrere abbiano consiglialo di attendere la luce del giorno.

LIV.— Verso le sette usciva una vettura da Capua, preceduta, secondo il costume, da un trombetta a cavallo e dalla bianca bandiera di pace. Poco stante due maggiori napoletani si presentarono al quartier generale de' nostri chiedendo tre giorni di tregua, il tempo necessario a spedire un corriere a Gaeta per sapere dal Re quali condizioni ponesse alla resa del forte. «Spetta agl'Italiani imporre le condizioni, fu la ferma risposta dei nostri. E quali sarebbero queste vostre condizioni?» domandava un maggiore. Resa a discrezione.»

LV.— Gl'inviati impetrarono un'ora di tempo per riferirne al generale De Cerni. Eglino ripresero la strada di Capua: nell'accommiatarsi il generale italiano lor disse: «se al termine d'un'ora «non siete di ritorno il fuoco ricomincierà su tutta la linea.» Erano ott'ore del mattino: mezz'ora dopo la bandiera bianca sventolava dalle torri di Capua, ma ciò non bastava: sopravennero le nove: la bandiera rossa, per un istante scomparsa da monte Sant'Angelo, vi fu di nuovo inalberata gli artiglieri immobili presso i loro pezzi attendevano un cenno per riaprire il bombardamento.

LVI.— Alle nove e un quarto la stessa vettura ricompariva sulla spianata fuori di Capua dirigentesi al campo. Recava il generale De Liguori, il suo aiutante di campo e il capitano Acerbi, muniti dei voluti poteri per trattare ed effettuare la resa. Dopo lungo colloquio venne questa conchiusa e segnata: e ad un'ora i plenipotenziari ripartirono alla volta della ceduta fortezza.

LVII.— Il presidio componevasi di circa dieci mila soldati di truppa attiva e di riserva: esso rendevasi a discrezione e rimaneva prigioniero di guerra per essere trasferito a Genova. Gl'Italiani s'impadronirono d'una grande quantità di munizioni e d'armi, non che di buon numero di grossi cannoni da fortezza e da campo. La sera stessa ed il giorno seguente la città di Capua diveniva fortezza patria e nazionale.

LVIII.— Caduta Capua e presi col general Dittatore gli opportuni provvedimenti, Vittorio Emanuele incamminavasi alla volta di Napoli ov'era con ansia indescrivibile aspettato dal popolo. L'entrata reale ebbe luogo il mattino del 7 novembre, e come il tempo era tetro e piovoso, in vettura coperta. Non è a dire le luminarie, le feste che si fecero in quella propizia occasione: il plebiscito otteneva la sua definitiva sanzione dalle acclamazioni entusiaste ed universali del Regno. La gioia, l'ammirazione e il tripudio rendeano gli abitanti frenetici: il buon popolo, più ch'altri mai attaccato ai principii monarchici, dopo due mesi d'intervallo, poteva alla fine di nuovo bearsi delle auguste sembianze d'un Re.

LIX.— Garibaldi, secondo la data promessa, deponeva nelle mani del Re la Dittatura e il governo, dolente solo di non avergli potuto donare pur anco le ambite corone di Roma e Venezia. Gli amici della Dittatura sparirono o si confusero nelle file degli annessionisti o si dispersero: e l'illustre capo della scuola unitaria partiva scorato ed afflitto da Napoli senza punto vedere attivata l'unità dell'Italia. Forse ha dovuto convincersi che nelle Due Sicilie il sistema unitario aveva soltanto ottenuto di rendere sé stesso impossibile.

LX.— Da Napoli Vittorio Emanuele passava a Palermo a prendere egualmente possesso dell'Isola a nome d'Italia. I ministeri in entrambi i Regni vennero tosto ricostituiti a norma e nei modi voluti dal conte Cavour. Uno sciame di moderati e frementi per la causa dell'ordine invase tosto le due metropoli e chiese ed ottenne i frutti degli altrui sacrifici!. Farini, uscito dal ministero, diventava luogotenente in Napoli e il marchese di Montezemolo a Palermo. E il gran portafaci delle passate discordie, l'incorreggibile cospiratore moderato La-Farina, ritornava colla nuova amministrazione trionfante nell'Isola d'ond'era stato mesi prima ignominiosamente espulso.

LXI.— La gloriosa campagna garibaldiana terminava colla resa di Capua. Dopo quell'avvenimento i volontari furono concentrati nei quartieri di Napoli, di Aversa e nelle vicine città. Tutti oggimai prevedevano il destino che loro era stato serbato.

LXII.— Il giorno 8 novembre Garibaldi prendeva commiato da' suoi e con un ordine del giorno in cui la tristezza siccome la speranza trapela ad ogni linea esortava i volontari ad arruolarsi nell'esercito e a non abbandonare quell'armi delle quali la patria aveva cotanto bisogno. «La provvi«denza, et diceva, ha fatto dono all'Italia di Vitti torio Emanuele. Ogni Italiano deve rannodarsi a lui — serrarsi intorno a Lui. Anche una volta io vi ripeto: all'armi, tutti!» — Quando comparirà il bisogno ci troverà tutti al nostro posta. — E quindi soggiungeva con accenta ispirato e commisto di tenerezza e d'orgoglio: «Accogliete, gioii vani volontari, resto onorato di dieci battaglie, aúna parola d'addio! Io ve la mando commosso a d'affetto dal profondo dell'anima mia. Oggi io a debbo ritirarmi... Ma fora della pugna mi troverà ancora con voi — accanto ai soldati della libertà italiana (257).

LXIII.— Garibaldi s'allontanava da Napoli accompagnato dalle benedizioni d'un popolo cui egli solo, con rara felicità ed audacia, aveva sottratto dall'ugne di cruda tirannide e rigenerato a vita civile e nazionale. Egli ritiravasi al vecchio romitaggio di Caprera pago e soddisfatto nella propria coscienza di quanto aveva operato a pro dell’Italia. Egli ritornava povero com'era partito, ma ricco di memorie e colla sicurezza d'avere collegata Eberhardt, eglino operarono la loro ritirata con incredibile sangue freddo ed intrepidezza, tenendo la faccia rivolta continuamente al nemico e contrastandogli a palmo a palmo il terreno. In vederli avresti detto non essere ritirata quella ma un movimento strategico mediante il quale si ripiegassero a concentrare le forze per quindi tornare più compatti e più animosi all'attacco.

LVIII.— Verso le ore undici antimeridiane i Regii avevano in due punti tagliato la linea dei Garibaldini e rotta la strada di comunicazione tra Garibaldi e Medici e tra Medici e Bixio. Inoltre avevano eglino girata restrema destra di Bixio ed occupato le alture alle spalle di lui che mettono alla valle di Caserta. I volontari si trovavano nella più bruita situazione in cui mai possa trovarsi un'armata: erano per così dire avviluppali e ravvolti in un nembo di fiamme e proiettili. Qualunque esercito regolare che si fosse trovato in quelle difficilissime posizioni sarebbe stato irremissibilmente perduto: ma i volontari hanno vizii e virtù che gli eserciti regolari non hanno, fra cui non ultima è quella di non ben comprendere il pericolo e quindi. di serbare eziandio fra le angustie più gravi la solita calma e la speranza del trionfo.

