Questo testo di Domenico Pandullo, pubblicato dal figlio Antonio da Tropea, ci è capitato tra le mani per caso. Gli abbiamo dato una occhiata per pura curiosità. Essendo stati per 40 anni nella scuola elementare – e avendo insegnato anche storia del Risorgimento fino a quando, da una delle tante riforme, non venne riservata alla scuola media –, volevamo vedere come venissero proposte agli studenti dell’epoca le vicende passate del Regno di Napoli. Ci ha colpito il fatto che non riuscivamo a incasellarlo, non sembrava un testo di parte borbonica e manco di parte liberale. Anche solo per questo meritava di essere pubblicato. Oltretutto le pagine in cui si narravano i fatti del 1848 possedevano il pregio di apparire come una sorta di ripresa in diretta su una grande illusione: la speranza di un futuro migliore per il regno. Emergevano le idee allora circolanti dei “rigeneratori italiani” un po’ dappertutto per la penisola italica. Uno dei più citati rigeneratori ovviamente è Gioberti: «Non si domanda che i Napolitani cedano a' Siciliani, o viceversa, ma che gli uni e gli altri eleggano da buoni fratelli quel partito che più giova alla nostra comun madre, rimettendo ciascuno de' propri interessi in grazia del bene universale.» Siffattamente scriveva l’immenso e generoso Gioberti, cui tanto sta a cuore l'unione e l’indipendenza, la libertade e 'l trionfo della nostra cara Italia. [...]Dicasi pur apertamente, checché ardiscan susurrarne alcuni impudenti Zoili, bieca ed obbrobriosa razza che mai non si spegne, e sempre fe’ guerra al vero merito degli UOMINI GRANDI, Vincenzo Gioberti ènon solo integramente cattolico ne’ suoi inimitabili scritti, ma èla colonna principalissima della cattolica filosofia. Si arrossisca dunque una volta chi per soverchio di balordaggine o di malizia osò ed osa peranco mettere a stampa infami scritture contro di lui ed offendere con ingiurie villane e con ¡stolte calunnie la sua persona sacra, ed avverta che procedendo in tal guisa offende la Religione e Pio Nono, il quale mostrò di stimar altamente quel nobilissimo spirito. [...] Fu cappellano di S. M. il Re CARLO ALBERTO. Nel 1833, dopo breve prigionia, fu astretto ad esultare di gioia e trionfare. Visse in Parigi tutto l’anno 1834. Nel mese di ottobre si ridusse a Brusselle, dove rimase fino all’autunno del 1845; da quell’epoca scelse a soggiorno Parigi. Pel resto, la vita di Gioberti non si narra: essa èsemplice e modesta come quella degli uomini grandi; sta tutta compresa e chiaramente espressa ne’ suoi libri. Largo spazio veniva dato anche all’amministrazione borbonica, a Ferdinando II, alla concessione della costituzione del 29 gennaio 1848. Gettando intanto, comunque rapidamente, un colpo d'occhio su le nostre istituzioni fondamentali, tanto dell'ordine giudiziario ed amministrativo, quanto del potere supremo del governo e della disposizione attuale delle leggi, assai chiaro risultano le magnanime cure, i benifici e salutari miglioramenti a noi prodigati dalla REGNANTE DINASTIA, la sola, alla quale noi dobbiamo sempre mai eterna riconoscenza. Nè i tratti di Sovrana munificenza son pur ora finiti. Il nostro savio e magnanimo Re FERDINANDO II altri espedienti va adottando più energici ed efficaci affine d'apportare un perfetto e compiuto immegliamento nei rami tutti di pubblica amministrazione, di sociale progresso, di positiva ed universale prosperità, e ciò per vie maggiormente render felici e contenti i suoi amatissimi sudditi. [...] Fratelli, concittadini, posteri, se queste mie carte potranno ammollirvi il cuore, e farvi piangere, troppo bene speso io terrò il lungo amore che mi fece cercare i modi facili ed acconci dell'eloquio italico, troppo avventurosi gli studi: un caldo affetto, un sospiro, una lacrima, sarebber per me un premio, una grazia, una lode più grande assai di quelle ch'io avessi ardito desiderare o sperare. Fin qui delle tragiche, orrorose scene, onde fu teatro la Città di Palermo, cui volger dovremo peranco un’altra volta il pensiero: vediamo adesso quai destini eran riserbati a Napoli, quai mutamenti politici v’intervenivano, qual condotta osservavasi da' nostri savi e valorosi concittadini, quali generose riforme a noi largamente concedeansi dal magnanimo cuore del nostro Augustissimo Moderatore e Padre Ferdinando II. [...] Modellare la società intiera, I’universalcomunanza del nostro paese, su la ferma e solida base d'una morale unione fraternalmente perfetta; c00rdinar le leggi secondarie a questo stesso principio di sociale benessere e d’ingenita uguaglianza, all'ombra consolante ed augusta di queste stesse leggi; sistemare le individuali occupazioni e diriger la ripartizione delle cariche o degl’impieghi, delle nazionali industrie o de' comunali mestieri in maniera, che, senza colpire alcun interesse legittimo, ritorni ogni cosa al comun vantaggio, al più gran benessere di tutti i nostri fratelli, tal era senza dubbio il gran problema da risolversi, e tal e pur troppo in quest’epoca avventurosa di politica rigenerazione il consolante teorema, che tutte tiene positivamente occupate le generose menti che vanta questa nostra patria, alla cui testa ci e dato provvidenzialmente di veder collocato il nostro Augustissimo Sovrano ed umamssimo Padre, Ferdinando II; è questa la più grandiosa e stupenda opera prescritta alla comune alleanza di cotesti esseri benemerenti della Nazion nostra, che han bramosia di vantare permanenza e vita nella grata memoria nostra, ed in quella altresì de' posteri nostri. Un’opera cosiffatta, l'opera sublime ed immortale del nazionale risorgimento, lo direm con piacere a chiunque de' nostri cari fratelli, sarà costantemente dinanzi a' nostri occhi, consacrata sempre nel cuore, profondamente impressa e suggellata nella mente. [...] le preghiere de' buoni, le dolci insinuazioni. de' veriamici della patria, le calde insistenze di tutta la Reale Famiglia, cui sta a cuore pur troppo il nostro miglior bene possibile, le calde ed unanimi rappresentanze insomma di tutta intera una comunanza di prodi, cospiranti ad un voto comune, il pubblico voto della nazionale rigenerazione: han talmente colpito ed impressionato l'anima grande e generosa dell’Augustissimo nostro Sovrano Ferdinando II, che il 29 di Gennaio, giorno memorando e sacro ne’ fasti della patria storia, con un atto veramente magnanimo d’impareggiabil demenza, siffattamente si mosse a decretare: «Avendo inteso il voto generale de' Nostri amatissimi sudditi di avere delle guarentigie e delle istituzioni conformi all’attuale incivilimento, dichiariamo di essere Nostra volontà di condiscendere a' desiderii manifestatici, concedendo una COSTITUZIONE;e perciò abbiamo incaricato il Nostro nuovo Ministero di Stato di presentarci, non più tardi di dieci giorni, un progetto per esser da Noi approvato sulle seguenti basi: «Il Potere legislativo sarà esercitato da Noi, e da due Camere, cioè una di Pari, e l’altra di Deputati; la prima sarà composta d'individui da Noi nominati, la seconda lo sarà di Deputati da scegliersi dagli Elettori, sulle basi di un censo che verrà fissato. Son sincero, le pagine di Pandullo mi hanno catapultato negli esaltanti e tragici avvenimenti del 1848, quasi un rimpianto per un tempo non vissuto, però immaginato. Un rimpianto soprattutto per una occasione mancata: costruire un altro futuro ovvero una saldatura fra persone di buona volontà che avrebbero cambiato il paese, evitando che tracollasse appena una dozzina di anni dopo. Portando nei decenni successivi milioni di persone ad abbandonare le proprie terre, in cerca di fortuna in idi stranieri. Invece... o per la ideologia intemperante di taluni liberali o per la paura del nuovo di alcuni sostenitori della dinastia borbonica si sparse del sangue, is crearono rancori, le migliori intelligenze del paese o si rintanarono nelle loro case oppure presero la via dell’esilio. Non vinsero i liberali, anzi in tanti – foraggiati da Cavour – ci avrebbero svenduto alla dinastia sabauda. Non vinsero i borbonici perché il collante nazionale era debole. Dopo il periodo francese, nonostante il fulgido esempio dell’impresa del Cardinale Ruffo, non si erano serrati i ranghi. Con la restaurazione is era scelto l’amalgama (1), un espediente che avrebbe impedito il rafforzamento del sentimento nazionale, lasciando tra le file dell’esercito numerosi ufficiali del periodo francese. Le nuove leve sarebbero state inserite in un ambiente in cui si respiravano idee liberali e la fedeltà alla corona non era salda. I fratelli Pisacane, Carlo (di fede italiana) e Filippo (di fede borbonica), rappresentano l’emblema di quanto affermiamo. Un esercito siffatto, nonostante le cure ad esso dedicate da Ferdinando II, si sarebbe liquefatto al primo urto (2) – e questo accadde nel 1860. Buona lettura e tornate a trovarci Zenone di Elea - 7 gennaio 2025 (1) “La politica detta “dell’amalgama”, imposta ai Borbone dal Metternich nel corso del Congresso di Vienna, prevedeva l’inclusione di funzionari e graduati militari che avevano precedentemente aderito alla Repubblica Napoletana di Murat, fra le gerarchie istituzionali dei restaurati governi. Tale espediente, nelle intenzioni del suo promotore (il Metternich), aveva lo scopo di “limare” le divergenze fra i sostenitori della precedente repubblica napoletana e i fedeli servitori della corona. Di fatto però, come molto giustamente sostiene il Mattogno, si trattò di un vero e proprio “Cavallo di Troia”, che già dall’indomani del Congresso di Vienna cominciò a minare le basi di quella monarchia che aveva riammesso fra i suoi ranghi, perdonandoli, i vecchi traditori.”(Schegge di Storia 12/ La “Politica dell’amalgama”, vero e proprio Cavallo di Troia nel Regno delle Due Sicilie che ne accelererà la fine - Giovanni Maduli ) (2)I francesi, contrari al passaggio dello stretto di Messina da parte di Garibaldi, speravano che venisse fermato dalle migliaia di soldati presenti nel continente. Cosi non fu. Per la gioia degli Inglesi che, evidentemente, conoscevano bene la situazione del regno e contavano sulla disfatta dell’esercito napolitano. |
COMPENDIO DELLA STORIA PATRIAOVVERO DEL REAME DELLE DUE SICILIEDALLA SUA ORIGINE SINO AI TEMPI NOSTRIDI DOMENICO PANDULLOEDIZIONE QUARTA CRESCIUTA, EMENDATA E SEGUITA DA UNA GEOGRAFIA ELEMENTARE DEL REGNO DA Antonio Pandullo di Tropea ad uso delle Scuole di Napoli. Historia testis temporum... vita memoriae... magìstra vitae. Cw. de' Orat. lib, II. NAPOLI 1848 SI VENDE PRESSO RAFFAELE RONDINELLA Largo S. Ferdinando di Palazzo N. 3 |
DI TUTTE LE SCUOLE DI NAPOLI
Antonio Pandullo di Tropea
GIOVANI STUDIOSI,
Altamente sensibile alla caldezza dell'affetto, onde accoglieste, egli non è ormai gran tempo valico, le filologiche produzioni dell'autore di quest'opera, del pari che tutti i miei filosofici e letterari lavori, da me per ammaestramento vostro composti e pubblicati, e da magnanimo desiderio sospinto di volercene ad ogni modo rimeritare, mi avviso far cosa a Voi grata ed utile ad un tempo, questa ristampa di NOZIONI ELEMENTARI DELLA STORIA E GEOGRAFIA DEL REAME DELLE DUE SICILIE intitolandovi. Imperciocché, deliberandosi l’Eterno Provvisore a voler che Voi avventurosamente gli occhi schiudeste alla luce in grembo a queste belle regioni; e traevi dovendo un giorno la vostra vita nobilmente operosa, sì come ad onesti e ben nati cittadini, quai siete, si conviene', ove alla dispostezza del vostro ingegno corrivo a sempre più immegliarsi, accoppiate per tempo conoscenze esatte della storia e della posizion fisica e politica deili native contrade, darete miglior prova della vostra civile sapienza negli svariati tifici, evi appelleravvi la Patria, o nelle professioni, alle quali dall'arbitrio vostro proprio della volontà sarete indiritti. E però mentre vi prego di accogliere con lieta fronte questo non vano né spregevol lavoro, fommi pure a tutt’uomo a confortarvi che secondar vogliate con vigoroso animo la sollecitudine e lo studio de' chiarissimi vostri maestri, i quali con saggi precetti e documenti di civiltà, di prudenza e di ogni maniera di dottrina, di lavorarvi i ingegno, alluminarvi la mente, ed il cuore informarvi di buoni morali mai non rifinano; e ben rispondere alle savissime mire del CLEMENTISSIMO MODERATOR nostro, che con tanto senno e prudenza queste belle, contrade regge e governa.
Vivete, da ultimo, avventurosi, e di porgervi tutt’or più ornati di virtù e di lettere mai non vi ristate.
Sara' ognuno, senza dubbio, da stupor compreso nel veder comparire la Storia del Regno delle due Sicilie, dalla sua origine sino ai giorni nostri, in un volume in 12. Come mai restrigner un soggetto sì vasto in limiti si stretti ed angusti? obbietterà qualche Aristarco. Questa difficoltà non èmica sfuggita all’autore, né lo ha punto scoraggiato. La storia, considerata sotto le sue facce variate e moltiplici, esige, e vero, immensi sviluppi; ma lo studio della storia non èlo stesso per tutti. L’uomo di stato domanda una storia politica, ove largo campo offrir possasi ai trattati ed alle convenzioni; l’uom di guerra vuol la descrizionedelle marziali pugne, e le distinte e ben circostanziale narrazioni della strategia altre situazioni menan seco del paro altre esigenze. Ma l’uomo del mondo la succession de' falli inchiede e gli avvenimenti da essi prodotti; l'uomo poi cui una istruzione abbisogna non già superficiale, ma che si arresti più all'insieme ed alla concatenazione de' falli, che alla moltiplicità de' particolari che gli accompagnano, non ricorrerà certamente a quelle voluminose compilazioni che tendono a stancar l’attenzione, anziché a schiarar lo spirito. L’istoria per la classe più numerosa de' leggitori esser può dunque Scevra di una certa quantità d’accessori: i falli e la moralità che ne risulta, ecco ciò che considerar debbesi come il più interessante e 'l più ragguardevol punto.
Questo, e null'altro, è stato il nostro scopo nel vergar queste carte, insé inchiudenti gli avvenimenti principali de' nostri annali. Se abbiam dato nel brocco, ne sian giudici i dottrinati in istoria, e gl’intendenti delle vicissitudini politiche del nostro reame.
Essendoci parato che questo tenue nostro lavoro abbia meritato l’indulgenza del Pubblico, e però tenendocene assai onorati, abbiamo avvisato, per mostrarci sensibili alla grata accoglienza dell'universale, far succedere a questa opericciuola un trattatello contenente gli elementi della Geografia e della Statistica del Regno; e conosciutasi la tavola sinottica degli abitanti dei dominii al di qua del Faro nel Regno delle due Sicilie nell'ultima pubblicazione fatta dalla Direzione generale del censo, abbiam dato opera di appalesarla nella descrizione delle province. e della Capitale. Così gli abitatori di queste belle contrade avranno a un tempo in picciol quadro delineate e le più esatte conoscenze della storia e quelle della posizione fisica e politica del suolo natio; perocché tutto e legato a questa terra che abitiamo, e, per seguenza, la Geografia andar non può disgiunta dalla storia naturale e civile, dalla geologia, dall'agricoltura, dall’industria, dal commercio, dalla maniera di vivere dei popoli, dal lor governo, dalla loro religione, e dalla loro civiltà; e i giovanetti studi noti appararvi potranno idee giuste e precise che lor serviranno di norma negli studi e nella vita civile, per far poscia miglior prova di sé ne’ vari ufficialquali saranno per servizio della Patria chiamati. Se queste mie cure saran coronate da benigno compatimento, si conseguirà l'orrevole bramosia che m’incende, cioè di esser tenuto diligente, esatto ed imparziale narratore, comeché non elegante ed ornato, ammentandomi del seguente verso di Manilio:
Ornari res ipsa vetat, contenta doceri.
DELLA STORIA E GEOGRAFIA DEL REAME PELLE DEE SICILIE
=============================
Posteri, posteri, vestra resagitur.
Nacquerola pastorizia e l’agricoltura insiem con l'uomo, ed in ragione della civiltà, immegliaronsi appresso le diverse genti; ma i primi lor passi si ammantano della tenebria e del buiore de' secoli. I primitivi progressi dell'agricoltura son forse dovuti alle società indiane? Ed a qual secolo appo gl'itali popoli? Forse all’età d'oro di Giano e di Saturno, riputati i primieri istitutori del viver civile del bel paese
CH’Appenninparte, il mar circonda e l’Alpe
Per mezzo dell'agricoltura e delle leggi? I secoli dalle storie, isolati fansi muti a cotal i ricerche.
Rifiorivano infra le prische nazioni gli Egizi per civile sapienza e per ¡svariate scienze ed arti. Da storici documenti fassi aperto che colonie egizie diffusero l’arte agronomica nell’Asia e nell'Africa, donde i Greci, dopo di averla ad alto grado di perfezionamento nel lor secolo elevata, la recarono negli stabilimenti che nella bassa Italia formarono. Il saggio Senofonte vergava carte sull'amministrazione de' beni rurali, e ne dettava pubbliche lezioni in Scillonte, ove avealo l’ingrata sua patria esiliato. Da quell'epoca l'agricoltura comincia ad aver annali autentici, ne’ quali si fa spesso menzione della bassa Italia. Gli scrittori, che ne hanno trasmesse memorie, dipingono come dono spontaneo del nostro clima, e come pregio singolare del nostro suolo, la somma fertilità in prodotti di ogni generazione, necessari a' bisogni ed agli agi della vita. Eglino aggiungono ancora che i nostri abitatori fruivano già di gran novero d’indigeni vegetali non men salubri che atti a soddisfare i sensi anzi che ce ne venissero dall’Egitto, dall'Asia e dall'Africa tributati. Essi consistevano in frumento, segala, ferro, panico, miglio, spelda, orzo, fave, piselli, fagiuoli, lenticchia, veccia, lupini, rubiglia, lino, canapa, cotone, rape, navone, ramolaccio, cavolo, bietola, aglio, cipolla, zucche, fieno greco, ec. ec.
Tra le piantagioni, la vite e l'ulivo formavano la più importante cura e sollecitudine de' nostri antenati. Moltissime erano le specie delle uve. Verso il I secolo di Roma, al dir di Marrone, erano in gran rinomanza più di trenta specie de' nostri vini, ed in ispezialità il Gauro, il Massico, il Cecubo, il Falerno, il Vesuviano, il Sorrentino, il Caulonio, il Reggino, il Brindisino, e l’Aulonio presso Taranto. Columella fa menzione di dieci speciedi ulive, che si alimentavano nelle nostre regioni, non che de' dilicati olii Campani, Irpini, Pentri, Lucani, Calabri, Turii, Tarantini e Salentini, che i Romani e gli altri Italiani acquistavano a preferenza, e consumavano per fasto.
Le più floride colture erano sparse nelle regioni de' Sabini, de' Volsci, de' Campani, de' Sanniti degli Appuli e degl’Italioti, sì come attestano Polibio, Catone, Varrone, Cicerone, Virgilio, Diodoro, Columella, Dionisio, Plinio, Palladio, Strabone, Livio, ecc.
Queste nostre contrade non pativano neppurdifetto di alberi da frutte, tra i quali si specificano per quantità e per diffusione il fico, il pomo, il pero ed il castagno: il primo formava ricco oggetto di commercio.
Le selve, oltre al prestar rezzo e pastura alle pecore, e ghiande a' maiali, eran sorgenti di ricchezza per ogni maniera di legname da costruzione, molto dalle strane genti preferito.
Era l’industria de' grossi e minuti bestiami, una delle più estese e diligenti cure del nostro paese, ed in ispezial modo degli Appuli e de' Lucani, ad essa di estrema opulenza debitori. La maggior parte de' numerosi greggi avea suo stallo durante il verno nella Daunia e nella Bruzia, e quindi traducevasi alla stagion di state nel Sannio e nella Lucania, ove i boschi ed i vicini monti porgevan loro pascoli e frescura. Il vello delle gregge di Taranto per morbidezza e bianchezza era tenuto in pregio al par di quello di Mileto. Le lane delle mandre di Canosa, della Puglia e della Basilicata, torte e filate dalle donne di qualsivoglia grado e condizione, fornivan panni pel vestiario civile e militare, calze, berrette, coperteper l'inverno, dossieri, ed altri diversi lavori.
Torme di maiali per le foreste disseminati, offrivan cibo per tutto l'anno alle popolazioni ed agli eserciti. Le selve della Lucania ne fornivano in maggior copia, e di straordinaria grossezza, e diedero a' nazionali ed agli esteri grande abbondanza di lardo sino a' bassi tempi di Costanzo e di Costante.
Non minore era il numero de' buoi, sostegno dell'economia campestre.
Pur di cavalli abbondavano queste nostre regioni, e per brio, velocità e robustezza eran in maggior pregio tenuti quei che educavansi nella Calabria, nella Puglia e nel Sannio Irpino.
Io non potrei dire a mezzo quanta fosse la floridezza e lo stato vegetale ed animale presso le antiche nostre genti, a malgrado de' saccheggi e delle devastazioni dai Romani operate in queste fertili campagne per tre secoli in circa di guerra. Ahi! terra, ostello di dolore! Altamente ci duole l'animo nel confessare, che quei doni medesimi, dalla natura a pro del reame di Napoli largamente fatti, hanno mai sempre gravi sventure ad esso ingenerate. Sciami di pirati africani, e di barbare torme settentrionali, simili ad avoltoi dalla fame travagliati, piombar veggionoin vari tempi su questo bel paese, e quasi tutti i potentati dell'Europa inondare del sangue de' lor popoli questa contrada, la quale, combattendo sempre le lor armate, era sempre più l’oggetto della lor rinascente ambizione. Quindi l’istoria di Napoli e tanto più istruttiva, in quanto riflette, per così dire, la storia di tutte le nazioni; dessa e il punto d’intersezione di tutte le rivoluzioni dell'Europa. Esser vuolsi al centro dell'orizzonte storico di questo continente? Napoli ne èil punto.
Gli eruditi innumerevolivolumi hanno scritto relativamente alla conoscenza dei popoli primitivi ed indigeni dell'Italia, gli uni assegnando l'anteriorità agli Etruschi; argomentando gli altri in favore degli Osci. Dopo avertentata ogni congettura, e posto in campo tutte le dispute della polemica, divenendo sempre più insolubile il problema, fu di mestieri risolversi d’ignorarlo affatto; risolvimento troppo duro per chi studia ad ammaestramento. Fuvvi mai quistione più sterile e vana? Estimare un popolo primitivo, e inferirne o ch’egli fosse uscito il primo dalle mani del Creatore, asserzione difficile a provarsi, o che dipartitosi da una regione si fosse in un’altra tradotto, ed in questo caso non è indigeno. Le nazioni esistono per la storia, perché hanlasciato monumenti di civiltà, altrimenti tutto ciò che raccontasi, e favoloso. Che monta sapere il nome degli avoli degli Cròni e degl'Irochési?
Le tenebre dell’antichità non ischiaransi per l’Italia se non nell'epoca della distruzione di Troia: allora un gran numero di Greci, obbligatia fuggire la lor patria, abbandonata per la lor lunga assenza alle usurpazioni degIi ambiziosi, approdarono alla parte meridionale del regno di Napoli. Quivi trovando tutte le dolcezze del clima natio, e viver volendo nell'allettamento d’una perfetta illusione, dettero a questa patria adottiva il nome di Magna Grecia.
I Locresi, soldati di Aiace, figlio di Oileo, della città di Naricia nell’Attica, dispersi dalla tempesta, che perir fece il loro re, fondarono la città di Locri nella prima Calabria ulteriore. Idomenèo s’impadronì del paese dei Salentini nella terra di Otranto; e Filottète, compagno d'Ercole, re di Melibèa nella Tessaglia, edificò la città di Petilia all'ingresso del golfo di Taranto. Agli attestati di Strabone e di Dionigi d'Alicarnasso, le migliori guide nel dedalo de' tempi remoti, aggiugner bisogna l’autorità di Virgilio, geografo scrupoloso, del paro che Omero: nel terzo libro dell’Eneide, parlando della navigazione di Enea lungo le coste dell’Italia bagnate dal mar Ionio, dice:
Has autem terras ¡Italique hanc littoris oravi,
Proxima quae nostris perfunditur acquari aestu
Effinge: cuncta mali habitantur mania Graiis.
Hic et Naryeii posuerunt moeniaLocri.
Et Salentinos obsedit milite campo
Lyctius Idomeneus; hic illa ducis Melibaei
Parva Philoctetae subnixa Petilia muro.
Canto evita le terre, e quella parte
Italia che dal mar nostro si bagna,
Ché di malvagi Achéi tutta va piena.
Là di Naricia i Locri han posto albergo.
lvi il Cretese Idomenèo s’accampa
Ne’ campi Salentini, e vi guerreggia,
E Filottete Melibeo, di mura
Sua piccola Petilia erge munita.
Aercr
I Focesi lasciaron le tracce del loro genio coloniale su tutte le rive del Mediterraneo, da Velia sino a Marsiglia. Una colonia di Dorii aggregandosi agli abitatori di Pesto, nel principato citeriore, diede a questa città il nome di Posidonia; ove magnifici templi eressero, di cui tre sono ancor in piedi, ed uno quasi intatto. I Lacedemoni portarono al più alto grado di splendore la città di Taranto. Gli Achei reser floride e la città di Metaponto, ove Pitagora terminò i suoi giorni, consacrati alla gloria ed alla felicità della Magna Grecia di cui fu il legislatore; e la città di Crotone, presso alla quale sul promontorio Lacinio Giunone aveva un famoso tempio, in cui fu da Zeusi esposto il suo quadro rappresentante Venere agli sguardi dell’Italia ingran meraviglia venutane; e la città di Sibari, il cui nome offende il pudore, e fa sorridire la voluttà; e la città di Caulonia, rinomata perché vi si respira la più pura aria dell'Italia. Gli Ateniesi stabilirono ima colonia in Calabria nel golfo chiamato Scylaceum. Ascoltiamo Virgilio nel medesimo libro:
Haud mora, continuo, perfectis ordine votis,
Cornea velatarum obvertimus antennarum;
Grajugenumque domo, suspectaque linquimus arva.
Mine sinus Herculei, vera famaTarenti,
Cernitur; attollit tediva Lacinia contra
Caulonisque ares, et navifragum Scylaceum.
Poiché solennemente avem compiuto
I sacri riti, le velate antenne
Senza indugiar più a lungo ritorcemmo
Dal greco ospizio che sospetti aduna.
Di colà il Tarentino erculeo seno,
Se verace n e il grido, a noi dinanzi
Si spiega: incontro a cui sorge e torreggia
Della diva Lacinia il tempio altero;
Le rocche di Cantone, e la Scillèa
Vorago, infesta ai naviganti.
ARICI
Gli Eubei finalmente fondarono ed aggrandirono le città di Cuma e di Napoli. Così ad ogni passo incontransi in questo regno città, templi e mille altri monumenti contemporanei dei secoli eroici della Grecia, e che v'intervengono sulla sua religione, sulle belle arti e la sua gloria.
Le intraprese di Annibale nel tentare d’impadronirsi di Napoli, allor alleata dei Romani, tornarono a volo: essa fu poscia lor soggetta; ma non ricevé il nome di colonia romana se non sotto gl'Imperatori, e non discontinuò d’esser una città greca relativamente alle sue usanze, alla sua religione ed al suo linguaggio ancora. Essa formava un luogo di delizie e di riposo pei ricchi abitanti di Roma; parecchi vi si stabilirono. Napoli via più dilatossi sotto gl'imperatori Augusto, Adriano e Costantino. Nel corso di 500 anni, in cui queste nostre regioni venner dal popolo Romano soggiogate, furono general mente comprese sotto la denominazione d’Italia; la qual andò suggetta a diversi spartimenti. ed a svariati confini. Augusto la divise in undici regioni: la 1.(a)regione abbracciava il vecchio e ’lnuovo Lazio e la Campania, la 2.(a)Picentini; la 3.(a)Lucani, i Bruzi, i Salentini; la 4.(a)Trentani, i Marrucini, i Peligni, i Marti, i Festini, i Sanniti, i Sabini; la 5.(a)il Piceno; la 6.(a)l'Umbria; la 7.(a)l’Etruria; l'8.(a)la Gallia Cispadana; la 9.(a)la Liguria; la 10.(a)Venezia, Carni, Iapidia ed Istria; e la 11.(a)Gallia Traspadana. Fin dai primi tempi di Roma, il paese che discorre dal Tronto al capa dell'Armi, era ripartito in piccoli Stati, ove regnavano i Sabini, gli Equi, i Volsci, i Palmensi, i Pretoriani, gli Adriani, i Peligni, i Vestini, i Marti, i Marrucini, i Frentani, i Sanniti Pentri, i Sanniti Irpini, i Sanniti Caudini, i Caraceni; gli Ausonii, gli Aurunci, i Sidicini, i Campani, i Picentini, i Lucani, i Bruzi, i Reggini, i Locresi, i Cauloni, gli Scilletici; i Crotonesi, i Sibariti o Turii, i Sirini o Eraclesi,i Metapontini, i Tarantini, i Cumini, i Palepolitani e Napoletani, i Posidiniati o Pestani, i Veliensi, gli Iapigi, iCalabri o Messapi, i Salentini, i Peucezi, i Dauni, gli Appuli. E avvegnaché i più celebri scrittori di storia e di geografia, come a dire Livio, Stra Bone ed altri discordino intorno allevarle appellazioni di siffatti luoghi, puossi non però di meno con qualche precisione affermare che le due province di Napoli e di Terra di Lavoro comprendessero la Campania; il Contado di Molise fosse il Sannio, abitato da' Pentri, da' Caudini e da' Caraceni; l'Appuzzo Citra contenesse i Marrucini; l'Appuzzo Ultra 1.(a) i Precutini; l’Abruzzo Ultra 2.(a)i Vestini, i Peligni; i Marsi e gl'Irpini il principato Ultra; il principato Citra e la Basilicata abbracciassero la Lucania; la Capitanata inchiudesse l'Apulia Daunia; la Calabria Citra fosse stata abitata da' Bruzi; le due Calabrie Ultre fossero state la Magna Grecia; la Terra di Bari fosse stata l'Apulia Peucezia, e la Terra d'Otranto la Messapia.
Di cotal i luoghi favellando, non abbiam mentovato la Sicilia, perché le dianzi nominate regioni non furon mai partite in province. Ma sì in province furon divisi quei luoghi, cui, soggiogata l'Italia, coll'aiuto di lei conquistò dappoi il popolo di Roma. Le prime furon la Sicilia, la Corsica e la Sardegna: e però addivenne che la Sicilia riputata fosse provincia fuori d’Italia, si coni e fermato dall'Editto di Cesare, il quale, vietando a' Senatori Romani d'andar senza licenza fuori d’Italia, da questa la Sicilia escluse. Neltempo della repubblica fu la Sicilia una provincia pretoria, perché da Roma vi si man dava un Pretore a governarla, come in Corsica e in Sardegna. Le anzi dette regioni furono variamente governate. Ci ebbe di quelle che sortirono la condizione di Municipii, i quali, oltre alle leggi romane, potevan anche ritener le proprie e municipali. Ma la più parte di queste nostre regioni sortirono la condizione di colonie, le quali si reggevano conforme al costume, alle leggi, ed agl'instiluti della stessa Roma. A simiglianza del Senato, del popolo e de' Consoli, avean ancor esse i Decurioni, la Plebe, i Decemviri, gli Edili, i Questori ed altri magistrati come in Roma. Quindi si valevan de' nomi di Ordo ovvero di Senatus Popolusque.
Di tutte le condizioni la più dura era quella delle Prefetture, le quali non potevano averleggi proprie come i Municipii, né crearsi i Magistrati da sestesse come le Colonie; e, secondo Pompeo Festo, ebber sì cruda sorte Capua, Cuma,Casilino, Volturno, Linterno, Pozzuoli, Acerra, Suessola, Atella Calazia, Fondi, Formia, Cerri, Venafro, Alife ed Arpino. Napoli, Taranto, Locri, Reggio ed alcune altre città Greche, chetano in Italia, ebber in sorte la miglior condizione, quella cioè delle Città Federate, le quali, tolto il pattuito tributo, erano in tutto libere. Dopo Augusto, l’Imperadore Adriano divise l’Italia in 17 province, unendo ad essa le isole di Sicilia, Sardegna e Corsica, escluse da Augusto. La Sicilia e la Campania ebbero Consolari; la Puglia, la Calabria, la Lucania e la Bruzia caddero sotto due Correttori, ed il Sannio ebbe un Preside: e le nostre contrade venner partite in cinque province, I la Campania, IIla Puglia e la Calabria; IIIla Lucania e i Bruzi, IV il Sannio; V la Sicilia. I loro governi divennero il flagello di ogni ramo d’industria per novelle avanie, e violente estorsioni.
L’imperator Costantino guardò la stessa divisione di 17 province d'Italia, delle quali pur cinque furono nel nostro reame. Egli suddivisò in due Vicariati tutte le 17 province, d’Italia e di Roma: di quest’ultimo fecer parte i nostri paesi, che rimaser così ordinati fino al 395, quando de' figliuoli di Teodosio, Arcadio regnò in Oriente, e Onorio in Occidente. Allora numerosi stormi di Visigoti, capitanati da Alarico e Radegisio, usciti dal mezzodì della Svezia, ove sono ancor oggi le province di Gothia e Vestrogothia, dopo aver desolato le province illiriche e valicato. le Alpi, aprironsi il varco in Italia, saccheggiarono Roma, e vi distrussero templi, palagi, statue ed altri oggetti di belle arti, riguardati come capi d’opera dell’antichità: quindi traversarono la Campania, il Sannio, la Puglia, la Lucania e la Bruzia, pigliando ed abbruciando abitati, devastando campagne, sgozzando bestiami, ed uccidendo abitanti; ma assalito da violente febbre presso Cosenza, morissi Alarico dopo pochi giorni. I suoi general i deviar facendo il corso del fiume Busento, e scavar nel suo Ietto una tomba, v’interrarono il morto corpo, e gran parte delle rube in oro, argento, gioie ed altri oggetti preziosi, e rincanalando le sue acque, tolsero alla vista degli uomini i resti del lor duce, e spensero la vita agli schiavi a quella bisognaadoperati, per tema che alcun di loro il sito non appalesasse. Poseia di Cosenza partiti, dà per tutto osteggiando e abbottinando trassero sino nella regione de' Bruzi, e arrestaronsi là dove Reggio e pel mare da Messina partito. Ma non si rimasero lunga pezza in Italia questi barbari: passaron oltre. Onorio loro diè l'Aquitania e parte della provincia di Narbona nelle Gallie. Di lì a poco Ataulfo, cognato di Alarico, videsi piombare su Roma, e venne atterrato ciò ch'era sfuggito al primo furore. Imperò concedette Onorio franchigia di tributo alla Campania e a quella tra le nostre province, che avean più dall’invasione sofferto. Erano già nove lustri tracorsi, quando Attila l’efferato, apertosi il passaggio per le Alpi, invase di barbari settentrionali d’Italia, e ponendo a sacco ed a fuoco gli abitati ed i campi, e facendo con inaudita spietanza immensa strage degli abitanti, senza distinzione di età, di sesso e di condizione, marciò sopra Roma; ma ritiratosi all'avvicina mento di Aezio, diessi a devastare le province, donde si tradusse di là del Danubio, poscia che si fu obbligato l’imperatore Valeriano di pagargli un annuo tributo. Imperò rimaser in pace questi paesi sino affanno 40, quando Genserico re de' Vandali, dall'Africa venne in Sicilia, saccheggiò Capua, Nola e Roma, e fe’ ritorno in Africa. Finché costui visse, fece ogni anno approdare alle spiaggie della bassa Italia le sue flotte, tutte composte di uomini di scarriera, e davan la spogliazza a' campi, mettevan a ruba le città, facevano schiavi e atterravan città, tra le quali si numerano. Reggio, Locri, Cotrone e Torio, che qualche avanzo ancor serbavano dell’antico splendore.
Rimasero per poco tempo tranquille queste nostre contrade, cioè sino al 478 quando Odoacre con gli Eruli e i Turingi occupò l’Italia, e trovatala d’ogni valeggio sprovveduta, uccise Oreste, e morir fece in esilio a Napoli, nel castello di Lucullo ch'or noi diciamo dell'Uovo, Mumillo, detto Augustolo, suo figliuolo, nel quale si spense l'impero dei Romani in Occidente. Tenne Odoacre la signoria d’Italia poco men di 14 anni, poiché nel 489 Teodorico, re degli Ostrogoti, si fe’ donno d’Italia e della Sicilia, e vi regnò da principe savio, benevolo e generoso, perché fece. eletta di persone insigni per talenti e virtù, affinché ben il consigliassero e dirigessero, e tra queste assegnò il primo posto a Magno Aurelio Cassiodoro, nato d’illustre famiglia a Squillace, parente di Simmaco patrizio. Teodorico ritenne la stessa divisione delle nostre province. Sin d'allora la città di Napoli cominciò ad elevarsi sopra tutte le altre, sicché poscia divenne capo d'un ducato importante ne’ tempi posteriori.
Dopo 32 anni di un regno felice, Teodorico accascialo dalla vecchiezza poco meno che orba, e dalle tante e svariate cure allassato, mutò contegno i e con talune azioni derogò alla somma gloria, che appresso alla posterità acquistato si avea. Durò la dominazione ostrogota da Teodorico sino a Teia per 64 anni de' quali gli ultimi 18 furon adoperati in una guerra sanguinosa contra i Greci, i quali, sotto Belisario dapprima, e poi sotto Narsete, conquisero e devastarono l’Italia.
Ebbe fine il regno de' Goti, per la perfida natura di Teodato, il quale avendo impalmato Amalasunta, figliuola di Teodorico, la fe’ strozzare in un’isola nel lago di Bolsena. Giustiniano, imperator d’Oriente, tra pel gran pregio in che si aveva Amalasunta, e per l’Africa restituita all'impero, era in quistione con Teodato, a causa del Capo Lilibeo in Sicilia, ditto da Teodorico in dote ad Amalafrida sua sorella, maritata con Trasimondo re de' Vandali, e però dichiarò la guerra a Teodato.