LIX.— Garibaldi in quel giorno fatale foca prodigii di instancabilità, di previdenza e d'audacia. Egli solo valeva quanto un'armata. Volando fra le truppe sotto il grandinare delle palle nemiche egli era da per tutto,tutto esaminava ed a lutto poneva riparo. Dov'eglj presentavasi i Garibaldini ripigliavano il sopravento ed i Regii dovevano ritirarsi, dond'egli allontanavasi la vittoria tornava a piegare dal lato di Francesco IL Di lui si può dire che il coraggio e l'audacia che infondeva colla sua presenza nel petto ai volontari era uguale allo sgomento ed alla trepidazione che incuteva nei soldati borbonici. Malgrado le dubbie apparenze della battaglia un osservatore profondo e imparziale avrebbe dovuto persuadersi che dove combattea Garibaldi i volontari non poteano esser vinti.

LX.— Già sino dal cominciar dell'assalto Garibaldi aveva spedito istruzioni al comandante la riserva generale Stefano Turr perch'egli si recasse sollecito a prendere parte all'azione che ormai si sentiva imminente. Thiirr obbedendo all'invito lel Generalissimo immediatamente partiva sulla strada ferrata alla volta di Santa Maria e giungeva nel momento opportuno a dar l'ultimo crollo alla fortuna dei Regii ed a partecipare all’ultima e decisiva vittoria dei Mille.

LXI.— Era quello diffatti l'istante supremo. I Regii avevano su tutta la linea ottenuti grandi e incontestati vantaggi. L'ala destra comandata la Bixio era per metà sbaragliata: i soldati della brigata Eberhardt, colpiti da irresistibile panico, si disperdevano in piena rotta pei colli di Maddaloni. I Borboniani già signori della sommità di Monte Caro minacciavano il Molino, la punta di San Michele dove stava accampato il colonnello Piva e l'erta stessa di Maddaloni. Inoltre un corpo realista marciava da Sant'Agata de' Goti ad oggetto di precludere ai volontari la via di Caserta e piombare alle spalle di Sant Angelo e di Santa Maria. Allo stesso tempo)a sinistra aveva dovuto. ripiegarsi nei punti fortificati che difendevano l'entrata del villaggio, mentre i Regii avanzavansi fin sotto le mura dell'antico anfiteatro capuano. Finalmente il centro respinto dai colli. più bassi e tagliato fuori a destra e a sinistra dal resto dell'armata versava in terribili an. gustie, esposto com'era ad essere schiaccialo dal numero. Per colmo di sventura, dopo lungo e sanguinoso contrasto, la piccola truppa comandata da Bronzetti a Castel Morone, morto il maggiore, era stata costretta ad abbassare le armi. I duecento bersaglieri che la componevano aveano fatto prodigii di valore ed audacemente respinto per più ore i replicati assalti di ben quattromila Borbonici. Mancando loro le munizioni si difesero a lungo smovendo e rotolando enormi macigni sul capo degli assalitori; e non cedettero se non quando, esaurito ogni sforzo, la resistenza era già divenuta impossibile. La perdita di Castel Morone lasciava in pari tempo scoperta la sinistra di Bixio e la destra di Medici.

LXII.— L'annunzio di tanti sinistri divulgavasi colla rapidità del fulmine nei paesi contermini e giungeva nella stessa città di Napoli. Fu in quell'istante indicibile la costernazione ed il tremito. Ad accrescere l'universale terrore sopraggiunsero alcuni Garibaldini sbandati, i quali dimentichi dei proprii doveri e dell'onore italiano non ebbero rossore di profanare l'assisa dei prodi che indegnamente vestivano. Narravano questi terribili particolari del campo che forse non avevano nemmeno veduto, e davano come certa la sconfitta dei loro compagni Non per questo la guardia nazionale e le autorità civili e militari smarritesi d'animo, diedero op?rà a mantenere l'ordine della vasta capitale ed a calmare gli esagerati timori e le apprensioni del popolo.

LXIII.— Il generalissimo napoletano Ritucci, giudicando la battaglia già vinta, rivolse il pensiero ad approfittare dei successi ottenuti ed a compire quello ch'egli credeva la disfatta dei Mille. Ordinò in conseguenza al generale Tabacchi il quale comandava il nono ed il decimo di linea davanti a Santa Maria di portarsi colle sue genti traverso alle campagne sul fianco sinistro di Milbitz e di caricare da quella parte i volontari. Quasi nel medesimo punto spinse una colonna verso le alture di Sant'Angelo con istruzione di piegare in appresso a destra e di coadiuvare alla mossa del generale l'abacchi. La giornata sarebbe stata perduta pe' nostri se Garibaldi, la cui mente fu sempre di ripieghi feconda, prontamente non accorreva ad arrestare il progresso dell'armi borboniche.

LXIV.— li Dittatore s'avvide della mossa dei Regii e mandò Malenchini col suo reggimento ed una parte del reggimento Winkler sulla estrema sinistra ad opporsi ai progressi nemici. A passo di corsa Malenchini stilava a tergo di Santa Maria e s'appostava nella campagna ad attendervi i Napoletani in una situazione importante e facile alla difesa del pri e all'offesa. Indi a non mollo compariva il grosso delle truppe nemiche preceduto dal settimo cacciatori e da una compagnia di Carabinieri, i quali vennero accolti da una terribile salva di moschetteria. I Napoletani colpiti da prima esitarono: il che vedendo i volontari, abbandonata la posizione, si slanciarono alla baionetta, ributtando i soldati di Francesco II e cagionando loro gravissime perdite. Dopo breve resistenza i Regii disanimati ed impauriti volser le spalle fuggendo dispersi per la vasta spianata ed inseguendoli i nostri per buon tratto di strada nella direzione di Capita. Così la sorte delle armi dal lato di Santa Maria in un punto fu ristorata.

LXV.— In quel mentre arrivava la riserva comandata da Stefano Turr ed entrava difilata in azione. Il primo reggimento della brigata Eber accorreva a sostenere Melenchini ed a completare la rotta dei Regi alla sinistra di Santa Maria. Il tenente colonnello Marco Cossovich col secondo reggimento da lui comandato irruppe sul grande stradale di Sant' Angelo da quella parte caricando coll'usato vigore il nemico, il quale già minacciava superare le vette e girare la destra di Santa Maria. Né meno fortunato od audace di Melenchini, Cossovich ributtava le profonde colonne borboniche ed a precipitosa fuga costringevate verso il Volturno.

LXVI— I cacciatori napoletani frattanto, ignari della nuova piega che prendeano le cose, furiosamente investivano le barricale erette dai nostri a difendere l'ingresso di Santa Maria: tre reggimenti di linea e un forte corpo di artiglieri e due squadroni a cavallo secondavano quel decisivo conflitto. Il Re stesso conduceali all'assalto: e i conti di Caserta e di Trapani seco lui combattevano. La presenza reale infondeva nel cuor dei soldati una qualche scintilla di ardore guerriero od almeno quel po' di vergogna che talvolta rattiene i più vili ed assume sovente l'aspetto di virtù e di militare coraggio: per cui il combattimento infieriva al di là di quanto potrebbe idearsi. L'artiglieria napoletana fulminava la fronte dei nostri: una fitta grandine di proiettili avvolgeva le barricate: la terra, scossa dall'insolito fragore, ne pareva tremare ed aprirsi. I cacciatori reali da quel lato eziandio si rendeano, dopo duro contrasto, padroni de' primi ridotti ed accennavano penetrar nell'interno. Se non che la disfatta del generale l'abacchi sulla destra e l'inaspettata comparsa del colonnello Cossovich alla loro sinistra lasciati li aveva scoperti sui fianchi ed esposti al fuoco incrociato dalle ali garibaldiane. Nello stesso tempo si videro furiosamente assaliti di fronte dal battaglione di fanti ungheresi, dagli usseri e dai cavalleggeri di Napoli che il Dittatore conduceva in persona al conflitto. Da quell'istante ogni resistenza divenne impossibile, i Napoletani, colti dal solito panico, retrocessero in furia e ben presto sbandavansi per la vicina campagna, travolgendo seco nella fuga la stessa persona del Re. Buon numero di morti e feriti, una grande quantità di armi ed attrezzi ed una intiera batteria da campo, vennero abbandonate nelle mani dei Mille. Il sesto ed il settimo cacciatori quasi per intiero sul campo restarono.

LXVIÍ.— La divisione di Medici, che al cominciar della zuffa s'era allineata sul versante dei colli di fronte agí irrompenti Borbonici, aveva essa pure dovuto dopo accanita resistenza piegare e ripararsi nelle sue posizioni. Assalita colà dal nemico tre volte superiore di numero manteneva per più ore un ineguale contesto nell'imminente pericolo d'una piena disfatta. I Regii spingendosi in masse profonde e serrate tolsero ai volontari alcuni ridotti già eretti a difesa del villaggio e dei prossimi colli, e s'insignorirono pur anche di pochi cannoni ch'eglino atristante inchiodarono. I colonnelli Gadolini e Vacchieri coi due reggimenti della brigata Simonetta, i bersaglieri ed i fanti di Dunneed i carabinieri genovesi operarono prodigi di virtù e di coraggio: in quatte'ore di fuoco incessante, malgrado il numero e la fortuna propizia, i Regii non riuscirono a guadagnare terreno oltre lo spazio di un miglio. Dovunque e sempre trovarono una resistenza indomata, un muro, per così dire, d'acciaio, contro il quale spuntavasi la loro baldanza od audacia. Se non che, nel punto che la battaglia pareva definitivamente pei nostri perduta, una vigorosa carica di Vacchieri e di Spangaro riponeva in equilibrio le sorti del giorno e in breve ora le conversero in favore dell'armi italiane.

LXVIII.— A destra i Bavaresi e gli Svizzeri, già signori della cresta di Monte Caro, cui i volontari aveano abbandonato in seguito alla ferita toccata al maggiore Boldrini che comandavali, minacciavano circondare il villaggio di Maddaloni e Pala intiera di Bixio. Il colonnello Dezza, a cui aveva Bixio affidato la difesa di quel punto importante, raccolte in tutta fretta alcune compagnie di bersaglieri, spingevate contro il nemico. La quarta compagnia del maggiore Menotti Garibaldi veniva ben tosto a raggiungerle: nel frattempo il colonnello Taddei si portava ad assalire di fianco le alture perdute, e lo stesso Dezza colla sua brigata, accorrendo a sostenere i bersaglieri, allo scoperto e di fronte investivate. Lo scontro fu sanguinoso: i Regii resistettero con audace ostinazione al fuoco dei nostri; ma slanciatisi questi alla baionetta, piegarono, retrocessero e ben tosto fuggirono.

LXIX.— Rioccupate le creste del Caro e securo oggimai della sua posizione, Dezza ritornava al maggiore Menotti il quale teneva imperterrito le alture di mezzo tra il Caro suddetto e il quartier generate. Strada facendo Dezza si avvide che i Regii, salendo coperti dal bosco che veste la montagna, miravano a riprendere, attaccando alte spalle, i gioghi perduti ed assalire il quartier generate medesimo. Non v1 era un istante a perdere: Dezza, postosi alla testa del primo battaglione che v'era di guardia, ordinò egli stesso e diresse la carica, mentre Menotti investivali di fianco. 1 Regii disordinati e battuti lasciarono tosto l'attacco e fuggirono, inseguendoli i nostri sino all'altipiano di Valle.

LXX.— Nello stesso momento il centro della divisione ributtava la colonna condotta dal generale Van Mickel: per cui, colto il destro, Dezza accingevasi ad ascendere, coi pochi soldati che potè raggranellare, la montagna allo scopo d'intercettare la ritirata all'artiglieria ed alla cavalleria nemica. Se non che la consegna di mantenere le sue posizioni ispiravagli tosto la necessiti di restare ed inducevalo a frenare lo slancio de' suoi vittoriosi soldati.

LXXI.— Un. piccolo corpo di borboniani, che durante la battaglia era pervenuto a procedere oltre la linea dei nostri e a portarsi a tergo di Sant'Angelo, sorpreso dalla brigata Sacchi e da parte della brigata Simonetta, si vide bentosto costretto ad abbassare le armi e ad arrendersi. Un altro corpo assai più ragguardevole e composto di circa quattro mila Reali che aveva girato l'estrema destra di Bixio, trovandosi chiuso il ritorno a Capua, procedette sulle montagne di Caserta senza probabilità di salvezza o di scampo e facile preda ai vincitori.

LXXII.— Verso le tre pomeridiane dopo nove ore di fuoco, la disfatta dei Regii fu piena, decisiva e completa. La ritirata ebbe luogo con auspicii sinistri e si converse ben tosto in un salva chi può generale. La confusione, il disordine furono estremi: le compagnie si sbandavano, i battaglioni, i reggimenti e le intiere brigate, rotta ogni disciplina, promiscuamente accalcavansi ad oggetto di riparare al più presto nella vicina fortezza e nel campo. Ogni idea di rossore o vergogna, di dignità o dovere, di onore o virtù militare taceva in quell'anime in cui solo parlavano lo sgomento e il terrore l'onnipotente loro linguaggio. Molti si dispersero per le vicine campagna, moltissimi, gettate le armi, si nascosero ne', propinqui cascinali poiché loro mancava pur anco il negativo coraggio della fuga; e non pochi accalcatisi sulle rive del fiume, volendo tragittarlo, affogarono. I Garibaldini vincitori gl'inseguirono sin oltre Formicola, ed a sinistra fino a cento metri dalle mura stesse di Capua (258).

LXXIII.— Il vegnente mattino secondo d'ottobre i Garibaldini s'accingevano a dare la caccia alla colonna borbonica, la quale tutlavolta aggiravasi dispersa fra le montagne del nord di Caserta. Questa, o credesse possibile riprendere l'offensiva su Napoli, ola movesse necessità di procacciarsi i viveri, di buon'ora scendeva alla volta di quella città. Air avvicinarsi dei Regii fallarme fu dato per tutta la valle 1 le guardie nazionali di Caserta si schierarono dentro le mura pronte a contrastarle e a difenderle. Se non che i Borboniani si trovarono indi a non molto raggiunti e rinchiusi tra la brigata Sacchi già di presidio a San Leucio e due battaglioni di bersaglieri Sardi in quelle vicinanze acquartierati. Stretti in tal guisa da tutte le parli i Reali, dopo scambiato qualche colpo, deposero atterriti le armi e si dieder prigionieri di guerra (259).

LXXIV.— I giornali moderati dell'Italia settentrionale in que' giorni spacciarono che l'armata garibaldina stava per essere completamente disfatta al Volturno il 1.° ottobre, e che i due suddetti battaglioni di bersaglieri erano sopravvenuti in tempo a ristabilire l'onore delle armi italiane ed a strappare al nemico una vittoria di già riportata. Tutto ciò è solenne menzogna: non un solo soldato dell'esercito regolare in tutto il giorno 1.° ottobre comparve sul campo di battaglia: perocché sebbene i volontari versassero per più ore in terribili angustie, ed ancorché i bersaglieri accampassero a Caserta Vecchia e quindi in prossimità del luogo detrazione ed avessero tutta Importunità di partecipare alla lotta, non si mossero dai loro quartieri. Eglino soltanto comparvero il giorno dopo la grande vittoria a stringere presso Caserta le troppe sbandate dei Regii ed a cooperare alla loro capitolazione. Egli è vero pur troppo che molti avrebbero forse meglio desiderato che Garibaldi al Volturno fosse rimasto battuto per appropriarsi in faccia all'Italia la gloria di avere essi soli salvata la patria (260).