Volgeva l'anno 536 quando il più prode de' general i di Giustiniano, Belisario, tristo e celebre esempio delle umane vicende, già vincitore de' Vandali in Africa, occupò la Sicilia, discese nei Bruzi, e non incontrò resistenza sino a Napoli. Dopo lungo assedio, per un acquedotto, che credesi vicino al luogo ove e la Chiesa di S. Sofia, presso piazza Carbonara, ei penetrò nella Capitale. Le province, che soffriron allora guasti maggiori, furono la Campania, la Calabria e la Lucania.
Non lungo tempo tracorse e i capitani greci venner in contesa tra loro per ambizion di comando. Il re Totila ne colse il destro, gli assalì e ne fe’ gran macello: quindi scorse la Campania, il Sannio, la Puglia, la Messapia, la Lucania e la Calabria, demolì le mura delle fortificazioni per togliere all’oste ogni mezzodi ricovero e di difesa, non recò alcun danno alle popolazioni, ed animò le opere rustiche. Indi sopravvenne un’orribil pestilenza, che afflisse e spopolò le province. In questo giunse Narsete in Italia, successore di Belisario, conoste poderosa raccolta nella Tracia, nell'Illirio. ed ingrossata dalle truppe di Fermano, di Giovanni, de' Longobardi, degli Eruli, degli Unni, de' Gepidi e de' Persiani. Sanguinose battaglie sostenne Narsete, dapprima con Totila, e poscia con Teia, suo successore, morto il quale nella battaglia sul fiume Sarno, datagli da Narsete, nel 553 cadde estinto il regno gotico, e l’Italia fu sommessa all’imperatore d’Oriente. Narsete fe’ tostamente ritornare nella Pannonia i Longobardi carichi di doni, e ritenne gli Alemanni ed i Franchi, i quali, divisi in due corpi sotto il comando di Butilino e di Léotari, si resero rubelli, dandosi uno a devestare le regioni mediterranee sino allo stretto di Messina; l'altro le marittime sino alla punta di Leuca. Carichi di bottino volgevan in pensiero di far ritorno alle native contrade, quando fuRutilino da Narsete assalito su le rive del Volturno disfatto ed ucciso; e Leutarisalvo giunse tra Verona e Trento presso il lago di Garda, ove il suo esercito, afflitto da mortifera pestilenza, quasi tutto rimase estinto. Pagarono così entrambi il fio delle ruberie e delle devastazioni commesse nelle regioni di loro scorrerie.
Verso quei tempi vidersi introdotte nella bassa Italia le piantaggioni de' gelsi e le uova de' vermi da scia, che alcuni monaci, di ritorno dalle Indie, avean recate in molti luoghi dell'impero di Oriente.
Succeduto nell'impero Giustino a Giustiniano, l’Italia ebbe mutamenti maggiori di quelli che si avesse avuti sotto i Goti medesimi, i quali avean procurato di mantenerla nella stessa forma con che fu retta dagli antichi imperatori d'Occidente.
A Narsete succede Longino, il quale. comeché fermasse sua stanza in Ravenna, siccome gl'imperatori di Occidente e Teodorico co’ suoi Goti, abolì l’antica amministrazione, e in tutte le città e luoghi principali pose Capi, cui domandò Duchi, con un Giudice, sottoposti a colui, il quale, avente sua sede in Ravenna per l’imperatore, ebbe il nome di Esarca. Quindi, videsi la signoria italica partita in 36 ducati. Imperò essendo di tanto sminuzzato il potere, accelerassi una nuova invasione forestiera. Hacci chi dice che Narsete, caduto in odio di Sofia imperatrice, e perciò richiamato dall’Italia, inducesse con segreti maneggi Alboino, re dei Longobardi in Pannonia, a rendersi signore d’Italia. I Longobardi, traenti la loro origine dalle sponde del Baltico, da prima invasero la Pannonia e ‘l Norico, e poscia dal centro della Germania, valicato l’Adriatico, poser la prima volta il piede nel Sannio, sconfissero Totila, e, carichi di bottino, rinselvarono. Dopo non molto tempo passato, nel 568 regnando Giustino in Oriente, quei medesimi Longobardi, che per l’innanzi avean servito da mercenari, e che gustato avean le delizie del suolo italico, trassero a calca sotto i vessilli del lor re Alboino, e rafforzati da 20 mila Sassoni, e da una moltitudine immensa di Gepidi, Bulgari, Salmati, Pannoni, Svevi, borici ed altri, si misero in marcia ed occuparon Aquileia con molte terre della provincia di Venezia. Alboino fermossi nel Friuli, del quale fece un ducato, e diello a Guelfo, suo nipote: quindi il Ducato Foro iuliense. Di là recossi a Vicenza, Verona, Trento, e dappertutto stabilì Duchi o Governatori. Travalicò l’Adda, prese Brescia, Bergamo, Lodi, Como, Milano, e, ferma la sua sede in Pavia, fu da' suoi vittoriosi soldati gridato re. E questa sì fu l'origine della monarchia Lombarda, la quale dal 570 durò sino al 776.
Avean le nostre province sino all’arrivo di Autari terzo re Longobardo i lor Duchi, come gli avea stabiliti Longino, dependenti dall'imperator d’Oriente. Nel 589 Autari sbarcò nel Sannio; di cui occupò la Metropoli, Benevento, e, facendone duca Zotone, traversò la Calabria in sino a Reggio, ove cacciato entro le onde il suo cavallo, e percotendo colla lancia una colonna miliare innalzata nel mare, disse esser quello il solo confine che dava alla monarchia longobarda. Ma, a malgrado di tante genti che spopolarono le natie contrade, non potè pervenire Alboino alla signoria di tutta Italia. La sua morte intervenuta dopo tre anni e mezzo, e l’anarchia, che ne fu la conseguenza, arrestarono i passi de' suoi duci. Venezia si rese forte ed indipendente nelle sue lacune: Roma si mantenne fedele all’impero di Oriente sotto la protezione de' Papi: il ducato di Benevento si sottomise a Zotone, come di sopra si ètoccato, e per quasi 500 anni fu sempre in guerra co’ ducati di Napoli, di Gaeta, di Sorrento, d’Amalfi, e con altri ducati minori, che dependevano dall'imperator d'Oriente: l’Esarcato di Ravenna e la Pentapoli, formante parte della Romagna, pur tennero da' Greci. Durante la prima metà de' mezzi tempi, molte città scossero il giogo de' sovrani di Bisanzio, e rinvennero nella propria indipendenza princìpi di forza e mezzi di resistenza contro alle straniere invasioni.
La monarchia de' Longobardi fornì una raccolta di leggi e di usanze curiose, avuto riguardo ai tempi in che furon introdotte, in particolar modo intorno a' feudi e costumi feudali, di cui vari autori attribuiscono a' Franchi e a' Longobardi l’origine. Il ducato Beneventano, elevato da Arechi a principato fu diviso in due principati tra Radelghiso e Siconolfo. Spettarono al primo le province poste verso l’Adriatico, ed al secondo quelle verso il Tirreno; tranne i ducati di Napoli e Gaeta. I principati di Capua e di Salerno sostennero, atroci guerre co’ ducati Greci e co(r)re Franchi; soffrirono le incursioni de' Saraceni; e sotto Desiderio ultimo re Longobardo, e Buono ultimo duca di Napoli, tutta l’Italia cadde nelle mani di Carlo Magno, che seco condusse Franchi, Sassoni, Borgognoni, Teutoni, Dalmati, Bulgari, Pannoni e Transilvani. I tentativi fatti da' principi Longobardi, Astolfo, Berengario e Adelberto per reggersi in Italia, dieder luogo alle invasioni degl’imperaiori di Germania Ottone I, II e III: in queste turbolenze e dissensioni, e mentre infieriva una carestia desolante ed universale, cagionala da neve, che elevossi a più di due braccia di altezza, e che permanente rimase per circa due mesi, a causa de' venti boreali, i quali spiravano con furor tale da impedire qualunque traffico da luogo a luogo, apparve una brigata di 40 pellegrini Normanni, di ritorno da' sacri luoghi di Gerusalemme, illustrati dalla presenza de' fondatori e de' martiri della religione cristiana.
Nordmann significa nella favella alemanna, uomo del norte: ed i Normanni, sì come i Goti e i Longobardi, dalla Scandinavia uscirono ad inondare l’Occidente. Sbarcati in Salerno quei pochi Normanni, Guaimaro III, che teneva allora quel principato, gli adoperò contra i Saraceni, che queste spiagge infestavano, e con tanto valore si condussero, che molti principi Longobardi li vollero a guardia loro assoldati. I Normanni, riveduto il lor paese, qua ne rivengono, e, contro i Greci e i Saraceni sodo diversi principi militando, in gran fama salirono. Ma rimeritati d’ingratitudine da' Longobardi, Sergio, duca di Napoli, per sé tennegli assoldati, e gli riconquistarono il ducato perduto. Da Sergio ebber in ricompensa il territorio che tra Napoli e Capua, dove fondarono Aversa, città così domandata per esser situata aversa, cioè, avverso Capua, il cui principe aveva invaso Napoli. Aversa fu tenuta da Rainulfo, cui Sergio diè titolo di Conte. Questi furono i primi Normanni venuti Ira noi verso l'anno 1016, de' quali era duce Osmondo Drengot in disgrazia di Roberto, duca di Normandia. I secondi furon i figliuoli di Tancredi d’Altavilla, venuti intorno all’anno 1035. Essi bene e strettamente uniti combatteron sempre valorosamente, e l’imperatore Corrado confermò Rainulfo nella sua Contea. I tre fratelli maggiori Guglielmo, Drogone ed Onfredo, fattisi capi di quel drappello, militarono prima a favore di Guaimaro IV principe di Salerno contro gli Amalfitani, e poscia a pro di Paflagone, imperator d’Oriente, contro gli Arabi in Sicilia. Nel 1037 sbarcarono in Messina, e conquistarono il paese infino a Siracusa, via cacciandone i Saraceni, e rimettendolo, solfo il dominio dell'imperator d’Oriente. Ma indignati contro a Maniaco generale dei Greci, di mala fede, rapacità ed avarizia grande colpandolo, ed istrutti, perche testimoni oculari della codardia e dappocaggine delle sue falangi, determinarono di conquistar per sé medesimi ciò che i Greci possedevano nella Puglia e nella Calabria. Quindi tornati in terra ferma, e associatosi a quell'impresa Ardoino Longobardo, 300 uomini profferti da Rainulfo a 12 capi col titolo di Conti, Melfi, Venosa, Ascoli e lavello caddero l'una dopo l’altra in lor potere, e in tre battaglie fu l'oste greca intieramente atterrata, siche nel 1041 quasi, tutta Puglia fu sotto la signoria Normanna, e Guglielmo, per la sua forza estrema e pel valor suo sommo, soprannominato braccio di ferro, fu nel 1043 dall'esercito italiano e é normanno salutalo Conte di Puglia. Questo fu il primo titolo, e 'l principio di tutti gli altri, che la Regalcasa Normanna ebbesi in Puglia, e poi in Sicilia. Dopo la sua inaugurazione, Guglielmo d'accordo con Guaimaro, nella dieta di Melfi,partironsi le città. A Rainulfo, conte di Aversa, toccò Siponto col monte Gargano: A Guglielmo, conte di Puglia, la città d’Ascoli: A Drogone, Venosa: Ad Arnolino, Lavello: Ad Ugone, Monopoli. A Pietro, Trani: A Gualtiero, Civita: A Ridolfo, Canne: A Tristajno, Montepeloso, e cosi ad altri duci normanni altro città, tali che Frigento, Acerenza, S. Angelo e Minervino: Melfi rimase luogo di assemblea e città li! era.
Guglielmo venne a morte tre anni dopo la sua inaugurazione, e a lui successero l'uno dopo l’altro i fratelli Drogone, Onfredo e Roberto Guiscardo, salutato quest’ultimo duca di Puglia e di Calabria. Roberto, dopo la memorabile sconfitta dell'esercito dell'imperatorEnrico e del Papa Leone IX presso Civita nella Capitanata, fatto il papa prigione, e restituitolo con tutti gli onori alla sua sede, venne investito delle sue conquiste. D’allora in poi soggiogò i principali di Capua, di Salerno, d'Amalfi, di Bari e gran parte della Sicilia, cui tolse a' Saraceni, e fece governare da Ruggiero suo fratello, detto il Gobbo, col titolo di conte. Poscia, ceduto Benevento alla Santa Sede, volge le sue armi contro all’imperatore di Costantinopoli con maravigliosi successi; ma di là fa ritorno in Italia, affindi liberare il Papa Gregorio VII, cui l’imperatore Enrico IV tenea prigioniere in castel S. Angelo, e rivola in Oriente, quando morto in Corfù, e sepolto in Venosa, gli succede nel regno Ruggiero suo figlio, il quale, mancato di vita, fu pur seguitoben presto nella tomba dal fratelsuo Guglielma, già duca di Puglia. Morto costui senzafigliuoli, cadde tuttal'eredità a Ruggiero il gobbo. conte di Sicilia, zio di lui, il quale riunì alla sua signoria tutte queste province. Papa Urbano II lo fece suo legato, onde trasse origine la Monarchia di Sicilia, e, dopo aver preso il titolo di Gran Conte di Sicilia e di Duca di Calabria e di Puglia, preparò la dignità regia a suo figliuolo, anche di nome Ruggiero. Cosi rimaser estinte affatte le dinastie. lombarde, che signoreggiato aveano nella basse Italia per 509anni dopo il loro arrivo sotto il comando di Alboino, e per 303 dopo la disfatta del re Desiderio.
I Normanni serbarono le leggi longobarde e feudali. Le lettere risorsero mercé le cure de' monaci Cassinensi e degli Arabi in Salerno, dove fiorì la scuola di filosofia e di medicina, e la Chiesa acquistò grande splendore per l'istituzione della maggior parte degli ordini religiosi, e per le donazioni di beni che le fecero vari principi pietosi.
Il regno di Ruggiero I fu quello di un monarca valoroso e prudente, l a Monarchia fu propriamente fondata nel 1130, allorquando Ruggiero I. figliuolo del gran conte di Sicilia, assunse il titolo di Re di Sicilia e di Puglia, ed ebbe da Anacleto II e da Innocenzo l’investitura della Sicilia, della Puglia, della Calabra, del principato di Capua e del Ducato di Napoli. Questo principe promulgò pe’ suoi sudditi un codice di leggi, che poser freno alla tirannia feudale. Uno de' suoi più gran benefizi fu l’istituzione dei parlamenti. Il regno fu general mente ordinato sopra le leggi longobarde, e particolarmente con leggi proprie feudali, e l’amministrazione fu poggiata sopra sette cariche principali, di cui ognuna avea le sue depennenze sotto lo stesso nome. I setti ufizi creati pel governo generale di tutte le bisogne pubbliche e private, del Regno o della Corona, furono: Gran Contestabile, Grande Ammiraglio, Gran Cancelliere, Gran Giustiziere, Gran Camerario, Gran Protonotario, Gran Siniscalco: e per l'amministrazione della giustizia i Balii ed i Giustizieri nelle province e nelle città principali; i Capitani ed i Castellani nelle città di minor conto, a stabilire molte leggi e molte istituzioni, conformi ai principii del governo feudale. Ruggiero risultò sempre vittorioso in tutte le guerre ch'ebbe a sostenere. Nella prima di queste il papa e Lotario, imperator d’Occidente, eransi contro a lui tra di loro collegati; ma Ruggiero forzò Lotario a far ritorno ne’ suoi stati d'Alemagna, e fece, del pari che i suoi maggiori, prigioniere il pontefice. Poscia il vinse la pietà, e, sì come gli avoli suoi, fece omaggio dei suoi stati al successore di Pietro, e contrasse l'obbligo di pagare alla corte di Roma un annual tributo di seicento schifati, cd ottenne dal papa Lucio li l'uso dell’anello, de' sandali, dello scettro, della mitra della dalmatica. Convocò varie assemblee in Ariano e in Capua, fermò sua sede in Palermo, e dalla Sicilia portando le sue armi in Africa, sottomise Tripoli, Tunisi, Sface, Capua, passò in Grecia, ed insignorissi di Mutine, di Corfù, della Morea, di Corinto; di Acaia, di Tebe. Dopo avere speso gli ultimi anni di sua vita in costruire monumenti, in cui la magnificenza all'utilità si allegava, morissi in età di 58 anni nel 1154 Ebbe tre mogli di cui non gli restarono figliuoli, salvo che Costanza e Guglielmo. Quest'ultimo, vivente il padre, fu coronato Re di Sicilia nel 1151e Costanza divenne a 30anni moglie dell’imperatore Enrico.
GUGLIELMO, molto via diverso a suo padre, fu di tanta indolenza che le redini del governo furon affidate ad odiosi favoriti, i quali non ¡stando contenti ad arricchirsi delle spoglie del popolo, avvisavansi pur anche del modo onde svestire lo stesso re del velo della sua autorità. Imperò asperatisi gli animi dei suoi suggelli, e a lui disaffezionati, sorsero molti tumulti nel regno e varie ribellagioni, nel comporre i quali mostrò poi accorgimento cd animo grande, che sopravveduto e riguardoso erosi fatto. Il principe avea dapprima abbandonato il governo a Maione, figliuolo d'un mercatante d'olio da Bari, ma addatosi dopo lunga pezza d'aver moltissimi sudditi rubelli, il papa e gl'imperatori d'Oriente e di Occidente nemici, guidando egli medesimo le sue schiere, percorse il regno, appiccò la battaglia co’ baroni ribellanti e li sommise, punì molte città, in tra le quali Bari fu adeguata al suolo, strinse d’assedio Bene vento, ove erasi inchiuso papa Adriano, e, appaciatosi, fermò l’accordo col pontefice, il quale diè l’investitura del regno non solo al re ed al figliuolo di lui Ruggiero, ma a chiunque trasferisse il re la corona, e conchiuse con l’imperatore d'Oriente sì stabilmente la pace che non fu più guerra tra' Normanni e gli imperatori orientati.. Questi fatti così terminali, meritossi il nome di Grande. Ma egli fu pur domandato il Malo, perché venuto in discordia con la Santa Sede, e però scomunicato: ancora perché, per ottemperare a Maione suo grande ammiraglio, punì con i. strabocchevol efferatezza tanti onesti signori, sol perché affidato l'aveano, Maione esser reo di fellonia e traditore. Ed in fatti, questi ingrato e disleale, congiurato avea con Ugone arcivescovo di Palermo di spegner la vita al Monarca. Poscia l’uno in sospetto dell'altro venendo, Ugone di veleno si moriva portogli da Maione, quando questi da Bonello, partegiano dell'Arcivescovo, fu morto a ghiado cattivamente. Il re non seppe grado a Bonello di aver posto a morte un uomo, nella cui casa erasi trovato e scettro e serto e regio ammanto e quant'altro mai alla sovranità si pertiene. Imperò molti signori ordinato, una congiura contro a Guglielmo, assalirono la reggia, l’avvinsero di ceppi, e salutaron re il putto Ruggiero suo figliuolo. Né stette poi guari tempo che Guglielmo, campata la prigione, fe’ spirare nelle torture Bonello, e privò di vita il giovinetto principe con un ca ciò tiratogli violentemente al petto, furibondo perche a sé l’avea veduto anteposto. Ritornò al reggimento de' suoi popoli, e dopo aver debellato i baroni, che poc'anzi maggioreggiavano, diessi a tener gran vita, poco calendosi delle bisogne del suo reame. Matteo Notaio, suo ministro, fu igualmente potente e odiato come Maione, e quando gli eunuchi e le femine eran donni della corte, Guglielmo venne a morte nel 1166.
Quanto fu crudele, avaro, guerresco ed in dolente Guglielmo I, altrettanto fu umano, liberale, pacifico e all’armi adusato e delle militari fatiche non insofferente il primogenito di lui, il quale ebbe lo stesso suo nome, ma il titolo diverso, cioè dì Buono. Durante il suo reggimento non era città alcuna che da altra dipendesse. Avevasi ciascuna provincia i suoi Giustizieri, Camerari ed altri particolari ufiziali, né l'una de' fatti dell'altra pigliavasi briga. Non però di meno il real palagio non fu scemò affatto di sommovitori di turbolenze, per aschio ed invidia tra i cortigiani ed i baroni. Allora molti valorosi o pregevoli personaggi, per uscire di quelle rivolture politiche e cansar discordie, queste terre lasciarono, in altre regioni riparandosi, e di questi cotal i fu il Gran Cancelliere Stefano di Parzio, Pietro di Blois ed altri.
Minacciato a que’ giorni papa Alessandro III d’invasione dall’imperatore Federico Barbarossa, Guglielmo con galee e con danaro ai bisogni del Pontefice pietosamente sovvenne. Edificò il grandioso tempio e chiostro di Monreale vivono a Palermo, dove mandò alquanti monaci della Trinità della Cava. Si avvinse in coniugal nodo a Giovanna, figliuola di Enrico II, re d’Inghilterra, rifiutando la figlia dell'imperatore Enrico di Svevia: fermò una tregua di 10 anni col re di Marocco. Spedì Tancredi, conte di Lecce, figlio naturale dell’avol suo Ruggiero, in Costantinopoli con poderosa oste contro ad Andronico tiranno, uccisore di Alessio e persecutore de' Latini in Oriente. Da ultimo, per arbitrio della volontà di Colui che regge i destini del mondo, non avendo Guglielmo figliuoli, nel 1180 diè sua zia Costanza in moglie all’imperadore Enrico di Germania, nato di Federigo Barbarossa, e nel 1189 di questa vita trapassò, in età di anni 36, da tutti rimpianto. Nella pace che nel cielo eterna esalava Guglielmo l'ultimo suo fiato, e lascia va il suo regno da grandi calamità travagliato, perché in un’assemblea tenuta in Troia di Puglia, destinato aveva al trono Costanza col suo consorte Enrico.
Fiorivano a quei giorni la giurisprudenza sopratutto ed in ispecialità il dritto feudale. Ragguardavansi i feudi sì come beneficia del principe conferiti a coloro, che, per servigi prestati, aveano ben meritato dello Stato, coll'obbligo a' possessori di servire nella milizia in persona, e con gente a spese decenti, baroni o militi feudatari intrattenuta. Anzi il tempo di Corrado il Salico nessuna legge scritta esisteva riguardante i feudi già intradotti in Italia. Governavansi le faccende secondo gli usi e. i costumi già ricevuti, e quest’essi eran differenti ne’ regni di Sicilia e di Puglia: e in molte città degli stessi regni quelle medesime leggi svariavano. Tenendo la signoria Federico, i giureconsulti milanesi compilarono così fatte consuetudini, e più tardi i giureconsulti napoletani furon i migliori interpetri e co men latori di cotal i costituzioni. A questi tempi visse il famoso abate Giovacchino Calabrese monaco Cisterciense, di cui così scrisse Dante:
Raban e quivi, e lucemi da lato
Il Calabrese Abate Giovacchino
Di spirito profetico dotato.
Alla morie di Guglielmo non erano superstiti della stirpe del gran Ruggiero se non una figlia postuma ed un figlio naturale di questo eroe. La figlia Costanza, crasi in marital nodo congiunta ad Arrigo VI imperator d’Alemagna; il bastardo Tancredi fu gridato re dai grandi di Sicilia, e, ricevuta l’investitura da Papa Alessandro VI, fu coronalo a Palermo nel 1190. Presso i Normanni le femine eran capaci della corona, né dalle investiture de' Romani Pontefici venivan escluse; e del feudo, e non mica del trono si disse, non si potere dalla lancia passar al fuso. Imperò i reami di Sicilia e di Puglia legittimamente in eredità toccavano alla principessa Costanza. Ma Tancredi, mercé le sue provvisioni, diede opera di non cader dal trono? Parecchi baroni. contumaci furono da lui con la forza sommessi, e coll'arte allacciossi i cuori di tutti i suoi soggetti. Adunò un parlamento a Termoli, ammogliò Ruggiero, suo figliuolo primogenito, con Irene, figlia d’Isacco imperator Greco, e ’I fece coronar re in Brindisi. Arrigo intanto alla lesta di possente armata prende la volta d’Italia, perviene a Rocca d’Arce, luogo forte degli Apruzzi, e prendela di assalto, di là procede sino a Montecassino, e quindi sommise le terre di Fondi, del Contado di Molise e della Campania, e sostò anzi lo mura di Napoli vigorosamente apparecchiata a difesa. Ben veggendo allora Enrico che la Capitale sotto il comando di Aligerno per nulla agli assalti cedeva, avvisossi di far ritorno in Germania. A Salerno venne il destro d’impadronir' si di Costanza, la quale, colta alla sprovvista, raggiugner non potè suo consorte. Tancredi, largo di onori e donativi apro di lei, all’Imperatore rimandolla. Adenolfo, Decano di Montecasino, avvegnacché scomunicato fosse dal Papa, riconoscer non volle Tancredi: tennesi dalla parte di Enrico, fece accolta di truppe, attaccò coll’oste di Tancredi, danneggiò i soldati reali e distrusse Venafro. Ma questi fatti non ingeneraron punto di temenza nell'animo di Tancredi, che andava già tutto a devozion sua ritornando, quando venuto a morte il suo primogenito Ruggiero, infermò di dolore, e in Palermo nel 1193depose le sue mortali spoglie, avendo avuto appena il tempo di far cingere del realserto la fronte al suo secondogenito Guglielmo, che fu terzo di questo nome. Enrico, fatto allor condegna con coloro che per lui setteggiavano, di colpo discese armato nel regno, e, dell'universalesgomento e confusione giovandosi, di tutto il reame ottenne tostamente la signoria. Salerno fu saccheggiata e distrutta, e dell’antica grandezza di Capua, di Benevento, di Salerno e di Bari, devastate da Guglielmo I, non rimase vestigio. La regina Sibilia, vedova di Tancredi, ritirossi in Calatabellotta in Sicilia, ed Enrico, punto non attenendo la promessa a lei fatta del contado di Lecce, e del principato di Taranto al figliuolo, entrambi mandò prigioni in Germania.
Cosi i reami di Sicilia e di Puglia da' Longobardi a' Normanni per conquista passavano, e dai Normanni agli Svevi per legittima successione nella persona di Costanza. Imperò Federico II adusato era chiamare questi stati, eredità sua preziosa. La dinastia Normanna tenne le nostre terre per 68 anni dal 1130 al 1198.
ENRICO VI detto il Severo, cui converrebbe meglio il nome di Barbaro, aveva a bella prima corrotto a forza di danaro molti signori siciliani partigiani della Famiglia di Tancredi: egli aveasi procacciato quest’oro mediante una speculazione quanto strana altrettanto perfida. Riccardo cuor di Leone, di ritorno dalla Palestina, avendo fatto naufragio sulle coste della Dalmazia, riparò in su le terre di Leopoldo, duca d’Austria, il quale, in disprezzo d’ogni legge divina ed umana, l'avvinse in ceppi e 'l vendé come schiavo ad Arrigo VI, che lo rivendé con considerabile guadagno.
Questo nuovo re delle due Sicilie, gonfiò il cuore del tosco dell’odio e della vendetta, fa dissotterrar il corpo di Tancredi, cui vien reciso il capo: i carnefici càvan gli occhi al figlio di lui, il privan degli organi della generazione, gettandolo in prigione con la madre e le sorelle. Tutt'i partigiani di questa sventurata famiglia, sia baroni, sia vescovi, muoiono tra' supplizi. In onesta guisa ritoglie Arrigo i tesori che lor distribuiti avea. Nel farsi beffe della giurata fede, e nello sgozzare i sudditi per arricchirsi delle loro spoglie, riponeva questo monarca tutta l’arte di regnare. Le sue depredazioni e la barbarie sua spintefuron a tale, che l’imperatrice Costanza, degna figlia di Ruggiero, coraggiosamente tra il giustiziere e le vittime s’interpose. Questa principessa giurando di protegger il paese, ov’ebbe sua cuna, mettesi alla testa dei potentati del regno, s’impadronisce di Palermo, avviasi a gran passi all’incontro di suo marito, che seguito veniva da numerose bande germaniche, pienamente il rompe, ed a segnar il costrigne un trattato, di cui ella medesima gli articoli dettava. Non andò guari che questo principe inopinatamente morissi, dopo un regno che felicemente non fu di lunga durata. Avvi chi pretende che sua moglie, per vendicarsi dell’uccisione di sua famiglia, avvelenar lo facesse. Ella non gli sopravvisse che un anno, lasciando unico erede Federigo II, dell’età di quattr’anni, privo di amici, di rivali accerchiato.
In Esi o Jesi, città nella Marca d’Ancona, nacque Federico II nel 1198, e fu chiamato Federico Ruggiero o Ruggiero Federico. Suo padre l’Imperadore Enrico morissi due anni dopo in Messina, e due anni dopo la morte di! suo marito, pur passò di questa vita Costanza: nel 1199, avvisatasi di lasciar il picciol Federigo sotto il baliato di Papa Innocenzo III. Dui panie la pupillare età di Federigo, Marcovaldo, conte di Molise, tedesco, eccitò rivolture politiche nel regno, con la speranza di usurparsi il trono, Gualtieri, conte di Brenna, marito di Albina, figlia di Sibilla, vedova di Tancredi, mise il regno a rumore ed a sangue, aspirando allo scettro, Cuma, asilo e covo di ladroni, fu adeguata al suolo dai cavalieri napolitani molestali da' guastamene e dalle loro scorrerie, Papa Innocenzo navigò in Sicilia, conchiuse le nozze di Federico con Costanza, figliuola di Alfonso II re di Aragona, e difese il regno dall’invasione di Ottone IV Imperatore. Federico II imperator di Germania e re delle due Sicilie, aggiunto al]’età. di 18 anni, nel 1211 lasciata Costanza in Sicilia con un figliuolo, che di lei aveva ingenerato, di nome Enrico, imbarcasi su legni di Gaeta, e vassene a Genova, e quindi in Aquisgrana, dove nel 1213 fu coronato imperatore. Nel 1215 Innocenzo tenne il concilio Lateranense in Boma, nel quale fu pronunziato contra Ottone IV, doversi la corona imperiale a Federico, le cui ragioni erano da' Milanesi impugnate. Di poi per Papa Onorio III, successor d’Innocenzo, negli anni di Cristo 1220 il dì di S. Cecilia di novembre a grande onore fu coronato e consecrato a Roma a Imperadore Federigo II re di Sicilia e di Puglia, imponendogli l’espressa condizione di partir per la Palestina, e di ceder alla Chiesa il contado di Fondi, situato al mezzogiorno delle Paludi Pontine. Federigo sposò questo doppio impegno.
Papa Gregorio IX. scomunica l’imperatore, perché non aveva adempito al voto di andar a combattere nella Terra Santa. Il principe, che temea l’effetto de' fulmini spirituali, affrettasi di partire. Lungo sarebbe il narrare le cose avvenute a Federigo in Palestina fino a che Gregorio IX, per nuove discordie avute con esso lui, non ebbe offerto il Regno delle due Sicilie a Giovanni di Brenna, suocero di Federigo. Si ribella intanto il giovine Arrigo, re dei Romani, contra suo padre, e mentre l’imperatore, pugnante in Palestina, ubbidisce a Gregorio, questi profittando dell'assenza di lui, sulla nuova sparsasi della morte di Federigo, invade egli stesso gli stati di lui, s’impadronisce della Puglia, e mette in armi la Sicilia.
Alla novella. di siffatte aggressioni, Federigorivola in Europa, batte le truppe pontificie, rientrar fa la Sicilia e la Puglia sotto la sua obbedienza, calma ogni sedizione, e fassi padrone di molte province degli stati. romani. Avanzasi quindi verso Roma, Gregorio muore scomunicandolo.
Innocenzo IV gli succede. Ei tratta contra Federigo tutte le armi, che la spirituale e temperal possanza fornir gli poteano; ma i successi del suo rivale l’astringon a fuggirsi di Roma: il Pontefice giugne a Lione, vi aduna un concilio: questa città, per una serie di avvenimenti troppo lunga a narrarsi, disgiunta trovavasi dalla dipendenza dell’impero e della Francia; i suoi Arcivescovi se n' avevan appropriata la sovranità, ed ogni real dritto vi esercitavano: ivi il Papa dichiarò Federigo decaduto dall’impero, perché eretico ed increduto, ed Enrico suo figliuolo pur deposto, perché ribellatosi al padre, e suo fratello Corrado coronato Imperatore. L’imperatore energicamente protestò contra quest'adunanza; e vendicossene, molte vittorie riportando sopra i suoi sudditi ribelli, che, per rispetto alla deposizione pronunziata dal Papa, credeano dover impugnare le armi contra il lor sovrano, cui portavan non per tanto affezione. Federigo provato aveva in Palestina un effetto più strano ancora della scomunica papale: i gran maestri Templari e di S. Giovanni fecer protesta di non poter servire sotto di lui, ed ei fu obbligato di soffrire che nel proprio campo non si desser gli ordini in suo nome; a nome di Dio bensì e della repubblica cristiana, Federigo regnò trentanni Imperadore, e fu uomo di gran valore e di grande affare, savio di scrittura e di senno naturale, universale in tutte le cose. Di grandissima forza combatté e sommise i Saracini di Sicilia, e partiti in due colonie nelle due città di Lucera, una delle quali perciò chiamossi Lucera o Nocera de' Pagani. Fondò in Napoli l'Università degli studi, d'ogni sorte di privilegi colmandola. In tutte le caporali città di Sicilia e di Puglia fece fare un forte e ricco castello, e quello di Capovana in Napoli, e le torri e porte sopra il ponte del fiume del Vulturno a Capua, e ‘lcastello di Prato, e la roccia di S. Miniato, e vari parchi di caccia e uccellagione, e fondò le città di Alitea, Monteleone, Flagella, Dordona, Aquila, Augusta ed Eraclea. Stabilì in sette parti del regno le fiere general i.
Fondò in Palermo un’accademia poetica, e tennesi onorato di esservi ammesso in qualità di poeta: era egli un dei più istrutti del suo tempo: conosceva l’italiano, il latino, il francese, il tedesco, il greco e l’arabo idioma; ma merita, sopra tutto come legislatore, i riguardi della storia: i suoi codici di leggi detti Costituzioni, in cui son altamente conosciuti i dritti dei popoli, sembran degni ancor oggi d'esser meditati dai pubblicisti. Essi furono scritti negl’idiomi greco e latino, e compilati dal famoso giureconsulto Pietro delle Vigne, al quale affidò Federico, come a segretario, i più grandi affari dello Stato: e però Dante nella sua Divina Commedia introducendolo a parlare gli fa dire:
I’ son colui che tenni ambo le chiavi
Del cuor di Federigo, e che le volsi,
Serrando e disserrando, si soavi,
Che dal segreto suo quasi ogni uom tolsi.
Questo Imperatore grandemente protesse gli studi, facendo dall’Arabo e dal Greco traslatare vari libri, e molte savie e utili leggi lasciò per caldeggiarli. Compose un libro de' natura et cura animalium, e dettò rime in Volgare, il quale allora cominciava a diffondersi in Italia. Ma comunque fosse di ogni virtù copioso, non fu pertanto scemo di vizi. In più guise fu a vizio di libidine e lussuria sozzamente rotto.
Negli anni di Cristo 1250, accignendosi Federigo a novella guerra contra i Lombardi, gravemente ammalossi in Fiorentino, castello or disfatto in Capitanata di Puglia, sei miglia distante di Lucera, e ‘l dì di santa Lucia di dicembre, nell'anno 56° di sua vita, di questo mondo trapassava: Quasi tutti gli storici s’accordano nel credere che Manfredi, suo figliuolo bastardo, desiderando d'avere il tesoro di Federigo suo padre e la signoria di Puglia e di Sicilia, e temendo che Federigo di quella malattia campasse o facesse testamento, concordandosi col suo ciamberlano molti doni e signoria impromettendogli, con un piumaccio, ch'era nella camera, l’affogò, ponendoglielo la notte in su la bocca. Così adivenne a Federico, il quale nemico di santa Chiesa oltre misura, e senza nulla ragione di spirito in sé, morir fece la moglie e Arrigo Re suo figliuolo, e videsi sconfitto, ed Enzo suo figliuolo preso, e se medesimo dal suo figliuolo villanamente uccidere, o di veleno, come alcuni son di credere, morto. Lui spento, il detto Manfredi prese la guardia del reame e tutto il tesoro, e 'l corpo di Federigo fece portare e seppellire nobilmente alla chiesa di Monreale in Sicilia di sopra la città di Palermo, e alla sua sepoltura furon fatti intagliare questi brievi versi, composti da un chierico Trotano, i quali diceano così:
Si probitàs, sensus, virtutum gratia census,
Nobilitas orti, possent resistere morti,
Non foret extinctus Federicus, qui jacet intuì.
Troppo avremmo dovuto allargarci in parole, se tutti avessimo voluto numerare gli avvenimenti dell'età di Federigo; ma ecci paruto di non doverne due trasandare assai degni di nota, cioè, l'origine dell'inquisizione in Sicilia nel 1213, e la parte che ebbero le fazioni Guelfe e Ghibelline nelle guerre tra l’Imperatore e 'l Pontefice, come altresì nelle guerre tra l’Imperatore e i Lombardi.