LXXV.— Rientrava Francesco la sera alla sua residenza di Capua coll'esercito orribilmente decimato dal ferro dei volontari e dalle non meno numerose defezioni. Da quell'istante costretto vedevasi ad abbandonare ogni idea di riprendere l'offensiva, perocché coll'esporsi ad una nuova battaglia non avrebbe fatto che affrontare una nuova sconfitta. Né Capua poteva lungamente resistere all'urto dei Garibaldini, l'audacia dei quali per le recenti vittorie doveva essere a dismisura cresciuta. Per la qual cosa, e forse anche temendo che più tardi gli venisse intercetta la strada, l'infelice monarca lasciava la difesa del forte ai conti di Caserta e di Trapani, mentr'egli colla moglie riparava in Gaeta.

LXXVI.— Tale fu l'esito della battaglia che decise per sempre le sorti del Regno e della dinastia dei Borboni. Dopo la disfatta subita al Volturno ogni resistenza diveniva inopportuna ed inutile e solo giovava a salvare l'onore delle armi. Trattavasi non già di vincere e di ricuperare il perduto, ma di prolungare un' agonia lenta e dolorosa a cui tosto o lardi doveva seguire l'estrema rovina. Capua e Gaeta erano punti fortificati di somma importanza e potevano per un tempo lottare e difendersi: ma l'esperienza dimostra la inutilità delle fortezze quando non si hanno eserciti da tener la campagna e proteggerle. Le angustie dell'assedio, le malattie, la fame e la mancanza di munizioni che s'esauriscono sempre sono irreparabili mali e valgono essi soli ad espugnarne e demolirne le porle, i baluardi e le mura.


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APPENDICE

DOCUMENTI E NOTE

DOCUMENTI GIUSTIFICATIVI

Documento N. 1

(Vedi Libro II, Gap. XVIII, pag. 73-74).

Genova 5 maggio 1860.

Mio caro Bertani

Spinto nuovamente sulla scena degli avvenimenti paini, io lascio a voi gl'incarichi seguenti:

Raccogliere quanti mezzi sarà possibile per coadiuvarci nella nostra impresa:

Procurare di far capire agl'Italiani che se saremo aiutati dovutamente sarà fatta l'alia in poco tempo, con poche spese: ma che non avran fatto il dover loro quando si limiteranno a qualche sterile sottoscrizione:

Che l'Italia libera d'oggi, in luogo di centomila soldati, deve armarne cinquecentomila, numero non certamente sproporzionato alla popolazione, e che tale proporzione di soldati l'hanno gli Stati vicini che non hanno indipendenza da conquistare; con tale esercito l'Italia non avrà più bisogno di stranieri che se la mangino a poco a poco col pretesto di liberarla:

Che ovunque sono Italiani che combattono oppressori, là bisogna spingere tutti gli animosi e provvederli del necessario pel viaggio:

Che l'insurrezione siciliana non solo in Sicilia bisogna aiutarla, ma dovunque sono nemici da combattere.

Io non consigliai il moto della Sicilia; ma venuti alle mani quei nostri fratelli ho creduto obbligo d'aiutarli.

Il nostro grido di guerra sarà Italia e Vii torio Emanuele; e spero che la bandiera italiana anche questa volta non riceverà strazio.

Con affetto

Firm. Vostro G. GARIBALDI.

Documento N. 2

(Vedi Libro V, Cap. VI, pag. 212 e Lib. VI, cap. XIII, pag. 296).

PROCLAMA DEL POPOLO DI PALERMO

A S. E. il tenente generale Lama.

Mettendo il piede nella vostra terra natale noi non. c'illudevamo per nulla sulla lealtà dei sentimenti vostri verso la patria. Siciliano, accettare una missione ostile al voto ed agli sforzi dei proprii terrazzani... di uomo siffatto potrebbe esser dubbio il pensiero? — Pure una lusinga... di men feroci mali... ma il proclama apparso ieri a vostra firma e scritto da un apostata, da un traditore del suo paese natio, da Domenico Ventimiglia direttore del Giornale Ufficiale, ci chiariva onninamente l'animo vostro... Due concittadini!... È doloroso... ma non può spegnersi la schiatta dei traditori!!! Qual s'è stato però lo scopo vostro, o meglio del Governo, nel pubblicar quello scritto? Qual utile sperate ricavarne?... Ricredetevi, ostinati che siete, che al punto in cui son ridotte le cose, vi sveliamo il tutto.

Per dodici interi anni da noi si è congiurato tentando di rompere la turpe catena che ancor ci suona al piede, ed in tal lasso di tempo non cadde mai di mente al Governo di badare allo svolgimento della nostra civiltà e prosperità.

Forche, segrete, tormenti da superare quelli dell'inquisizione... ecco i mezzi messi in campo da un governo che si millanta provvido e forte, e che ci regala i predicati di amatissimi e di traviati.

Si congiurava, e la colonna dello Stato, il direttore di polizia... Maniscalco, nulla delle nostre pratiche conosceva!... Voi ora ci promettete un principe reale a luogotenente, e noi senza andar per le lunghe, ché sarebbe uno sprecar tempo, vi rispondiamo: É tardi! — Ci promettete il resto delle vie rotabili, ma per promettere il resto bisogna provare che in Sicilia ve ne fosse pur una. Vergogna! Un paese di quasi tre milioni d'uomini, un paese eminentemente ricco, senza strade a ruota, senza ponti sui fiumi, ed il povero viaggiatore s'ha da raccomandar l'anima a' suoi santi protettori, ha da provare i goccioloni freddi nel percorrer poche miglia. Mille volte s'è proposta al governo una società per dar mano alle ferrovie. Tempo e fiato perduti!

Il provvido governo ha fatto orecchie da mercante. — Un ricco privato profondeva tesori in una fabbrica di ciarla e vi riusciva... Il governo l'aboliva con somma jattura dell'onesto privato. Avevamo i vapori postali settimanali. Aboliti! E se Palermo non avesse avuto un giojello nel negoziante Florio, noi non avremmo potuto né comunicare né trasferirci, non al continente ma nell'interno dell'Isola. Qui morta l’industria ed il commercio, riboccanti di poveri le vie, calpestato il borghese, avvilito l'aristocratico, disprezzato financo l'uomo il più devoto alla causa dei Borboni, ed il governo ha gioito... ora si vuol fornire il paese dei migliori mezzi conducenti allo svolgimento della nostra civiltà e prosperità... É troppo tardi.

Se nell'accettar l'incarico di commissario straordinario colla facoltà dell'Alter Ego avete obbedito alla vostra coscienza e ceduto ai sentimenti del vostro cuore: bisogna pur dire che questo cuore non sia nulla di buono. — Vorreste risparmiare alla comune patria mali di cui nessuno potrebbe prevedere la misura e la durata; e ci chiedete quali destini ci offrono gl'invidi della nostra prosperità ognor crescente, e quali guarentigie.

A stolto parlare franche e brevi parole di rimando. — È tale la nostra prosperità, è sì crescente che da noi si brama cader piuttosto fra gli artigli del turco, d'una fiera, purché Dio ci salvi dal paterno governo dei Borboni. A che parlate di guarentigie? A chi non è nota la fede del governo napoletano? Ferdinando I, il Principe che accordava a sé stesso i titoli di P. F. A., giurava la costituzione, e poco dopo spergiurava, e non fu mai sazio di sangue per quanto a piene mani se ne spargesse e sul Continente e nell'Isola.