INNOCENZO IV pretendea che le due Sicilie gli fosser devolute, e gli appartenessero di dritto divino, in virtù della scomunica, che fulminata avea su Federigo II nel concilio di Lione. La città di Napoli riconobbe questo pontefice per unico suo padrone; l’imperator Corrado IV, figlio di Federigo II, accorse a difender il suo retaggio, e riprese la città di Napoli, mentre Manfredi, suo fratello, dichiarato già dal re morto, Balio e Governator di Corrado, nell'ubbidienza conteneva il rimanente del regno. Le città che si ribellarono al successor di Federigo, furono, nella Puglia, Foggia, Andria e Barletta; e in terra di Lavoro, Capua e Napoli: tra' baroni i conti di Casa Aquino, grandi signori di terre tra il Garigliano e il Volturno. Corrado giunto nella Marca di Trivigi, secondato dal suo cognato Ezzelino, tiranno di Padova, fece a' Veneziani apparecchiare grande naviglio, e di là navigando l'Adriatico, con sua gente arrivò alle radici del monte Gargano, sul suolo dell'antica Siponto, vicin di Manfredonia, gli anni di Cristo 1251. Manfredi, tuttoché intendesse a esser signore di tutto il reame, per tanto con grande sua compagnia, e con buon numero diSaraceni venuti di Lucera e di Sicilia uscì a campo contra i Conti di Aquino, e furon posti a ruba ed a fuoco Arpino, Sessa, Aquino e S. Germano. Capua di leggieri si arrese: Corrado fece oste sopra la città di Napoli, la quale prima da Manfredi, ch'era principe di Salerno, cinque volte era stata osteggiata e assediata, ma senza nullo acquisto, ma a Corrado, per suo grande esercito e lungo assedio, non istette molto che la città si diede, salve le persone, e che la città non fosse guasta; ma Corrado non attenne loro i patti, e, contra la data fede, la quale si dee mantenere ancora a' nemici, fece disfar le mura di Napoli e tutte le fortezze di essa, quelle mura medesime, che resistettero ad Annibale, e i suoi abitanti furono severamente puniti; e in poco di tempo recò a sua signoria tutto il regno. Egli abbatté pure cherici e religiosi, e le sacre persone fece morire per gravi tormenti, o chi fosse amico di Santa Chiesa o seguace, e chi non era di parte di lui. Da ultimo insospettito pur di Manfredi per l'affetto, che gli abitanti di questo reame gli portavano, e per la grande autorità procacciatasi, lo svestì di ogni potestà e d’ogni suo stato, e fece avvelenare il suo fratello minore. Enrico, che governava la Sicilia. Ma come piacque a Dio nell'età sua più fiorita di 26 anni infermò di grave malattia, ma non però mortale; e facendosi curare a' medici fisici, credesi che Manfredi suo fratello per rimanere signore l’'abbia fatto da' detti medici per moneta e gran promesse avvelenare in un cristeo. Adunque con sentenza di Dio per opera del fratello, della stessa morte, che procurata aveva ad Enrico, morissi Corrado in Lavello gli anni di Cristo 1253, mentre accingevasi a partire per Germania. Egli chiamò per testamento erede un. piccolo suo fanciullo, rimaso in Alemagna, ch'ebbe nome Corradino, nato per madre della figliuola del duca di Baviera, e nomò balio dell'erede delle corone Imperiale e Reale il marchese di Honebruch, il quale fuggissene, appena vide che Papa Innocenzo IV con grande oste si mise nel regno per racquistare la terra, che teneva Manfredi contra la volontà della Chiesa, e siccome scomunicato. Dopo varie pratiche Manfredi ruppe l’esercito papale a Lucera, a Foggia e a Troia; ma poco dimorato in Napoli infermò Innocenzo IV, mentre intavolava il trattato di far passare la corona delle due Sicilie ora al re d’Inghilterra, ora al fratello del re di Francia, e passò di questa vita, e nella città di Napoli fu seppellito.
Alessandro IV gli succede, e riprende il corso della negoziazione; ma la Francia esaurita d'uomini e di danaro per l’infelice crociata e pel riscatto di S. Luigi, non permette al conte d’Angiò d'accettar una profferta, che gratuita non era.
Il Papa pubblica contra Manfredi una crociata, che predicasi sino in Inghilterra. Alessandro IV si muore; ma durano non per tanto i suoi divisamenti. Assunto alla sede pontificia Urbano IV, fa immantinente significare a Manfredi di deporre la corona di Napoli e di Sicilia, che tutti gli ordini dello stato a lui per acclamazione decretata aveano, avendosi recato ad amici con ispendio e doni e promesse e uffici i maggiori baroni del regno. Questo papa lancia anatemi su Manfredi; offre il regno di Napoli a diversi principi che per prudenza il ricusano. Carlo d'Angiò, già dal popol romano creato senator di orna, finalmente l’accetta; ma questo atto fu mandato a fine sotto il pontificato di Clemente IV successore d'Urbano. Carlo d'Angiò riceve tosto in Roma con tutte le cerimonie della Chiesa la corona di Napoli.
Carlo, valicato il Garigliano per tradimento del Conte di Caserta, che non difese il passaggio, s’impadronì di S. Germano, non ostante la viril resistenza della gente di Manfredi, il quale si ridusse verso Benevento a Ceperano, e valorosamente combatté in mezzo ad un drappello di Pugliesi. La maggior parte di questi e di altri baroni del regno furono in volta, e infra gli altri il conte Camarlingo, e quello della Cerra, e quello di Caserta; e chi disse per viltà di cuore, e chi per tradimento. Manfredi rimaso con pochi a cavallo fece come valente signore, il quale sostenne morire anzi che vergognosamente fuggire, e dissesi, ma, non si seppe il certo, morto per uno scudiere francese. E però si avrebbe ben il torto chi si facesse a credere traditori solamente i Pugliesi nel leggere Dante:
E l'altra (gente) il cui ossameancor s’accoglie
A Ceperan, là dove fu bugiardo
Ciascun Pugliese;
avendo il poeta cosìdetto per esser allora tutti regnicoli appellati Pugliesi. Questa battaglia e sconfitta di Manfredi fu in un venerdì l'ultimo di febbraio gli anni di Cristo 1265. Il suo corpo non fu recato in luogo sacro, ma a piè del ponte di Benevento fu seppellito, e poscia di quel luogo, ch'era terra di chiesa, fu pur tratto, e fu sepolto lungo il fiume del Verde a' confini del regno e di Campagna, e di ciò pur rende testimonianza Dante nel Purgatorio, canto terzo, ove tratta del detto re Manfredi, facendolo così favellare:
Poi disse sorridendo: I' son Manfredi
Nipote di Costanza imperadrice;
Ond'i’ ti priego che quando tu riedi,
Vadi a mia bella figlia, genitrice
Dell’onor di Cicilia e d’Aragona,
E dichi a lei il ver, s’altro si dice.
Poscia ch'i’ ebbi rotta la persona ,
Di duo punte mortali, i’ mi rendei
Piangendo a quei, che volentier perdona.
Orribil furon li peccati miei;
Ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
Che prende ciò, che si rivolve a lei.
Se 'l Pastor di Cosenza, ch'alla caccia
Di me fu messo per Clemente allora,
Avesse ’n Dio ben letta questa faccia,
L’ossa del corpo mio sarieno ancora
In co del ponte presso a Benevento
Sotto la guardia della grave mora.
Or le bagna la pioggia e muove ‘lvento
Di fuor dal regno, quasi lungo 'l Verde,
Ove le trasmutò a lume spento.
Manfredi fu bello del corpo, e come il padre o più fu rotto a diletto corporale; fu largo e cortese, e di buona aria, sì ch’egli era molto amato e grazioso; tenne molto bene suo reame, e però montò in grande ricchezza e podere per terra e per mare. Ei fece disfare la città di Siponto in Puglia per li paduli, che le erano a intorno e che la rendevano inferma e mal sana; e fece ivi presso a due miglia in su la roccia e in luogo, dov'era buon porto, fondare una terra, laquale per suo nome fece chiamare Manfredonia, e per sua memoria fece fare la gran campana di quella città, la quale e la maggiore, che si trovi di larghezza, e per la sua grandezza non può suonare.
CARLO d’Angiò imbrandì uno scettro di ferro sopra i suoi nuovi sudditi; confiscò i beni di coloro che combattuto aveano sotto i vessilli di Manfredi, e fe’ preludio con mille giuridici assassinii ad uno dei più enormi misfatti, che sempre nera renderanno ai posteri la sua rimembranza. Le alte doglianze di Napoli e di Sicilia mosser il cuore del nipote di Federigo II, il quale contava appena quindici anni. Lucera, che non si era punto arresa a Carlo, inalberò la bandiera di Corradino; il quale esempio fu seguitato dalla Puglia, dalla terra d'Otranto, dalla Capitanata, dalla Basilicata, e dalla Sicilia, ove a Sciacca propriamente, era giunto Corrado Capece, che le cose disponeva in favor di Corradino. Ma questi il suo coraggio consultando, l'età sua non già, ponesi alla testa d'un esercito, parte da Alamagna con suo zio Federigo, duca d'Austria, e misurasi a Tagliacozzo, castello nell’Abruzzo ulteriore, coll'usurpatore di tutti i suoi diritti.
Ivi per sagace ingegnuòlo di Alardo di ValIeri, cavalier francese, trionfò Carlo d’Angiò: però che disfatti i due terzi dell'esercito suo, assaltò improvvisamente coll'altro, riposto in agguato, i vincitori Tedeschi, i quali scortamente usando a vittoria, qua e là dispersi, a far preda intendeano, onde costernati, furon messi in precipitosa fuga. Però Dante raccordando questo grave avvenimento cantò:
………………. e là da Tagliacozzo
Ove senz’arme vinse il vecchio Alardo.
Il poco avventurato Corradino cadde nelle mani di Cado. Questi crudamente avvisò, che la sola morte poteva por fine alle inchieste del legittimo erede del regno, che avevasi usurpato, e perciò tostamente convocar fece un parlamento, composto di persone suddite ed a sé fortemente obbligate. Non però dimeno infra quell'assemblea un sol giudice provinciale, ligio di Carlo, del cui nome la Storia non volle le sue pagine contaminare, votò per la morte; gli altri se ne stettero in timido e colpevol silenzio, Carlo, sull'autorità di questo sol giudice, pronunziar fece da Roberto, protonotario del regno, l'orribil sentenza. Corradino giuocava tranquillamente agli scacchi, allorché vennesi a comunicargliela. Preve tempo gli si accordò per disporsi alla morte, e 'l 26 d'ottobre 1268 fu menato al supplizio in un coi suoi amici. Carlo era presente, da tutta la sua gente accerchiato.
Il giudice provinciale lesse la sentenza centra Corradino emanata, traditor dichiarandolo della Corona, e della Chiesa nemico. «Non si appartiene a te, fellone, esclamò Roberto di Fiandra, genero di Carlo, non si appartiene a te di condannar a morte sì nomi e sì generoso signore»:e così detto, gli diede d’uno stocco. Corradino, tra le mani dei carnefici, cavossi da sé il manto di dosso, ed essendosi posto ginocchioni per pregare, si levò esclamando: «Oh madre a mia! guai profondo dolore sarà per cagionarti la novella della mia morte!»Questa sola esclamazione svela l’anima sua bella. Questo sventurato principe rotolar vide ai suoi piè la testa di suo zio Federigo d’Austria, la baciò con trasporto, gettò il suo guanto al popolo, e porse la sua testa al micidial ferro. L’illustre casa di Svevia, la quale governato avea per 70 anni le nostre terre, cioè dal 1198 al 1268, si estinse in Corradino. Il viaggiatore da sensi di orrore e di disdegno e compreso, quando, sulla piazza del Mercato, fige i suoi sguardi sul marmo posto al luogo medesimo ove cadde la testa del giovinCorradino: ivi fabbricossi una cappella e vi si eresse un altare, non mica espiatorio, ma per ringraziar la provvidenza d’un tanto esecrando delitto. Leggesi intorno al fusto della colonna di porfido, che èsull’altare:
Asturis ungue leo pullum rapiens aquilinum
Hic deplumaxit, acephalumque dedit.
Questi due abbominevoli versi, onde vien felicitato Carlo d'Angiò nella morte di Contadino, godon almeno il vantaggio di votare all'esecrazione il nome del signor d’Astura, il quale, tradendo i doveri dell’ospitalità e dell'umanità, dette in man del carnefice il giovin principe.
Tutto non è benefizio per la tirannia: essa raccoglie sovente amare frutta dalle sue violenze e dalle sue ingiustizie. Il terribile scempio dei Francesi in Sicilia conosciuto sotto il nome di Vespro Siciliano, e di cui il successo fu di toglier per sempre la Sicilia alla dinastia di Carlo d’Angiò, gli fece pur troppo pagar il fio della morte di Corradino. Michele Paleologo e 'l Sovrano Pontefice erano in discordia con Carlo. Questi erasi reso formidabile in Italia per la forza delle sue armi, ed era reputato uno de' maggiori re di Europa; quindi temuto da Michele Paleologo. Il re avea ricusato le nozze del suo primogenito Carlo, principe di Salerno, con la nipote del Papa, e però questi corrucciossene. A queste cose aggiugnevasi pure il pessimo governo che faceano della Sicilia i luogotenenti angioini venuti di Francia. cotal i disposizioni a Carlo svantaggiose furono destramente messe a profitto da un nobile salernitano, ch’avea nome Giovanni di Procida, il quale viaggiando sotto mentite spoglie, e strettamente collegati infra di loro il papa Niccolò, l’imperator Paleologo e 'l re Pietro d’Aragona marito di Costanza, unico germe della casa di Svevia, alla quale erasi recato il guanto, gettato da Corradino nella piazza del mercato, e apparecchiati a vendetta de' Francesi gli animi dei Siciliani, quando la flotta del re d’Aragona veleggiava alla volta della Sicilia nel secondo dì di Pasqua dell’anno 1282, al suono della campana del vespro, colta l’occasione della violenza d’un francese tentata in persona d’una gentildonna siciliana, i Palermitani dieder di piglio alle armi e quasi ad otto mila francesi spensero la vita. Giunto poco dopo re Pietro, sbarcò con le sue truppe, si fe’ signore dell'isola, e i Siciliani giurarono a lui fedeltà, ed elessero a legittimo erede ed a futuro re Don Giacomo suo figliuolo. Imperò partironsi questi due reami: Palermo era stanza degli Aragonesi in Sicilia. Napoli fu residenza de' Francesi in Puglia ed in Calabria, e con diversa amministrazione si ressero, e ritennero nomi ed ufiziali distinti, anche quando furono sotto Alfonso I riuniti.
Essendosi Carlo d’Angiò e Pietro d’Aragona tradotti a Bordeaux, città di Guascogna, allora sotto il dominio di Odoardo, re d’Inghilterra, per duellare, credendo aver tutti e due diritto su la Sicilia (duello che non fu recato ad effetto, perché il re d’Inghilterra ricusò d’accordare il campo a' due re rivali), il principe di Salerno, nell’assenza di suo padre, fu Vicario del regno, dond’ebbe origine la Corte del Vicario, che più tardi sotto Isabella chiamossi Corte o Reggenza della Vicaria.
A quei giorni Ruggiero di Loria, gentiluomo calabrese, ammiraglio del re Pietro, disfece in Malta la flotta di re Carlo, pose a ferroed a fuoco i più deliziosi luoghi della costa di Napoli, sì che il principe di Salerno videsi obbligato d’imbarcarsi su le sue galee per vendicarsi de' ricevuti insulti. Da ambe le farti si combatté con grandissima gagliardia: armata del principe fu disfatta, ed egli medesimo fatto prigione e rinchiuso nel castello di Mattagrifone in Messina. Il popol siciliano volea che la regina Costanza vendicasse la morte di Corradino con la morte del figliuolo dell’uccisore; ma la regina opponendosi a cotal orribile rappresaglia, inviò Carlo prigioniero a Pietro in Aragona. Carlo d’Angiò uditi quei fatti, recasi tostamente alla Puglia, e mentre apparecchiavasi a guerra per ridurre a libertà il figlio, morissi in Foggia nel principio dell’anno di Cristo 1285, il giorno seguente alla festa dell’Epifania, o, come altri narra, da se stesso si strangolò, dopo 19 anni di regno, essendo stato coronato re da papa Clemente nel 1266. Furono le sue viscere seppellite nel Duomo di Foggia, e 'l corpo imbalsamato, e con gran dolore de' suoi Francesi condotto in Napoli, e nel Duomo sepolto in un ricco avello di marmo, ove fu posta la sua statua in abito reale sedente sopra un Icone, che fu suo particolare stemma; e vi fu posta la seguente scrittura:
Conditur hac parva Carolus Rex Primus in urna, Partonopes Galli sanguini al tu honos;
Cui sceptrum, et vilam sors abstulit invida quando Illius famam perdere non potuit.
Fu Carlo, come scrive il Villani, grande della persona, con un naso maiuscolo, di color fosco, e, comeché di feroce aspetto, di signorile e maestoso volto. Fu di gran valore e forza dotato; di molto avvedimento e sapere, e larghissimo verso i suoi Cavalieri. A sì pregiate virtù Carlo accoppiò, sì come comunalmente adiviene, brutti e biasimevoli vizi, essendo stato crudelissimo oltre ad ogni convenevole segno. Dante pone Carlo e ’I re Pietro nel Purgatorio, amichevolmente insieme cantanti, sì per darci a divedere che la nemistà di quaggiù finisce col morire, come parimente per decantare la virtù, che in entrambi egualmente fiorì; i cui versi sono i seguenti:
Quel che par si membruto, e che s’accorda,
Cantando, con colui dal maschio naso,
D'ogni valor portò cinta la corda.
E se re dopo lui fosse rimaso
Lo giovinetto che retro a lui siede,
Bene andava 'l valor di vaso in vaso;
Che non si puote dir dell’altre rede.
Jacomo e Federigo hanno i reami:
Del retaggio miglior nessun possiede.
Rade volte risorge per li rami
L’umana probitate, e questo vuole
Quei che la dà, perché da lui si chiami.
Anco al Nasuto vanno mie parole,
Non men ch’all'altro, Pier che con lui canta;
Onde Puglia e Provenza già si duole.
Tant’è del seme suo minor la pianta,
Quanto, più che Beatrice e Margherita,
Costanza di marito ancor si vanta.
Fu Carlo prode cavaliere, fece a sé tributario il regno di Tunisi, sì come già loera stato a' re normanni. Giovanni di Brenna per la regina sua moglie avea conseguito il titolo di re di Gerusalemme, titolo che diede in dote a sua figlia Iole: Carlo d’Angiò, per la cessione di Maria, figliuola del principe di Antiochia, divenne re di Gerusalemme, titolo che ancor conservano i nostri re, e colà spedì Ruggiero Sanseverino a prender possesso di quegli stati in nome suo. Carlo elevò a grande onoranza le nobili famiglie, e creò gran numero di cavalieri. Vari ordini cavallereschi furono istituiti da' re angioini, sì come Quelli della Nave, della Lonza, del Nodo, dell’Armellino. I Seggi di Napoli furono riordinati e illustrati, e i parlamenti general i furon tenuti esclusivamente in Napoli, la quale arricchissi di grandiosi edifici, e all'Università molti privilegi furon concessi.
Tra le leggi de' Normanni e degli Svevi, e quelle degli Angioini, l’una differenza è di nome: le prime chiamandosi Constituzioni, le seconde Capitoli o Capitolari. L’altra differenza e che in generale le prime furono più civiche che forestiere, e le seconde più canoniche che civiche.
Il regno di Carlo II non offre nulla di memorabile. Questo principe, dopo essere stato per cinque anni circa prigioniero, perché non fu coronato re se non nel 1289, vien messo in libertà per la mediazione del re d'Inghilterra, e tra le dure condizioni, alle quali si sottopose, sì fu quella di cedere la Sicilia a Giacomo d’Aragona, facendogli sposare Bianca figliuola sua. Pietro d'Aragona non era più: suo figlio Giacomo gli succede al trono di Sicilia, quindi a quello d'Aragona, alla morte di suo fratello Alfonso; ma lasciò suo fratello Federigo come luogotenente in Sicilia, ad onta del testamento di suo padre, che in questo caso la corona di Sicilia a Federigo conferiva. Questa ingiustizia partorì accanite guerre tra i due fratelli. Giacomo, la figlia primogenita sposando di Carlo II, cede al suocero i suoi diritti sulla Sicilia; eglino collegaronsi per conquistarla, e l’isola fu inondata di sangue. Federigo diè prove di vaio re e virtù singolare, sostenne i suoi diritti con coraggio, riportò parecchie vittorie, e finì col rallentar la sua energia, a sposar assentendo Eleonora, terza figlia di Carlo nel 1302a condizione che il reame di Trinacria (questo fu il titolo che prese quel regno di Sicilia) ritornasse dopo la sua morte alla dinastia degli Angioini. E pur forza confessare che Carogovernò queste nostre terre rettamente, essendogli stata a cuore la pace, comeché la guerra non temesse, e con la sua numerosa famiglia bellamente fiori. Il primogenito di lui, Carlo Martello, fu chiamato alla corona di Ungheria per la successione della regina Maria sua moglie, e a quella corona successe l'altro suo figliuolo di nome Caroberto. Il secondogenito di Carlo, Ludovico, fu vescovo di Tolosa, e poscia santificato da papa Giovanni XXII. II terzogenito Roberto, come erede della corona, prese il titolo di duca di Calabria e il supremo comando dell’esercito. Il quartogenito, Filippo, fu principe di Taranto. Il quinto, conte d’Andria e reggente della Vicaria. Il sesto, principe di Salerno. Il settimo, principe d'Acaia, despota di Romania e grand’Ammiraglio del regno. Tutti questi valenti e generosi principi familiarmente usando con tutte le classi dello stato, resero il padre temuto ed amato a un tempo stesso. Carlo dopo aver fatto fabbricare molte chiese ed alcuni utili edifizi, dopo un regno di 25 anni passò di questa vita gli anni di Cristo 1308, amaramente rimpianto per la gran liberalità e clemenza, di che era adorno.
I fatti più degni di nota sotto la signoria di Carlo Ie di Carlo II d'Angiò, sono: la rinunzia al papato fatta nel Castello Nuovo da Papa Celestino, e l’istituzione del giubbileo sotto Bonifacio VIII della famiglia Gaetani.
Sotto il reggimento di Carlo II alquanti giurisperiti compilarono e cementarono le varie consuetudini, le quali, dopo la compilazione fattane a' tempi di Federico II, avean vigore di leggi in molte città, sì come in Napoli, in Bari, in Aversa, in Gaeta, in Amalfi ed in altre. Il sovrano fece rivedere la maggior parte di esse dal famoso giureconsulto Bartolomeo di Capua, e nel 1306 le sanzionò. Furono creati secondo la costumanza francese i grandi uffici della corona e quelli della casa del re, come il maestro della cappella, che oggi addomandasi cappellano maggiore; il maggiore delle razze, oggi cavallerizzo maestro, ecc. Essi sparirono dal regno di Ferdinando il cattolico in poi, allorché andò a talento a’ re spagnuoli l’introdurne novelli a simiglianza di quelli di Spagna.
L’ordine, onde i re aragonesi si successero in Sicilia, èil seguente: tenne dapprima quella terra Pietro II figliuolo di Federico, di poi signoreggiolla Ludovico figliuolo di Pietro, Federico III il Semplice, Maria e Martino I, Martino li, e Ferdinando I il Giusto sino al 1435, quando Alfonso il Magnanimo riunì i due reami.
Venuto a morte Ladislao, re d’Ungheria, senza figli, il trono si appartenea, secondo le leggi del regno, a Maria sorella di Ladislao, la quale sposato avea Carlo II. Ella cedé questa corona al suo figlio primogenito Carlo Martello, il cui erede Caroberto legittimi titoli vantava al trono di Napoli, come nipote di Carlo li, per la discendenza di primogenitura. Ma Caroberto, invece d’adoperar. le armi contra suo zio Roberto, amò meglio rapportarsene alla decisione di Clemente V, il quale decise la controversia in favore di Roberto, difeso dal celebre giureconsulto Bartolomeo di Capua. non Convenendo che il re degli Ungavi fosse ad un’ora re de' Napolitani e de' Siciliani: l’investitura del Sommo Pontefice essendo stata sempre per ambi i regni a favore de' re angioini, avendo per intrusi gli Aragonesi.
Collegatosi l’imperatore Enrico VII con Federigo, re di Sicilia, citar fece Roberto a comparire, come vassallo dell'impero, dinanzi a lui. Roberto contumace, Enrico nel 1313fulminò contro di lui la sentenza, con cui lo privava del regno, e, come ribello dell'imperio, condannavalo ad esser decapitato. Allora Clemente V creò Roberto conte di Romagna e vicario generale dello stato ecclesiastico, e ‘lre di Napoli portò la guerra in Toscana ed in Sicilia. Ma Enrico morto a Buonconvento nel Sanese, la guerra cessò, e col re di Sicilia fu fatta una tregua. Roberto non evitò una guerra, che per cader in un’altra. Giustamente adirato contra Federigo, che violato avea la tregua per assaltar Napoli, sbarca in Sicilia, vi arreca la strage e la distruzione, senza ottener per sé alcun vantaggio: vien segnata di nuovo la pace, quindi rotta, poscia riconchiusa tra questi due principi, animati da quell'odio nazionale, che esser doveva inestinguibile tra Napoli e la Sicilia, si come le fiamme del Vesuvio e dell'Etna.
Non andò guari e Federigo proclamò Pietro, suo figliuol primogenito, successor del trono, ad onta del trattato, che fatto avea con Carlo II, la figlia di lui impalmando. Roberto per testa, invoca la giustizia divina ed umana, obliando che suo padre quella stessa giustizia violala avea, scioglier facendosi dai giuramenti per eludere le convenzioni, alle quali dovea la sua libertà. I Siciliani, l’odio de' quali verso la sua dinastia era sempre più inveterato, sostennero e fecero trionfare la causa di Federigo, Roberto, fregiato del riguardevol titolo divicario della Santa Sede, e obbligato di sostenere una terribil lotta contra Ludovico di Baviera, successore d'Enrico. Questo principe dopo aver fiaccato tutte le forze di Roberto, entra vincitore in Roma, ove si fa coronare imperator d’Occidente, depone il Papa, e rendesi talmente odioso per le sue esorbitanze, che abbandonato dai suoi fautori, e incalzato dal re di Napoli, fuggissene in Alemagna, Roberto si avea gran potere sulla parte Guelfa contra i Ghibellini in Italia; ma la sua galleria per aver liberato i suoi stati e quelli del Papa fu attoscata dalla morte dell’unico suo rampollo il duca di Calabria, il qual non lasciava che due figlie. La primogenita Giovanna, quantunque non avesse che sette anni, fu maritata ad Andrea, secondo figlio del re d’Ungheria, anche di anni sette, suo zio, perché nato di Caroberto, re d'Ungheria, fratello di re Roberto, avolo di Giovanna. Questo spediente saggio e politico le future dissensioni evitava, a causa delle pretensioni del re d’Ungheria al trono di Napoli.
Federigo muore: Roberto credè la congiuntura favorevole ad una nuova invasione in Sicilia; ma i popoli di quest’isola, dopo di aver solennemente coronalo Pietro II, figlio di Federigo, respinsero i moltiplici tentativi del re di Napoli, con la doppia energia del loro odio verso gli Angiomi, e del loro amore verso gli Aragonesi. Quest’odio e quest'amore serbaron il trono di Sicilia a Luigi, che un lustro appena coniava alla morte di Pietro II, suo padre. Il vecchio re Roberto vicino a morte ricevé l’omaggio de' Messinesi, dopo fio anni di guerra tra Napoli e la Sicilia, e, vedendo l’incapacità d’Andrea, rischiò diriserbar il retaggio del suo reame a sua nipote, a cui gli Ottimati e i deputati della nazione giuramento prestarono di fedeltà. Per questa disposizione diveniva Andrea il primo suddito di sua moglie. Nel 1343 addì diciannove di gennaio passò di questa vita Roberto. Visse da ottantanni, e ne regnò 34 a bel circa. Seppellissi al monistero di santa Chiara in Napoli il quale egli avea fatto fare e riccamente dotato a grande onore, e se ne fece cordoglio ed esequio molto solenne e con grande luminaria e di molta buona gente e signori cherici e laici. Egli fu molto savio re, sì di senno naturale, sì di scienza, come grandissimo maestro in teologia e sommo filosofo. A lui vien da taluni attribuita l’operetta delle virtù morali. In generale a que’ tempi furono incoraggiale le persone di lettere; caldeggiate le scienze e le arti; la teologia scolastica, la giurisprudenza, la lingua greca nella Calabria e nella terra d’Otranto fiorirono. Roberto pose la sua regalveste addosso al Petrarca, quando questi partì per farsi incoronare al Campidoglio, e tenne corrispondenza con tutt’i dotti dell’età sua, sopra tutto col Boccaccio. Tutto che fosse d’ogni virtù dotato, non però di meno poi che cominciò a invecchiare, l'avarizia il guastava in più guise. Morto che fu Roberto, l'età infantile di Giovanna, e il credito di frate Roberto Ungherese, ingenerarono gravi rivolture politiche, sì che gran numero di fuorusciti parteggiarono coi baroni.
Il re Roberto con dispensagione del Papa e 7 della Chiesa avea diliberato che fosse re dopo la sua morte Andrea, figliuolo di Carlo Umberto' re d'Ungheria, il quale avea per moglie Giovanna figliuola prima erede di Carlo duca di Calabria e figliuolo del re Roberto. Andrea e Giovanna, entrambi di 16 anni, il primo stolto della mente anzi che no, la seconda di dolci e soavi costumi, per la ragione che e «Amore e cor gentil sono una cosa», eran governati da Frate Roberto, il quale si aveva un mal nome, e gravissimo odio acquistato e concitato appresso l’universale. I baroni, avuto contezza che per bolla pontificia Andrea era per esser coronato re, fecer tra loro convegna di voler conservare alla lor regina intera real possanza, avendo eglino già a malincuore per ben tre anni sostenuto il duro dominio di frate Roberto, e sagacemente prevedendo che sotto un principe ungherese i signori d'Ungheria avrebber menato le faccende dello stato. A quei giorni corse pur pubblicamente la fama che invidia ed avarizia spinsero alcuni suoi cugini e consorti reali, cioè Luigi figliuolo del principe di Taranto suo cugino, il quale si diceva che avesse affare di Giovanna, e' il figliuolo di Carlo d’Artugio, e Iacopo Capano, coll’assento e consiglio di Carlo Durazzo, a far morire il detto Andrea. E aspettandosi di presente d’esser coronato del reame di Sicilia e di Puglia, ed essendo ad Aversa colla moglie al giardino de' frati del Marrone a diletto, ove tu poi il convento di S. Pietro a Maiella, di notte tempo a dì 18 di settembre fu preso, e messogli un capresto alla gola, e poi spenzolato dallo sporto della sala sopra il giardino, in questo la dimane fu trovato strozzato, e quivi restò insepolto alcuni dì. Erano in quella sala Carlo di Artugio e il figliuolo e 'l conte di Tralizzo e certi de' conti della Leonessa e di quelli di Stella e Iacopo Capano grande maniscalco e due figliuoli di Pacie da Turpia e Niccola da Mirizzano suoi ciamberlani. Tale fu la repente morte del giovine e innocente re, che non avea se non ig anni. Fu recato il corpo a Napoli e tumulato co’ reali. Si disse palese e buccinossi che Giovanna l'assentì: che di suo corpo ella non avea buona fama. La regina rimase grossa d’infante di sei mesi o là intorno, al quale, venuto alla luce, fu posto nome Caro ber lo, ingenerato, diceva ella, del re Andrea; Non ne fece romore né pianto, o piccolo a quello ch'ella dovea fare, e poco dopo sposò Luigi di Taranto.
Ludovico d’Ungheria mettasi alla testa d’un esercito, e spiega un vessillo nero, sul quale dipinto era suo fratello Andrea strangolato. Giovanna e 'l suo consorte, di cui le truppe son battute, paventando forte la vendetta del re d’Ungheria, dansi alla fuga, e van cercando asilo nei loro stati di Provenza. Giovanna gettasi ai piedi di Clemente VI, che trasferito avea la S. Sede in Avignone, ed implora la protezione di lui. Allora il Papa aduna il suo concistoro, dichiara la regina innocente, e s’interpone fra lei e 'l re d’Ungheria, il quale, dopo aver posto a morte il duca di Durazzo, cognato di Giovanna, e commesso pur quattro varie crudeltà contra i signori devoti alla casa d'Angiò, lasciasi infine placare per la mediazione del Papa, segna la pace, e si ritira. Giovanna, avuta col nuovo marito l’investitura pontificia, con ottanta mila fiorini, prezzo della vendita del contado d’Avignone, fe’ ritorno a Napoli, e rilevò i suoi dalla costernazione in cui erano. Dopo di essersi fieramente combattuto tra baroni partegiani d’Ungheria e baroni fedeli alla casa d’Angiò, regnò Giovanna con molta affezione de' popoli. Il re creò allora l’ordine del Nodo, simbolo di forte unione, del quale onorò i più valorosi signori del suo regno. A quest'epoca la Sicilia, in preda a partiti ed a fazioni sempre rinascenti dalle lor ceneri, una favorevol occasione offrir mostrava a Giovanna, per effettuare il progetto di conquista, tante volte dall’avol suo indarno intrapreso. I baroni divisi in Catalani e in Chiaramontani, a cagione della gran debolezza del governo, misero a sangue quell’isola, e questi ultimi mandarono ad invitare Giovanna d’insignorirsi della Sicilia, sì come altre fiate sollecitato aveano re Roberto. Di grandissima virtù combatterono in quella impresa a pro di Giovanna, Acciaiuoli di Firenze, Sanseverino ed altri Napoletani. Ella sbarca a Messina, ov’è riconosciuta per sovrana, ad onta dei dritti del giovin re Federico. Costui or vincitore or vinto risultando, conclude finalmente un trattato, mediante il quale si obbliga di pagare un tributo a Giovanna, da cui vien riconosciuto re di Trinacria. Questa fu la fine della lunga guerra con la Sicilia, alla quale Luigi e Giovanna imposero di pagare ogni anno, nel giorno di S. Pietro, 3000once d'oro, ed in caso di guerra di fornire 100uomini d’arme, e 10galee armate, condizioni che non furon mai adempiute, per la morte immatura del re Luigi nel 1362, per la ribellione del duca d’Andria della famiglia del Balzo, e gli altri matrimoni della regina. Giovanna, vedova per la seconda volta e senza figli, sposò in terze nozze un principe d’Aragona, cui punto del mondo non ammise nel governo: annoiato costui della sua subordinazione, e della sua nullità politica, partì per Majorica, e morissi di 36 anni lungi dalla sua sposa.
La regina in età di quarantasei anni, contrasse un quarto matrimonio nel 1376 con un cadetto della casa di Brunswick, di nome Otone, e lo tenne nella medesima dipendenza che i suoi predecessori. Ella maneggiossi coi cardinali, mal paghi, come lei, del nuovo Pontefice Urbano VI, e di concerto conla' Savoia e la Francia, la nuova elezione sostenne di Clemente VII, il quale, sotto il nome di antipapa, rifuggissi in Avignone, ov’ebbeprincipio la sacra guerra conosciuta sotto il nome di grande scisma d’Occidente. Perla sua condotta niente politica, la regina di Napoli si fece di Clemente VII un inutile protettore, e di Urbano VI un possente ed implacabil nemico. Questo Papa scomunica, depone Giovanna, dà l’investitura del reame di lei a Carlo Durazzo, solo avanzo della casa di Francia Angiò in Napoli, e che la regina adottato avea. Carlo Durazzo, ìn contraccambio della corona di Napoli, fa dono al Papa del principato di Capua; tutti e due piomban su Napoli. Giovanna, sorpresa senza, aver potuto raunare truppe, chiama in suo soccorso il marito. Otone accorre, vien rotto e fatto prigione. La regina chiudesi nel. Castel Nuovo, attendendo i soccorsi del fratello di Carlo I re di Francia, Luigi d'Angiò, cui ella suo erede dichiarato aveva in luogo dell’ingrato Durazzo. Questo principe, dopo aver esaurito la Francia con preparativi troppo dispendiosi, giunse troppo tardi per salvar la regina sua benefattrice.
Carlo Durazzo fecela perire nella stessa guisa che morto era Andrea primo marito di lei. Ella fu soffogata tra due materasse nel castello della città di Muro in Basilicata nel 1382. Otone fu imprigionato nella fortezza d’Altamura.
Egli dovea questo nome alla città di Durazzo conquistata su i Greci dalla sua famiglia, e divenuta suo appannaggio. La regi na Margarita sua moglie prese possesso della reggia, e Carlo III di Durazzo, cominciar!do a regnare, instituì l’ordine della Nave. Luigi d'Angiò, poco tempo dopo l'assassinio di Giovanna, arriva nel regno di Napoli con un possente esercito, s’impadronisce di molte città, penetra sin nella Campania.
Lì, invece di dar l’assalto alla capitale, lasciasi tenere a bada dalle disfide, che gli vengon fatte da Carlo Durazzo. La sua armata fu vittima de' suoi temporeggiamenti: il disagio ed una epidemia pienamente 1 infievolirono. Luigi ne fu affetto, e si mori. Carlo Durazzo liberatosi da questo formidabil ne mico, abbandonasi a tutta la sua ambizione, e tassi beffe degli obblighi per convenzione con Urbano VI contratti. Sotto pretesto di conformarsi al ceremoniale, prende la briglia del cavallo del Pontefice, e mena così il Papa in prigione.
A quest'epoca, essendo morto il re d'Ungheria, Cario Durazzo dichiarasi protettore ei diritti dell’erede propria, di minor età, parte per l'Ungheria, vi fomenta una fazione, iene gli apre il sentiero al trono, vi ascende, e nella stessa sua corte nel 1386 vien trucidato da un Unghero, vendicatore della morte di Giovanna di Napoli e dei diritti della giovine Maria al tempo stesso, sua legittima sovrana.
Carlo III di Durazzo lasciò due figliuoli, Ladislao di dieci anni, e Giovanna già grandicella. Siccome sotto il reggimento di Giovanna Ile discordie insorte tra i nobili dei sedili Capuano e Nilo con quei de' sedili di Portauova. Porto e Montagna, i saccheggi de' capitani di ventura indotti nel regno, e lo Scisma tra' Papi di Roma e d’Avignone, al quale ebbero parte i Napoletani, tennero questo reame in soqquadro: così poco felici furono i principi! del regno di Ladislao, sì come, tranquillamente regnato non avea suo padre. Salutato re Ladislao, fu vista sorgere una nuova magistratura independente, creata da' Seggi uniti al popolo, della gli otto Signori del buono stato, i quali doveano provvedere che da' ministri del re non si facesse cosa, che offendesse la Giustizia. La famiglia reale stette inchiusa nella fortezza di Gaeta per lo spazio di 13 anni, in cui due accanati partiti disputataci il regno di Napoli, il partito d’Angiò e quello di Durazzo. Mentre Luigi II d’Angiò era coronato re di Napoli in Avignone, Ladislao anch’egli cingevasi del real serto la fronte, ed era investito della sovranità in Napoli. La capitale videsi in preda agli orrori di una guerra intestina; pugnavasi nelle strade. La vedova di Durazzo non seppe, coglier il destro per rassodar la corona sulla testa di suo figlio Ladislao; e Maria, madre dell’erede del duca d’Angiò, commise pure di più grandi abbagli, differendo di recarsi a Napoli con suo figlio. Questi giugne da ultimo, e vien accolto coll'entusiasmo della novità dagli ottimati del regno, ed in ispezialità da(r )Sanseverineschi, che gli aprono le porte di Napoli.
Ma Luigi, invece di consolidare la. lor operacon rendersi ligi i fautori di Ladislao, si assonna nei piaceri: destasi dal suo sopore allo strepito della marcia del suo rivale, che, uscito di Gaeta, ov'erasi rinchiuso, entra negli Abruzzi, s'impadronisce d’Aquila, e mette l'assedio innanzi Napoli. Luigi, dando ascolto a perfidi consigli, lascia questa città, e ritirasi a Taranto. Cavatosi di speranza dei suoi infruttuosi tentativi, tornai in Francia, e lascia Ladislao tranquillo possessore del regno di Napoli.