Di quai neri tradimenti vada oppressa l'anima del Re-monaco Francesco I, quando era vicario generale, tutti sappiamo. — Giurava anch'egli la costituzione Ferdinando II, il Caligola, il Nerone dei nostri tempi. Egli aveva avuto un battesimo di sangue... quello della Sanfelice... doveva quindi essere insaziabile fiera, ed egli manteneva il suo giuramento col 15 maggio 1848 in Napoli, col bombardamento di Sicilia, col... ma a che riandare tutta questa schifosa odissea di delitti e di turpitudini commesse da una famiglia che è stata il mancenelliero della più bella parte d'Italia.

Noi siamo insorti per la causa italiana, per congiungere le nostre sorti a quella della Penisola... Vogliamo essere parte di Italia e non vogliamo guarentigie... Non ci proponete più beni e felicità... Ne siam pieni alla sazietà... Fra un popolo in sommossa e un re tiranno, scriveva un sommo italiano, unico patto... il sepolcro, e noi preferiamo il sepolcro! all'antica tirannide.

Forte della giustizia della sua causa aspetti pure il vostro buon Sovrano, aspetti tempo alla ragione de' suoi inconcussi diritti, concussi ora ed annullati dalla ferma volontà d'un pugno di faziosi, da una mano di avventurieri, giacché la sua creatura il Metternich del suo gabinetto, Maniscalco, non ha potuto ancora venire a capo delle fila della rivoluzione, e va tuttora in cerca della sede e dei componenti del Comitato... E si è manomessa una finanza per mantenere lo spionaggio e demoralizzare il paese. Tenetevi pure il generoso perdono, o figli di una corte pretesca... Risparmiateci novelli insulti. Risparmiateci la vergogna di vedere più oltre il vostro nome a pié di proclami ed ordinanze... Non ci fate arrossire per voi!

È questa l'ultima risposta che dal popolo si dà agli agenti della jena di Napoli... Un'ultima risposta ancora... col moschetto!

Viva l'Italia, Viva Vittorio Emanuele, Viva Garibaldi.

Palermo, 20 maggio 1860.

IL POPOLO.

Documento N. 3

(Vedi Libro VI, Gap. XIX, pag. 302, ecc.)

(Nota)

DELLA GARDUNA

Al libro VI, capo XIX e seguenti della presente opera accennai ad una società secreta di malfattori che formò per oltre quattro secoli il flagello della Spagna. L'origine, le istituzioni e gli ordinamenti della Garduna (tale era il nome di detta società) offrirebbe materia per una lunga e laboriosa dissertazione, come la sua storia ci porgerebbe una quantità di aneddoti abbastanza originali e,curiosi. Dovendomi stringere nei limiti d'una semplice nota mi accontenterò di accennare unicamente a qualche ragguaglio sullo statuto organico e sugli ordinamenti gerarchici su cui posava e dai quali traeva la sua forza e durata.

Prima di tutto è necessario osservare che la regola era affatto dispotica. L'Hermano Mayor, o fratello maggiore o supremo direttore della società, esercitava sui membri della stessa un'autorità discrezionale ed arbitraria. A lui spettava ordinare, disporre e dirigere: tutti gli altri dovevangli una stretta obbedienza. Egli decideva in ultimo appello qualunque divergenza sociale, decretava le pene e distribuiva le ricompense. I suoi ordini dovevano essere eseguiti qualunque essi fossero, senza opposizione e senza ritardo; e il suo potere, basato sullo stesso statuto organico, non aveva né limiti né controllo.

Al di sotto di questa sommità gerarchica venivano i Capatazes, capi o maestri provinciali la cui giurisdizione limitavasi alla città od al paese ove risiedeva una comunità di Garduni. Eglino ricevevano gli ordini dell'Hermano Mayor e li trasmettevano ai loro dipendenti e vegliavano alla loro esecuzione. Il corpo principale dei Garduni, ossia la quasi totalità della forza sociale, componevasi dei Guapos o bravi, assassini feroci, grandi schermitori e banditi audacissimi. Questi suddividevansi in diverse categorie, tutte portanti un nome speciale che indicava il grado più o meno elevato del Garduno. Secondi erano i Ponteadores o trafiggitori, cioè omicidiarii: terzi venivano i Floreadores, per la massima parte usciti o fuggiti dalle galere e dedicati specialmente ai furti ed alle rapine sulle pubbliche strade. Erano gli aspiranti alla dignità maggiore dei Guapos. Poscia i Faceiles, soffietti, o spie. Erano per lo più vecchi astuti ed ipocriti che giravano col rosario in mano ed appostavano il bottino. Le donne (poiché la Garduna aveva eziandio le sue donne) servivano ad attirare gl'incauti nei luoghi dove i Garduni potessero sorprenderli e spogliarli od ucciderli, e si chiamavano Coberteras o coperte. Al fondo della scala sociale stavano i Chivatos capriuoli, o novizii dell'ordine, ed erano lotti giovinetti dai dodici ai quindici anni. Con un noviziato d'un anno un Chivato poteva elevarsi al grado di Floreador: e questi, ben meritando della società, in capo a due anni diveniva Guapo. Quanto agli ordinamenti i Garduni nulla avevano ad invidiare ai conventi dei frati.

La Garduna aveva statuto, leggi, consuetudini sue proprie: emanava regolarmente le sue sentenze e le faceva rigorosamente eseguire. Di questa singolare comunità il lettore troverà un'esatta esposizione nella appendice alla mia Storia delle Società Secrete che sarà pubblicata fra breve.

Documento N. 4

(Vedi Libro VI!, Gap. X, pag. 522, ecc.)

I miei lettori si ricorderanno senza dubbio delle molteplici e ripetute accuse lanciate da buona parte dei giornali ministeriali contro l'incapacità amministrativa e finanziaria degli uomini ai quali ciò non per tanto si deve il risorgimento della Sicilia e di Napoli. A prova di ciò pubblico il seguente progetto di prestito il quale in massima era già stato accettalo da alcune primarie case di Genova e Milano. Il prestito veniva aperto all'85 0/0, da un governo rivoluzionario e non ancora stabilito e riconosciuto: mentre un anno appresso il Ministero non riusciva ad emettere il suo del 1861 se non al 700/0.

Premetto al progetto in discorso due righe di storia, affinché il lettore abbia le informazioni necessarie per fissarne il giudizio. Appena penetrato in Palermo Garibaldi, trovandosi in bisogno di danaro e non potendo raccoglierne dalle casse dell'Isola che in gran parte giaceva tuttavia in potere dei Regii, scrisse al Comitato Centrale di Genova perché gliene procurasse dandogli e all'uopo mandato libero. A Genova s'invitarono alcuni amici a studiare un progetto di prestito che valesse, ad onta di un prezzo superiore alle rendite sarde, ad allettare i soscrittori ed a rendere possibile la riuscita del disegno. Il progetto presentato dal dott. Giuseppe Levi ebbe la preferenza come quello che offriva una combinazione la quale raggiungeva un prezzo d'emissione conveniente alle parti contraenti e che nel progredire del tempo valeva a rialzarlo d’avvantaggio.