Questo principe, perfido del pari che Carlo Durazzo suo padre, più non sovviensi delle sue promesse fatte ai baroni del partito del suo rivale; ma, abbandonandosi a tutta la ferocia del suo carattere, bagnasi nel lor sangue ed in quello dei lor figli. Ripudia sua moglie Costanza, figliuola di Manfredi di Chiaromonte, conte di Modica, per isposar la sorella del re di Cipro, e rende via più solida la sua possanza pel matrimonio di Giovanna, sua sorella, col duca d’Austria.
Non avendo più ad occuparsi se non della felicità del suo popolo, credesi scevero affatto d’ogni altro pensiero: ei prende l’occasione d'una rivolta in Ungheria per tentarne la conquista, ma èobbligato di volger indietro i suoi passi, sentendo che Sigismondo ricuperato aveva il suo regno. Boso Ladislao dal verme dell'ambizione, aspirar osa allo scettro di tutta l’Italia. Il suo matrimonio con la principessa di Taranto, sua terza moglie, tutto il territorio gli sommettea, che dallo stretto di Messina agli stati della Chiesa distendasi. Roma, bagnala del sangue versato per le guerre religiose, di cui il grande scisma era la cagione, una facil conquista offriva a Ladislao, che più volle se ne impadronisce; e i suoi successi spigne sin nella Toscana. Il Papa, ch'erasi ritirato a Siena, chiama in suo soccorso quel medesimo Luigi d’Angiò, che indarno disputato avea la corona di Napoli a Ladislao. Il duca d’Angiò, più forte pe’ sussidii fornitigli dal Pontefice, marcia contra Ladislao, lo scaccia dalla Toscana, dagli stati romani, e guadagna la battaglia datagli sui confini del regno di Napoli. Ella era finita per Ladislao, se Luigi d'Angiò profittato avesse de' suoi vantaggi. Ma questo principe, non avendo potuto ottener dal Papa il danaro necessario alla paga delle sue truppe, videsene abbandonato; e, con la disperazione nel cuore, fu obbligato di far ritorno per la seconda volta ne’ suoi stati di Provenza,
Ladislao rimettesi in campo, abbandona Roma al saccheggio, rivola in Toscana per recare ad effetto i suoi progetti d’usurpazione; ma repentinamente ammalossi in Perugia, avvelenato, come corse fama, di una strana e nefanda maniera, e morissi a 39anni nel 1414,senza prole; e' però gli successe sua sorella Giovanna, già vedova del duca d'Austria.
Ladislao non avendo avuto figli dalle sue tre prime, mogli, Giovanna sua sorella gli succede, e si fa sozza de' medesimi vizi di suo fratello. In olà di quarantaquattro anni spinse i lezi e la sua civetteria sino alla dissolutezza: molti favoriti succederonsi rapida mente, ed abusarono del lor effimero potere; tra i quali si distinse un tal Pandolfello d’Alopo,giovine di vilcondizione, ma bello della persona. Dubbia fu pur sua condotta col celebre capitan di ventura, Sforza. Sia infine che fosse stanca de' suoi impudici traviamenti, sia ohe l’età scemato avesse in lei l'ardor dei sensi, o per un. effetto forse di sua incostanza, la regina determinossi a sposar Giacomo di Borbone conte della Marcia de' Realidi Francia. Questo principe, furioso per le scoperte che fa, relativamente ai colpevoli intrighi di sua moglie, mette a morte parecchi amanti di lei, e la. tratta con un rigor tale, che la nazione indegnatasi contro di lui, si solleva, e ì forza a cercar un asilo nel casteldell'Uovo centra la vendetta popolare. Giovanna riprende il potere e ne abusa; fingendo di riconciliarsi con Giacomo, il tiene per ben tre anni in prigione, da cui finalmente e tratto fuori. Immerso allora nel lo scoraggiamento e nella misantropia, rimpatriato si fa monaco di S, Francesco, e muore nel convento nel 1438. Giovanna in balia di se stessa, a tutti gli eccessi abbandonasi della depravazione e del dispotismo. I baroni mal contenti chiamano alla conquista, del regno di Napoli Luigi III d'Angiò, figlio del rivale di Ladislao, Questo principe arriva, ottiene avventurosi successi, e si avvicina a Napoli. Giovanna gli oppone Alfonso I re d'Aragona, cui adotta per suo successore.
Dopo molta effusione di sangue, Alfonso avendo riportato la palma sopra Luigi d'Angiò, vuol dominare anzi tratto alla corte di Giovanna, Allora questa regina sostituisce al l'adozione di Alfonso quella di Luigi IIIdi Angiò, cui spedisce in Calabria, per sommetter i baroni ribelli. Non ostante la sua vecchiezza, ella era tuttavia soggiogata dai suoi favoriti. Quegli, che la dominava a quei giorni, nomavasi Caracciolo; il quale spinse orgoglio e l'audacia a segno da domandarle il principato di Salerno. Furioso pel rifiuto, portò tant'oltre l’insolenza, che percosse la regina, sì come ne corse la fama. Per opera della duchessa di Sessa Covella Ruffo, fu assassinato Sergianni Caracciolo, ch'era gran Siniscalco, in Castel Capuano, dov’era la corte, ed i suoi figli furon condannati alla prigione ed all'esilio.
Dalla duchessa fu governata Giovanna dispoticamente sino alla fine del suo regno. Questa favorita impedì che il duca d'Angiò fosse richiamato a Napoli. Alla nuova della morte di questo principe, Giovanna infermasi per crepacuore, istituisce per suo successore alla corona di Napoli Renato d'Angiò, e spira all'età di sessantacinque anni nel 1435: ella regnali ne avea venti, senza occuparsi un solo istante della felicità del suo popolo. In lei si estinse la dinastia degli Angioini, che per lo spazio di 177 anni, cioè dalla venuta di Carlo I,nel 1268 sino alla fuga di Renato nel 1442(,)il trono di Napoli occuparono, e detter l’esempio d'ogni vizio e d’ogni delitto.
Intante rivoltare politiche da Roberto sino a Giovanna II avvenute, tacquero i buoni studi e le leggi; il solo mestiere delle armi salì in gran pregio ed onoranza. Néfu scevera di gravi moti la Sicilia; ché mancata la linea maschile per la morie di Federigo III, era succeduta a quel reame Maria, figliuola del morto re d'Aragona, allogata in matrimonio a Martino, figliuolo del duca di Montebianco, fratello di Giovanni re d’Aragona, e fu chiamato re Martino II.
Avvegnacchè fosse Giovanna II a vizio di cruda lussuria sozzamente rotta, e paresse che, a dilettamenti de' sensi abbandonatasi, trasandasse le bisogne del suo reame, ciò non ostante riformò i tribunali, i riti della Gran Corte a miglior forma ridusse, altri novelli introducendone, dando loro forma e vigor di leggi, ed abolendo quelli, che nella sua collezione non erano compresi; In una prammatica detta Filingiera, perché pubblicata all’occasione di Caterina Filingiera, moglie di Sergianni Caracciolo, si stabili, che tra coloro, i quali viveano jure Francorum, la sorella maritata, ma non dotala de' suoi beni, non dovesse escludersi dalla successione dei fratelli; e che infra coloro, i quali vivean lor vita jure Longobardorum, la sorella ne venisse esclusa, bastando che fosse stata dotata dal padre o dal fratello.
Sino al regno di Giovanna II eran le Università degli studi adusate conferire in Napoli e in Salerno i gradi dottorali ma fu volontà di quella regina, che i gradi di Dottorato o di Licenziatura nelle leggi civili e canoniche, e più tardi di medicina e di filosofia, venissero da un collegio particolare conferiti, sotto la giurisdizione delgran Cancelliere Caracciolo, della quale i principi di Avellino Caracciolo serbaron il diritto sino al 1806.
L’adozionsuccessiva, che fé Giovanna II, d’Alfonso di Sicilia e di Renato d’Angiò, a sperare ed inciprignir facea vie più la rivalità dì questi principi, che entrambi pretender credeansi legittimamente il trono di Napoli. Eglino per lunga pezza virilmente si battagliarono, e scorrer fecero il sangue dei popoli, di cui volevano divenire i padri. Renato trovavasi prigione del duca di Borgogna al tempo della morte di Giovanna II, e però mandò la moglie Isabella a Napoli come sua vicaria. Appena giunse egli medesimo nel regno, fece si molto amare dai Napoletani per le sue qualità analoghe a quelle di Errigo IV. La coltura delle belle arti temperava in lui quella ferocità guerriera, decorata allora del titolo di coraggio cavalleresco. Respinse con vigore gli assalti che Alfonso dava alla capitale, la qual fu presa per tradimento, entrandovi Alfonso nel 1442per un acquedotto, mezzo adoperato da Belisario nove secoli innanti. Rena to fu quindi obbligato di ritornare nei suoi Stati di Provenza.
Così, dopo due secoli di scempi, i discendenti della casa di Svevia ricuperaron una corona tenuta dalla casa d'Angiò a prezzo del sangue di Corradino.
Alfonso riunì i due scettri di Napoli e di Sicilia; ma riunir non potò gli spiriti di queste due contrade, tra le quali esisteva un’antipatia, che crebbe via più per la scelta che fè di Napoli a sua residenza.
Questo principe, abbandonatosi al fasto ed alla dissolutezza, occupossi dei suoi sudditi, allorché i lor interessi combaciavano coi suoi gusti, coi suoi piaceri e colle affezioni sue particolari; ma quando questo legame non esisteva, ei non pensava che a sé. Diede di ciò prova separando di nuovo gli stati, che novellamente uniti avea, per far dono della Sicilia a Ferdinando, suo figliuol naturale. Papa Eugenio IV legittimollo, e riconobbe i dritti di lui al trono di Napoli. Alfonso, senza figli legittimi, temé che suo fratello non disputasse al suo bastardo un tanto retaggio; e, venuto a morte nel 1458, l’anno 64 di sua vita, lasciò gli stati paterni al re di Navarra,e 'l regno, come sua conquista, a Ferdinando trasmise, dopo aver visto assicurata la sua discendenza con un maschio del duca di Calabria, che volle chiamato del suo nome.
Quando il reame degli Angioini fu trasferito ad Alfonso re d'Aragona, di Valenza, di Catalogna, di Maiorica, di Corsica, di Sardegna e del Rossiglione, questo re addomandato Alfonso il Magnanimo, s’intitolò rex utriusque Siciliae. Egli creò in Napoli il supremo tribunale del Sacro-Regio Consiglio, a cui si appellava nelle cause di tutti gli altri Stati testé per noi nominati. Delfini in una general raunanza i Capitoli de' privilegi del regno. Ingrandì il molo, edificò la gran sala del Castelnuovo, uno de' migliori edifici dell’Italia moderna, fortificò il castello cera quelle altissime torri, che tuttora si ammirano, fece ampliare l’arsenale e la grotta di Posillipo, crebbe il regno, giugnendovi la città di Benevento, il territorio di Pontecorvo, altri paesi in terra di Lavoro, e lo stato di Piombino; ma invilito negli amori di Lucrezia d’Alagno in età men fiorente, non più curò le cose pubbliche, ed invece di regnare in virtù, dilettò in lussuria. Grandi e svariati dilettameli ti egli pure amministrò con cacce, giostre e conviti al popol napolitano, preso mai sempre da vaghezza per smaglianti spettacoli.
Appena Ferdinando I fu salito sol trono di suo padre che i baroni di farcelo scendere tentarono, allegando per pretesto la sua ingiustizia e la crudeltà sua. L’oligarchia indirizzossi alla prima a Giovanni, re d’Aragona e di Sicilia. fratello d’Alfonso e zio di Ferdinando: colui ricusò le lor pericolose offerte: allora eglino offriron la corona di Napoli al figlio di Renato, Giovanni d’Angiò, che venne, pugnò, dapprima fu vincitore, e poscia vinto.
Callisto III, della casa Borgia, avea perseguitato, scomunicato Ferdinando, ma il suo successore Pio II per lo contrario grandemente favoreggiollo. Questo Pontefice gli procurò il soccorso del famoso Scanderberg, re d'Albania, il quale il fe’ trionfare nella battaglia datasi in Capitanata a Giovanni d’Angiò. Questo principe, tradito da quei medesimi baroni, all'invito dei quali erasi arreso, costretto videsi, come tutti gli avoli suoi, ad abbandonar l’impresa, e far ritorno nei suoi stati ereditarii.
All'esempio di suo padre, Ferdinando incoraggiò il commercio di Napoli; accordò la sua protezione e i suoi favori ai Greci letterati, che, involandosi alla crudeltà ed all'ignoranza de' Turchi, contro queste doppia barbarie un rifugio cercavan nell’Italia, ove prepararon il secolo di Leone X, cornei lor maggiori il secolo di Pericle illustrato aveano. Fiorivano a questi giorni per dottrina. Fontano, de' Ferrariis, Valla, Beccadelli, detto il Panormita, Sannazzaro, Alessandro d’Alessandro ed altri molti. Il Sannazzaro fu segretario del re, ed a lui succedé Giovanni Fontano. Re Ferdinando diè per segretario a suo figliuolo il poeta Gabriello Attilio di Basilica la, divenuto poi uom di stato e vescovo di Policastro. E non solo i buoni studi furon messi in onore, ma il dritto pur anche cominciossi a diversamente spiegare, cioè con l’aiuto delle lingue e della storia; il perché più general mente s’introdussero le leggi romane,e le longobardiche disparvero. Begli e dunque vero, come non ci ha pure un dubbio al mondo, che Ferdinando protesse i letterati e grandemente caldeggiò le lettere e riformò gliabusi del foro e cercò da per tutto magistrati integerrimi ed ingrandì la capitale e nobilitò le principali città delle province, appellando viceré i giustizieri, addomandati poscia presidi, non però di meno fu uomo così rotto, soprastante e feroce, e suo figlio Alfonso sì alla dissolutezza inclinato, e precipitoso e subito nella vendetta, che parve sopra nemici regnassero. Manifesta prova di ciò era la molta gente, che teneva a soldo, per affienare i suggelli, la quale non potendo ne’ suoi stati alimentare, fu forza in estranei paesi nutrirla: imperò mosse guerra a' Fiorentini, spedendovi Alfonso, duca di Calabria. Era a quest'epoca moderatore della repubblica fiorentina Lorenzo de' Medici, il quale persuase a' Veneziani che a' Fiorentini si collegassero, ed invitarono Maometto li al bel conquisto del reame di Napoli, per così far diversione dell’armi di re Ferdinando dagli stati loro. Nel 1453 cessò l'impero di Costantino Paleologo, e successe alla greca la signoria turca nella persona di Maometto. E con ciò sia cosa che intendessero gl'imperatori turchi succedere a' diritti degl’imperatori greci in Italia, soventi fiate chiamati da' baroni rubelli, vennero a roba di queste nostre contrade. I Turchi signoreggiarono un anno in Otranto, e 'l duca di Calabria, Alfonso, figliuolo di Ferdinando, acquistossi molta gloria cacciandoneli. A questi giorni molti signori, che andavano per la maggiore nel regno rincuorati da Innocenzo VIII, e dandovi grande opera Francesco Coppola, conte di Sarno, i ed Antonello Petrucci, segretario del re, pre paravano assai sollevamenti e disturbanze nel reame, offerendolo a Federico, zio di Alfonso. Il re, scoperta la trama, impromette per dono a' ribelli. Questi commettonsi alla sua fede, e riuniti nel Castelnuovo nell’occasione delle nozze del figliuolo del Conte con, una nipote del Re, contra la fede data, furon alla sprovveduta avvinti in ceppi e puniti di morte. Tiberio e Luigi XI non avrebbero più efferatamente operato. Questa e la famosa congiura de' Baroni tentata nel 1486, e, con tanto pregio di stile descritta da Camillo Porzio. Nel re Ferdinando I d’Aragona di questa vita trapassava, in età di 71 anno. Questo monarca accolse in Napoli la recente scoperta della stampa, e con calore la protesse, molte franchige accordando ad Arnaldo di Brosset Fiammingo, il quale nel 1473 ve l’introdusse. A Ferdinando I d'Aragona si dee pure l’introduzione in Napoli delle arti della seta e della lana.
Mentre Alfonso II, crudele del pari che suo padre, senza possederne il coraggio ed i talenti, fa in Napoli fievoli apparecchi per opporsi a Carlo VIII (1), questi entra in Roma a trionfatore, forte minacciando il pontefice Alessandro VI, che possenti nemici contro di lui suscitati avea; ma baciagli tosto i piedi, gli serve la messa, e allogasi nella Chiesa al di sotto del decano dei Cardinali. Alessandro VI, in cambio di cotal i sommessioni, riconosce il re di Francia per sovrano legittimo di Napoli, e 'l decora del solenne titolo d’imperator d’Oriente, titol fondato sulla cessione, che un Paleologo, nipote dell'ultimo sovrano di Costantinopoli, fatta gli avea dell'Impero.
Alfonso, di terror compreso alla vicinanza di Carlo VIII, rinunzia alla corona, lasciandola a suo figlio Ferdinando II, e sen fogge a Messina, ove fassi monaco degli Olivetani. Ivi morì pochi mesi dopo, e l’odio e 'l disprezzo disputaronsi la sua memoria.
Quanto la condotta di Alfonso era stata imprudentee pusillanime, altrettanto quella di suo figlio Ferdinando II fu savia e coraggiosa. Eisi mise alla testa delle sue truppe, e mosse verso le frontiere del suo regno per far testa a Carlo VIII. Ma tosto tradito ed abbandonato dalla sua soldateria, credè riservarsi a più felici tempi. Scioglie i suoi sudditi dai lor giuramenti, a fine di lor risparmiare i malid’una guerra civile, e ritirasi nell’isola d’Ischia, vicina al golfo di Napoli. Carlo VIII entrò nella città di Napoli con la stessa pompa, onde avea fatto mostra nel suo ingresso a Roma: fu dappertutto salutato col titol di Augusto: le acclamazioni del volgo e le sollecitudini della donne a precipitarsi innanzi ai suoi passi, l’inebriarono d’orgoglio,
I diversi sovrani d’Italia, gelosi dei successi di lui, se la intesero per ¡scacciamelo. Eglino dettero alla lor unione il titol di sacra lega, titolo che produce sempre il suo effetto. Ferdinando II chiamò in suo soccorso Ferdinando il Cattolico, re di Spagna, il quale gli spedì il celebre Consalvo Ernandez ai casa Agnilar di Cordova. Temendo di non poter resistere alla bufera, Carlo VIII ritornossene in Francia dopo otto mesi di assenza: son note pur troppo le difficoltà ch'ebbe a provare nella sua ritirata. Ferdinando li rimonta agevolmente sul trono di Napoli; sposa la nipote di Ferdinando il Cattolico, ed occupasi pienamente della felicità e benavventuranza del suo popolo. La Provvidenza, che, per imperscrutabili suoi giudizii, eterna sovente la possanza dei malvagi re, non permise che Ferdinando II cicatrizzasse con la sua giustizia le piaghe del suo popolo; egli uscì di vita dopo il regno di poche lune, nel 1496, senza figliuoli, e gli successe al regno Federigo suo zio, figlio secondogenito di Ferdinando I. Ed ecco come Ferdinando I, Alfonso II, Carlo VIII; Ferdinando IIe Federico, nello spazio di tre anni, tennero tatti successivamente lo scettro di questo reame, che Ludovico XII, successore di Carlo VIIInel trono di Francia avvisò di dividare con Ferdinando.
Questo principe succede a suo nipote Ferdinando II. Il suo regno si annunziava sotto i più felici auspizi, La clemenza e la giustizia si assisero con lui sopra un trono, donde dovea tosto precipitarlo la più mostruosa perfidia.
Ludovico XII, invaso come il suo predecessore Carlo VIII dall’ambizione di regnar su l’Italia, avea già occupato Genova e Milano, e ‘lsuo pensiero era tutto rivolto all’invasione del regno di Napoli.
Ferdinando il Cattolico, sotto pretesto di soccorrere il re di Napoli, suo congiunto, dette ordine a Consalvo di serbar per se le piazze, che stimato sarebbesi occupar per Federigo. Il gran capitano adempì molto bene cotal e viluperevol commessione. Indarno egli giurato avea su l'ostia sacra di non far attentato alla libertà del duca di Calabria, figlio primogenito di Federigo; l'invio prigioniero in Ispagna. Il Pontefice diede una nuova bolla d'investitura a Ferdinando il Cattolico ed al re Cristianissimo.
Federigo, disperando di romper una trama ordita dalle mani di tre potentati, implorò un asilo in Francia, ove Ludovico XIIgli assegnò una pensione.
Federigo sopportò la sua disgrazia da filosofo; ei cessò di vivere, tre anni dopo di esser disceso dal trono di Napoli, sul quale non dovea più risalire la dinastia d'Aragona, che tenne il regno per 86 anni dal 1435 al 1521. I suoi tre figli morirono nell’adolescenza; uno in Ispagna, in Francia gli altri due, non senza sospetto di veleno.
Convenuti, come di sopra essi accennato, i due sovrani di Francia e di Spagna, della divisione del reame di Napoli, i loro eserciti invasero il paese, il quale divenne teatro di aspra contesa tra Lodovico XII, duca d'Orléans, signor d'Asti, cugino in quarto grado d'agnazione a Carlo VIII, cui succedé, perche morto senza figliuoli e fratelli, e Ferdinando il Cattolico, re d'Aragona e di Sicilia, come successore di Alfonso I. Non andò guari che le nostre terre venner partite tra i due pretendenti, toccando a Lodovico, Napoli, Terra di Lavoro ed Abruzzo; a Ferdinando, la Puglia e la Calabria; e non andò guari che i loro eserciti disputaronsi a palmo a palmo l’intero possedimento fino al 1503, quando i Francesi furono battuti e discacciati dal gran capitano Con salvo (2). Imperò Ferdinando il Cattolico rimase possessore di tutti e due i regni, Napoli e Sicilia, i quali ridotti furono alla condizione di provincedella monarchia spagnuola, la quale vi stabilì un governo triennale di Vincerò ed un Consiglio collaterale, in parte composto di ministri spagnuoli appellati reagenti, in ossi introducendo nuova politica o leggi novelle, agl'instituti e costumi di Spagna conformi. I Presidi, che venner dopo i Giustizieri, ebbero sovente due province da governare. Si stabilirono due Segreterie, una di guerra, l'altra di giustizia, independenti dal consiglio collaterale, ma depennenti immediatamente dal Viceré, e non si adoperò altra lingua nelle faccende dello Stato se non la spagnuola. I sette uffizi del regno restarono di solo nome: i ciambellani, i greffieri, gli scudieri, nomi ed uffici francesi, si estinsero, essendosi a questi sostituiti i seguenti nomi ed uffizi spagnuoli scrivania di razione, auditor generale dell'esercito, cappellano maggiore, cavalierino maggiore, corriere maggiore, ec.
Consalvo, fatta avendo la conquista del regno di Napoli, ne prese possesso innome di Ferdinando ilCattolico, ed amministrò questo regno con saggezza pari al valore nel conquistarlo.
Ferdinando il Cattolico recossi a Napoli nel 1507; invece de' favori e delle immunità, che ogni re di Napoli accordava nel suo innalzamento al trono, stabilì nuove gravezze e balzelli, ed instituir volle il terribile tribunale dell'inquisizione, il quale venne dai Napolitani con tutta l'energia imaginabile respinto. Eglino scacciaron dal regno il grande inquisitore.
Il re, disperando di ridurre i Napolitani, lor promise di non mai più rimenar tra di essi l’inquisizione. Il popolo, per rendere questa promessa più solida, creo una commissione deputata ad aver sempre gli occhi aperti sui tentativi del Santo Ufficio, perché esplorarli potesse. Questa commessione sussisteva ancora nel 1793. I successori di Ferdinando diverse fiate tentarono d'avvalorarvi l’inquisizione, ma sempre indarno.
Dopo sette mesi di soggiorno, Ferdinando parte di Napoli, e fa ritorno nelle Spagne per la morte del re Filippo, seco menando Consalvo, di cui geloso era, e che vegetar fece e morire lungi dalla corte.
Qui comincia la serie dei Viceré, che rapidamente succederonsi nel governo del reame di Napoli.
Il secondo Viceré, il conte di Ripa Corsa, comportassi con capacità e saggezza, e fu amato dal popolo. A lui successero Antonio Guevara, e Raimondo di Cardona, che tenne le redini del regno di Napoli sino alla morte di Ferdinando, avvenuta nel 1516 a Madrid, dopo 42anni di regno, ne’ quali cacciò i More da Granala, ed aggiunse al suo impero i reami di Napoli e di Navarra, Orano e vari luoghi d'Africa. Morto senza prole maschile il principe, Carlo Arciduca d'Austria, in virtù de' diritti della madre sua, successe all'impero ed al casato della famiglia d’Aragona, la quale si spense. La dinastia aragonese tenne il nostro regno per 86 anni dal 1435 al 1621.
Questo monarca, fu debitore del Nuovo Mondo a Cristoforo Colombo; delle due Sicilie e del regno di Granata a Consalvo. Ei pagò questi due gran personaggi con egual ingratitudine. Tutti i suoi personali talenti limitavansi alla cattiva fede, onde vanità pur traea.
Carlo d'Austria, nipote di Ferdinando e d'Isabella, per Giovanna sua madre, e nipote di Massimiliano, per suo padre Filippo, arciduca d’Austria, possessor divenne dei vasti stati di Ferdinando, ai quali aggiunse nel 1519 l’impero d’Austria, decretatogli dalla dieta di Francoforte, per la morte di Massimiliano Imperatore dì Germania, senza eredi, e chiamossi Carlo V. Per tal modo Napoli passò alla casa d'Alemagna.
Francesco Ire di Francia preso da gelosia e timore pe’ tanti stati comulati nella persona di Carlo, s'indusse a muovergli guerra. Di grandissimo valore si combatté da ambe le parti in Pavia, ove Francesco restò prigione del marchese di Pescara, e fu condotto da prima a Pizzighettone e poscia a Madrid. Appena libero, si riaccese la guerra in Italia. Quest’anno 1527 fu pieno di atroci e strani avvenimenti: mutazioni di stati e di religione, prigionia di papi, saccheggiamenti di città, carestia grande di vettovaglie, fiera peste in Italia, orribilissima in Napoli.
Ilviceré di Cardona, per sovvenir alle spese di questa guerra, astretto videsi di aggravar di debiti le finanze dei regno di Napoli: il governo pagavali, vendendo concessioni al popolo, ed insignificanti privilegi accordandogli. A questi giorni quasi tutti gliufizi furon resi venali, e le concessioni non pur alla sola vita del concessionario, ma a due e tre vile bensì furon estese, o rimase in una famiglia, o concedute in allodio agli eredi di perpetuo. Il titolo di Principe, proprio de' Beali e di pochi signori, assai comune divenne.
Cardona morì, e gli successe il celebre genera! Launoia, che non guari dopo contribui alla vittoria della battaglia di Pavia, e le ritorno a Napoli» dopo aver menato Francesco Iin Ispagna.
Essendosi Violante figlia di Renato d’Angiò in marital nodo congiunta a Terrydi Vaudemont, il Conte di Valdimonte pretendendo perciò aver diritto sul trono di Napoli, collegossi col papa Clemente VII, e scorse con poderosa oste queste nostre regioni. Il viceré Launoia piombò su Roma, occupò molte piazze, e forzò il papa a domandar la pace. Ben presto il contestabile di Borbone, generate delle truppe dell'imperatore, investì Roma, che fu presa e saccheggiata, a malgrado la morte del contestabile, ucciso sulla breccia. Il papa fu assediato in caste! S. Angelo ove rimase prigioniero; e mentre i Francesi, gli Inglesi, gli italiani e gli Svizzeri a soccorrerlo collegavansi, gli Spagnuolie Carlo stesso celiando, da lui forte riscatto esigevano.
Launoia di ritorno da Roma, venne a morte nella città di Aversa. Ebbe costui per successore Ugo di Moncada.
Alla morte di costui, ebbe la dignità di Viceré in Napoli il principe d’Oranges, quando nel 1028, sotto il generale Lautrec, il marchese di Saluzzo ed il duca di Urbino, la Francia per terra, e Venezia per mare, assalirono queste nostre province quasi intieramente le invasero, e cinsero Napoli di forte assedio. Quasi tutto l'esercito. francese di 35 mila uomini, che assediava Napoli dalla parte di Porta Capuana, perì di morbo contagioso cacciatosi nel campo, e Lautrec stesso pagò alla natura il tributo. Il marchese di Saluzzo, che gli succedé nel comando, infermossi ad Aversa, ove fu anch’egli dagli Imperiali assediato', e si rese prigione con tutti i suoi compagni d’infortunio. La Francia ed i suoi alleati non ottenner la pace che ad onerose condizioni. Il re di Francia desisté di nuovo e per sempre dai suoi diritti sul trono di Napoli. Il papa fu costretto anch'egli di rinunciar al tributo annuale che percepiva, e di contentarsi della sola chinea; mille altre immunità, in quest’omaggio feudale comprese, furon per sempre abolite.
Il principe d’Oranges, dopo le narrate vicende, esercitò in Napoli gran crudeltà: fè metter a morte tutti i baroni, colpevoli solo di fedeltà alla dinastia degli Angioini, e i lor beni, furono confiscati. Costui ebbe, per successore il Cardinal Pompeo Colonna, il quale caricò di balzelli ilpopolo, immense somme a titol di dono esigendo; la, sua amministrazione nanfa che tino, lunga oppressione. Ei venne finalmente a morte, e Carlo I mostrò di voler compensarci mali che questo viceré commessi avea, nominando a successor di lui Pietro dì Toledo marchese di Villafranca, che governando per 28anni e mezzo, diede al regnodi Napoli quella forma e quella politica, la quale durò sino al principio del 19.(mo)secolo. Essendo egli nato de' duchi d'Alba in Castiglia, punto del mondo non diessi allo studio delle lettere; alle arti cavalleresche ed alla ginnastica bensì, onde adivenne che in Ispagna ebbe nome di gran Toriatoro; e venuto per Viceré in Napoli, introdusse fra noiil giuoco de' tori e tante altre giostre e tornei, che soventi fiate, durante il suo governo, diede in ¡spettacolo al popolo. Questo illustre personaggio tutti i rami riformò della amministrazione, i quali erano in uno stato deplorabile.
Pietro di Toledo spogliò la nobiltà del privilegio dell’impunità. Mozzar fece il capo a parecchi ribaldi titolati, cui i tribunali osato non avean condannare. Abolì ancora il diritto d’asilo, di cui l’abuso era divenuto mostruoso.
Carlo V, fatta una guerra vittoriosa ai pirati, che sotto il famoso duce Ariadeno Barbarossa le coste di Spagna e d’Italia infestavano, prese Tunisi, ristabilì sul trono MuleyAssan, e fece la sua entrata solenne in Napoli.
Niuna virtù essendo, die' non abbia contrario il male dell'invidia la quale solo ai notabili uomini e portata, i maggiorenti del nostro regno tentarono di far destituire Pietro di Toledo; ma l’intero popolo il difese; e Carlo Quinto, che accorto uomo era e di sagace discernimento dotato, non pur serbollo nella carica, ma più estesa autorità gli conferì. Questo principe recatosi in Sicilia, ed indi in Napoli, dopo aver goduto delle feste dategli, partissi per osteggiar Francesco re di Francia, che occupava la Lombardia. Pietro di Toledo continuò, per benavventuranza del regno, ad occuparsi di opere pubbliche: fondò un ospedale pe’ carcerali, e quello di S. Giacomo col tempio annesso; riformò il tribunale della Vicaria, quello della regia Camera, e l'altro di Santa Chiara, e li riunìtutti nel castel Capuano, e ridusselo a palagio; rifece il forte di S. Elmo; ampliò il regio arsenale; inalveò le acque stagnanti della terra di Lavoro, e questi canali detti lagni, purgarono la provincia e la Capitale dall’infezione dell’aria, e resero alla cultura molte terre; edificò l’ospedale di S. Caterina dentro S. Giorgio per le femmine, e l’altro di S. Maria di Loreto pe’ fanciulli orfani; abbellì Napoli del palazzo che chiamiamo vecchio, accanto all’odierno reale; fondò il Monte della Pietà per li pegni fino a dieci ducati senza interesse; discacciò gli Ebrei, divoratori delle sostanze private; allargò la grotta di Pozzuoli; innalzò i castelli di Baia, Reggio, Castro, Otranto, Lecce; Gallipoli, Trani, Barletta, Brindisi, Monopoli e Manfredonia; e per difendere le coste del regno dalla pirateria e da' saccheggi de' Turchi, fortificò il littorale con alte torri a certe distanze; formò granai per l'abbondanza della capitale; diminuì le angarie; animò l'agricoltura e le arti; alleviò i mali della miseria pubblica; e proibì in fine l’esportazione de' grani.
La più popolata metropoli d’Italia non aveva ancora alcuna di quelle strade, ove la più parlo delle altre vanno, a metter capo. Toledo ne fe’ costruir una, che può mettersi a fronte delle più belle d’Europa, ed a culla pubblica riconoscenza appose il nome di lui. Egli tentò di ristabilir l’inquisizione. La rivolta fu general e, fu perseguitato il viceré sin nel castel Nuovo, ove’ evasi ritirato, ed obbligato videsi di rinunciar alla sua intrapresa. Verso questa epoca la natura entrò in convulsione. Furonvi violenti tremuoti per la famosa e lagrimevol eruzione del 1538, ed in una sola notte aggobbendosi la terra, una montagna formossi nel lago Lucrino dagli avanzi di due villaggi, su quelle rive situati, e de' quali gli abitanti annientali furono. Questa montagna vien conosciuta al presente sotto il nome di Monte Nuovo. Errigo, li re di Francia, collegossi col principe di Salerno e con Solimano per assediar Napoli. Pietro di Toledo accorto. comprò la neutralità dell’imperator turco. Poco tempo dopo vennea morte il viceré in Firenze, ove recato si era coll'intenzione di sommelier i Sanesi, che il giogo della Spagna scosso aveano. Il Cardinal Pacecco de' duchi d’Ascalona succede degnamente a Toledo. Durante il suo viceregnato non furono più carcerazioni arbitrarie, e si tolse il poter condannare a pena gli accusati pel solo processo informativo ma Carlo I rinunciando al regno di Napoli, Pacecco abbandonar dovette la dignità di viceré.
La regina Maria, figlia primogenita di Errigo VIII, re d’Inghilterra, sposato avendo Filippo II, Carlo I credè dover decorare suo figlio del titolo di re, e gli cedette il regno delle due Sicilie e 'l ducato di Milano. L'anno seguente gli rimise tutte le sue corone, tranne quella dell'Impero. Filippo invia tra noi il marchese di Pescara, reso illustre per la vittoria di Pavia, a prender possesso del regno di Napoli. Carlo V, nel 1554 rinunciò, a Filippo i Paesi Bassi, con gli stati, titoli e ragioni di Fiandra e di Borgogna, la Spagna, la Sardegna, Maiolica, Minorica, e le Indie; a Ferdinando suo fratello l'Impero, e poi si mori nello stesso anno in Estremadura fra' monaci di S. Girolamo. Ne’ 44 anni del reggimento di Filippo II, dal 1554 al 1598, si successero otto Viceré e sei Luogotenenti. Al Cardinal Pacecco successe D. Bernardino di Mendozza luogotenente, e poi il Viceré Duca d'Alba D. Ferdinando Alvaresdi Toledo. Paolo IV, sebbene della famiglia napolitano dei Carafa, de' conti di Montorio, pronunziò la perdita dei diritti di Filippo al regno di Napoli, e collegossi con Errigo II, re di Francia, per ¡spogliamelo, per non aver pagato il censo alla Santa Sede.
Arse la guerra nel territorio papale, negli Apruzzi e nella terra di Lavoro. I Colonnesi, il duca di Guisa, il Pontefice, i Turchi ed i Veneziani combattevano da un lato; gli Orsini, i Napoletani, gli Spagnuoli e i Tedeschi dall'altro. I primi successi furon riportati dalla Francia; ma tosto restato vittorioso il duca d'Alba, la pace fu conchiusa, e Paolo IV inviò alla duchessa d'Alba la rosa d’oro, donativo che soleva in allora presentarsi a' principi in segno d’amicizia. Non ostante che fosse ferma la' pace, i Turchi saccheggiarono Seggio di Calabria, poi le città di Massa e di Sorrento, facendo da per tutto schiavi gli abitanti delle coste.
Nel 1557 Filippo cedé con trattato a Cosimo duca di Firenze lo stato di Siena, serbando al reame di Napoli i Presidi di Toscana, che si componevano di Porto Ercole, Orbitello, Telamone, Monte Argentario e ‘lPonte di S. Stefano. Il regno allora a sue proprie spese ivi intrattenne a guardia loro soldatesca napolitana e spagnuola, con un Auditore per amministrar Giustizia a quegli abitanti. Allo stesso tempo ritornarono alla corona, il ducato di Bari, stato de' duchi di Milano, e 'l principato di Rossano, stato de' re di Polonia, e ciò alla morte della regina Bona, moglie di Sigismondo, re di Polonia, figliuola d'Isabella d'Aragona e nipote d’Alfonso II.
Non furon a questi giorni coltivate le lettere, né la giurisprudenza; che tenuissimo fu il pregio de' nostri giureconsulti Antonio Capece, Bartolomeo Camerario, Sigismondo Loffredo e Marino Freccia, che tentò illustrare le leggi con le memorie antiche.
A quest’età fu pur fatto accordo con la Corte di Roma relativamente alle nomine regie a' Vescovadi; ed i Commessavi romani nel regno per la fabbrica di S. Pietro furon aboliti.