É bene altresì osservare che il 50/0 1849 1.° gennaio era quotato alla Borsa in 83: lo che diffatti equivaleva all'81, tenendo calcolo degl'interessi prossimi a maturanza. Inoltre le condizioni del governo Siciliano non erano cosi prospere da attirare la speculazione. Ciò nullameno i Garibaldini, sebbene inabili a trattare tali specie d'affari, non volevano contrarre un prestito disperato da veri figli di famiglia: ed infatti trovarono il modo di aprirlo e di farlo accettare all'800/0 come sopra si disse. Per chi consideri quali fossero le difficoltà del momento e la critica situazione in cui allora versava Garibaldi il presente progetto, essendo accettato, deve parere un miracolo di abilità e di sagacia. Eppure gli autori d'esso non aspiravano né a titoli né a cariche.

La guarentigia del Comuni di Sicilia, e l'ammortizzazione in 15 anni, ne rafforzavano il credito. La combinazione della ammortizzazione al pari di un prestito emesso all’85 0/0 nel successivo accrescersi di ½ per cento negli interessi d'anno in anno, faceva si che si potesse prevedere il successivo ammigliorarsi del prezzo di emissione; perciocché il possessore, od era favorito dalla sorte, e guadagnava il 15 per 100; o no, e per lui crescevano le probabilità di esserlo ne' susseguenti anni; e in ogni caso vedeva aumentarsi l'interesse di ½ per cento, e quindi relativamente innalzarsi il reale prezzo del capitale.

Per tali combinazioni i soscrittori potevano benissimo ritenere che lo smaltimento dei titoli si farebbe e presto: e si assunsero infatti la quasi totalità dello spaccio.

Il Governo Siciliano, d'altra parte, per calcoli istituiti dall'autore del progetto, era posto in situazione assai migliore che non facendo un semplice prestito al 5 per cento a condizioni per lui in allora possibili. — Gli interessi, è vero, gli si facevano più gravi d'anno in anno, ma di mano in mano però il capitale diventava minore in causa dell'ammortizzazione. L'onere annuo quindi effettivamente, dopo i primi anni, andava decrescendo.

Per ultimo devo osservare che il progetto stesso nonvenne posto in esecuzione pel solo fatto che mentre si stava maturando sopraggiunse un cangiamento di ministero a Palermo, locché fece cadere a vuoto tutte lo trattative pendenti. Ma il solo fatto di essere stato accettato dai banchieri mostra di quanta importanza esso fosse. Ecco intanto il progetto che io publico nella lingua francese quale mi venne favorito.

PROJET DEDÉCRET

POUR L'EMPRUNT SICILIEN

Sur les garanties données par les Communes de la Sicile et contenues dans les actes déposés à notre Ministère des Finances.

Un Emprunt est ouvert pour la somme de 45 (quarante-cinq) millions de livres italiennes.

La souscription reste ouverte jusqu' à la fin du mois de

à Palerme, au Ministère des Finances. — Turin — Gênes — Milan — Bologne — Florence — Londres.

Le pavement se fera en cinq versements égaux, dont le premier aura lieu le et es autres suivront de mois en mois.

On versera au moment mème de la souscription et à compter de la première échéance un dixième de la somme souscrite.

Des certificats provisoires seront délivrés constatant les versements successifs. Ces certificats seront remplacés, à l'époque du dernier versement, par un nombre égal d'obligations définitives de l'Emprunt.

L'Emprunt est garanti par toutes les Communes de file, en raison de population, sur les propriétés Communales. Las actes établissant cette garantie ont été revêtus de toutes les formes légales, et déposés aux Archives du Ministère des Finances.

L'Emprunt est émis au prix de 85 (quatre vingt cinq) libres pour chaque cent livres de capital nominal.

Il y aura des obligations de 100, 500, 1000, 5000, 10,000 livres.

Le souscripteur pour cent mille livres et an dessus jusqu'à cinq-cent mille livres aura droit à l'ex-compte d'unpour cent sur la totalité de la somme,

Le souscripteur pour cinq cent mille et au dessus jusqu'à un million à l'escompte de un et demi pour cent.

Le souscripteur pour un million et au dessus a l'escompte de deux pour cent.

Les déductions ci-dessus se feront sur le premier versement accompli dans sa totalité.

L'avance du pavement d'une ou de plusieurs échéances donne droit à une déduction proportionnelle égale à l'intérêt annuel du six pour centsur la somme avancée.

Les payements pourront se faire en argent comptant ou en obligations de la renie Sarde 5 0/0 au cours moyen de la Bourse de Turin du jour du pavement ou du dernier prix marqué.

Les titres sont aux porteurs, numérotés progressivement par séries, et portant en outre le numéro de la série respective. Ils ont une feuille de coupons pour les intérêts, payable par semestre, aux endroits indiqués ci-dessus

L'intérêt court depuis la premier juillet 1860 sur. la valeur nominale de l'obligation.

Quinze années doivent suffire à l'amortissement de la dette, au prix nominal.

En conséquence les obligations sont partagées en quinze séries dont le tirage, en raison d'une série par an, se fera au siège du Gouvernement avec la concours d'une délégation du Parlement. Le tirage a lieu le premier juillet de chaque année à dater de l'année 1861. Le pavement des obligations sorties du tirage et des intérêts échus au 31 décembre de l'année du tirage, aura lieu le 31 décembre même à Palerme ou, avec délai d'un mois, aux endroits indiqués ci-dessus. Tout intérêt cesse le 31 décembre de l'année du tirage.

Les obligations ainsi périmées déposés au siège du Gouvernement, seront livrées publiquement aux flammes.

Le numéro de la série sortie du tirage sera annoncé par le Journal Officiel de Palerme et des villes où des Agences sont établies pour le pavement des intérêts.

L'intérêt est du 3 pour cent pour les premiers dix huit mois (du premier juillet 1860 au 31 décembre 1861); du 5 1/2 pour cent pour la seconde année (depuis le premier janvier jusqu'au 31 décembre 1862); du 6 pour cent la troisième année (depuis le premier janvier jusqu'au 31 décembre 1863); et ainsi de suite, en augmentant l'intérêt chaque année d'un demi pour cent jusqu'à l'amortissement complet; de sorte que la dernière série, dont l'amortissement doit s'accomplir la quinzième année, jouira, pendant cette dernière année, d'un intérêt du douze pour cent.

Notes. Si au moment du décret d'émission le cours légal d'évaluation en onces existait encore en Sicile on determinerà dans ce Décret le change invariable en livres italiennes.

Documento N. 5

(Vedi Libro VIII, Gap. LXXI, pag. 406)

TRATTATO DI NEUTRALITÀ
DURANTE LA CAMPAGNA

stipulato fra l'esercito garibaldino e la Cittadella di Messina.

______

Convenzione tra il generale Clary e il generale Medici

L'anno 1860, il giorno 28 luglio in Messina, Tommaso de Clary maresciallo di campo, comandante superiora le truppe riunite in Messina, ed il cavaliere maggiore generale Giacomo Medici, animali da sensi di umanità, e nell'intendimento di evitare lo spargimento di sangue che avrebbe causato l'occupazione di Messina da una parte e la difesa della città e forti dall'altra. In virtù, ecc.

Le R. truppe abbandoneranno la città di Messina senza essere molestate, e la città sarà occupata dalle truppe siciliane senza pure venir queste molestate dalle prime.

Le truppe regie evacueranno i forti Gonzaga e Castellaccio nello spazio di due giorni a partire dalla data della soscrizione della presente convenzione. Ognuna delle due parti contraenti designerà due ufficiali ed un commissario per inventariare le diverse bocche a fuoco, i materiali tutti da guerra e gli approvvigionamenti dei viveri e di quanto altro esisterà nei forti suindicati all'epoca che questi verranno sgombrali. Resta a cura poi del governo siciliano lo incominciare il trasporto di tutti gli oggetti inventariali appena verrà effettuato lo sgombro dei soldati, di compierlo nel minor tempo possibile e consegnare i materiali trasportati nella zona neutrale di cui si tratterà appresso.