Al Duca d'Alba succede il duca d’Alcalà, D. Parafan de' Riviera. Sotto il governo di costui tutt'i flagelli, tranne la guerra esteriore, riunironsi per. desolare il nostro reame. Furonvi tremuoti, carestia per infinito numero di locuste venute da Levante, le quali distrussero seminati, erbaggi e foglie i alberi, malattie contagiose, eresie, scorrerie de' Turchi persino alle coste di Chiaia, grassatori e fuorusciti condotti da un Marco Berardi Cosentino, discordie per l’accettazione di alcuni capitoli disciplinari del Concilio di Trento, terminato nel 1563, su la pubblicazione della Bolla in Coena Domini. su l’Exequatvr regio delle bolle e de' rescritti ponteficii, sui visitatori apostolici mandati nel regno, su la porzione delle decime spettante al Re, e sopra vari altri punti giurisdizionali. D’allora fu costume di mandarsi da Napoli un regio Ministro in Roma per comporre le contese. Il duca d'Alcalà con capacità pari alla fermezza del suo carattere, seppe dar riparo a tanti e sì svariati mali. Ei tenne per 18anni il governo di Napoli, e siamo a lui debitori dell'ospedale di S. Gennaro, del conservatorio. dello Spirito Santo, delle strade che menano a Capua ed a Salerno, di molti ponti nel regno, della bella via di Poggio Reale, e di una magnifica fontana su la piazza del molo, ornata da quattro statue rappresentanti i quattro più grandi fiumi del mondo allora conosciuti, e che dicevansi volgarmente i quattro del molo. Questo saggio amministratore obbligò il primo i Parrochi ad avere un libro, in cui giorno per giorno si notassero i battezzati, creò ne comuni le guardie civiche, e volle ch'ogni provincia avesse i suoi archivi, Ei fu viceré dal 1559 al 1571, anno in cui di questo mondo dipartivasi, rimpianto da tutto il regno. Al duca d'Alcalà successe tostamente D. Antonio Perenotto, Cardinale di Gran vela, terzo prelato, cui Napoli ebbe a governatore. Sotto il suo reggimento, oltre a' saccheggi che commettevano i Turchi, si aggiunsero nuove pressure per coglier danaro e mandarlo a Filippo, che facea la guerra a suoi stati de' Paesi Bassi ribellatisi. Imperò ebber cominciamento le distrazioni delle città e terre, si reser venali gli onori e i titoli di Contado, di Marchesato, di Ducato, di Principato, e poscia furon messi all'incanto i dazi, le gabelle, e le dogane d’ogni maniera.
Sotto il viceregnato di Granvela accaddero due gran fatti navali. Il primo fu la vittoria di D. Giovanni d’Austria nelle acque di Lepanto contra i Turchi. Molte galee di Napoli e Sicilia vi combatterono, nella prima domenica d'ottobre del 1571, combattimento, che fece istituire dal Sommo Pontefice per tutto l’orbe cattolico la festa solenne del Rosario, ed erigere in Napoli la chiesa e l’ospedale di S. Maria della Vittoria. Il se«condo fatto fu la conquista di Tunisi, fatta con gravissimo dispendio; ed indi a poco nuovamente tornata ai barbareschi.
Al Cardinal Granvela successe D. Innico Lopes Mendozza, marchese di Mondeiar. Il duca d’Alcalá costituì cento leggi ne’ dodici anni del suo viceregnato; 4° prammatiche il Cardinal Granvela in quattro anni; Mondeiar, secondo che gli abbellava, operando, fece in guisa che non se n’eseguisse veruna. Nel Giubbileo del, infierendo in Italia la peste, uccise 4° mila uomini a Messina: i Turchi infestarono il regno a lor talento: tutta la nazione fu crudelmente afflitta dalla fame: e durando il suo viceregnato quattro anni e quattro mesi, il marchese carpì tre donativi del valore tutti di 3 milioni e 4. 00,000 ducati.
Succede al Mondeiar D. Giovanni Zunica, commendator maggiore di Castiglia e principe di Pietrapersia. Sotto il suo viceregnato Filippo II ebbe dalle, due Sicilie 17 navigli ben provveduti, 6000 soldati, 4000 guastatori, e un milione e dugentomila ducati, a cagion che mosse guerra al Portogallo, come pretendente a quel reame, cui tolse alla casa di Braganza, ed alla quale tornò sotto Filippo IV. Comeché l’intemperanza di far novelle e continue leggi prendesse Zunica, non però di meno creò utili stabilimenti, infra i quali una infermeria per le prigioni dette della Vicaria. Sotto il suo viceregnato pur avvenne l’emendazione del Calendario romano, fatta sotto il pontificato di Gregorio XIII, da Luigi Lilio Calabrese, il quale, scemando dieci giorni dell'anno, che per difetto d’intercalazione si trovavano soverchi, e prescrivendo il modo, perché cotal difetto per l’avvenire più non addivenisse, ridusse la Pasqua di Risurrezione ed altre molali feste al vero e giusto punto della loro antica istituzione. Napoli non ebbe questo Viceré se non per soli tre anni; che Filippo IIdal 1582 questa durata assegnò ai viceregnati.
Ilprincipe di Pietrapersia rassegnò la carica a D. Pietro Giron d’Ossuna, sotto il cui viceregnato furono più spessi i torbidi interni, infra i quali quello di Starace il più famoso. Il carattere altero, duro, imperioso di questo Viceré indegnarono contro di lui la nazione. A lui successe D. Giovanni Zunica conte di Miranda, il quale, d'accordo col Pontefice Sisto V, diede severissime punizioni a' ribaldi banditi, che in grandissimo numero desolavano il regno, infra i quali rioveransi per somma efferatezza Benedetto Mangone, e Marco Sciarra, che facciasi appellare il re della Campagna. A questo viceré debbesi la bella piazza incanti al palagio reale, ed una strada che mena a!la Puglia: egli fece ingrandire il ponte della Maddalena e vestire di broccato i cadaveri de' re aragonesi nella sagrestia della chiesa di S. Domenico. In questo mentre i pirati turchi non lieve molestia e danno recavano al regno. Durante il suo viceregnato egli emanò 58 prammatiche, e nel 1595 gli succedé nella carica D. Errico di Gusman, conte di Olivarez, il quale fu l’ultimo viceré di Filippo II. Questo amministratore abbellì la città di parecchi utili edilizi, ed a lui debbesi il Serbatoio delle farine e diverse fontane: ei pubblicò 32 prammatiche. L’orrenda confusione delle leggi, il diritto canonico, le decisioni del Collateral Consiglio, il diritto feudale, le regalie, i tanti nuovi statuali introdotti, ingenerarono una quasi anarchia, moltiplicarono gli avvocati e i procuratori, i curiali, le liti e gli sventurati. I Giurisperiti, che a questi giorni andavan per la maggiore nella città nostra, erano Vincenzo de' Franchis, Moles, Tappia, Caravita, Surgente, Maranta. Corner che gli Spagnuoli ogni freno mettessero al commercio ed alle lettere, come coloro che paventavan forte ogni novità, non però di meno vari ingegni felici scossero il giogo dell’autorità di Aristotile nella filosofia, e di quella di Galeno nella medicina, sì come Antonio Bernardino Telesio di Cosenza, Ambrogio di Lecce, Simon Porzio da Napoli, Giordano Bruno da Nola, Tommaso Campanella da Stilo e G. Cesare Vanini da Taurisano, comunque andassero questi ultimi oltre il segno del vero, per le loro fantasticherie ed incredutità, e però le lor dottrine son ricche di svarioni.
Coloro fra nobili, ch'ebber informato l’animo d’amena letteratura, più chiari furono Ferrante Carafa, Alfonso e Costanza d'Avalos, Girolamo d’Acquaviva, Angelo di Costanzo, Bernardino Rota e Diana Sanseverino.
Morto Filippo II nel 1598, gli successe al trono Filippo III.
Filippo III tenne questo regno dal 1599sino al 1621, nel qual tempo vi governarono sei Viceré, il conte di Lemos, Benavente, Pietro di Castro, il duca d’Osseina, il cardinal Borgia e 'l Cardinal Antonio Zanata.
Sotto il viceregnato di Ferdinando Ruitz di Castro, conte di Lemos, fu la congiura ordita da Tommaso Campanella Domenicano di Stilo in Calabria, il quale con le sue prediche e colle sue opere avendo sedotto circa 300de' suoi frati e quasi 200 di gente semplice ed idiota, disegnava metter in rivoltura il reame con l’aiuto dell’armata turca. Ma il tutto a tempo scopertosi, e messovi buon ordine, le trenta galee turche, ch'eran per approdare in Calabria, presero il largo; due congiurati, legati in mezzo a due galee, furono squarciati vivi; il Campanella, estimato matto, perché da forsennato rispose a tutte le interrogazioni, fu condannato a perpetua prigionia, la qual seppe campare, e riparò in Francia, ove visse sino al 1639; ed altri rei, secondo la gravità de' lor delitti, vennero o tanagliati, 0 strascinati, od arruolati, o torturati.
Il conte di Lemos, in meno di due anni di governo, pubblicò 17 prammatiche, edificò parecchi utili edilizi, e cominciò la fabbrica del palagio, ch’oggi il re abita, opera dell’architetto Fontana.
Il secondo Viceré, il conte di Benavente AlonsoPimentel, ebbe incessantemente a lottare coatta i briganti, che le nostre terre molestavano, e contra i Turchi, comunque il marchese di S.Croce, e con la flotta napolitana mettesse a ruba e a fiamme Durazzo. Vari tumulti e discorrimenti di popolo sturbarono la pubblica tranquillità, or per la carestia, ora per le monete tosatele quando pe’ continui donativi. Benavente seppe a tutto por freno, e stette in piato con Gregorio XIV, per la bolla che accordava il dritto d'asilo non pur alle Chiese, ma ai cimiteri, a' conventi, ed a molti altri luoghi bensì. Questo viceré alle già noverate prammatiche ne aggiunse altre 50. La strada di S. Lucia, il fonte e la già demolita porta di Chiaia, detta Pimentel, i ponti della Cava, di Bovina e di Benevento furon opera di lui.
A Pimentel venne sostituito Pietro Fernandes di Castro, anche conte di Lemos, al quale debbonsi molte belle strade, che stabiliscono comunicazioni tra città sino allora senza relazion diretta. Egli fe’ pur costruire l’edificio fuori porta Costantinopoli, nel medesimo luogo, in cui il Duca d’Ossuna avea fatto la Cavallerizza reale, e vi pose la università degli studi, palagio poscia consagrato al Museo. E’ pare che 'l solo conte di Lemos abbia tra' viceré amato ed alquanto caldeggiato le lettere. Dopo aver mandato a fine quell'edifizio, che costò 150mila ducati, alla quale spesa contribuì tutto il regno, diffinì con prammatica vari regolamenti all'università degli studi relativi, tra quali notasi quello di doversi provvedere le cattedre per disputa e pubblico concorso. A questi giorni ritornarono in onore le accademie, soppresse sotto D. Pietro di Toledo, sì come quella degli Oziosi, nella quale lessero le lor opere il conte di Lemos, il cavalier Marini, G. B, della Porta ed altri. Nulladimanco la giurisprudenza, la filosofia, la medicina, la poesia e la storia non cangiamo faccia; le lingue e Perù dizione furon coltivate solo da religiosi Gesuiti. A quest'epoca, principio del 17°secolo, della Porta e Fabio Colonna furon per le scienze rinomati ingegni; Chioccare!lo e Camillo Pellegrino per gli studi della storia. Al Porta vengon attribuite molte utili e grandi scoperte, e fra le altre l'invenzione del telescopio, nell’anno 1550, e quella della scienza della fisonomia.
A Pietro di Castro successe D. Pietro Girón,duca d'Ossuna, il quale, avaro e crudele, tutto per ismisurata ambizione operava. Egli ordì, d’accordo col marchese di Bedmar, ambasciadore di Spagna in Venezia, e con Toledo, governatore spagnuolo a Milano, la famosa cospirazione contra la repubblica di Venezia, sagacemente collegandosi co’ Turchi. Il comandar suo duro ed imperioso forzò i Napolitani a fare istanza a Filippo III, perché il richiamasse. Allora l'Ossuna, affibbiatosi con un tal Giulio Genoino, eletto del popolo, avvisò di conciliarsi il favor della plebe, per divenir re, anzi che farne le veci. Filippo adombratosene, a sé tostamente richiamolo, punendolo di cotal attentato, che apertamente appalesa i disegni dell’Ossuna, del Bedmar e nel Toledo, ne’ brogli contro a' Veneziani, cioè di cacciar gli Spagnuoli d’Italia, e di appropriarsene qualche principato.
Ossuna cedé il posto al Cardinal Borgia, il quale non sì tosto ebbe le redini del governo che alle mani le trasmise del Cardinale D. Antonio Zapata nel 1620. La penuria di viveri, cagionata da intemperie atmosferiche; le monete d’argento, tosate al quarto del lor valore; molta povera gente, la quale, crudamente travagliata dalla fame, erasi data per viver sua vita a commettere d'ogni generazione sfrenatezze e ad infestare le pubbliche strade, le campagne e gli abitati secondo che meglio loro attalentava; l’assai scarsa intelligenza e 'l nessun vigore nei governante, fecero aggiugnere le calamità del regno allo stremo, come apertamente cel provano le molte leggi emanate per la repressione e punizione de' misfatti. Filippo III nel 1621 di questa vita trapassava.
Degno figlio di Filippo III, Filippo IV lasciò pure la monarchia in balia de' suoi favoriti, e però nel nostro reame
«Nuovi tormenti e nuovi tormentati.»
Preso da vano orgoglio, Filippo lasciossi apporre dal suo ministro Olivares il titolo di Grande; ed allorch’ebbe perduto il Rossiglione, la Catalogna ed il Portogallo, dato gli venne per impresa un fossato con questo motto: Più gli si toglie, più egli ègrande. Non bastando i tesori del Nuovo Mondo alle larghezze e prodigatità di Filippo verso i suoi favoriti, e non serbando misura nello spendere, fu di mestieri prestanziare il regno di Napoli con nuovi balzelli ed avanìe. Più di idoneità mostravan i viceré nell'attignere le sostanze della nazione, più a lungo il posto serbavano. D. Baldassarre Zunica, soprannominato il Conte Duca, il quale tenne le chiavi del cuore di Filippo, spedì a Napoli perViceré D. Antonio Alvares di Toledo, duca d’Alba. La torre della lanterna al molo, porta Alba, il ponte sul Sele, un altro nella città d’Otranto, un terzo sul Garigliano, un nuovo espurgatorio o lazzaretto tatto costruire a Nisida, invece di quello ch'era a Posillipo, e l’acqua che da S.(a)Agata e da Airola fece condurre a Napoli, sono sua opera. Sotto il suo viceregnato, il disagio, la guerra, la peste, i tremuoti, le terribili eruzioni del Vesuvio, tutt'i flagelli in somma, essersi sembravan collegati per desolare il nostro regno. Non pertanto il Viceré punto del mondo non si cooperò a far cessare la carestia e la peste, che desolarono parecchie di queste contrade; e per la parte ch'ebbero le nostre truppe nella guerra della Valtellina, potevasi, sua mercé, una qualche diminuzione delle gravi imposte da Filippo IV implorare. Che anzi, abolendo le zannette, senza che prima avesse loro altra buona moneta surrogato, fu a un pelo che l’intero reame non mettesse in subuglio.
Successore del duca d’Alba fu D. Ferrante Afan de' Rivera, duca d’Alcalá, il quale, per la guerra che 'l re Cattolico sosteneva in Lombardia, videsi astretto di far accolta di novelle truppe napolitane, e mettere nuove imposte sui comuni; togliendo da' banchi il danaro de' particolari, sfacciatamente il fè proprio; non contenne i grassatori, i quali dal famoso Pietro Mancini a frotte menati, queste nostre terre a lor talento infestavano; non si oppose con combattitori di guerra ai Turchi, che, diverse contrade scorrendo, devastavanle; i magistrati impunemente facevano ingiustizie e grandi e grosse ruberie, e però egli ne fu dall'universale grandemente ripreso; da ultimo, le giurisdizioni Ecclesiastica e Civile stavano agramente in piato, a scapito ed onta della morale l’ordine pubblico travagliando, e iViceré non fii da tanto per affienarle.
Nel 1631successe al duca d'Alcalá il conte di Monterey. A questi giorni la Spagna sosteneva guerre in Italia, in Fiandra, in Catalogna ed in Germania, e su tutti questi sanguinosi teatri il nostro poco avventuralo paese circa 40 mila Combattenti inviava. Gravitavano allora su la città di Napoli 15 milioni di ducati di debiti, e 'l viceré raddoppiolli, al continuo gravando i cittadini di prestanze. Il monastero della Maddalena e ’lponte di Chiaia sono i due soli monumenti che ci faccian ammontare di Monterey. Ei tenne il governo di Napoli per cinque anni, e in questo tempo pubblicò 44 leggi o prammatiche.
Il suo successore D. Ramiro Gusman, duca di Medina las Torres, trovato il nostro regno esausto, e munto per si gran tempo, avvisava imporre il testatico, cioè un’imposta su le teste de' sudditi, d'un grano il giorno, per Io spazio di quattro anni, la quale, esclusi i fanciulli e gli ecclesiastici, fessi ragione che avrebbe dato al fisco cinque milioni di scudi. Ma accortosi il Viceré, che per essersi sol divulgata la fama di cotal dazio il popolo era già corrivo a rivolta, abbandononne il disegno. Egli eresse due nuovi tribunali in Abruzzo e in Basilicata; fe’ costruire, e portano il suo nome, una fontana ed una porta della Capitale; non seppe, sì come i suoi predecessori, raffrenare le incursioni de' barbari e le ruberie de' banditi; riscosse più milioni; pubblicò 50prammatiche.
Il viceré Medina die’ luogo nel 1644 all’ammiraglio di Castiglia D. Giovanni Alfonso Enriquez, stato anche Viceré in Sicilia.
Successore di Enriquez fu l’Almirante, il solo tra' Viceré, il quale abbia dato provadi nobil carattere, dando la sua rinunziagione, per non essere d’ingiustizie e di vessazioni strumento. Facendogli il governo di Spagna importuna instanzia di ricoglier denaro per novelle taglie, rispose: «Si degnasse il Re rimuoverlo, affin che, premendo un così prezioso cristallo, non venisse a rompersi tra le sue mani.»Tanto bastò, perché di presente gli venisse sostituito il ducad'Arcos,tra le cui mani effettualmente s’infranse il cristallo, del quale l'Almirante intese favellare. In mendi due anni di viceregnato pubblicò l'Almirante 20 prammatiche.
Il duca d'Arcos, d'ogni sentimento d'umanità svestendosi, mette imposizioni su le civaie, su le frutta, su’ conigli eziandìo. Il popolo indegnasi, si ammutina, manda fuori imprecazioni contra quel governo, il quale, mediante cotal i oppressore, serbar voleva con le armi e col danaio di Napoli e Sicilia i presidi di Toscana a Filippo IV. L’armata francese assediando i presidi, le milizie civiche ricusarono di recarsi in Toscana, perché troppo stava loro a cuore la difesa della propria patria. I Francesi, per fare una diversione, la notte del 12 maggio del 1647vennero nel porto di Napoli con sette legni da guerra. Per siffatto avvenimento l’armata spagnuola prese tanto scompiglio e smarrimento, che il fuoco impigliò la nave dell'Ammiraglio, 400 uomini furon incesi, e 300mila ducati, che vi si serbavano, preda delle fiamme o delle onde. L’armata nemica di presente si partì, danno e vergogna al governo lasciando. Néera a questi giorni Napoli sola dalla penuria travagliata; ché Palermo, dalle tante pressure miseramente stretto, insorse contro al Viceré Los Velez, e comeché il capo Giuseppe d’Alessi fosse stato trucidato, non però di meno continuava la rivoltura, sì che fu forza che ‘lViceré quinci si fuggisse. Imperò molto tempo si volse sino all'arrivo di D. Giovanni d’Austria, il quale l'ordine e la primiera tranquillità ricompose. Non sì tosto venne sedata la rivoluzione in Palermo, che asperati gli animi de' Napolitani per la nuova gabella, che ‘lduca a' Arcos pose su le frutta, volendo un milione, sollevaronsi, da Giulio Genoino, e da Masaniello incitati, il cui vero nome era Tommaso Aniello, pescatore amalfitano. Fu costui il primo a dirigere una diceria al po polo, e la sua eloquenza bruta, veemente e tribunizia incende le teste de' Napolitani, strascica, signoreggia, soggioga ogni spirito. Il Viceré, nel Castel Nuovo rifugiandosi, campa la morte: la baldanzìta bruzzaglia empie a città di tumulto e di sangue. Masaniello in Napoli ebbe maggior impero a comparazione di quello di Trasibolo in Atene e dei Gracchi in Roma; e’ le dittature di Mario e Silla furon meno illimitate. Il Viceré videsiastretto di concedere al popolo quanto inchiedeva. Masaniello, dopo di aver fatto sgozzare un considerabilnumero d'individui, vien trucidato egli stesso dalla gente del Viceré. La marmaglia su la scelta d’un novello capo incerta ondeggiava, quando elesse a capitan generale il principe di Massa Francesco Toraldo, uomo simulalo ed infìnto, e che per esser tale fu dal popolo stesso crudamente messo a morte, ed eletto in sua vece un armaiuolo appellato Gennaro Annese. Mentre sotto questo atroce capo la città era da ruberie, uccisioni ed incendii miseramente travagliata, giunse in Napoli Don Giovanni d’Austria, figliuolo naturale di Filippo IV, e ‘lduca d'Arcos si partì dal regno, lasciandovi prammatiche, esecrala memoria di se, confusione e disordine orrendo.
Sotto il governo dell'arciduca d’Austria, stando continuamente in cagnesco gli Spagnuoli ed i Napolitani, orribili zuffe insorsero infra di loro, le quali empiron la città di misfatti e terrore. A quest'epoca, l’Europa, l'Asia e l’Africa eran travagliate dalle rivolture politiche: gl'inglesi spiccavan la testa dal busto del lor sovrano, Carlo I; i Francesi contra Luigi XIV si sollevavano; i Turchi strozzavano il lor Sultano Ibrahim; gli Algerini, il lor Dey; gli abitanti del Mogol mettevan in soqquadro l'Indostan con le guerre civili; i Cinesi al giogo de' Tartari piegavano il collo; e Napoli era piena di tumulto e di sangue. Il popolo, anelando di sottrarsi al governo di Spagna, chiamò da Roma Enrico di Lorena, duca di Guisa, e ‘l proclamò duca della repubblica napolitana, come discendente, per linea femminina, dai lor re angioini. Giunto il Duca in Napoli, il popolo coniò la sua moneta, ed ebbesi due principi a un tempo. Ma il cardinal Mazzarini non attenne le promesse di soccorso che fatte aveva al duca di Guisa, e veggondosi questi tradito da quelli stessi, che invitato ve l'aveano, fuggissi per gli Appuzzi. Al duca Giovanni era succeduto il conte d'Ognatte D. Innico Velez de' Guevara,perché Filippo dell'arciduca sospettava. Il conte d’Ognatte arrivò quando alle fortunose onde della sedizione era succeduta la calma, perché Napoli era omai di risse e di tumulti stanca. Il 16 maggio del 1648 fu giorno di perdono ad ogni delitto degli agitatori, e di obblio de' lor tracorsi fatti. Ma non appena racquistossi pace, che la simulata moderazione e ‘lViceré volse in basso, facendo da prima appiccar per la gola Gennaro Annese, e poscia gli altri fautori della ribellione. Ma gli eccessi di crudeltà dell'Ognatte presero l’animo di Filippo, e però fu nel 1653 in Ispagna richiamato, lasciando a Napoli la memoria di 50prammatiche, pubblicate ne’ cinque anni del suo governo.
La corte di Madrid diegli per successore il conte di Castrillo D. Garzia d’Avellana ed Haro. Sotto la sua amministrazione il duca di Guisa fece un secondo tentativo su Napoli; ma avendo trovato una forte opposizione nella nobiltà e nel popolo, ritornossene in Francia, armato di sdegno e di dispetto.
Nel 1657 atroce e cruda pestilenza si diffuse per Napoli, che respirava appena dal flagello delle guerre civili. Alcuni soldati spagnuoli, venuti sopra nave sardegnuola, ve la introdussero. Non vi era allora strada, che ingombra non fosse di morti e moribondi: da marzo sino ad agosto del 167 morì la massima parte degli abitanti. Nécotal moria si rimase nella sola città di Napoli, ma disertò pur anche il regno, e non furon esenti di cotanta sventura se non le province di Otranto e della Calabria ulteriore, le città di Gaeta, Paola e Belvedere. Se questo pestifero male al tempo di Lautrec durò quasi due anni e uccise 60 mila persone, nel 1657 in sei mesi ne distrusse circa 400mila.
Il viceré in mezzo a tante tremende sciagure mostrò grande presenza di spirito, e con molta prudenza provvide a' bisogni dello stato. Egli occupavasi a dileguar le tracce di quel flagello, quando venne chiamato in Ispagna. Ei seppe rincacciare i banditi, che in frotta da' circonvicini luoghi appensatamente venivano a molestar la città: represse i duellanti, che a que’ giorni eran divenuti intemperati: pe’ tanti sofferti mali, la tristezza avea preso i Napolitani, ed egli allegroni con le feste fatte per la nascila delprincipe Carlo, figliuolo di Filippo IV. Nel 1664 lasciando bencomposte le bisogne del regno, ed ardentissimo desiderio di sé, di Napoli si partì.
Al conte di Castrillo venne sostituito il conte di Pegnaranda, il quale, durante il tempo della sua amministrazione mai non si ristette di reprimere i ladroni, i quali commettevano d'ogni generazione delitti, securi di trovar poscia nelle chiese e nei conventi sacri asili. Egli spedì per l’impresa di Portogallo 87 legni da guerra e circa 4 mila uomini armati, oltre la gente marineresca.
Al conte di Pegnaranda fu sostituito Don Pasquale Cardinal d’Aragona. In quest’anno venne al mondo Gian Vincenzo Gravina, il quale co’ nobilissimi suoi dettati alla giurisprudenza giovò non meno che alle umane lettere, e potè tanto da rifare di giudizio e di gusto Italia tutta. Il Cardinal d'Aragona imitò, in riguardo agli scherani, Sisto Quinto: essi furon incessantemente perseguitati, e, presi, dati di presente al supplizio. Sotto il suo governo non ridersi più in Napoli né girovaghi né paltoni.
I mercatanti fraudolentemente falliti furon sottoposti a pena di morte, e dichiarati fuorgiudicatise fra quattro giorni non comparivano, e coloro pur anche che occultavano i beni de' mercanti medesimi. Ei venne prestamente richiamato in Ispagna nel 1665 per formar parte del consiglio di reggenza istituito alla morte di Filippo IV, il quale lasciò Carlo suo figliuolo erede della monarchia in età di quattro anni.
Non fia discaro al lettore il sapere che nel 1670 schiuse in Napoli gli occhi alla luce Giovan Battista Vico, addomandato il Vairone della moderna Italia.
AlCardinal d’Aragona successe nel viceregnato Don Pietro, suo fratello. Sotto il costui governo, gli abitanti di questo paese mai non rifinarono di mandar fuori trambascianti grida, i diritti reclamando dell'umanità e della giustizia, pei tanti banditi che desolavan le contrade, e per gli orrendi delitti, che la città insozzavano: fu loro inflitta la taccia di sediziosi e rubelli, e i più truci rigori contro ad essi si adoperarono. Non però di meno, durante la sua amministrazione si compié la numerazione de' fuochi, vantaggio, che a non poche vessazioni sottrasse i comuni; fortificò il monte Echio con un castello capace di 6 mila soldati; ingrandì l’arsenale, a piè della Reggia, facendovi allogare all'ingresso del medesimo una statua colossale, formata d’un busto' scolpito secondo l'arte e 'l gustodi quel tempo, e da un’antica testa di Giove Termale, oggi conservata nel museo.
In questo 17(0)secolo la giurisprudenza continuava ancora ad insegnarsi nelle scuole con iscolastici modi, senza erudizione e senza filosofia: imperò nessuno scrittore in diritto, degno di rinomanza. Ma, pe’ molti baroni ch'eran allora nel regno, e per le grandi possessioni che ci avevano isovrani di Polonia, di Savoia, di Toscana, di Modena, di Parma, ec, salì in grande onoranza e dignità l’Avvocazione, ed in essa grandemente fiorirono Antonio e Giulio,Caracciolo, Giovanni Camillo Cacace, Ottavio Vitagliano, Camillo de' Medici, Bartolomeo di Franco, Giuseppe di Rosa e Francesco d'Andrea, del quale ci fa orrevol ricordanza il Redi. Al declinar poi del secolo furono in fiore ed eccellenza Emmanuello Rodrigo Navarro, Giulio Capone, Giandomenico Coscia, Giovanbattista Cacace, professori di giurisprudenza. Nelle scienze naturali si elevarono a grande onore e dignità M. Aurelio Sceverino, Tommaso Cornelio, e Camillo Colonna.
A’ Carmelitani Scalzi di Castiglia, a' fratelli della Carità del B. Giovanni di Dio, Portoghese, alla Congregazione di S. Filippo Neri, Fiorentino, ai servi di Maria, a' Camaldolesi, ai Cappuccini, ai Domenicani di S. Severo e della Sanità, ch'ebbesi il nostro regno sotto Filippo II, vi si aggiunsero sotto Carlo II questi altri ordini religiosi: i pii operarifondati da Carlo Carafa, i Bernabiti ovvero i Cherici Regolari di S. Paolo, le religiose della Visitazione di S. Francesco di Sales ed i riformati di S. Bernardo.
A questi giorni, Marcello Marciano e Francesco d’Andrea, cittadini napolitani, pubblicarono due scritture, che fruttaron loro gloria immortale: il primo scrisse sul Baliato del Regno di Napoli,per la minore età di re Carlo II; il secondo su la Successione al Ducato di Brabante; per le pretensioni della regina di Francia, nata principessa di Portogallo.
Mentre avevasi in Napoli le redini del governo Pietro d'Aragona, Luigi del Hoio, viceré di Sicilia, v'incettava i grani, e dava opera di menarne difetto anziché di prevenirlo, e perciò incorse una rivoltare popolare in Messina. In questo mentre fu sostituito a Pietro d’Aragona D. Federico di Toledo, nipote di D. Pietro. A D, Federigo successe tostamente il marchese d’Astergo D. Antonio Alvarez, il quale, per cattarsi la benevolenza del suo signore ed assecondare la passione di lui di ridurre Messina alla signoria spagnuola, esaurì Napoli d'uomini e di danaro.
La città di Messina offre allora le sue chiavi a Luigi XIV. Questo principe, avido di conquiste, accetta la profferta, ed invia alla volta di Sicilia una flotta, che entra sin nel porto di Messina. Luigi riguardava la conquista di tutta Sicilia come una conseguenza naturale della possessione di Messina; punto non ammontandosi dell’odio nazionale contro a' Francesi e del famoso Vespro Siciliano. Nessuna delle città dell’isola inalberar volle il vessillo di Francia. E però sarebbe stato prudente di rinunziare all'intrapresa; ma l'orgoglio parlando più imperiosamente che la prudenza all'anima del monarca francese, tigner fece del sangue de' suoi suggelli le acque del Faro. Duquesne e Ruyter fecervi giornata, memorabile per orrenda strage a ambe le parti. Alla fin fine, il gabinetto di Versaglia stanco dell'eccessive ed infruttuose spese per cotal guerra, richiamò a Tolone la flotta francese, la quale abbandonò Messina.
Se pianse la Francia, non ne rise il reame di Napoli, che spese 7 milioni, e le migliori sue forze consumò. Finita quell'impresa, fu costituita la giunta degli Inconfidenti, che rigorosamente operò contra coloro, che la confidenza del governo non meritavano.
Nel tempo della spedizione de' Francesi contro alla Sicilia, al marchese d'Asterga, destituito, successe nel viceregnato il marchese di Los Velez, il quale, facendogli il governo spagnuolo gran ressa di levar danaro, vendé gli uffizi pubblici, mezzo infallibile per rendere immorale uno Stato; imperò la degradazione della società videsi aggiunta all'apogeo: si alterarono le spezie; insorsero per tutto il regno falsatori di monete. Esercitò il Los Velez per sette anni il viceregnato, e pubblicò 28 prammatiche. Fia pur bello il ricordare che sotto il governo di questo viceré, e propriamente nel 1076 nacque in Ischitella di Capitanata Pietro Giannone, gravissimo storico, cui tutta Italia onora.
Il Marchese del Carpio, D. Gaspare de' Raro, successore di Los Velez, fu obbligato, per rimediare a tanto gravi abusi, di far coniare novella moneta, di cui assai malagevol cosa era il poter contraffare il tipo. Per questo modo ei ristabilì l’ordine e la fiducia nel commercio. Felici eziandìo riuscirono i suoi sforzi nel reprimere i banditi, da' quali purgò quasi l'intero regno. Da ultimo questo viceré, penetrato da tutte le obbligazioni del suo ministero, non si occupò se non di far regnare le leggi e di migliorare i costumi. 'Per ria ventura la morte venne a limitare il corso delle sue nobili fatiche.
Al marchese del Carpio successe il conte di S. Stefano, il quale seguitò devotamente le tracce del suo predecessore.
Ma quando gli uomini la risparmiavano al regno, la natura non già. In sul principio del viceregnato di S. Stefano, parve che a terra entrasse in convulsione; le sue violente scosse svelsero un gran numero di edilizi dalle lor basi, quelli pur anche che sostenuto aveano lo sforzo degli edaci secoli. Il bel portico dell'antico tempio di Castore e Polluce, modello di architettura di ordine corintio, smottò. Il viceré con grande sapienza provvide a' mali cagionati da cotanta sventura: ei governò per sei anni questo regno, mantenendovi sempre la pace e la pubblica tranquillità.
S. Stefano cedette il suo governo al duca di Medina Coeli, Questo magnifico signore, senza turbare l’ordine delle finanze, decorò Napoli di sontuosi edifizi; fe’ costruire parecchie fontane, donde emergono là freschezza e la salubrità. Protettore insigne delle belle arti e della letteratura, e’ volle che il suo palagio fosse il luogo d’intrattenimento de' sapienti e degli artisti più rinomali.
Mentre Medina Coeli occupavasi in Napoli del piacevole per meglio pervenire all'utile re Carlo II, giovane ancora, era quasi all'orlo della tomba, e però attendeva al testamento della sua immensa monarchia: allora due partiti di contrari sentimenti si formarono nella sua corte.
La regina, il confessore e 'l grande inquisitore piativano a pro dell'Austria; il Cardinal Porto-Carrero patrocinava la causa de' Borboni. Carlo II legò la totalità della sua monarchia a Ferdinando Giuseppe, principe di Baviera, suo più propinquo erede dopo l’imperadore, e Luigi XIV. La regina pervenne a far lacerare quel testamento, In quel mentre l’Inghilterra, l'Olanda e la Savoia formarono il famoso strumento di divisione degli Stati di Carlo II. Costui, mosso a sdegno perché senza sua saputa smembravasi la sua monarchia, fece un secondo testamento, col quale diede per la seconda volta la sua successione al principe di Baviera, quando questo legatario universale di subito cessò di vivere in Bruxelles. La morie di questo principe fece preponderar la bilancia in favore della casa di Borbone. Carlo li, dopo aver consultalo il papa Innocenzo XII, instituí unico erede di tutte le sue corone de' due emisferi il nipote di Luigi XIV, secondogenito del Delfino di Francia, Filippo, duca d'Angiò, quindi di questo nome tra' re di Spagna per le ragioni della regina Maria Teresa d’Austria, sua madre, e sorella primogenita del re Carlo.
Mandato a fine questo terzo testamento, il re, dell'età di 39anni, languì per un altro mese, e poscia discese nella tomba.
Trapassato di questo mondo Carlo II, si accese guerra tra l'imperator di Germania Leopoldo e gli altri principi d'Europa per la successione di Spagna. Filippo tenne le due Sicilie per soli sette anni. I primi anni del suo regnare furono sturbati dalla congiura ordita da D. Carlo di Sangro, da Don Giovanni Carafa e D. Giacomo Gambacorta, principe di macchia. Puniti i rubelli, e non essendo più nel regno sturbo alcuno, e difetto per rivolture, Filippo recossi a Napoli, e vi dimorò due mesi: accordò intera amnistia ad un gran numero di prigionieri, parecchi de' quali avevan avuto parte nell’ultima cospirazione, distribuì con discernimento favori d’ogni specie, e provò che, se obliar sapeva le offese, pur anche de' servigi ben si ammentava; diminuì le imposizioni; fece quitanza di due milioni di arretrali, e confermò tutt'i privilegi della città. I Napolitani tocchi da gratitudine e riconoscenza, deliberarono di eriger al re una statua equestre, e botarongli un presente di 300,000ducati. Filippo, dopo il rivolgimento di due lune, partì di Napoli per tradursi a' suoi stati di Lombardia e raggiugner l'esercito Francese comandato dal Vendome, che già battagliavasi col principe Eugenio, generale degl'imperiali. Prima di prender commiato da' Napolitani, Filippo nominò a viceré il duca a Ascalona, in luogo di Medina Coeli, testé morto.
Giunto nel Milanese, Filippo avendo saputo che il Portogallo avea dato passaggio alle truppe della grande alleanza, fu obbligato di far tostamente ritorno in Ispagna, per difenderla contra quella inopinata invasione; ma la deserzione di parecchie truppe, e la ribellione d’una parte de' suoi sudditi, gli tolgono più province di quel regno. Gl’Inglesi s’impadroniscono di Gibilterra, che han sempre poscia serbata; l'arciduca Carlo, gridato re di Spagna in Barcellona, ove stabilisce la sua corte, sommette le province di Aragona e di Valenza; infine, la metà della monarchia cade in potere della confederazione.
Gl'imperiali, gonfi, pe’ lor felici successi nel nord dell'Italia, apparecchiaronsi all'invasione del mezzogiorno, e trovando il nostro regno sfornito di soldati di lor pareggio, agevolmente l'occuparono, e 'l conte Dawn nel 1708 divenne viceré di Carlo II. Il viceré rinserrasi in Gaeta; poco di poi questa fortezza capitola, e 'l duca d’Ascalona vien fatto prigioniero. Il trattato di divisione fatto dalla grande alleanza tribuiva all'arciduca Carlo il regno delle Due Sicilie: questo principe, dopo di averlo posseduto per quattr’anni, fu chiamato per la morte di Giuseppe, suo fratello primogenito, a cigner la corona imperiale. Conchiuso il trattato d’Utrecht, Filippo rinunziò ad ogni diritto sul trono di Francia, serbando sol la Spagna e le Indie; la Sicilia fu data al Duca di Savoia Vittorio Amedeo; il ducato di Milano e Napoli all'arciduca, già divenuto imperatore sotto il nome di Carlo VI. Trovavasi così scisso il reame delle due Sicilie. Ma le decisioni di quel trattato non furon punto osservate, perché il Cardinal Alberoni, grande di Spagna e primo ministro, nel 1718 fece occupare la Sardegna e la Sicilia dalle armi di FilippoV. Allora la Francia, l’Inghilterra, l'Olanda e l’imperadore insieme collegaronsi, e mosser guerra alla Spagna, e nel 1720, pel trattato della quadruplice alleanza e per la flotta inglese nel Mediterraneo comandata dall'ammiraglio Byng, il duca di Savoia ebbe la Sardegna in luogo della Sicilia, e questa fu al regno di Napoli riunita sotto lo scettro dell'imperator Carlo VI.
Pel trattato d’Utrecht la successione di Parma e Piacenza era stata guarentita al re di Spagna, nel caso in cui il sovrano di questo ducato senza erede maschio si morisse. L’imperatore lusingavasi di far dare in nulla cotal diplomatica disposizione: ché era a lui discàro, che gli Spagnuoli, alleati de' Francesi, nel centro dell'Italia s’introducessero.