L'imbarco delle regie truppe verrà eseguito senza che venga molestato per parte dei Siciliani.

Le truppe regie riterranno la cittadella con 4 suoi forti Don Blasco, Lanterna, S. Salvatore, con la condizione però di non dovere in qualsiasi avvenimento futuro recar danno alla città salvo il caso che tali fortificazioni venissero aggredite, o che lavori di attacco si costruissero nella città medesima. Stabilite e mantenute coteste condizioni, la inoffensiva della cittadella verso la città durerà fino al termine delle ostilità.

Vi sarà una striscia di terreno neutrale parallela o contigua alla zona militare la quale si intende si debba allargarsi per venti metri oltre i limiti della attuale zona che va inerente alla Cittadella.

Il commercio marittimo rimane completamente libero da ambe le parti.

Saranno quindi rispettate le bandiere reciproche. In ultimo resta alla urbanità dei comandanti rispettivi che stipulano la presente convenzione la libertà d'intendersi per quei bisogni inerenti al vivere civile che per parte delle regie truppe debbono venire soddisfatti e provveduti nella città di Messina.

Fatta, letta, chiusa, il giorno mese ed anno come sopra nella casa del sig. Fiorentino Francesco, banchiere alle Quattro Fontane.

Tomm. di Clary, Maresciallo di campo. Cav. G. Medici, Maggior generale.

Documento N. 6

«(Vedi Libro X, Cap. LXXVII, pag. 508»

MANIFESTO

del Re Francesco II emanato mentre accingevasi

ad abbandonare la sua Capitale.

FRANCESCO II, ecc.

Dacché un ardito condottiero, con tutte le forze di che l'Europa rivoluzionaria dispone, ha attaccato i Nostri Dominii invocando il nome di un Sovrano d'Italia, congiunto ed amico, Noi abbiamo con tutt'i mezzi in poter Nostro combattuto durante cinque mesi per la Sacra indipendenza dei Nostri Stati. La sorte delle armi ci è stata contraria. L'ardita impresa, che quel Sovrano nel modo più formate protestava sconoscere, e che non perianto, nella pendenza di trattative di un intimo accordo, riceveva nei suoi Stati principalmente aiuto ed appoggio, quella impresa, cui tutta Europa, dopo d'aver proclamato il principio di non intervenzione, assiste indifferente, lasciandoci soli lottare contro il nemico di tutti, è sul punto di estendere i suoi tristi effetti fln¿ sulla nostra capitale. Le forze nemiche si avanzano in queste vicinanze.

D'altra parte la Sicilia e le Provincie del Continente da lunga mano e in tutti i modi travagliate dalla Rivoluzione, insorte sotto tanta pressione, hanno formato dei Governi provvisorii col titolo e sotto la protezione nominale di quel Sovrano, ed hanno confidato ad un preteso Dittatore l'autorità ed il pieno arbitrio de' loro dentini.

Forti nei nostri diritti, fondati sulla storia, su i patti internazionali e sul diritto pubblico Europeo, mentre noi contiamo prolungare, finché ci sarà possibile, la nostra difesa, non siamo meno determinati a qualunque sacrifizio per risparmiare gli orrori di una lotta e dell'anarchia a questa vasta Metropoli, sede gloriosa delle più vetuste memorie e culla delle arti e della civiltà del reame.

In conseguenza noi moveremo col nostro esercito fuori delle sue mura, confidando nella lealtà e nell'amore dei nostri sudditi pel mantenimento dell'ordine e del rispetto all'autorità.

Nel prendere tanta determinazione sentiamo pero al tempo stesso il dovere, che ci dettano i nostri dritti antichi ed inconcussi, il nostro onore, l'interesse dei nostri eredi e Successori, e più ancora quello dei nostri amatissimi sudditi, ed altamente protestiamo contro tutti gli atti finora consumati e gli avvenimenti che sonosi compiuti o si compiranno in avvenire.

Riserbiamo tutti i nostri titoli e ragioni, sorgenti da sacri incontrastabili dritti di successione, e dai trattati, e dichiariamo solennemente tutti i mentovati avvenimenti e fatti nulli, irriti, e di niun valore, rassegnando per quel che ci riguarda nelle mani dell'onnipotente Iddio la nostra causa e quella dei nostri popoli, nella ferma coscienza di non aver avuto nel breve tempo del nostro Regno un sol pensiero che non fosse stato consacrato al loro bene ed alla loro felicità. Le istituzioni che abbiamo loro irrevocabilmente garantite, ne sono il pegno.

Questa nostra protesta sarà da noi trasmessa a tutte le corti, e vogliamo che, sottoscritta da noi, munita del suggello delle nostre armi reali, e controsegnata dal nostro ministro degli affari esteri, sia conservata nei nostri reali ministeri di Stato degli affari esteri, della Presidenza del consiglio dei ministri, e di grazia e giustizia, come un monumento della nostra costante volontàdi opporre sempre la ragione ed il dritto alla violenza ed alla usurpazione.

Napoli, 6 settembre 1860.

Firmato— FRANCESCO.

Firmato— Giacomo De Martini.

Documento N. 7.

(Vedi Libro XI, Gap. XXIV, pag. 540 e altrove)

DIVIETO MINISTERIALE

sugli ulteriori arruolamenti dei volontari

Circolare del Ministro dell’interno ai signori Governatori e ai signori Intendenti generali.

Torino, 13 agosto 1860.

Sollevati, or son tre mesi, i Siciliani allo acquisto della libertà, ed accorsi in aiuto il generale Garibaldi con pochi valorosi, l'Europa fu piena della fama di sue vittorie; tutta Italia ne fu commossa e grande fu lo entusiasmo in questo regno, dove gli ordini liberi ed il libero costume non pongono impedimento alla manifestazione dei sentimenti della politica coscienza. Indi le generose collette di danaro ed il grande numero di volontari partiti per la Sicilia.

Se in tempi meno commossi andarono lodati i popoli che diedero favore e soccorso alla liberazione di nazioni straniere, e se i governi ubbidienti, diremmo. alla autorità del sentimento universale, dove non favorirono apertamente, lasciarono soccorrere le Americhe, la Grecia, il Portogallo, la Spagna, che combattevano per la indipendenza e per la libertà, è a credersi che l'Europa civile porti giudizio equanime sui modi tenuti dal governo del Re in questo accidente dello irresistibile molo nazionale.

Ora la Sicilia è venuta in condizione di esprimere liberamente i propri voti; ed il governo del Re, che deve custodire tutte le prerogative costituzionali della corona e del Parlamento, e deve adempiere eziandio quell'ufficio di suprema moderazione del moto nazionale che a lui s'appartiene, e per le prove che ha fatte e per pubblico consentimento, ora il governo ha il debito di moderare ogni azione scomposta e di correggere gli ingerimenti illegittimi nelle cose di Stato di chi non ha lo costituzionali e le morali responsabilità, che esso ha gravissime verso la corona, il Parlamento e la Nazione.

Altrimenti potrebbe avvenire che, per consiglio ed opera di chi non ha mandato, né responsabilità pubblica, lo lo Stato venisse a pericolo, e la fortuna d'Italia sinistrasse. E posciaché negli Stati liberi l'ordine e la disciplina civile, più che nel rigore della legge, hanno presidio nella pubblica opinione, il sottoscritto la invita a dare una maggiore pubblicità possibile a questa lettera circolare.