Tutto a un tratto l’ordinata concordia cd armonia della Francia con la Spagna vedesi scomposta per l’inopinato congedo della infante di Spagna, fidanzata a Luigi XV, il quale sposa la figlia di Stanislao. Filippo, indegnatosi di tal modo di procedere, segna parecchi trattati di alleanza con l’imperatore; si fanno reciproche concessioni, e, mediante una delle stipulazioni, Don Carlo, figliò di Filippo I e di Elisabetta Farnese, primo nato, ma di nozze seconde, ha l’eventuale investitura di Parma e Piacenza. Di lì a poco viene a morte Antonio Farnese senza posterità, e lascia per testamento la sua successione a D. Carlo, il quale, sapendo ben cogliere il destro, recasi tostamente a Parma, alla testa di seimila Spagnuoli.
In questo la morte del re di Polonia dà subito una novella direzione alla politica general e: l’imperadore sforzasi di rimuovere Stanislao da un trono, al quale il chiamava la maggior parte della nazione polacca. Luigi XV, mosso a sdegno per raffronto fatto a suo suocero, strigne alleanza con la Spagna e la Sardegna contro l’Imperatore. Appena questi dubitò di guerra con la Francia, richiamò da Napoli le sue truppe. Allora D. Carlo e 'l Duca di Montemar, traversando la Romagna, e tra S. Germano e Presenzano girando pel fianco dell'esercito tedesco, comandato dal general e Trawn, il 10 maggio del 1734, con regal pompa, tra straordinarie esultanze del popolo, per la porta Capuana fece il suo ingresso in Città. Le baldorie e le luminarie grandi durarono tutta la notte. Poscia disfatto il resto degl’Imperiali a Bitonto, e ridotte in breve Capua e Gaeta, la Sicilia del pari che Napoli cadde tostamente sotto la signoria di questoprincipe Borbone, il quale ne fermò la conquista, perché Filippo I rinunziò a questo regno, e Luigi XV guarendone a Carlo la possessione. Il trattato di Vienna confermò Don Carlo nel possesso del suo conquisto; l’Imperatore desisté da ogni pretensione sul reame di Napoli e di Sicilia, e ricevé in cambio i ducati, di Parma e Piacenza. Così questo bel paese cessò di esser provincia di lontane Monarchie, sì come lo era stato per dugento e quattro anni della Spagna, e per ventisette dell’Austria.
Alle undici legislazioni, che di folta tenebria ammantavano la napolitana giurisprudenza, Carlo aggiunse la dodicesima (3), più adatta invero a' lumi di quel secolo ed a' bisogni del popolo, ma imperfetta e incompiuta quanto le precedenti: e però la giurisprudenza civile non mutò: le leggi criminalivariarono: il procedimento civile di poco migliorò: il supremo consiglio d’Italia fu abolito: il Collegio Collaterale cangiò in consiglio di stato: gli altri magistrati rimasero come innanzi: la procedura criminale di nulla migliorò. Carlo provvide pur bene al commercio per paci e trattati con lontani regni. Fermò concordia con l'impero ottomano; quindi cessarono le nemicizie co’ Barbareschi.
Fece nuovi patti di commercio e navigazione con la Svezia, la Danimarca, la Olanda: e gli antichi rinnovò con la Spagna, la Francia, la Inghilterra. Nominò tanti consoli quante erano le vie del nostro commercio, raccogliendo in una legge le regole del consolato, cioè podestà e diritto verso i nazionali, obblighi e ragioni verso gli esteri. Formò un tribunale di commercio, di otto giudici (tre magistrati, tre baroni peritosi nelle materie commerciali, due commercianti) e di un presidente, eletto tra i primi della nobiltà; il qual tribunale rivedeva in appello le sentenze dei consoli, decideva le gravi quistioni di commercio, e perché inappellabile, e fa detto supremo. Creò altro magistrato col nome di Deputazione di Sanità, il quale, con leggi tanto savie quanto la sapienza di que’ tempi il comportava, vegliava a' contagi, a' lazzaretti, a' pericoli della salute pubblica. Carlo fondò pur anche un collegio addomandato Nautico, e per esso fu migliorala e prescritta la costruzione delle navi, formato il corpo de' piloti, istrutti gli artefici ed i marini. Abolì le imposte arbitrarie, che diffinì e distribuì con certa eguaglianza: richiamò coloro, ch'erano stati esiliati in sul principio del conquisto: tolse dalla circolazione le antiche, e novelle monete coniò, col motto: Fausto coronationis anno:rimise al popolo più di due milioni di ducati, dovuti al fisco per arretrati: sistemò l'economia pubblica: diede a' vettigali saggi provvedimenti: represse restorsioni e le angarie de' baroni e de' funzionari pubblici: rese inviolabili le proprietà; e formò un catasto general e, in cui furono descritti non solo i beni d’ogni cittadino conla rispettiva rendita, ma quelli ancora de' baroni e degli ecclesiastici, insino allora esenti da pesi.
Infra le descritte cure, il nuovo re delle due Sicilie, nel 1788 strinse coniugal nodo con Maria Amalia Walbourg, figliuola di Federico Augusto re di Polonia, e nel medesimo anno, presentata la Ghinea, ricevé la pontificia investitura. Incontratasi la giovinetta sposa col re, a Portella, sotto magnifico padiglione, fra pompe a lei nuove, pervennero in città il 22 di giugno, e differirono la cerimonia dell'ingresso al 2 di luglio, nel qual giorno Carlo istituì l’ordine cavalleresco di San Gennaro, che ha per insegna la croce, terminata nelle punte da gigli, e in mezzo di essa la imagine del Santo in abito vescovile, col libro del vangelo, con le ampolle del martirio e la divisa, In sanguine foedus:pende la croce da una fascia di color rosso.
Mentre il nostro regno a somma ventura estimavasi, perché l'aure respirava della pace e della tranquillità, sorse novella guerra. Nel 1740, morto l’imperatore Carlo VI, si ridestarono le pretensioni di Filippo I agli stati di Milano, Parma e Piacenza. La regina di Ungheria Maria Teresa, figlia del morto imperatore, volle prender possesso degli stati della casa d'Austria: perciò contro di lei si collegarono i principi; e l'infante di Spagna. Don Filippo guerreggiava nel Milanese contra gli eserciti savoiardi e tedeschi. Il re di Napoli aveva inviato 12 mila Napolitani, retti dal duca di Castropignano, che si erano uniti agli eserciti spagnuoli sotto il sommo impero del Montemar. In quella entrò nel golfo di Napoli navilio inglese, capitanato dal commodoro Martin, il quale, senza fare i consueti saluti a porto amico, spedì un ambasciatore, il quale fece ad un ministro di Carlo la seguente diceria imperiosamente laconica: «La Gran Brettagna, confederata dell'Austria, nemica della Spagna, propone al governo delle Sicilie neutralità nelle guerre d’Italia: se il re l'accetta, richiami le truppe napolitane dall’esercito di Montemar: se la rifiuta, si apparecchi a pronta guerra, però che l’armata, bordeggianate nel golfo, al primo segno bombarderà la città: due ore si danno al re per iscegliere». Ciò detto, per l’esatta misura del tempo, cavò di tasca l’oriuolo, e disse alteramente l’ora.
Erano i forti senza artiglieria; la città senza difese di trincee o di presidio; il porto senza vascelli; la darsena e la reggia non munite; il popolo da timore e da costernazione compreso. Mancando il tempo alle opere ed al consiglio, Carlo accettò la neutralità. Poco dopo Lobkowitz, generale austriaco, entrò negli Apruzzi con oste alemanna, e savoiarda, che racimolata aveva in fretta nella Lombardia. Allora il re uscì a campo contra il nemico, e nel 1744, a un pelo che non fosse fatto prigione in Velletri, riuscì a rincacciare gliimperiali con grande loro strage.
Rientrato Carlo nel suo regno dopo i fatti di Velletri, e terminata la guerra pel trattato di Aix-la-Chapelle, intese a sottrarre la nazione alla dependenza dalle industrie straniere, introducendo molti lavori di seta, lana, cotone, lino, cristalli e porcellana, una fonderia di cannoni ed una fabbrica di armi bianche e da fuoco: rabberciò molte navi, altre fece a nuovo. Con vasto e magnifico disegno dell'architetto cavaliere Fuga, imprese ad edificare l’Albergo de' Poveri, per riunirvi tutt’i bisognosi del regno, camparli dalla miseria, e farli al tempo stesso ammaestrare in diversi rami di arti e mestieri. Edificò per rifugio degl’invalidi uno spedale a Chiaia: accordò continui soccorsi agli espositi nella Nunziata, ed agl’infermi negli ospedali degl’Incurabili e di S. Giacomo: fondò chiese in Napoli, Taranto ed Oria: sono pur opere di Carlo, il Molo; la strada Marinella; quella di Mergellina; l'edilizio dell’Immacolata; la villa di Portici, disegnata ed eseguita dall'architetto Canovari; la villa di Capodimonte, del cui palagio diede l’idea l’architetto Medrano; il più ampio teatro di Europa, San Carlo, cominciato nel marzo, compito nell’ottobre del 1787, disegnato dal Medrano, eseguito da un tal Angelo Carasale; fece costruire parecchie strade ed un bel ponte sul Volturno presso a Venafro; migliorò l'edilizio de' regii Studi.
Giace 14 miglia lungi dalla città di Napoli un’antica terra sopra un monte, addomandataCasa-Erta, fondata da' Longobardi, la quale serba, tra vasti rottami, pochi edilizi: poco di lì discosto, in sul piano, ad imitazione de' grandiosi castelli di Versailles e Santo Ildefonso, Carlo fece alzare il più magnifico palagio di Europa. Con disegno di Luigi Vanvitelli, napoletano, primo allora in Italia, e per altre opere chiarissimo, fu il palagio fondato sopra base di piedi parigini quadrati; si alzò di 106 piedi; colonne magnifiche, archi massicci, statue colossali, marmi intagliati adornano le facce dell’edilizio; in cima del quale, sopra il timpano del frontispizio, giganteggia la statua di Carlo, equestre, in bronzo. L’interno di quella reggia racchiude marmi preziosi, statue e dipinti de' più famosi scultori e pittori di quell’età, legni intagliati, lavorìi di stucco, cristalli, vernici, pavimenti di marmo, di mosaico, e di altre rare pietre o terre. A dir breve, quel solo edilizio rappresenta l’ingegno di tutte le arti del suo tempo. Piazze o parchi lo circondano per tre lati; innanzi al quarto si stende giardino vastissimo, magnifico per obelischi, statue, scale di marmo, fontane copiosissime e figurate. Un fiume cadente a precipizio, quindi a scaglioni, e infine dilatato in lago, e disperso in ruscelli, si vede scendere dal contraposto monte. L’acqua, raccolta in fiume, viene dal monte Taburno per aquidotto di 27 miglia, traversando le montagne Tifatine e tre larghe valli, così che scorre per canali cavati nel seno delle rocce, o sospesa sopra saldi ed altissimi ponti. Il ponte nella valle di Maddaloni, lungo 1618 piedi, sopra pilastri grossi 32 piedi, per tre ordini arcati s’innalza piedi 178; opera degna della grandezza e dell'ardimento di Roma. Monumenti di Carlo son pure il braccio nuovo al palazzo reale; i quartieri di cavalleria in Napoli, Aversa, Nola e Nocera; le strade rasente il cratere di Napoli, e la rifazione di quelle del regno; le miniere scavate nelle Calabrie; tre porti scavati; ec.
Ma ciò che più concorse alla gloria di Carlo III, settimo di tal nome in Napoli, si fu lo scavo di Ercolano, e quello di Pompei, città sepolte per ben diciassettte secoli dalle lave del vicino Vesuvio, a' tempi di Tito Vespasiano, l’anno 79 dell’Era di Cristo. Nel 1738 risorse dalla tomba a novella vita Ercolano; nel 1750 Pompei; epoche, in cui avvennero le due più spaventevoli eruzioni sotto quel Monarca, il quale con magnanime provvidenze soccorse le travagliate genti.
Né fu casuale lo scoprimento; ma mercé le cure dell'eccelso Carlo, le statue, le pitture, le iscrizioni, i bassi rilievi, i papiri, gli utensili, ec, produssero, riapparendo alla luce, una subitanearivoluzione nelle nostre arti, con isvelarci gli usi, i costumi, in una parola, il vivere degli antichi. A tal uopo venne di presente istituita un'accademia, composta di uomini, di gran fama nelle scienze, nelle lettere e nella filologia, per diciferare le iscrizioni, i bassi rilievi ed i manoscritti delle Antichità di Ercolano. Altre accademie sorsero a' tempi di quel re, e la regia Università degli Studi migliorò per altre cattedre aggiuntevi. Vennero create le accademie di marina, di artiglieria, di disegno e di pittura, e salirono in grande onoranza a questi giorni per dottrina e per opere pubblicate, Celestino Galiani, Cappellan Maggiore e Prefetto de' Regi Studi, il quale fiorì nelle materie filosofiche, matematiche e teologiche; Pietro Giannone nella storia civile del regno di Napoli; Alessio Simmaco Mazzocchi nelle antichità giudaiche, fenicie ed etrusche; Giacomo Martorelli ed Ignazio della Calce nelle lingue orientati; Antonio Genovesi nella metafisica, etica ed economia politica; Giuseppe Palmieri nella scienza militare, politica ed economica; Pasquale Carcani nell’esposizione delle antichità di Stabia, Pompei ed Ercolano; Pietro e Nicola Martino nelle matematiche; Giuseppe Cirillo, Bernardo di Ambrosio e Pasquale Ferrigno nella giurisprudenza, Nicola Cirillo, Francesco Saverio Serao e Michelangelo di Roberto nella medicina; Nicola Capasso, Raimondo di Sangro, principe di San Severo, Troiano Spinelli, duca d’Aquaro, Giovanni Carafa, duca di Noia, Paolo Doria, principe d’Angri, Francesco Spinelli, principe di Scalea, de' Gennaro, duca di Belforte,nella poesia e nell’amena letteratura; il P. della Torre e Gaetano de' Bottis nella fisica e nella scienza della natura; tra maestri di cappella, elevaronsi al primo onore, il Iommelli, il Pergolesi, il Sacchini, il Piccinni; tra scultori, furon commendabili il Sammartino,il Celebrano, il Marabiti; e tra pittori, il Solimena, il Conca il de' Mura; e finalmente tra le donne, Faustina Pignatelli, Giuseppe Barbapiccola, Eleonora Pimentel, e sopra tutte Marjangiola Ardinghelli.
Per savi provvedimenti di Carlo, si confinò, poscia si spense affatto la peste di Messina nel 1745; si escluse per sempre il Santo-Uffizio dal regno delle due Sicilie; fu depresso e snervato l’imperio della baronale tirannide; restrinse in un quartiere della città le meritrici; abolì i giuochi pubblici di carte o dadi; ma introdusse ne’ suoi regni il giuoco del lotto; infine egli creò una milizia forte di 35 mila uomini, e capitanata da' maggiorenti del paese.
Era questo tempo felice al re, e godevano i soggetti suoi regno di pace, allorché venne a rompere le speranze di maggiore felicità la morte di Ferdinando VI, re di Spagna, successore di Filippo V. Trapassato Ferdinando VI senza prole, re Carlo fu chiamato alla corona di quel reame. E però, dopo aver occupato per 25 anni il trono di Napoli, essendo l’Infante Don Filippo, suo primogenito, già in età di 12 anni, infermo di corpo, scemo di mente, inetto a' negozi e per fino a' diletti della vita, disperato di guarigione, Carlo chiamò alla sua successione nella Spagna il secondo nato Carlo Antonio, e nelle Sicilie il terzo, Ferdinando, il quale aveva appena tracorso otto anni di vita, così che il re nel dì 6 di ottobre di quell'anno 1759, accerchiato dalla moglie e da' figliuoli, presenti gli ambasciatori, i ministri, i destinati alla reggenza, gli eletti della città, i primi tra i baroni, fece leggere un atto, con cui regolò la successione, e dichiarò che mai questo regno non potesse ritornare alla corona di Spagna; creò pel governo dello Stato, durante la età minore del giovin re stabilita a 16 anni compiuti, un consiglio di Reggenza, e poscia voltosi al figliuolo Ferdinando, robusto e bello della persona, e facile d’ingegno, lo benedisse, gl’insinuò l’amore ai suggelli, la fede alla religione, la giustizia, la mansuetudine; e snudando la spada, quella stessa che Luigi XIV diede a Filippo V, e questi a Carlo, ponendola in mano del novello re, e dandogli per la prima volta il nome di maestà: Tienla, disse, per difesa della tua religione e de' tuoi soggetti. Segnarono l'alto riferito di sopra, Carlo, poi Ferdinando. Gli stranieri presenti riconobbero il nuovo principe, e quei del regno gli giurarmi fede. Carlo, nominato il precettore del giovane re; raccomandatogli la vita dell'Infante Filippo, che lasciava nella reggia di ¡Napoli; dispensato gradi, onori, doni, per mercede di fedeltà o di servigi, il giorno medesimo, prima che il sole declinasse al suo balzo, con la moglie, due figliuole e quattro Infanti, sopra un naviglio spagnuolo di 16 vascelli da guerra e molte fregate, di Napoli si partiva, lodato benedetto ed accompagnato dà’ voti de' Napolitani, addolorati, ed auguranti felicità al non più loro invidiato Monarca.
Avutosi il trono di Napoli Ferdinando Borbone, nella età, che non compiva gli otto anni, sì come di sopra essi per noi riferito, ne furono reggenti Domenico Cattaneo, principe di San Nicandro, che fu pur aio del re Ferdinando; Michele Reggio, balì di Malta e generale di armata; Giuseppe Pappacoda,principe di Centola; Pietro Bologna, principe di Camporeale; Domenico di Sangro, capitan-generale dell'esercito; Iacopo Milano, principe di Ardore; Lelio Caraffa di Maddaloni, capitano delle guardie; e Bernardo Tanucci, primo ministro (4), che solo era tenuto il senno della reggenza.
Il re, seguendo l’esempio de' suoi antenati, chiese al Pontefice l’investitura del Regno; e, concordata, prestò il dì 4 di febbraio del 1760, in iscritto e con la voce del cardinale Orsini, suo legato, il giuramento di soggezione e di vassallaggio al Sommo Pontefice.
I ministri regii provvidero agli spogli ed a' beni de' trapassati vescovi, abati, benefiziari; le entrate delle sedi vacanti furon addette ad opere di civile utilità. Furono soppressi parecchi conventi; due in Calabria, uno in ‘Basilicata, quattro in Puglia, tre in Abruzzo, ventotto nella Sicilia, per motivi diversi o per esercizio di sovranità. I beni di quei conventi furon assegnati al comune. Le decime ecclesiastiche, prima ristrette, poi contrastate, finalmente abolite. Furono interdetti gli acquisti alle manimorte; dichiarati manimorte i conventi, le chiese, i luoghi pii, le confraternite, i seminari, i collegi. Furono pubblicate nuove leggi, che fissarono l’ordine e la forma di procedura ne’ giudizi, per rendere integra la giustizia, e più esatta l’amministrazione.
Nell’anno 1768, per ¡scarso ricolto di biade, i reggitori mostraronsi solleciti a provvedere l'annona pubblica, e così soccorrere all’estrema penuria, che afflisse nel 1764 l’Italia, ed in ispezialità il regno di Napoli, e seco portò morbi epidemici e grave mortalità.
Erano stati scacciati dal Portogallo i Gesuiti nel 1759, e per decreto del parlamento di Parigi, sotto la data del 6 agosto 1761, fu dichiarata sciolta la lor società nella Francia. Nel dì primo d’aprile del 1767, per ordine di Carlo III, i medesimi vennero pur anche espulsi dalle Spagne. L’esempio del padre fu immediatamente seguitato da Ferdinando IV nel reame di Napoli. La finanza incamerò i beni degli espulsi Gesuiti.
Clemente XIII da santo furore compreso, volle allora far uso de' fulmini del Vaticano; scomunicò da prima il duca di Parma Ferdinando I, nipote di S. M. Cattolica, cugino del re di Napoli, e le pretensioni rinnovò della Santa Sede su quel ducato. Luigi XV, crucciato del pontificio insulto fatto al suo congiunto, s’impadronisce degli stati di Avignone e della contea Venesina; e Tanucci, che agguerrivasi ogni giorno vie più contra la corte di Roma, occupa Benevento e Pontecorvo. Ma questi paesi furon poscia restituiti alla Chiesa sotto il pontificato di Clemente XIV. Negli anni susseguenti furon molto diminuiti i diritti della cancelleria romana; soppresse tutte le contribuzioni, che ogni anno erano da Napoli a Roma inviate pe’ lavori della chiesa di S. Pietro e per la biblioteca del Vaticano. Nel 1772 risvegliò Ferdinando, come erede della casa Farnese, le sue pretensioni sopra i ducati di Castro e Ronciglione. Venne abolito il tribunale della Nunziatura; abolita la Chinea.
Il 12 di gennaio del 1767 uscì di minore età il re Ferdinando, il quale, giunto ormai ad età virile, trattò matrimonio con Maria Giuseppa, arciduchessa d'Austria, figliuola dell'imperatore Francesco I. Stabilite le nozze, cambiati i doni, prefissa la partenza della giovine sposa, e preparate le feste del viaggio, ella infermò, e si morì. Altra principessa, Maria Carolina, sorella della estinta, fu eletta in moglie a Ferdinando, e nell’aprile del 1768 partitasi di Vienna per Napoli, giunse il 12 di maggio a Portella, ove sotto magnifico padiglione tu incontrata dallo sposo.
A questi giorni, le buone leggi di Giuseppe, imperatore, e di Pietro Leopoldo, gran duca di Toscana, fratelli di Carolina, famiglia di Filosofi, e ben degna prole di Maria Teresa, stimolando gli animi allo splendore immortale della gloria, agevolarono al ministro Tanucci e ad altri egregi del tempo l'erto sentiero della civiltà, e resero migliori gli atti legislativi ed amministrativi nel nostro reame. Ferdinando raccolse nell'università degli Studi tutto il senno di quel secolo. I professori ottennero maggiori stipendii, migliori speranze; e tolte le cattedre inutili, se ne posero sette nuove, cioè di eloquenza italiana; di arie critica nella storia del regno; di agricoltura; di architettura; di geodesia; di storia naturale; di meccanica. L’università ebbe stanza nel convento, che fu de' Gesuiti, vastissimo, detto il Salvatore: quivi eran pure le accademie di pittura, di scultura, architettura, le biblioteche Farnesiana e Palatina, i musei Ercolanese e Farnesiano, un museo di storia naturale, un orto botanico, un lavoratorio chimico, un osservatorio astronomico, un teatro anatomico; cose tutte o affatto nuove, o dall’antico. migliorate. E volgendo sempre più il tempo, alle utili instituzioni, l’accademia delle scienze e delle ledere mutò ordini ed immegliossi. Convenivano in tante scuole e accademie i più dotti del regno, i quali illustravano la patria ed il secolo. Pubblicavansi libri pregiatissimi: i principii di una scienza nuova intorno alla natura delle nazioni, ec, e il Principio e fine unico della universal legge divina, eterna, immutabile, di Giambattista Vico; la Scienza della legislazione di Gaetano Filangieri; i Saggi politici di Mario Pagano.
Le scienze e le lettere, caldeggiate dal trono, eran tutte rivolte a crescere la prosperità dello Stato: s’inviarono in Germania, in Francia ed in Inghilterra valenti giovani per apprendere le scienze mineralogiche e metallurgiche; altri alunni delle belle arti furono spediti in Roma per immegliarvisi; furono inviati per apparare l'arte navale presso le grandi potenze marittime molti giovani ufiziali, i quali si distinsero nelle acque di Algieri e di Gibilterra; si restaurarono molti porti lungo le coste; si restituì all'antico splendore quello di Brindisi; si rinforzò la marina di nuovi vascelli, fregate, corvette, galeotte, barche cannoniere e bombardiere; si diede corso alle acque del Tanagro, arrestato da' monti, che cingono il Vallo di Diano, e circa 50mila moggia di terreno furon restituite alla coltura, e sottrassero alla miseria migliaia di abitanti.
Per buone leggi si popolarono le isole deserte di Ustica e Ventotene, poscia di Tremiti e Lampedusa. Un camposanto fu murato nel luogo prima detto Pichiodi, poi Santa Maria del Pianto, di tante fosse quante sono i giorni dell'anno. L’architetto cavalier Fuga diede il disegno del cimitero, che per danari provveduti dalla pietà fu compiuto in un anno. Utilissima delle istituzioni fu il regio archivio; di che aveva avuto pensiero il primo Ferdinando di Aragona, sin dal 1477; ebbero pur Carlo I nel 1533; Filippo III nel 1609; ma i vari casi de' principi, o le contrarietà di ventura ne impedirono l'effetto sino a Ferdinando Borbone, che nel 1786 compié l’opera. Il re abolì parecchi arrendamenti; intese a scemare le giurisdizioni feudali; fu meglio provvisto a' giudizi ed ai magistrati; furono i matrimoni sapientemente regolali da novelle leggi; buoni i provvedimenti pel commercio; fu instituita la Borsa di commercio; gli antichi trattati di navigazione confermati, e novelli con altre genti ne furono stretti; nel 1773 fondò la colonia di S. Leucio, cui diè leggi particolari; nel 1774 ordinò che i magistrati spiegassero nelle sentenze le ragioni di esse; nel 1782 istituì il consiglio delle finanze, composte da un Filangieri, da un Palmieri, da un Galiani, da un Cantalupo; stabilì scuole, licei, collegi.
Nel 1777 fu sostituito al Tanucci, che governò Io stato con potenza di principe 43 anni, il marchese di Sambuca di Sicilia, alato ambasciatore del re a Vienna. In uno de' con sessi il principe di Caramanico propose di chiamare ammiraglio del navilio napolitano il cavaliere Giovanni Acton inglese, nato a Briancon, in Francia, agli stipendi!, a quei giorni «della Toscana, coronato di fresco serto di gloria nella impresa di Algeri, con fama di esperto in arti marineresche e guerriere, imprendente, operoso. Il marchese della Sambuca secondò la proposta, e per le informazioni che avute ne avea dal Gran Duca di Toscana, fece chiamare il giovine inglese. Venuto Acton in Napoli nel 1779, fu direttore del ministero di Marina, instituí a tal oggetto un collegio, e fe’ costruire dieci grandi legni da guerra, anzi che molti legni piccoli, atti a guerreggiare i barbareschi. Indi a poco fu pur ministro della guerra; poscia, nominalo mare. sciallo di campo, prese da quel giorno titolo di general e, e serbollo sino a morte; poi tenente general e, capitan general e; decorato di tutti gli ordini cavallereschi del regno e di parecchi stranieri, elevato al grado di lord Der servigi resi da ministro di Napoli alla Inghilterra. Ei prese pur a formare l’esercito, e però con novella legge impose alle comunità buon numero di fanti, ed alla baronia cavalieri e cavalli.
Gli altri ministri, colleghi di Acton e di Sambuca, furono Caracciolo de' Marco, Corradini, Castelcicala, Simonetti. Mercé l’ingegno e la fermezza del viceré marchese Caracciolo e le cure e la nobil generosità dei principe di Caramanico, le province della Sicilia furono saviamente governate, e Palermo ebbe forse il primo osservatorio in tutta Europa, illustrato dall’immortale P. Piazzi, chiamatovi dal caramanico. Re Ferdinando spedi in quell'isola vari uffiziali napolitani per formarvi una milizia.
Caldeggiate dall'alto del trono, e per 40anni di pace, rifiorivano nel nostro regno a quei giorni le scienze e le arti. Si distinsero nelle scienze naturali il Cirillo, il Cotugno, il Troia, il Petagna, il Cavolini, il Sementini, il Serao, il Gagliardi. Fiorirono nella matematica e nella fisica il Fasano,il de' Bernardis, il della Torra, il Caravelli, il Fergola, Il Campolongo, il Pianelli, il Carulli, lo Scotti, il Signorelli, il Danieli, il d’Aula, il Pelliccia nella filologia. e nelle belle lettere. Il Cirillo, il Cavallaro, il Maffei nella giurisprudenza. Il Cimmarosa, il Paesello, il Guglielmi nella musica.
L’ordine de' tempi ci conduce all'anno 1783, quando tremuoto violentissimo, il 5 difebbraio, mercoledì, quasi un’ora dopo il mezzogiorno, scompose le feraci e ricche contrade delle Calabrie e di Messina, rovesciando città, terre e villaggi, sprofondando terreni, squarciando monti, slogando colline, dilatando onde marine, deviando fiumi, elevando acque, formando laghi, sovvertendo possessioni, distruggendo seminati, schiantando oliveti, vigneti, boschi, sotterrando più di 100 mila bestiami. Si sconvolse il terreno in quella parte della Calabria, ch'è confinata da' fiumi Gallico e Metramo, da' monti Ieio, Sagra, Caulone, e dal lido tra que’ fiumi del mar Tirreno. Darò il tremuoto cento secondi; sentito sino ad Otranto, Palermo, Lipari e alle altre isole Eolie; poco nella Puglia e in Terra di Lavoro; nella città di Napoli e negli Abruzzi, nulla. Sorgevano nella Piana 109 città e villaggi, stanze di 166 mila abitatori: e in meno di due minuti tutte quelle moli subissarono con la morte di 32 mila uomini. Immantinente delegò il Re alti personaggi a prestar larghi soccorsi agli abitanti; e taluni accademici ad investigare gli effetti di tanti sconvolgimenti della natura, per l'illustrazione della geografia fisica e della storia naturale di quelle regioni.
Ne’ primi giorni del 1784 venne in Napoli, sotto nome privato, l’imperatore Giuseppe II. Agli esempi di lui e di Leopoldo, gran duca della Toscana, il re e la regina di Napoli furon presi dalla vaghezza di correre l’Italia: e il dì 30di aprile dell’anno 1785 imbarcarono sopra vascello riccamente ornato, che, seguito da altre dodici navi da guerra, volse a Livorno. Di là passarono a Pisa e a Firenze; quinci a Milano, indi a Torino e Genova, dove s’imbarcarono sa la flotta medesima, accresciuta di legni inglesi, olandesi e di Malta, i quali, insieme a' legni del re (23 navi da guerra d’ogni grandezza) lo convogliarono per onore sino al porto di Napoli.
A’ 14 di dicembre dell'anno 1778 di questa vita trapassava Carlo III. Indi a pochi giorni morirono di vajuolo nella reggia di Napoli gl'Infanti Gennaro di nove anni, e Carlo, di sei mesi. Rimpianta dall'universale, in quell'anno medesimo, fu la fine di Gaetano Filangieri, in età di anni 25. Alzaronsi a questi tempi i due teatri de! Fondo e di S. Ferdinando, e l'edificio detto i Granili al ponte della Maddalena.
Nel 1789 due figli del re, Maria Teresa e Luigia Amalia, furon maritate a due arciduchi austriaci, Francesco e Ferdinando; e l’arciduchessa Maria Clementina, di quella casa, al principe Francesco, erede del trono di Napoli. Ina intervenuta la morte acerba di Giuseppe II, nel febbraio del 1790, e succedutogli Leopoldo, granduca, il primo figlio di costui, Francesco, restò a Vico na, speranza dell'Impero e Ferdinando, secondo nato, successe al gran duca in Toscana. In quell’anno medesimo i sovrani di Napoli con le principesse recaronsi a Vienna, dove si celebrarono i due sponsali e is fermò il terzo, aspettando ne’ due fidanzati la maturità degli anni. Era da contento altamente compresa la corte di Napoli per aver avvinto con tre nodi una sola amicizia con la più possente casa di Europa, ma giunta era l'epoca, segnata nel ferreo libro dell'Eterno, nella quale tristissimi avvenimenti sturbar doveano del nostro reame la pace.
Tosto che dimenavansi i Titani, sotto le ingenti moli che li premeano, la Tessaglia intera, sì come favoleggiano i poeti, traballar si sentiva: non altramente, i più piccioli movimenti della Francia producono forti scosse in tutta Europa. Appalesossi tal vero nella rivoluzione, la quale pose sopra tutto in trambusto la bella Italia, la quale, simigliante ad una vittima coronata di fiori, offerta in olocausto al genio delle conquiste, in povero stato a se preparava interminabili sventure per desideriie novelle speranze. La natura, a difesa del bel paese, indarno frapponea baluardi insino a cieli elevati; ché le armate patriottiche, da' Kellermann e da' Massena incuorate, inerpicansi su quei discoscesi gioghi da eterna neve coronati, ed inalberano su le attonite cime delle Alpi il vessillo a tre colori. I fiumi infantati da quelle alpestri ed orride rocce, nelle lor onde insaguinate i cavalli, i cavalieri e le armature alla rinfusa voltolando, seco portan nelle pianure ed in mezzo alle ridenti città d’Italia orribile spavento ed orrore.
Il Piemonte, paventando forte che 'l vicino incendio non impigliasse i suoi Stati, propose a' principi a Italia lega italiana, che impedisse la entrata delle armi francesi e delle dottrine rivoluzionarie. Venezia e gli Stati imperiali di Lombardia non vi aderirono. La corte di Napoli stava in dibattito, e andava a rilento nel deliberarvisi. La finanza, stretta già da dieci anni. punto del mondo non potea reggere a' bisogni della guerra. L’esercito napolitano di 24 mila fanti e cavalieri, metà stranieri, e regnicoli, era mal composto, peggio disciplinato; gli arsenali, le armerie non bastanti; l’amministrazione pessima; le fortezze cadenti. Il navilio era ordinato: tre vascelli, più fregate, altri legni minori, insieme trenta; diretto da buoni ufiziali, e da marini destri ed arditi.
Tali erano le cose nel nostro regno, quando Luigi XVI avendo già perduto sopra palco infame la vita, e la Francia essendo ordinata a repubblica, il sovrano di Napoli negava di riconoscerla nel cittadino Makau, venuto ambasciatore. Di lì a poco giunse nel golfo di Napoli La Touche-Tréville, comandante grosso navilio francese, 4 vascelli da guerra, i quali a vele e bandiere spiegate si appressarono sino a mezzo tiro dal castello dell'Ovo, in linea di battaglia ed ancorati.
Poscia inviò messo, che con sua breve diceria chiese ragione della rifiutata accoglienza dell’ambasciatore, proponendone la emenda o la guerra. Il re unì tostamente consiglio, e si deliberò per la pace. E di presente fu manifestato per detti e lettere accettar ministro Makau, spedire ambasciatore a Parigi, impromettere neutralità nella confederazione formata tra l’Imperatore, il Papa ed i re di Spagna e di Sardegna. Salpò nel giorno stesso la flotta francese.
Le milizie assoldate montavano nel nostro regno a trentasei migliaia, ed il navilio a centodue legni di varia grandezza, portanti 618 cannoni e 8600 marinari di ciurma. Non riposavano le armerie e gli arsenali, e continuavano le nuove leve, agevolate dalla fame, poco men dura in quell’anno 1793 dell'altra quando l'anno 1764. volgeva. Pieno di forze il regno, volle il re fermare alleanza con la Inghilterra, già nemica della Francia; e a dì 20 di luglio di quell'anno 1793 fu pattovito, che il re di Napoli aggiugnerebbe nel Mediterraneo quattro vascelli, quattro fregate, quattro legni minori e sei mila uomini di milizia. La lega con là Inghilterra, non appena fermata, fu, posta in atto. A’ 24 di agosto dello stesso anno Tolone, con arsenali, magazzini pieni, venti vascelli ancorati nel porto, ricchezze ed uomini, si diede per tradigione alla flotta inglese, che bordeggiava nella gran rada; e subito vi accorsero pur anche Spagnuoli, Sardi e Napolitani con gli uomini e le navi promesse nell’alleanza. Fu intimato dal governo di Napoli al cittadino Makau a partire, perché ambasciatore di potentato nemico, e mosse sdegnato verso Francia. Intanto le milizie napolitane, sotto l’impero del maresciallo Fortiguerri e de' general i de' Gami» e Pignatelli, i quali obbedivano al capitan supremo in quella guerra O-Hara spagnuolo, con incredibil valore combatterono, ed ebber ventura di miglior fama sul monte Faraone, e nel difendere il forte Malbousquette. Ma per gli assalti dati da Napo leone Buonaparte, che allora facea le prime armi da tenente-colonnello, espugnato Tolone nella notte del 18 al 19 dicembre, l’ammiraglio H00d inglese die’ segno di partenza, e le schiere di terra cominciarono la fuga. Il2 febbraio del 1794 comparvero finalmente nel golfo di Napoli le aspettate vele, e seppesi che mancavano 200Napoletani, morti o feriti, 400prigioni e tutti i cavalli; molti viveri, le tende, gli arredi, le bandiere. La Corsica domandato a noi navi, armi e soldati, tutto si ebbe; e, sebbene infelice l’impresa, furon laudate le geste del vascello e delle due fregate napolitane, che, sotto gli ordini dell'ammiraglio Hotam, inun con gli altri legni inglesi, vicino al capo di Noli nel mare di Savona, vennero a naval giornata con una flotta francese destinata contro alla Corsica. Tre reggimenti di cavalleria,2000 cavalli mossero per Lombardia sotto il principe di Cutò. Le milizie assoldate montavano allora a 42migliaia; le civili a maggior numero; le navi cannoniere o bombardiere a 140; i legni maggiori a 40;le provvisioni infinite. Per sovvenire a tante spese, il governo domandò per decreto soccorsi o doni, che, per essere a pro della patria, chiamò patriottici. Altro decreto impose taglia del dieci per cento (perciò appellata decima) su le entrate prediali; escludendo i possessi del demanio regio, del fisco e de' feudi: le terre della Chiesa vi andarono soggette. Con altri decreti furon venduti in pro del fisco molti beni alla stessa pertinenti. La città di Napoli andò gravata di 103 mila ducati al mese; la baronia di 120 mila. Alle male venture, guerra, fame, povertà, si aggiunse nella notte del 12 giugno del 1794 forte tremuoto, che scosse la città, e rombo cupo e grave, che pareva indizio d’imminente eruzione del Vesuvio. Volsero tre dì: la notte del quarto, 15 a 16 di giugno, fu vista smisurata colonna di fuoco alzarsi in allo, aprirsi, e per proprio peso cadere, rotolare su la pendice, e seppellire Torre del Greco, città fondata in origine a piè del monte, dove gli ultimi pendenti si confondono con la marina. Rimasero scoverte l'sì come segnali della sventura, le punte di pochi edilizi.
Nel 1796, per le battaglie di Montenotte, Millesimo, Dego, Mandavi, vinte dal general Buonaparte, fu spezzata la confederazione tra l’Austria e 'l Piemonte; fatto l’armistizio, indi la pace col re di Sardegna; espugnato Milano; parecchie città debellate: prodigi del giovin guerriero, che appena area valico il 5° lustro, sventure del generale Beaulieu, cui obbedivano con gli Alemanni quattro reggimenti di cavalleria napoletana. Il quale Beaulieu, di colpo assalito e rotto sul Mincio, durò fatica a ritirar l’esercito nelle storredel Tirolo; e Quella stessa infelice ventura de' fuggitivi gli avrebber negato i vincitori, se i cavalieri napolitani, allora nelle prime armi, non avessero combattuto con valor degno di agguerriti squadroni; soldati ed ufiziali onoratamente morirono; il general Cutò cadde ferito nel campo, e fu prigioniero; il Moliterno, capitano di centuria, colpito di scimitarra nel viso, rimase orbato d'un occhio. Al grido delle nostre armi, Buonaparte offerì armistizio al re di Napoli, il quale accettò l’offerta, e, per patti stipulati in Brescia, rivocò di Lombardia i suoi reggimenti, e dell'armata anglo-sicula i suoi vascelli.
Il maresciallo Wurmser intanto con novello esercito sceso in Italia, il re di Napoli spedì soldati alla frontiera, occupò una città (Pontecorvo) degli stati del Papa. Cacault, ministro in Roma, recossi a Napoli, e domandò al governo il motivo dell’occupazione di Pontecorvo:gli fu risposto ch'era stato occupato con l’assentimento del sovrano del luogo. Cacault di cotal risposta avvisò il governo di Francia, e ‘lgenerale d’Italia. Inquesto, rotte da Buonaparte per tre battaglie le divise squadre imperiali comandate da Wunnser, tu spedito ambasciatore a Buonaparte e al Direttorio il principe di Belmonte, il quale in Parigi gli 11 di ottobre di quell'anno ottenne che l'armistizio di Brescia divenisse pace durevole.
Nel 1797 partivi di Vienna alla volta di Trieste l’arciduchessa Clementina,dove navilio napolitano l’attendeva per menarla sposa al principe Francesco; lo sposo incontrolla a Manfredonia; le religioni del matrimonio si fecero in Foggia. Celebrate in giugno le nozze, tornarono in Napoli nel seguente luglio, tra feste convenevoli ad erede della corona. Il re diede gradi, titoli, e fregi di onore per azioni di guerra o di pace, e no minò il generale Acton capitan-general e.
Così stavano le cose nel nostro regno, quando le schiere di Buonaparte, composte di Francesi, e d’Italiani delle nuove repubbliche, guidate da Bertier movevano il 25 di gennaio del 1798 da Ancona contra Roma, per comando venuto da Parigi, a punizione degli assassini del general Duphot, chiaro in guerra, e delle minacce fatte all'ambasciatore Giuseppe Buonaparte,fratello al vincitore d’Italia; fu pur rammentata la morte di Bass-Ville. Ai 15 di febbraio, Berthier entrando in Roma pomposamente per armi, suoni e plausi, decretò ristabilita la repubblica di Bruto, Cimbro e Cassio dai discendenti di Brenno, che davano libertà nel Campidoglio ai discendenti di Camillo. Fu imposto al Pontefice Pio VI che tra due giorni partisse: ubbidì, e uscì di Roma per la volta di Toscana. Alla dipartita di Pio VI fuggirono da Roma le antiche autorità, cardinali, prelati, i più chiari personaggi, venutane gran parte in Napoli. Il generale Balait venne messaggiero di Berthier per chiedere al nostro governo l'esilio degli emigrati, il congedo dell'ambasciatore inglese, la espulsione del general e Acton, il passaggio pel territorio napolitano a' presidii di Benevento e Pontecorvo. E soggiungeva che il re, oggi feudatario della repubblica romana, perché già della Chiesa, offrisse ogni anno il solito tributo, e pagasse in quel punto 140mila ducati, debiti alla camera di Roma. Il re, da giusta e grande ira compreso, rispose all’ambasciatore che ne tratterebbero, per ministri, i due governi; e, fatto occupare con buone squadre le città di Pontecorvo e Benevento, afforzò le linee della frontiera.
In quello venne riferito da Sicilia che la Rotta già di Venezia, ora francese, sciolta da Corfù, correva il mare di Siracusa; e, giorni appresso, che ne porti dell'isola erano approdati innumerevoli legni francesi, da guerra, da trasporto, carichi di soldati e cavalli; poscia partiti. Il governo di Napoli temendo, a cosiffatte notizie, per la Sicilia, fece ristaurare le antiche fortezze, alzar nuove batterie di costa, meglio guardare i porti, presidiare l'isola di 20 mila soldati e 40migliaia di milizie civili. Strinse al tempo stesso nuove alleanze con l’Austria, la Russia, la Inghilterra, la Porta, Di lì a breve tempo udissi arrivato in Egitto il navilio di Francia, e sbarcati con Buonaparte 40mila soldati, che prendevano il cammino di Alessandria. Pochi dì appresso giunse nuova della battaglia navale di Aboukir; per la quale l’ammiraglio inglese Nelson, arditamente manovrando, avea prese e bruciate le navi di Francia, ancorate, dopo il disbarcar dell'esercito, in quella rada, stoltamente secure dagli assalti. Poco di poi videsi far vela verso noi armata inglese, la stessa di Aboukir, accresciuta de' legni predati. Il re e la regina colmarono Nelson di ricchi donativi e di allegre laudi; l'ambasciatore Hamilton gli riferì grazie da parte dell’Inghilterra. Intanto le navi trionfanti e le vinte ancorarono nel porto.
Napoli nel settembre del 98 avea fatta nuova leva di 40mila coscritti, i quali, uniti agli antichi soldati, empievano l'esercito di 75 mila combattenti. A tante squadre mancando il duce, domandossene uno all’Austria, la quale c’inviò il generale Mack. Il 22 novembre comparve del Sovrano un manifesto, il quale rammentava le rivolture della Francia, i mutamenti politici dell'Italia, la vicinanza de' Francesi al suo regno, l’occupazione di Malta, feudo de' re di Sicilia, la fuga del Pontefice, i pericoli della religione: e però egli accignevasi a guidare un esercito negli Stati romani, a fine di restituire il legittimo monarca a quel popolo, il capo alla Santa Selle cristiana, e la quiete alle genti del proprio regno. Il re, e seco il general Mack, con 30mila soldati marciarono sopra Roma, ove giunsero il 29 di novembre. Il re, fattovi magnifico ingresso, andò ad abitare il suo palazzo Farnese. I Francesi, lasciato picciol presidio in CastelSantangelo, quindi si partirono, e secoloro i ministri e gli amanti di repubblica. Ma poscia, per gravi errori di Mack, inabile alle vaste combinazioni strategiche, fu mestieri che ‘lre facesse ritorno a' suoi Stati.
Intanto il generale Championnet, poi che ebbe ristabilito in Roma il governo repubblicano. ordinò l’esercito e gli assalti contra il reame di Napoli. Egli imperava a 25 mila combattitori di guerra, spartiti in due corpi: uno di otto mila, cui il generale Duhesme guidava negli Abruzzi; l’altro di 17 migliaia, comandato da Rey e Macdonald per la bassa frontiera del Garigliano e del Liri; Championnet procedeva con la legione Macdonald. Ed essendo stato miracolo di ventura la viltade e fellonia dei comandanti delle cedute fortezze di Civitella del Tronto, Pescara e Gaeta, fortificate dalla natura e dall'arte, cotal i cessioni, a guisa di tradimento, diedero a' Francesi bella speranza di egual successo per la fortezza di Capua, comeché in essa, dietro il Fiume Volturno, il generale Mack riordinasse l'esercito, e vasto campo trincerato su la fronte verso Roma, guardato da sei mila soldati, accrescesse le 'munizioni e le difese. Il generale Macdonald con tre colonne assaltò il campo; ma gli artiglieri napolitani da un fortino del campo fulminarono con sei cannoni, a mitraglia la colonna di cavalleria, procedente prima e superba: caddero estinti non pochi della nemica oste, la quale, tornando all’assalto, tentò passare il fiume a Caiazzo, custodito da un reggimento di cavalleria sotto il duca di Roccaromana. Respinti e perdenti nello intero giorno, mutato consiglio, deliberarono espugnar la fortezza pel lento cammino dell’assedio. La brevità dell’opera non comporta ch'io qui descriva le atroci uccisioni e le orrende molestie sofferte da' Francesi in quella guerra nazionale sterminatrice: i soli nomi di Fra' Diavolo e di Mammone ci fan ghiacchiare di orrore. In mezzo a successi di genti avveniticce, sorse, fra 'l popolo, per nostra rea ventura, voce di tradimento, di congiura; esiziale menzogna che divise il popolo, infievolì le resistenze all'oste nemica, ed ingenerò quelle tremende discordie civili e calamità, che cotanto travagliarono questo nostro poco avventurato regno. Cadute le discipline, dispregiato il comando, le squadre ordinate si scioglievano, la plebe signoreggiava. Deputasi intanto al Re l'ambasciadore inglese Hamilton, il quale fa osservargli, che la dignità dello scettro e la conservazione dell'augusta sua persona imperiosamente esigevano che riparasse in Palermo. Il si è 'l no tenzonavano nel cuore del re, quando un fatto atroceagevolò la partenza del monarca. II corriere di gabinetto, Antonio Ferreri, fido e caro al re, mandato con regio foglio all'ammiraglio Nelson, e trattenuto dal popolo su la marina, come spia de' Francesi, tra mille voci muoiano i giacobini, ferito di molti colpi, fu strascicato semivivo sotto la reggia, e la bruzzaglia con baldanzose grida chiesero che il re vedesse nel supplizio del traditore la fedeltà del suo popolo. Ferdinando, a cotal vista, compreso da orrore, fermò in animo la partenza, e la notte del 21 dicembre sul maggior vascello inglese imbarcatosi egli ed i regali da questo porto scioglievano alla volta di Palermo. Nel tempo stesso un editto, affisso alle mura della città, facea noto, che 'l re traducevasi nella Sicilia; lasciava vicario il capitan general e Francesco Pignatelli; divisava di far tosto ritorno a Napoli con potentissimi aiuti d'armi.
Gli eletti della città, sospettando nel Vicario malvagie intenzioni, chiamati da' Sedili altri Eletti, cavalieri o popolani, levarono milizia urbana, molta e fedele. Il 28 del dicembre s’incendiarono per comando del Vicario nel lido di Posillipo 120 barche bombardiere o cannoniere; e giorni appresso (miserando spettacolo!) il conte di Turo, tedesco a' servizi di Napoli, da sopra fregata portoghese comandò l’incendio di due vascelli napolitani e tre fregate ancorati nel golfo. I Borboniani intanto fieramente combattevano con l'esercito francese. Ma il Vicario, che già di sfuggiasco negoziava con Championnet per la pace, gli chiese almeno lunga tregua; e convenuti nel villaggio di Sparanisi per le parti di Napoli il duca del Gesso e 'l principe di Migliano, per la Francia il generale Arcambal, concordarono il giorno 12 del 1799: «Tregua per due mesi; la fortezza di Capua, munita ed armata com’ella era, nel di seguente a' Francesi; la linea dei campi francesi trale foci de' regi Lagni e dell'Ofanto; dietro la riva diritta del primo fiume, la sinistra dell'altro; ed occupando le città di Acerra, Arienzo, Arpaia, Benevento, Ariano; le milizie napolitane ancora stanziate ne’ paesi della Romagna, richiamarsi; farsi Napoli debitrice di due milioni e mezzo di ducati, pagabili, metà il giorno 10, metà il 23 di quel mese.»Fermata la tregua, i Francesi il dì vegnente occuparono la fortezza di Capua. I commissari francesi nella sera del 14 di gennaio vennero in Napoli per ricevere il pattovito danaro: la plebe, vedutili, si alzò a tumulto. I Francesi, per pratica del Vicario, uscirono di città, e la guardia urbana contenne le ribalderie. La dimane parecchi soldati cedettero le armi a' popolani, i quali, assalendo i quartieri delle guardie urbane, le disarmarono, e sciolsero quella benefica milizia. Inanimiti da queste prime fortune corsero alle navi arrivate nella notte con sei mila soldati, retti dal general Naselli: i soldati diedero le armi agli assalitori e seco loro si congiunsero. Quelle torme, divenute possenti per numero ed armi, addomandarono al Vicario le castella della città, e se l’ebbero: le carceri, le galere furono aperte; molte migliaia di tristissimi, sferrati, si unirono alla plebe. Allora dalla grandezza dei casi alzato l’animo de' magistrati del municipio, mandarono al Vicario una deputazione, l'orator della quale, principe di Piedimonte, così favellò: «La Città vi dice per a nostro mezzo rinunziare a' poteri del vicariato; cederli a lei; rendere il danaro dello Stato, ch'è presso di voi; e prescrivere per editto ubbidienza piena e sola alla Città». Il Vicario disse: consulterebbe; e nella vegnente notte, senza rispondere alle intimazioni, senza lasciare provvedimenti di governo, se ne fuggì. Recossi in Sicilia, e fu chiuso in fortezza.
Erano 40 mila i popolani, tutti armati, chi d'archibugio, chi di batocchio, e chi di màtteri o d’altra arma, ed eran saliti in gran burbanza, perché i castelli erano in lor mani. Chiamando traditori e giacobini i general i dell'esercito, quella gentame nominò suoi duci i colonnelli Moliterno e Roccaromana, i quali accettarono a ritroso. La municipalità assentì alla scelta; fe’ plauso l’atterrita città. Torma di plebe andava in cerca di Mack, il quale ebbe salvezza nel campo francese. Presentatosi vestito da generale Tedesco a Championnet in Caserta, n’ebbe civili accoglienze e la permissione di libero viaggio per Alamagna; ma trattenuto in Milano, andò prigione a Pavia. Mack avea deposto l’impero dell'esercito, quasi sciolto, nel general Salandra, il quale fu poco di poi ferito da gente della plebe, e seco lui il generale Parisi, mentre andavan uniti ordinando i campi. Il senato municipale e 'l principe di Moliterno partironsi le cure dello Stato. Moliterno comandò per editto la quiete pubblica, e la restituzione delle armi a' depositi, per distribuirle con miglior senno a' difensori della patria e della fede. Il senato per decreti provvide alla finanza, alla, giustizia, a tutti gli uffici del governo. Entrambi minacciavano ai trasgressori pena, ratta, terribile, lo sdegno pubblico; e però eransi erette nelle piazze della città le forche dei supplizio. Furono eletti ventiquattro ambasciatori della Città, caldissimo il petto di amore di patria, ed inviati a Championnet per esporgli le mutate forme di reggimento, e la comune utilità nel comporre pace, che fosse gloriosa e giovevole alla Francia; non abbietta, non dannosa pel popolo napolitano. I ventiquattro legati eran guidati dal generale del popolo, Moliterno. Parlarono confusamente i popolani messi; ma da ultimo il Moliterno gigante d’animo e di persona, amante di patria, in verde e baliosa giovinezza, diresse al general francese breve, ma ben composta diceria, scema delle veneri dello stile e degli accattati lenocini, ma carca di arditi magnanimi altissimi sensi. Championnet, udito l’aringa del Moliterno, rispose: «Voi parlate all’esercito francese, come vincitore favellerebbe a' vinti. La tregua e rotta, perché voi mancaste a' patti. Noi dimani procederemo contro alla città»: disse, ed accomiatolli. Giravano intanto per la città parecchi Napoletani, i quali pieni di mal talento, andavano tra la plebe suscitando gli antichi affetti, e disseminando sospetti sopra Moliterno, Roccaromana, gli eletti, i nobili. E però rideste le sopite furie, i popolani, la vegnente notte, atterrate le forche, sconosciuta l’autorità di Roccaromana e Moliterno, crearon capi due del popolo, addomandati uno il Paggio, piccolo mercatante di farina; l’altro il Pazzo, cognome datogli per giovanili sfrenatezze, servo di vinaio: entrambi audaci ed adusati del mal fare. Anzi la dimane del 15 di gennaio del 1799, numerose torme plebee fecer convegna di assaltare i Francesi; altre sguernivano delle artiglierie i castelli e gli arsenali; ed altre, più corrive ad efferatezze, ivan correndo la città, mettendola a ruba ed a sangue. Comandava il castello Santelmo Nicolò Caracciolo, grato al popolo, perché fratello di Roccaromana; e guardavan quella fortezza 130lazzari de' più fidi, guidati da Luigi Brandi, lazzaro ancor esso e di feroci sensi. Per congiura de' repubblicani il castello fu conquista della parte francese. Il generale Championnet, avuto contezza di quei successi, adunò l’esercito, 22 mila soldati, e 'l dispose in quattro colonne; delle quali una si dirigeva sotto il generale Dufresse verso Capodimonte; la seconda sotto il generale Duhesme verso la porta. detta Capuana; la terza sotto il general Kellermann muoveva pel bastione del Carmine; la quarta sotto Broussier stava in riserva. Orribili mischie han luogo, nelle quali la più intrepida e fiera stizza pugna con la disciplina e col freddo valore. Fulminati dall’artiglieria francese i lazzaroni riempion tosto i loro voti, ed offrono alle nemiche palle messi sempre abbattute e rinascenti sempre: questo combattimento durò tre dì. Il capitano francese dispose per il giorno 23 il generale assalto: i lazzari combattevano senza consiglio, senza impero, a ventura, disperatamente; ogni casa era diventata una fortezza, un campo di battaglia ogni strada; ma quando da Santelmo partì colpo di cannone, ed uccise alcuno della plebe nella piazza dei mercato, si accertarono del tradimento, e, vedendovi sventolare la bandiera francese, tutti sanguinanti si ritirarono ne’ lor nascondigli. Moliterno e Roccaromana eransi in quel forte rifuggiti. La peggior bruzzaglia, corsa allo spoglio della reggia, e da due cannonate di Santelmo sbaragliata, lasciarono a mezzo le lor ruberie. Procedevano intanto i Francesi: il general e Busca prese di assalto il bastione del Carmine; il Castelnuovosi arrese al generale Kellerman; il generale Dufresse, passato da Capodimonte a Santelmo, scendeva nella città apparecchiato a battaglia; il generale Championnet recossi al campo di Duhesme nel largo delle Pigne, e, pubblicando un editto pieno di saggezza e di energia, pose fine all'effervescenza degli spiriti, e fece magnifico ingresso in città tra festive apparenze, infra le quali rimovevasi l'occhio e 'l pensiero dall’ingombrio de' corpi morti d(f)ambo le parti; mille almeno Francesi, tre mila o più Napolitani.
Championnet bandì un editto, col quale ordinò lo stato di Napoli a repubblica indipendente. Un drappello di cittadini, inteso a comporre il novello statuto, regger doveva il governo con libere forme. Erano 20gl’individui, eletti dal general francese a comitati, i quali uniti si appellavano governo provvisorio, diviso in sei parti. I comitati prendevano il nome dagli uffizi, cioè Centrate, dello Interno, della Guerra, della Finanza della Giustizia, e Polizia, e della Legislazione. Con ceremonia da baccanti più che da cittadini alzaronsi nelle piazze di Napoli gli alberi di libertà, emblemi allora di reggimento repubblicano. Fu pensier primo del governo spedire alla repubblica francese ambasciatori di amicizia e di alleanza; e furon prescelti a quegli uffici il Principe d’Angri e 'l principe Moliterno. Un decreto divise lo stato in dipartimenti e cantoni, abolendo la divisione per province, e mutando i nomi per altri antichi di onorate memorie. Ma tanti errori in cotal partizione si commisero che fu mestieri restarsi all’antico. Buona legge sciolse i fidecommessi; altra dichiarò abolita la feudalità, distrutte le giurisdizioni baronali, congedati gli armigeri, vietati i servigi personali, rimesse le decime, le prestazioni, tutti ì pagamenti col nome di diritti. Tra mezzo a' disordini e alla povertà della finanza comparve comandamento del generale Championnet, il quale, donando alla città le somme pattovite per la tregua, imponeva taglia di guerra di due milioni e mezzo di ducati e di altri quindici milioni su le province, pagabili nel prefisso tempo di due mesi. Cinque del governo andarono deputati del disconforto pubblico al generale Championnet, parlanti sensi di carità e di giustizia. Il general e, ripetendo l’empio motto di Brenno lor barbaro antenato, rispose loro: «Sventure a' vinti!»Sin da quell'istante sorsero in lui sospetti, e ne’ repubblicani disamore ai Francesi. Il general e, nel vegnente giorno, confermando le taglie, ordinò il disarmamento del popolo. Solamente si permise la composizione delle guardie civiche, prescrivendo, che fossero scelti a quell’onore i più chiari e più fidi patriotti. Fu composto un tribunale addimandato Censorio, per ricevere le accuse, esaminarle, spingerle in giudizio e provvedere ai lamenti degli accusatori, ed alla tutela degli accusati. Comparve pure a questi giorni la costituzione della repubblica napolitana, proposta nel comitato legislativo dal rappresentante Mario Pagano: era la costituzione francese del 1793, con poche variazioni. Il governo provvisorio badava ad esaminare lo statuto costituzionale, mentre assai gran male soprastava, la penuria. In questo venne ad accrescere le mestizie presenti un certo Faypoult, commissario di Francia. Egli, con decreto della sua repubblica, riconfermava, per ragioni di conquista, le imposte di guerra; e diceva patrimonio della Francia i beni della corona di Napoli, le regge, i boschi delle cacce, le doti degli ordini di Malta e Costantiniano, i beni de' monasteri, e feudi allodiali, i banchi, la fabbrica della porcellana, le anticaglie nascoste ancora nel seno di Pompei e di Ercolano. Championnet, indegnatosi d'una rapacità sì audacemente iniqua, futravagliato dalla universale scontentezza, impedì a Faypoult l'esecuzione del decreto, e ne fece per editto pubblica la nullità. Faypoult, discacciato, si partì. Poco di poi, per decreto del Direttorio, Championnet fu messo in arresto e tradotto in Francia innanzi un consiglio di guerra per essere giudicalo. Partitosi Championnet, ebbe il comando dell’esercito il generale Macdonald, e venne a lui compagno quel medesimo Faypoult, baldanzoso protervo inflessibile, il quale a prestanziar tornò i poco avventurosi Napolitani, vago di vendicarsi della lor gioia per la sua cacciata, e dell'amore che portavano al suo nemico. Sorsero scontentezze tra' fautori de' Francesi per l’intemperanza de’ capi. Negli Abruzzi si ribrandirono le armi borboniane, Teramo ed alcune altre terre tornarono alla devozione dell’antico re; i Francesi guardavano i forti di Pescara, Aquila, Civitella. Gli altri paesi delle tre provincie, divise per genio, stavano per la signoria o perla libertà. Terra di Lavoro stava sotto imperio di Fra' Diavolo, il cui nome principale era Michele Pezza, d’Itri, e sotto Gaetano Mammone, di Sora, mugnaio, i quali, per la loro efferatezza, comparar si potevano alle più crude belve. Numerosa torma di Borboniani guerreggiava nella Provincia di Salerno, rifrenando la gallica licenza. La stretta di Campestrino, le terre di Cilento, i monti di Lagonegro, e ‘l cammino delle Calabrie, erano ingombrati da Borboniani. La città di Capaccio e le terre di Sicignano, Castelluccio, Polla; Sala, eretto il vessillo del Re, minacciavano i paesi repubblicani. Guerra sanguinosa travagliava la Basilicata, ove, parte devoti alla repubblica; parte alla signoria, ciecamente infra di loro combattevano. Sommoveano le Puglie contro alla repubblica quattro Corsi, diCesare, Boccheciampe, Corbara e Colonna. Trani, Andria, Martina, città grandi e forti, altre minori e la più parte delle Terre Pugliesi ubbidivano alRe.
I Borboniani calabresi spedirono al Re nella vicina Sicilia fogli e legati, pregandolo che impietosisse de' suor fedeli, esposti alle vendette de' nemici esteriori ed interni, mandasse milizie ed anni assaie personaggi di autorità e leggi e bandì per aiutare Io zelo delle genti già mosse. Tenutosi consiglio in Palermo, fu deciso secondare que’ moti; e poiché tra' consiglieri mostravasi ardente, per la guerra il cardinale FabrizioRuffo, il Re l’investì d’illimitato potere, col titolo di viceré. Questi giunto nel febbraio di quell’anno 1799 al lido di Calabria, segnatamente ne’ feudi di sua casa, accontatosi prima coi suoi servi ed armigeri, decorso della croce e de' segni delle sue dignità, sbarcò in Bagnava, dove fu accolta riverentemente dal clero e da' notabili, e la plebe con fervente plauso il rimeritava del buon volere di far ritornare a devozion del Re finterò reame. Divagatosi l’arrivo e 'l disegno del Cardinale, i popolani da vicini paesi a calca traevano alla volta di Bagnarae volenterosi si offrivano guerrieri pel Re. IlCardinale, pubblicato il decreto, che lo nominava luogotenenteo vicario del regno, uscìdi Bagnara, accerchiato da numeroso stuolo, col quale, senza guerra, soggettò le cittadi o terre sino a Mileto. In questa città il Cardinale convocò quanti più potè Vescovi, Curati, altri cherici di grado e antichi magistrati del Re e militari e statuali e cittadini potenti per nome o ricchezza; e sponendo i ricevuti carichi, la giusta e santa causa del trono e della religione, proclamò che i cittadini fedeli al Re, devoti a Dio, dovessero, unirsi a lui, portare al cappello per insegna e riconoscimento lacroce bianca e lacoccarda rossa de' Borboni, abbattere gli alberi della libertà, ed‘ alzare in que’ medesimi luoghi le croci; l’esercito fuaddomantato della Santa Fede. Poscia benedette le armi; trionfando sempre, progredì per Monteleone, Maida e Cutro, sopra Cotrone. Questa città, difesa da' cittadini e da soli trentadue Francesi, che venendo d’Egitto si erano là riparati dalla tempesta, dopo alcune ore di combattimento ineguale, fu debellata. Il Cardinale, lasciato presidio nella cittadella, quinci si parti per Catanzaro, altra città di parte francese. Giuntovi; il Cardinale mandòambasciata di resa. Catanzaro rispose: che ella non mai ribelle, obbediente alle forze della conquista francese come oggi alle più potenti, della Santa Fede, tornava volontaria sotto l’impero del Re. Così che tutta quell'ultima Calabria fattasi devota a' Borboni; procedé il Cardinale verso Cosenza.
In questo mossero due squadre di Francesi e Napoletani, una per le Puglie, l’altra per le Calabrie. Il generale Duhesme fu eletto capo della prima schiera, che numerava sei mila Francesi, e mille o poco più Napoletani, retti dà Ettore Caraffa, conte di Ruvo. La seconda, forte di mille dugento Napolitani, aveva per capo Giuseppe Schipani, nato Calabrese, militare dimesso dal grado di tenente, e poscia elevato all’altezza di generale della repubblica. Egli, traversando Salerno ed Eboli, avvicinandosi a Campagna, Albanella, Controne, Postiglione, Capaccio, vide un vessillo borbonico sul campanile di Castelluccio, piccolo villaggio in cima di un monte. Preso da sdegno, volse il cammino a quel paese; ma colà stando a ventura il capitano Sciarpa, talmente seppe incitare i suoi con l’esempio e con la voce, che pose in fuga la nemica schiera, e seguitando per la china i fuggitivi, altri ne presero, altri ne uccisero. Schipani trasse le sue schiere in Salerno; a Sciarpa crebbe animo e nome.
La schiera di Puglia, sottomettendo col grido le città forti e nemiche di Troia, Lucera e Bovino accolta festivamente in Foga, Barletta e Manfredonia, mosse il 25 di febbraio contro Sansevero, forte di 12 mila combattenti, che animosamente guerreggiando, aveano spento la vita a 300commilitoni de' Francesi; ma, per ingegno di guerra, debellata da Duhesme, e scoppiando in costui lo sdegno, tre mila Sanseverini giacquero estinti sul campo, e non avrebbe avuto fine lo spietato eccidio, se parte delle donne in brune gramaglie avvolte, e parte con capelli scarmigliati, e vesti lacere ed insozzato, portanti in braccio i lor teneri pargoletti, non si fossero presentate a' vincitori, umilmente pregandoli che da quella orrenda strage soprastessero.
Altra squadra repubblicana, forte quanto la prima, sotto l’impero del generale Broussier, con la medesima legione napolitana di Ettore Caraffa, drizzò il cammino ad Andria, difesa da 10mila Borboniani, soccorsi da 17 mila abitatori. Tollerate dall’esercito francese molte' morti e più ferite di guerrieri prodi e chiari in guerra, assalirono le mura con le scale; e fu visto Ettore Caraffa con lunga scala su la spalla, e in pugno banderuola napoletana e spada nuda, ascendere il primo, ed entrar primo e solo nella città. Soggiacque alfine la città d’Andria, feudo un tempo, ed allora assai ricca possessione di quel medesimo Ettore Caraffa, che la espugnò. Egli avvisò nel consiglio si bruciasse; e a cotal sentenza assentendo Broussier e gli altri duci minori, fu quella città dalle fiamme consumata, con tante morti, lacrime e danni, che se a narrarli mi facessi, ciascun leggitore dentro impietrerebbe. Non diversa dalla sorte di Andria fu quella di Trani, la quale, dopo molte e chiare morti patite dai francesi, espugnata dallo stesso espugnator d’Andria, fu ridotta a cumuli di cadaveri e rovine. Quindi procederono le schiere a Bari, Ceglie, Martina e ad altre terre e città. Per tante stragi e sventure eran tornati in Puglia i segni e l'imperio della repubblica. Ma richiamato Broussier, sì come Duhesme, entrambi implicati da Faypoult nello stesso giudizio di Championnet, andarono a reggere quelle schiere i general i Olivier e Sarrazin. Così nella Puglia; ma Pronto e Rodio avean restituite all'imperio del Re presso che tutte le città e terre degli Abruzzi. Mammone occupava Sora, Sangermano e tutto il paese bagnato dal Liri. Sciarpa, dominando nel Cilento, minacciava le porte di Salerno. Il cardinale Ruffo, procedendo centra le città di Corigliano e Rossano, distaccò Nicastro sopra Cosenza, Mazza su Paola, sole città di quella provincia, che tenessero ancora per la repubblica. Paola cadde; Cassano e Rossano si arresero; solo Cosenza resisteva. Reggeva le milizie, tremila Calabresi un tal de' Chiaro; ma quando più salde stavano le loro speranze, i Borboniani sottomisero in poco d’ora la città. Il cardinale, giunta ai suoi la numerosa frotta del de' Chiaro mosse per la Puglia, per rivolgere di affetto e di governo coloro ch'erano ancora da' Francesi, e per rincorare le parti regie, scorate da' fatti testéper noi discorsi. Adunque, mentr’egli riduceva alla divozione del Re quel largo paese di Basilicata, bagnato dal mare Ionio, il generale Macdonald richiamava dalla Puglia leschiere francesi, e 'l Corso de' Cesare le terre votate di nemici andava occupando.
A quei medesimi giorni venne in Napoli il commissario francese Abrial per ordinar meglio la repubblica napolitana. Egli compose il governo con le forme di Francia: potere legislativo commesso a venticinque cittadini, potere esecutivo a cinque, ministeroa quattro. Egli medesimo fece eletta dei membri de' tre poteri, serbando molto degli antichi rappresentanti, giugnendone nuovi, e taluni altri togliendovi, e spesso con altri rimutandoli. Fu dei nuovi il medico Domenico Grillo, ilnovello governo fu presente in ufizio con le regole costituzionali tratte dall'esempio diFrancia ché il direttorio era mal pago della forma politica data da Championnet alla napolitana repubblica. Intanto il Cardinal Ruffo all’espugnazione intendeva di Altamura, città grande della Puglia, forte per luogo e munizioni, per valore degli abitanti, fortissima. I Borboniani si misero a campo a vista delle mura e cominciò la guerra. Gli Altamurani, dopo aver fuso a proietti tutti i metalli delle case, ne’ tiri a mitraglie usarono le monete di rame, e con grandissimo valore combatterono sino a che fu esaurita la polvere ed allora i Borboniani, avvicinate alle mura le batterie de' cannoni, ed aperte le brecce, presero la città. Le terre repubblicane della Basilicata si arresero a Sciarpa; le province di Calabria, Puglia ed Abruzzo, fuorché Pescara e poche città, cui i francesi guardavano, erano tornate intere al dominio dei Re; nella sola Napoli e in poca terra d’intorno stringevasi la repubblica. Il general e Macdonald, adducendo per pretesto, che la disciplina degli eserciti in deliziose città volge sempre in basso, annunziò che andava a campo in Caserta; celando le sventure Italia, e Schererbattuto più voltedagli Austro-Russi, e la battaglia di Cassano perduta da Moreau, e Milana presa da' nemici, e il Po valicato, e Modena e Reggiooccupate, ed i popoli d’Italia, sconoscenti o adirati pe’ patiti spogli, parteggiar co nemici della Francia.
Mentre stava a campo in Caserta l'esercito di Macdonald, sbarcarono da navi anglo-sicule alle marina di Castellamare 500soldati del re di Sicilia e buona mano d’Inglesi le quali genti, aiutate da' Borboniani e dalle batterie delle navi, presero la città ed il piccolo castello, che sta a guardia del porto. Nel tempo stesso un reggimento inglese e non piccola turba di Borboniani, sbarcati presso a Salerno, presero quella città, e rivoltarono a pro del Re, Vietri, Cava, Citara Pagani e Nocera. I general i Macdonalde Vatrin con forti schiere mossero il 28 di aprile contra il nemico, e, sottoposte le terre di Lettere e Gragnano, Macdonaldscese a Castellamare. Uscita del porto di Napoli nella notte la flottiglia napolitana, impedì che molte delle nemiche milizie s’imbarcassero sulle navi, e, caduti inmano del vincitore, furon morti o prigioni. Il generale Vatrin, più spietato, uccise tre migliaia di nemici. Eransi, dopo questi avvenimenti, alquanti giorni trascorsi, quando Macdonald venne di Caserta a Napoli, eda' governanti, adunati a riceverlo, disse, ch’egli, lasciando forti presidi a Santelmo, Capua e Gaeta, partir doveacol resto dell’esercito, per rompere, sperava, i nemici delle repubbliche scese in Italia. E poi che i rappresentanti gli ebbero risposto sensi di amistà ed augurato felice ventura, et prese commiato e tornò al campo, donde a dì sette di maggio mosse l’oste francese divisa in due l'una guidata da Macdonald per la via di Fondi e Terracina, col gran parco di artiglierie e con le bagaglie; l'altra sotto Vatrin per Sangermano e Ceperano. E nel tempo stesso il general e Coufard, comandante negli Abruzzi, raccolte le squadre, traducevasi per le vie più brevi nella Toscana, dopo aver confidato le fortezze di Civitella e Pescara ad Ettore Caraffa, il quale, tornati i Francesi dalla Puglia era passato, con le sue gesti negli Abruzzi.
Tosto che si fu l’esercito francese dipartito, il governo della repubblica, dopo aver rivocato, per decreto, le taglie di guerra, scemato le antiche, noverato i benefizi civili, che aveva in prospetto, tostamente provvide ai bisogni di guerra; ché raccolse in legioni le milizie, che in varie colonne erano sparte; coscrisse schiere novelle; diede carico al general e Roccaromana di levare un reggimento di cavalleria; ingrossò la schiera dello Schipani; formò due legioni, e le diede al comando dei general i Spanò calabrese, e Wirtz, svizzero. Poscia il Direttorio fece capo supremo dell’esercito Gabriello Manthoné, stato rappresentante della repubblica nel pruno statuto, e ministro per la guerra nel secondo. Altra milizia si formò col nome di legione calabra, senza uniformità di armi, né di vesti, non aventi stanze comuni, né ordini di reggimento; truppe volontarie, tre migliaia, che ad occasione si univano per combattere sotto vessillo abbrunato, con lo scritto: «vincere, vendicarsi, morire».
A questi giorni molte navi nemiche bordeggiavano nel golfo, e poscia volsero a Procida ed Ischia, sbarcandovi soldati, uccidendo ed imprigionando i rappresentanti ed i seguaci della repubblica, ristabilendo il governo regio, e creando i magistrati a punì re i ribelli. L’ammiraglio Caracciolo, chiaro per fatti di guerra marittima, stando allora in Napoli, tornatovi da Sicilia con permissione del Re, ebbe il comando supremo delle forze navali della repubblica, ed il carico di espugnare Procida ed Ischia. Ungiorno intero valorosamente combatterono i repubblicani, e, dopo aver arrecato e patito, molte morti e molti danni, fu forza che al porto facessero ritorno, combattuti da contrari venti. Frattanto ordinavansi in Napoli possenti macchinazioni contro alla repubblica, dirette da un venditore di cristalli, però appellato il Cristallaio; e da altro capo, di nome, Tanfano. Sopra tutte le congiurazioni era terribile quella di Baker, Svizzero, dimorante in Napoli; ma un tal giovine Ferri, avendo svelato al governo quanto sapeva della trama, fu tostamente annientata. In questo sbarcarono in Taranto col maresciallo conte Micheroux intorno a mille fra Turchi e Russi, che, uniti e ubbidienti al Cardinale, presero la città di Foggia, quindi Ariano, Avellino, e si mostrarono alla piccola terra detta Cardinale, ed a Nola. Pronio, fedelissimo al Re, reggendo una schiera di Romani ed Aretini, correva la campagna sino a vista di Capua; Sciarpa, richiamate alla potestà del Be, Salerno, Cava, e le altre città testé soggiogate da' Francesi, stava col nerbo delle sue bande a Nocera; Fra' Diavolo e Mammone; uniti nelle terre di Sessa e Teano, aspettavano il comando a procedere. Le genti, che assalivano la inferma repubblica, erano dunque Napolitani, Siculi, Inglesi, Romani, Toscani, Russi, Portoghesi, Dalmati, Turchi, e nel tempo stesso correvano i mari del Mediterraneo flotte l’une all'altre nemiche, e potentissime. La francese di 25 vascelli; la spagnuola di 17; la inglese di 47, in tre divisioni; la russa di 4; la portoghese di 5; la turca di 3; la siciliana di 2: e delle sette bandiere, che ho indicate, le fregate, i cutter, i brick, erano innumerabili. Stavano da una parte Francesi e Spagnuoli, 70 legni; stavano dall’opposta 90 o più. Si aspettava in Napoli per le promesse del Direttorio francese la flotta gallo-ispana.