Più volte il sottoscritto ammonì non potersi, né volersi tollerare che nel Regno si facessero preparazioni di violenza a governi vicini, ed ordinò che fossero impedite ad ogni costo. Esso spera che la pubblica opinione basti a frenare gl'impeti sconsigliati, ma in ogni evento si confida nelle podestà civili e militari per la pronta esecuzione degli ordini che ha dati.

Raccomanda pure nuovamente, che con ogni maggiore diligenza sieno ricercati, e con ogni legale severità puniti coloro che, cospirando e trafficando ad ingiuria dell'onore nazionale e della disciplina militare, si fanno fautori e procuratori di diserzioni.

E perché il sottoscritto deve compiere l'ordinamento della Guardia Nazionale, mobile e preparare la formazione dei corpi composti di volontari della Guardia Nazionale che la legge abilita, non vuoisi altrimenti per mettere che altri faccia incetta e raccolta di soldati volontarii.

Conchiudendo, il sottoscritto deve dichiarare che se il governo del Re è costante nella volontà di accettare il leale concorso di tutte le parli politiche, che intendono a libertà, unione e grandezza della patria, esso e pur fermo nel proponimene» Jì non lasciarsi soverchiare da chi non ha dal Re e dalla nazione il mandato e le responsabilità del governo. L'Italia deve e vuole esser degli Italiani, ma non delle sette.

Il Ministro

FARINI.

Documento N. 8

(Vedi Libro XII, Gap. LVIII, pag. 602)

CAPITOLAZIONE D'ANCONA

COMANDO GENERALE DELL'ARMATA D'OCCUPAZIONE

DELL'UMBRIA E DELLE MARCHE

Convenzione

sulla capitolazione di Ancona, combinata di mutuo accordo, d'ordine di S. E. il generale Fanti, comandante in capo l'armata di S. M. il Re di Sardegna nelle Marche e nell'Umbria, e d'ordine di S. E. il generale De Lamoricière comandante in capo le truppe pontificie, dai commissarii sottoscritti.

Art. 1. La piana di Ancona col suo intiero armamento, magazzeni e polvere, di vestiario, di vettovaglie, di carbone, legni da guerra, casse pubbliche, cavalli, carri e qualsiasi altra cosa appartenente ai Governo, tanto del ramo militare sì di terra che di mare, come civile, verrà immediatamente consegnata alle truppe terrestri o marittime di S. M. il Re di Sardegna.

Art. 2. A tale effetto saranno immediatamente consegnale alle truppe di terra di S. M.:

La fortezza ed il campo trincierato; — le opere esterne del Gardetto e la lunetta Santo Stefano; —il forte dei Cappuccini; — le porte Pia, Calamo, Farina; — il molo e la porta del molo saranno consegnate alla Regia marineria.

Art. 3. Le parti contraenti nomineranno una commissione mista e composta per ciascuna di esse di

Un ufficiale d'Artiglieria; — id. del Genio; — id. di Marina; —un impiegalo d'intendenza militare, per ricevere o dare in consegna, facendo un inventario di tutto quanto esiste di pertinenza governativa nella piazza e dipendenze.

Art. 4. L'intiera guarnigione della piazza di Ancona, compresi tutti gli impiegati militari che si trovano in detta piazza, usciranno cogli onori delle armi da porta Pia con direzione alla Torretta, costituendosi ivi prigionieri di guerra.

Art. 5. Le forze che compongono la guarnigione usciranno successivamente di mezz'ora in mezz'ora per battaglioni o per armi speciali riunite insieme.

Art. 6. Giungendo i vari drappelli alla l'orretia, dopo aver resi gli onori militari, deporranno le armi e saranno avviati senza di esse in Val di Jesi, di dove proseguiranno pel Piemonte.

I signori ufficiali, sfilando innanzi alle truppe di S. M., faranno allo di consegnare la sciabola al comandante di esse, il quale gli inviterà a conservarla.

I sigg. ufficiali imbarcati sopra un vapore dello Stato proseguiranno fino a Genova; la bassa forza per la via di terra ad Alessandria.

E il generale Fanti impegna la sua parola d'onore di valersi di tutta la sua influenza presso il Governo, perché, giunte in Genova ed Alessandria tutte le truppe capitolate vengano subito dirette alla loro rispettiva patria, sotto la condizione che i signori ufficiali impegnino la loro parola d'onore di non combattere per un anno contro le truppe di S. M. il Re.

I signori ufficiali tutti potranno condurre seco loro il rispettivo bagaglio ed i cavalli di loro privata spettanza in ragione del grado.

Art. 7. Gl'impiegati amministrativi, religiosi, sanitari!» delle poste, dei telegrafi, saranno considerati con rango di ufficiali.

Art. 8. I feriti saranno lasciati in Ancona sotto la garanzia del Governo di S. M.; ad essi, se ufficiali, si permette di ritenere presso di loro la propria ordinanza.

Ufficiali e truppa s'intendono di fatto compresi nella presente capitolazione.

Art. 9. Alle truppe comprese nella presente capitolazione e finché non vengano rinviate alle case loro, sarà giornalmente corrisposto il seguente trattamento:

Ai signori ufficiali generali ital. L. 10 al giorno; — id. superiori ital. L. 5 id. — Ai signori capitani, luogotenenti, sottotenenti, ital. L. 3 id.;

La bassa forza riceverà giornalmente una razione viveri ed a mano venti cent, se sott'ufficiali, e cent. 10 se caporali o soldati.

Art. 10. Mentre si farà la consegna delle porte e delle parti fortificate alle truppe assediarti, il capo dell'amministrazione militare in Ancona e tutti i contabili di ogni corpo ed azienda militare o del Governo faranno pure la consegna del denaro che ritengono, e quale sarà dimostrato dai loro registri verificati dai funzionari d'intendenza del corpo assediante. Saranno pure consegnate quelle somme levate dal tesoro pubblico che in questi ultimi tempi possono essere state irregolarmente introdotte in Ancona.

Fatto in duplice copia al quartier generale dell'annata sarda a Villa Favorita sotto Castro, addi 29 sett. 1860.

I Commissari pontifici

Cav. L. Mauri — March. Lepri, aiut. di campo.

I Commissari sardi

De Sonnaz, maggiore di stato maggiore.

Cav. Bertolé Viale, idem.

ELENCO dei Corpi che componevano l'Armata dell’Italia Meridionale sciolta l’11 Novembre 1860

Stato Maggiore Generale

Capo

Luog. Tenente Gen. Sirtori

Quartier Generale

»

Colonnello Cenni

Int. Generale dell’Armata

Intend. Generale

Colonnello Acerbi

Amministr.

delle sussistenze milit.

Direttore

Colonnello Gatti

Ambulanza generale

Medico in Capo

Dott. Ripari

Auditoriato Generale

Uditor Generale

Avv. Mordini

Corpo del Genio (Stato Magg. e Zapp.)

Comando

Luogot. Col.0 Bordone Magg. Costa

Corpo di Artiglieria

Comandante

Magg. Generale Orsini

Corpo del Treno

»

Luogot. Colono. Bovi

Marin. di Guerra  e Fant. di Marina

»

Ammiraglio Anguissola

Corpo telegrafico di Campo

Ispettore

Cavaliere Pentasuglia

Cavalleria Guide Garibaldi

Comandante

Luogot. Colonn. Missori

Cavalleria Usseri Italiani

»

Maggiori Carissimi e Basislafsky

Cavalleria Esploratori di Campo