Tenutosi consiglio per la guerra, fu deliberato, che Schipani marciasse contra Sciarpa, Bassetti contro a Mammone e Fra' Diavolo, Spanò contra de' Cesare, Manthoné contra il Cardinale; restasse in città ed in riserva il generale Wirtz con parte di milizie assoldate, con tutte le civili, e la legione calabrese. Mossero al dì seguente Spanò e Schipani. Questi si mise a campo nella Cava; quegli, battuto ne’ boschi e tra le strette di Monteforte e Cardinale, tornò in città scemo di uomini, disordinato, con esempio e spettacolo funesto. Il general e Bassetti teneva sgombera di nemici la strada insino a Capua. Restavano ancora in città con le milizie del general e Manthoné le altre tumultuariamente coscritte; la legione di cavalleria, cui levava il generale Roccaromana, presentassi al cardinal Ruffo, e militò sino al termine di quella guerra per la parte borbonica. Il Cardinal Ruffo pose le stanze a Nola, e le sue torme campeggiavano sino al Sebeto: le schiere di Fra' Diavolo, e di Sciarpa si mostrarono a Capodichino. Schipani, assalito prima alla Cava, e poscia vinto sul Sarno, passò al Granatello, picciol forte presso Portici; Bassetti tornò respinto e ferito in Napoli; Manthoné con tremila soldati giunse appena alla Barra, e dopo breve guerra, soperchiato da numero infinito, percosso da' tetti delle case, menomato d’uomini, tornò vinto. Schiere di Russi e Siciliani, secondate da frotte borboniche, assalirono gli 11 di giugno il forte del Granatello, ove avean piantato le tende le milizie di Schipani, 100 uomini a quel torno, soccorsi da navi cannoniere, guidate con animo ed arte ammirabile dall'ammiraglio Caracciolo. Ferito il generale Schipani, avvisando di ritirarsi nella città, la dimane inviò tacitamente numerosa compagnia di Dalmati alle spalle de' Borboniani, per aver certa ritirata sopra Napoli; ma quei Dalmati, unitisi a' Russi, accerchiarono la piccola schiera de' repubblicani e la fecero prigione, dopo molte morti e ferite, arrecate e sofferte. Ai primi albori del 13 di giugno il Cardinale fe’ muovere verso la Città tutte le schiere della Santa Fede. Mossero pur anche, a loro incontro i repubblicani. Il generale Bassetti con piccola mano correva il poggiodi Capodichino, a vista dell’ala diritta immensa torma, che procedeva nei fertili giardini della Barra. Il generale Wirtz, con quanti potè racimolare, andò sul ponte, vi stabili poderosa batteria di cannoni, e munì di combattitori e di artiglierie la sponda diritta del fiume; i castelli della città restarono chiusi co’ ponti rizzati. La legione calabra, partita in due, guerniva il piccolo Vigliena, forte o batteria di costa appresso all'edilizio de' Granili, e facea pattuglia nella città per impedire le insidie interne. I partigiani di repubblica, vecchi od infermi, guardavano le castella; i giovani e i robusti combattevano alla ventura. I russi assalirono Vigliena; ma, per grandissima resistenza, fu mestieri atterrarne le mura con continua batteria di cannoni, e quindi Russi, Turchi, Borboniani, ed i legionari calabresi con disperata gagliardia battagliaronsi infino a che un certo Toscani di Cosenza, capo del presidio, tutto sanguinante per ferite, trattosi a fatica alla polveriera, e lanciatovi il fuoco, in un istante con ¡scoppio e orribil rimbombo, pari a quello della terra quando le si squarcia il seno gravido di vapori, muoiono quanti da quelle mura erano rinserrati, o dalle stesse rovine oppressati e sepolti, o lanciati in aria, o dai sassi violentemente colpiti; nemici, amici, orribilmente consorti.
Stava intanto Wirtz sul ponte, Bassetti su la collina, usciva dal molo con lance armate l’ammiraglio Caracciolo, il Cardinale co’ suoi procedeva. Cominciata la zuffa, miseramente d’ambe le parti cadevano. ed incerta pendeva la vittoria. Declinava il giorno, e dubbia era la fortuna delle armi in su le insanguinate sponde del Sebeto, quando il generale Wirtz, colpito e stramazzato da mitraglia, lasciò senza duce le schiere, rinviliti i combattitori di guerra; ed al partir di lui, su la bara moribondo, vacillò il campo, trepidò, fuggì confusamente in città. La schiera del Bassetti, saputo la morte del Wirtz, laperdita del ponte ed il campo fugato, aprissi il varco infra le torme plebee, e riparò nel Castelnuovo, ove già stavano in atto di governo i cinque del Direttorio, i ministri e parecchi del senato legislativo. Intanto voci di gioia, e luminarie grandi per tutta la notte del 13 di giugno, festeggiavano il ristabilito impero. Al seguente mattino, assalito e preso da' Russi il forte del Carmine, non pochi repubblicani e soldati giacquervi estinti. Il Cardinale pose le stanze a' Granili; le ordinate milizie della Santa Fede si misero a campo in sulle colline, che alla città soprastanno. La piccola roccia di Castellamare, assalita da batterie di terra e da vascelli siciliani ed inglesi, non si arrese se non a patti, che il presidio libero si traducesse in Francia, ciascuno seco portasse quei beni mobili che voleva, e lasciasse securi nel regno possedimenti e famiglie. Il sotto ammiraglio inglese F00te sottoscrisse per le parti regie il trattato, e poscia il presidio, apprestate le navi, fu menato a Marsiglia. Il Cardinale, per por fine alle atrocità ed orrende uccisioni d’ambe le parti, a se raccolti i capi delle truppe, e i magistrati del re, uditili tutti già corrivi agli accordi, inviò messaggio a Mejean con le proposte di accomodamento convenevole ai tempi, alla dignità regia ed a causa vinta.
Gli ambasciadori di Ruffo ed un legato di Mejean riferirono quelle profferte al Direttorio della repubblica. Fu concordato armistizio di tre giorni, e per cotal tregua vennero ad infrenarsi le crudeltà, le uccisioni, le ruberie. Consumata la tregua, il Direttorio elesse il generale Oronzo Massa a negoziatore delle condizioni di pace in un foglio distese. Convennero nella stanza del Cardinale il general e Massa, i condottieri de' Moscoviti e de' Turchi, l’ammiraglio della flotta inglese, il comandante Mejean. La pace fu scritta in questi termini:
» 1. I castelli Nuovo e dell'Uovo, con armi e munizioni, saranno consegnati ai commissari di S. M, il Re delle Due Sicilie e dei suoi alleati l’Inghilterra, la Prussia, la Porta Ottomana».
». 2. I presidii repubblicani de’ due castelli usciranno con gli onori di guerra, saranno rispettati e guarentiti nella persona e ne’ beni mobili ed immobili».
» 3. Potranno scegliere d’imbarcarsi sopra navi parlamentarie per essere portati a Tolone, o restare nel regno immuni d’ogni inquietudine per se e per le famiglie. Daranno le navi i ministri del Re».
» 4. Quelle condizioni e quei patti saranno comuni alle persone de' due sessi rinchiuse ne’ forti, a' prigionieri repubblicani fatti dalle truppe regie od alleate nel corso della guerra, ed a tutti quei drappelli della repubblica, che, ributtati da Mejean quando voleano riparare in Santelmo, accamparono sotto le mura e nei convento di San Martino».
» 5. I presidi repubblicani non usciranno da' castelli sino a che non saran pronte a salpare le navi per coloro che avranno eletto il partire».
» 6. L’arcivescovo di Salerno, il conte Micheroux, il conte Dillon e ’lvescovo di Avellino resteranno ostaggi nel forte castello di Santelmo sino a che non giunga in Napoli nuova certa dell'arrivo a Tolone delle navi, che avranno, trasportati i presidi repubblicani. I prigionieri della parte del re, e gli ostaggi tenuti ne’ forti andranno liberi dopo firmata la presente capitolazione».
Seguivano i nomi di Ruffo e Micheroux per il re di Napoli; di F00te per l’Inghilterra; di Baillie, o come altri pretende, di Kerandyper la Russia; di Bonieu o Bonica pel Granturco; e por la parte repubblicana, di Massa e Mejean.
Un foglio del Cardinale invitò Ettore Caraffa, Conte di Ruvo, a cedere le fortezze di Civitella e Pescara alle condizioni delle castella di Napoli; e da vicario del Re con un editto bandiva esser finita la guerra, il regnonon aver più fazioni o parti, ma essere tutti i cittadini egualmente soggetti al principe, amici tra loro e fratelli, il Re voler perdonare i fatti della ribellione, accogliere per fino i nemici nella bontà paterna; e perciò finissero nel regno le persecuzioni, gli spogli, le pugne, le stragi, gli armamenti. Intanto essendo preste le navi, molti imbarcarono per recarsi in Francia, pochi rimasero in città. Non attendevasi per salpare se non il vento, sperato propizio nella notte quando fu visto il mare biancheggiar di vele, ed eran quelle le navi dell'armata di Nelson, che giunse al golfo prima che il sole tramontasse. Alcuni repubblicani su le navi medesime, ov’erano imbarcati, andarono a Marsiglia, molti altri non salparono, ché peggiori acque correre doveano. L’eroe di Aboukir, tenendo a vile, onore, giustizia, umanità, cassò le capitolazioni, dichiarandole mille, perché da lui non ratificale. Ah! Nelson, annullando le capitolazioni, la tua gloria annullasti; fu questo l'unanime sentimento de' contemporanei tuoi, desso sarà pur quello delle umane generazioni nasciture. Il conte di Ruvo, ceduto le fortezze di Pescara e Civitella, e venuto a Napoli con parecchi altri del presidio per imbarcarvisi, fu col suo seguito menalo in prigione. Cederono l’una dopo l’altra le fortezze di Capua, Gaeta e Santelmo. Mejean, capo di legione francese, che comandava, come innanzi si è detto, quest'ultimo forte; rappresentata la parte infame di satellite di Nelson, imbarcatosi co’ suoi, navigò per Francia. Sì che comandando il regno luogotenente del Re il Cardinal Ruffo, le città, le terre, i magistrati gli obbedivano, e già sventolava su tutte le rocce il vessillo de' Borboni.
Giudicati da una giunta di Stato primi morivano Schipani e Spanò. Appiccato ad un’antenna della fregata napolitana la Minerva l’ammiraglio Caracciolo, sì come pubblico malfattore, spirava la vita. Impesi al tormento perivano il general Massa, il conte di Ruvo, Gabriele Manthonè. Cadevano Francesco Conforti, Mario Pagano, Domenico Cirillo, Ignazio Ciaia, Vincenzo Russo, Niccolò Fiorentino, Baffi, Eleonora Fonseca-Pimentel, poetessa tra i più belli ingegni d'Italia, Falco' meri, Logoteta, de' Filippis, Albanese, Bagni, Neri ed altri chiarissimi per lettere, o scienze, i nomi de' quali son già vergati nell’adamantino libro dell'immortale gloria. Più infierivano per cotal i esempli le torme plebee, ed altre morti, ruberie ed esecrande crudeltadi appartavano, ch'è pur bello tacere, però che horrent aures audiendo ea crimina patrata! La sola speranza era riposta nello arrivo del Re, da' suoi ministri promesso; e di fatti nel giorno 28 di giugno, al comparire delle attese vele, il contento e l’esultanza invasero gli animi de' Napolitani. Il Re, avendo voluto restar su l’acque, dièssi a riordinar lo stato sul medesimo regal vascello, che condotto ve l’avea: il generale Acton era con lui. Con una legge rimise la colpa dei lazzari pel sacco dato alla reggia. Altra legge scioglieva selle conventi degli ordini di S. Benedetto e della Certosa. Altra legge prescrisse lo annullamento de' Sedili e de' loro antichi diritti o privilegi.
Ildì 4 agosto, sopra vascello inglese, retto da Nelson, sciolse il Re dal golfo di Napoli per Palermo, avendo prima proclamato per editto: Che nel tenersi lontano per breve tempo dalla fedelissima città di Napoli, confidava la sicurezza e la quiete del regno agli ordini ristabiliti, all’autorità de' magistrati, alla forza delle milizie, e sopra tutto alla fede sperimentata de' soggetti. Il vascello, sciogliendo con propizio vento, ricondusse il re a Palermo, dove fu accolto tra giubilose feste. Intanto le squadre alemanne, che avean preso per capitolazione la piccola rocca di Civita Castellana, le squadre inglesi, che stringevano di assedio Civita Vecchia, e milizie ordinate, che sotto il general Boucard erano venute da Napoli, strinsero la città di Roma, ed obbligarono il generale Garnier a trattare la cessione di essa e de' castelli, cui nello Stato romano i Francesi guardavano. Ai 30 di settembre uscivano di Roma con gli onori di guerra le milizie francesi; entravano le napolitano. L’impero di Boucard tostamente cadde nel generale Diego Naselli, principe di Aragona, venuto di Napoli nell'ottobre col carico e nome di comandante generale militare e politico negli stati di Roma. In questo tempo il generale Buonaparte, lasciato in Egitto capo dell'esercito il generale Kleber, sopra fregata, che i venti e la fortuna secondarono, traversando mari e pericoli, giunse a Frejus, andò trionfatore a Parigi, e, mutata in governo più fermo la disordinata repubblica, egli col nome che diessi di console, fu dittatore. E mentre in Francia il console ordinava le parti dello stato, il conclave in Venezia consultava la scelta del novello Pontefice, e però il cardinale Ruffo andò al congresso deponendo i freni del governo di Napoli nelle mani del principe del Cassero, nominato da Ferdinando viceré del regno, personaggio esimio per senno, decoro e pietà.
Finiva l’anno 1799, quando l’anno 1800 giunse in Napoli il dottor Marshall, inglese, propagatore della dottrina di Jenner. Napoli, corrivo alle novità, gli credè; e 'l re Ferdinando stabilì uffizii ed uffiziali di vaccinazione, la prescrisse agli ospedali, alle case pubbliche di pietà, alla favorita colonia di Santo Leucio, e, da buono e magnanimo re alla sua famiglia; poscia la propagò in Sicilia ed in Malta. Il giorno del nome del re, 30maggio del 1800, il governo di Napoli, per editto appellato indulto, obbliò, rimise idelitti di maestà, vietando le accuse, le denunzie, le inquisizioni per officio di magistrato, ed elesse a capo della Polizia, addomandato Reggente dal nome antico, il duca d’Ascoli. E poiché era tornata la quiete al nostro reame, il Re diede carico all’insigne scultore Antonio Canova di ritrattarlo in marmo, in forme colossali e in fogge di guerriero. Ed instituí ordine cavalleresco, detto di San Ferdinando, dal suo nome, e del Merito, perché destinato ad insignire tra sudditi o stranieri i notati di fedeltà nelle guerre intestine dell'anno innanzi. La croce di argento e d’oro e fermata nelle quattro punte dal fior di giglio; sta nel mezzo effigiato il Santo in abito di re della Castiglia; il motto e Fidei et Merito; il nastro, colore azzurro orlato di rosso, il Re Granmaestro, quindi Grancroci, che non eccedono i 24; commendatori e cavalieri di piccola croce, ad arbitrio del Re. Gli statuti, quelli medesimi dell'Ordine di San Gennaro, e pochi altri, diretti a rimeritare i servigi di guerra. Con altra legge, il Re aggiunse al nuovo Ordine due medaglie in oro; in argento, pe’ gradi minori dell'esercito e dell'armata, e concesse con la medaglia pensione varia e non tenue. Furono cavalieri Grancroci tutt’i reali della casa, i più potenti re di Europa, i più cospicui personaggi del regno.
In questo tempo Buonaparte, l'uomo del destino, il 17 maggio dell’anno 1800 mosse con l'esercito maggiore, cui Berthier guidava sotto il primo console, e in due giorni tragittò gli eccelsi scoscesi balzi del San Bernardo da eterni geli ammantati. Gli altri tre eserciti per altri monti e valli procederono con pari stento e felicità: il generale Monceyper il San Gottardo, Ghabran pel piccolo San Bernardo, Thureau pel monte Cenisio, sessantamila combattenti e cavalli ed armi e macchine sboccavano come torrenti, per quattro precipizi nell'Italia. Scacciati dalla città di Aosta e da Chatillon i presidi tedeschi, il maggior esercito di Buonaparte arrestossi al forte Bard, valorosamente difeso dal capitano tedesco Bernkopf, ma la necessità gli fece aprire per altra montagna, l’Alberedo, un varco a scaglioni, sì che i Francesi presero, scalando le mura, la città, e trasportarono i cannoniper le vie della stessa, sotto le aperte offese del castello. Cadde la fortezza di Pavia; fu presa Milano; cedé la fortezza di Genova, e nel tempo stesso, in cui dalla Italia superiore i Francesi, proseguendo le irruzioni, valicavano il Po, il generale Muratprendeva Piacenza. Poscia, per la maravigliosa battaglia di Marengo, Buonaparte riconquistò in un giorno la maggior parte d’Italia, e ritornò a vita le repubbliche Ligure e Cisalpina.
La regina Carolina sul finire del maggio andòa Livorno, quindi ad Ancona, quinci a Trieste ed a Vienna per gravi negozi dello Stato. A quei medesimi giorni, nel conclave di Venezia, eletto pontefice il cardinale Chiaramonti, che prese il nome di Pio VII, concordò col Re delle due Sicilie e coll’imperator d'Austria, che gli Stati romani fossero presidiati dalle milizie delle due corone, ma che fosse restituito libero il governo; e però il Pontefice in luglio tornò in Roma, dove, rivocate le ordinanze e le leggi di Bourcard edi Aragona. ristabilì l'antico reggimento, e rimise le colpe della rivoluzione. In quel tempo medesimo la fortezza di Malta, demo assedio di due anni e sforzi portentosi del presidio francese. ai 5 di settembre di quell’anno 1800 per mancanza di vittovaglie, capitolò co soli Inglesi, comeché i Napolitani, 2000 soldati, due vascelli ed altre navi da guerra e da trasporto, fossero stati. a parte della guerra, avessero gareggiato per valore e per arti con gliInglesi, ed un trattato di alleanza (l’anno 1798) tra l'Inghilterra e la Russia avesse stabilito che l'isola, quando fosse riconquistata sopra i Francesi, andrebbe all'ordine legittimo di Malta, del quale Paolo I diRussia erasi nominato Granmaestro. A questi medesimi giorni nacque da Macia Clementina e da Francesco un principe, erede al trono, cui si diede il nome dell'avolo Ferdinando.
Per l'armistizio fermato in Steyer il 24 deldicembre, e l’altro in Treviso, e poscia per lapace stabilita in Luneville, eran cessate le ostilità tra l'Austria e la Francia, quando il 14 di gennaro mossero tre legioni di Napolitani, le quali, unitesi alle schiere del generale Damas, uscirono di Roma, procederonocontra Siena, fugarono da questa città piccola mano di Francesi, e posero il campo in Monte Regione; ma poscia scontratisi col nemico, dopò breve conflitto, furono più avventurosi i Francesi retti da Miollis. Compreso, per questi fatti, da sdegno il primo console, mandò sui confini degli stati di Roma il generale Murat con le legioni tenute inriserva in Milano, mentre durava la guerra d’inverno (così appellata, perché Buonaparteaveva intimato le ostilità pel giorno 8 di ottobre in Alemagna, e per il 5 di settembre in Italia), e con altre che dopo l’armistizio di Luneville richiamò dall’esercito di Brune. Quelle legioni procedevan contra Napoli. Ma l’imperatore di Russia Paolo I, vago della bella gloria di spegner l’ira di Buonaparte contra il reame di Napoli, scrisse lettere commendatoci al primo console, e spedì oratore il conte Lawacheff, il quale vista in Vienna la regina Carolina, e preso di riverenza e di ammirazione per lei, andò caldo intercessore a Parigi, ed ottenne comando di Bonaparte a Murat per trattare accordi con Napoli. Stava ancora in Roma con le milizie napolitane il generale Damas, e però da Foligno Murat gli scrisse, che tostamente sgombrasse gli. stati del Papa e 'l castello Santangelo. Damas spedì a Foligno il colonnello Micheroux negoziatore dell'armistizio. Sciolto il congresso per l’armistizio, altro per la pace convenne in Firenze, trattando pel re lo stesso colonnello Micheroux, e per la repubblica il cittadino Alquier. Fu stabilito: pace durevole; i porti delle Due Sicilie chiusi agl'Inglesi ed a' Turchi sino alla pace di quei due potentati con la Francia, aperti a' Francesi; rinunzia del re alla repubblica francese di Porto Longone ed alle altre sue possessioni nell’isola d’Elba, non che agli Stati detti Presidii della Toscana, e al principato di Piombino; 500,000franchi (120,000 ducati napolitani) da pagarsi in tre mesi; riammessi alla patria tutti i suggelli del re, che avean avuto parte in quelle politiche rivolture; stanziare, durante la guerra della Francia con la Porta e con la Gran Brettagna, 4000Francesi negli Abruzzi dal Tronto al Sangro, e 12,000 nella provincia d’Otranto sino al Gradano; dare il re tutto il frumento necessario a quei presidii, e 500,000 franchi il mese per gli stipendi. Fu destinato il generale Soult ad occupare il paese dal Tronto al Bradano. Fermati i patti dell’armistizio e della pace, giunsero in Napoli il principe Francesco e la principessa Clementina.
Al finire dell’anno 1801 morì in Napoli l’Infante Ferdinando, nipote al re, e poco appresso la madre di lui Clementina, giovine che di poco avea trascorso i quattro lustri: malattia lenta e struggitrice di nostra vita dipartita. Estinta, arrecò tutto al popolo, bruno alla reggia. Non ancora finito quell’anno, l'astronomo Giuseppe Piazzi dall'osservatorio di Palermo scoprì ed aggiunge al sistema solare nuova stella, cui nominò Cerere Ferdinandea, per alludere alle ricche messi della Sicilia ed al Re di quel regno. Continuando intanto in Amiens le conferenze di pace, fu stabilito, a dir brieve ciò che importa alla nostra storia, lo sgombero de' Francesi dagli stati di Napoli e di Boma; e degl'Inglesi da qualunque posto, che occupassero nel Mediterraneo; la restituzione dell’isola di Malta all’ordine gerosolimitano, la quale dovea restare neutrale nelle future guerre, presidiata, finché l'Ordine mancasse di milizie proprie, da due mila soldati del re di Napoli, Le terre di Roma e di Napoli furon vuotate de' soldati francesi, e 'l generale Murai, per esserne rimeritato, recossi a Roma, rispettoso al Papa e da costui onorato; e poscia a Napoli, ove l’onorarono il principe Francesco reggente, i reali ed i ministri della casa, ed al partire, il reggente, a nome del re, il presentò di ricchissimo brando. Uscirono al tempo stesso dal regno le milizie russe, sì che pacificato il mondo, e libero il reame di Napoli da genti straniere, venne in Napoli da Sicilia il re Ferdinando tra grandissime feste. Indi a due mesi giunse da Vienna la regina Carolina. Riunita la regal famiglia, strinse doppie nozze con la casa spagnuola: avvinsesi il principe Francesco di Napoli, rimaso vedovo, alla Infante di Spagna, Isabella; ed a Ferdinando, principe d’Austria, maritossi Maria Antonietta, principessa di "Napoli. Parecchie navi spagnuole, venute a servizio di questa principessa, unitesi alle napolitane, che menavano il principe Francesco a Barcellona per accogliere la principessa Isabella, navigarono insieme; e 'l navilio napolitano ritornò con gli sposi il 19 di ottobre del 1802, e coll’arrivo fu nella reggia e nella città grandemente festeggiato.
Finiva l’anno 1803, quando il Re dimise il ministro D. Giuseppe Zurlo, e, abolito il ministero e ricomposto il consiglio di finanza, il re nominò vicepresidente il cavalier de' Medici. Frattanto la Inghilterra, manchevole ai patti d’Amiens, ritenendo l’isola diMalta, denunziava novella guerra alla Francia. Buonaparte, già nominato in Francia console a vita, ed in Italia presidente della Cisalpina, capitano invitto e capo di popolo allarmi corrivo, accettò la disfida, sì che poderosa oste francese si mise a campo in su le coste di Bolognadimare, minacciando l'Inghilterra d’impresa difficile e sanguinosa; altre schiere, le medesime, che avevano sgombrato le Puglie, le rioccuparono, riversando sul regno pericoli e spesa. L’Ordine di Malta cercò altro asilo, e l’ottenne dal re di Napoli a Catania, città della ¡Sicilia. A questi medesimi giorni Buonaparte, richiesto in pubblico dal senato, fu crealo imperatore per voto unanime del popolo francese, e la repubblica mutò in signoria. Alla incoronazione del nuovo imperatore celebrata in Parigi andò invitato il Pontefice Pio VII, con pompa degna del grado e della ceremonia. Il medesimo Pontefice, il 30di luglio del 1804, con Breve pontificio ristabilì, per secondare i desiderii di S. ¡VI. Ferdinando IV, collegi e scuole nelle Due Sicilie sotto le regole di Sant'Ignazio.
Il giorno 26 di luglio e votivo a Sant’Anna, e cotal dì va tra noi fenato, però che fu creduto miracolo di lei, che la città di Napoli non cadesse tutta intera inrovine per tremuoto poco meno terribile di quello delle Calabrie. Giorno della sventura il 26 di luglio del 1805, alle ore due ed undici minuti della notte. La prima scossa fu leggiera e da pochi avvertita, ma ne succederono tre altre nel breve tempo di venti secondi; centro del moto Frosolone, monte degli Appennini fra la Terra di Lavoro e la contea di Molise; il terreno sconvolto da Isernia sino a Ielzi, miglia quaranta, e per largo da Monterodoni a Cerreto, quindici miglia; perciò seicento miglia quadre, disegnando un Iato della figura la catena lunga de(' )monti del Matese, opra quello spazio sorgevano sessant'una città, stanze a 40,000 o più abitatori, e di tanto numero due sole città, San Giovanni in Galdo e Castropignano, comeché fondate alle falde del Malese, restarono in piedi; sei mila uomini a quel torno ebbero spenta la vita; vari e commiserevoli i casi del morire.
Quel tremuoto fu sentito nelle più remote parti del regno, e, traversando il mare, nelle isole di Procida e d’Ischia. Napoli fortemente fu scossa, sì che alcune case crollarono, molte furono vendute, poche illese. Elettriche accensioni ingenerarono quelle scosse di terra; perché fu notato, che mentre la cima del monte Frosolone brillava quasi ardente meteora,il Vesuvio bituminose fiamme eruttava.
Aveva a que’ giorni fatto ritorno a Roma da Parigi Pio VII, e poco appresso venne in Italia Buonaparte per cingersi il capo della corona de' Longobardi, mutata in regno d’Italia la repubblica cisalpina. Le solenni cerimonie furon celebrate in Milano, dove a corteggio di Napoleone imperatore vedevasi congiunto cogli altri ambasciatori de' principi italiani e de' re amici della Francia il marchese del Gallo, ministro napolitano a Parigi, ma da Napoli fu spedito straordinario il ' principe di Cardito, che nel circolo di corte spose a Buonaparte l’ambasciata e gli augurii. Intanto avea ripigliato in Inghilterra il seggio di ministro Guglielmo Pitt, che deliberava far guerra sterminatrice alla Francia: però si allearono contro a' Francesi la Inghilterra, l’Austria, la Russia, la Svezia, e Napoli: la Prussia il pregio della sua oste mercatante va. Per nuovo trattato di pace conchiuso a Parigi tra' l ministro Talleyrand per la Francia e ”lmarchese del Gallo per Napoli il giorno 21di settembre del 1805, l’imperatore de' Francesi impose a Saint-Cyr, generale supremo delle squadre stanziate nel regno, disgomberare, e 'l dì 9 di ottobre si partì. Per nuovo trattato di Vienna legossi Napoli con l'Austria, la Russia e l’Inghilterra contra la Francia. Poco appresso; il giorno 19 di novembre, approdate nel golfo molte vele, sbarcarono in Napoli ed in Castellamareundicimila Russi, duemila Montenegrini, e poco manco di seimila Inglesi. Il re pose il proprio esercito sotto l’impero del general e russo Lascy. L’ambasciatore francese Alquier, abbassate le insegne di Francia, e, chiesto il congedo ed avutolo, si partì di Napoli. Lascysi pose a campo negli Abruzzi e in Sangermano; Greig, generale degl'Inglesi, in Sessa e in Uri. L’esercito di Saint-Cyr, destinalo a conquistar Napoli, era forte di 32,000 combattitori di guerra; per cammino fu raggiunto da altre schiere, e duce sopra tutte era il maresciallo Massena. L’oste partita in tre colonne, la prima di centro ai 15,000 soldati, la seconda di sinistra di 12,000, e la terza di 10,000 Italiani, procedeva a gran giornate verso il regno. Con nome di principe dell’Impero e luogotenente dell'imperatore dei Francesi veniva con l'esercito Giuseppe Buonaparte, fratello a Napoleone. Lascy, Greig, ed Andres (altro generale russo) agli annunzi della presa di Vienna, della battaglia di Austerlitz, della pace di Presburgo e del vicino al regno esercito francese, convenuti a consiglio nella città di Teano, deliberavano se difender doveano Napoli, o pure abbandonarlo. Lascye Greig erano pel secondo partito, Andres, per il primo. Indi a pochi dìl'ambasciatore di Russia significò al governo di Napoli, che le schiere moscovite dovean uscire dal reame di Napoli. Néandò guari che inglesi e russi, abbandonalo gli accampamenti delle frontiere, brucialo il ponte di barche sul Garigliano, imbarcarono ne’ porti della Puglia, i Russi per Corfù, gl’inglesi per la Sicilia. Le colonne francesi sempre più procedendo toccavan quasi la frontiera del regno. Il re, sperando nelle mutabilità. del tempo e della fortuna, il dì 23 gennaio nel 1806, si partìalla volta di Palermo, lasciato vicario del regno il figlio primo nato principe Francesco. Furono intanto sguerniti di milizie i confini, e solamente guernite le fortezze. Sedicimila uomini, schiere assoldate, rette dal general e Damas, re cerassi alle strette di Campotenese, ed attesero a porvisi a campo. Gli 11 di febbraio la regina con le figliuole, co’ ministri ed altri del suo seguito partìsopra vascello per Palermo, mentre idue principi Francesco e Leopoldo per la via di terra raggiunsero e trapassarono l'esercito di Calabria, ponendo le stanze in Cosenza; poscia ne’ porli dell’ultima Calabria imbarcarono per Sicilia. Il Vicario, prima di partire, nominò al consiglio di reggenza il tenente-generale don Diego Naselli Aragona, il vecchio principe di Canora ed il magistrato Michelangelo Cianciulli. Costoro, stando già l’esercito francese appresso alle mura di Capua, inviarono al principe Giuseppe il marchese Malaspina e 'l duca di Campochiaro ambasciatori, i quali concordarono, a solo patto di quiete pubblica e di rispetto alle persone ed alle proprietà, la re sa delle fortezze e de' castelli del regno, il libero ingresso nella città, l'obbedienza al conquistatore. Dopo l’accordo Pescara e Capua furon date a' francesi, 50,000, guidati dal maresciallo Massena; Civitella, che per virtù del comandante colonnello Woed ricusò di obbedire, assediata pochi giorni, bloccata tre mesi, per estremo difetto di vittovaglie si arrese e fu da' vincitori smurata. Gaeta governala dal principe di Hassia Philipstadt, si apprestò a valorosa difesa. Finiva il giorno 12 di febbraio, e cessava per li suddetti accordi il timore della guerra esterna, ma crescevano gl’interni pericoli della città; ché la plebe, avida, scatenata, infrenabile da forze legittime, a gruppi già si assembrava in su le piazze più frequentale, ed agognavano l’istante di prorompere a ruba e a sacco, sò come nel 99. Ma uomini onesti fecero inchiesta dell'armamento de' buoni, e la reggenza aderendovi fece decreto, che, stampato nella notte, fu affisso, prescrivendo quiete a' cittadini, e di essa difensori i gentiluomini d’ogni rione, incoltati ad armarsi ed a percorrere come forza pubblica là città, sì che nel mattino del 13 febbraro alcune migliaia di cittadini percorrevano a drappelli armati le strade e le piazze. Allora sperimentossi la utilità delle guardie cittadine nelle rivoltare politiche; le quali guardie poscia ricomposte ne' moti civili degli anni successivi, tre volte salvarono la città e le province. Durò quell’ordine due giorni, però che al mezzo del dì 14 di febbraio del 1806 giunsero alle porte di Napoli le prime squadre francesi.
Al unire dell’anno 1805 reggevano la giustizia civile nel nostro reame dodici legislazioni, opera di venti secoli, vari i legislatori, svariale le costituzioni de' popoli; però la giurisprudenza non era una scienza. La procedura non era catena necessaria di atti legali, ma un aggregato di fatti, vari quanto i casi di fortuna. Assai peggiori de' giudizi civili erano i criminali. In quanto alla finanza, sconosciuti il principio delle rendite e l’uguaglianza ne’ tributari, molti pesi pubblici, distribuiti a caso, e senz’ordine riscossi, versavano ogni anno nella regia cassa sedici milioni di ducati. La proprietà stava in poche mani quasi immobile per feudalità, primogeniture, fidecommessi e vincoli di fondazioni pubbliche; le industrie, poche; le manifatture, scarse e rozze; di economia pubblica, nulla. Amministravano le rendite comunali un Sindaco e due Eletti; mancava il consiglio municipale, l'amministrazione di distretto e di provincia. A dir breve, l'ordine della pubblica amministrazione mancava affatto nel Regno.
Tale era lo stato delle cose nel nostro reame, quando il dì 15 di febbraio del 1806 entrava in Napoli Giuseppe Buonaparte col nome di luogotenente dell’imperatore Napoleone. Fu suo pensier primo l’inseguire l’esercito borbonico, che ritiravasi per le Calabrie. Diecimila Francesi, guidati dal generale Regnjer, andavano ad oste contra quattordicimila Napolitani, obbedienti al generale Damas. I Francesi ruppero in Campestrino e Lagonegro poche schiere napolitano, scacciarono da Rotonda uno squadrone messo a vedetta, e, per balze e greppi creduti inaccessibili, discesero rapidamente verso il piano, mentre le schiere napoletane alleiate in due linee intendevano a difendere la stretta. Cominciala la zuffa, pochi salvarono alla spicciolata, pochi vi caddero, l'esercito fu prigione; che la strettezza del passo, i carreggi, la calca ingombrarono l’uscita. I Francesi soggettarono tutte quelle terre, fuorché Maratea, Amantea e Scilla, forti di mura e di armi. Giuseppe intanto intendeva in Napoli ad ordinare il governo, prescrivendo che durassero le antiche leggi, gli ufizi, gli ufiziali. Compose il novello ministero di sei ministri, quattro napolitani, due francesi, il commendator Pignattelli, il principe di Bisignano, il duca di Cassano, il magistrato Michelangiolo Cianciulli, Miot, ministro per la guerra, Saliceti, ministro per la Polizia. Si formò un reggimento di fanti, e poscia altri tre; si ordinò la Polizia. Giuseppe andò a visitare le conquistate Calabrie. Indi a poco l’isola di Capri, poco innanzi facilmente occupata da' Francesi, del paro che Procida ed Ischia, mal custodita, fu dopo debole contrasto espugnata dagl'Inglesi, fatti prigionieri i soldati, che la guernivano. L’isola, fortificata e munita di numerosi presidii, venne governata dal colonnello Hudson-Low, lo stesso che anni dopo fu rigido custode di Napoleone in Sant'Elena. In questo mentre Giuseppe fu nominato re delle Due Sicilie. Il decreto dell'imperatore Napoleone fu dato in Parigi il 30 marzo 1806. Giuseppe, avuto quel decreto in Reggio, stremo uogo delle Calabrie, volse frettolosamente a Napoli, e vi giunse gli 11 di maggio. Tre senatori francesi con fogge magnifiche vennero ad ambasciata per riverire in nome del senato di Francia il novello monarca.
Finita quella pomposa cirimonia, il governo intese ad accrescere la forza delle armi. Divise l’esercito in tre squadre, presidiando con l'una le fortezze, la città, i maggiori luoghi del Regno; correndo con l’altra le province; stringendo con la terza gli assedi: quello di Gaeta lentamente procedeva; che gli assalitori eran bersaglio alle offese de' bastioni e delle navi, le quali, scorrendo lungo il lido, battevano di fianco il campò. La schiera retta dal general e Lamarque, la quale dovea soggettare la Calabria, ebbe carico di espugnare Maratea. Assedianti ed assediati per tre giorni di grandissima forza combatterono; ma l'arte e l’ordine al numero prevaiando, degli assaliti chi diessi a fuggire, chi a ripararsi in su le navi, chi a chiudersi nella cittadella. Presa la città e messa a sacco, arresasi la cittadella nel seguente giorno, furono le morti numerose e crudeli. Disfatta Maratea, i Francesi procedendo nella Calabria e soggettando tutte le terre sino a Cosenza, cinsero di assedio Amantea. All'apparire di quelle armi, cittadini e villici disertavano le città e le ville, e, girando per ascosi sentieri, combattevano alle spalle le ultime file della colonna francese. Saputisi in Sicilia quei moti, disbarcò presso a Reggio una schiera di soldati, espugnarono la città, strinsero d’assedio Scilla, datasi poco innanzi senza contrasto a' Francesi, e proseguirono verso Monteleone. Un inglese, rinomato pe’ suoi audaci intraprendimenti, il quale opposto aveva in Oriente una diga agli sforzi di Napoleone, Sidney-Smith, che poco tempo prima mosso da Sicilia con grosso naviglio avea vittovagliato Gaeta, sollevato i Calabresi, fornito loro armi e munizioni, e s’era impadronito di Capri, incuorò con l'esempio e con la favella il general e Steward,il. quale uscì da' porti della Sicilia con seimila fanti e cavalieri inglesi, e, fornito di abbondanti artiglierie di marina, scese nel golfo di Sant’Eufemia appresso a Nicastro, e quivi, poco dalla riva discosto, posesi a campo. Il generale Regnier con sei mila soldati accampò in Maida, lungi sette miglia dalle tende nemiche. Essendo egli stato sventurato in Egitto combattendo contro lo stesso Steward, e sperando ristoro di ventura in Calabria, avido di vendetta assaltò il campo di lui; ma in men di due ore caddero due mila Francesi, e Regnier. ridusse il resto sopra i monti di Nicastro e Tiriolo, serbando il possesso di Catanzaro ed aperto il cammino verso Cosenza. Le quali cose, inanimendo i nemici delgoverno francese, e ingenerando in esso sdegno e sospetto, produssero morti, per condanne o comando, non numerate né numerabili; modi di giustiziare, vari, nuovi, terribili.
Frattanto riordinavansi i ministeri: quello degli affari stranieri fu affidato al marchese del Gallo. Il ministero dell'interno ebbe carico di quella parte di economia civile, che contiene l’amministrazione delle comunità e delle province, le arti, le scienze, le fondazioni di pietà e di utilità pubblica. Fu dato un consiglio allo Stato, composto di trentasei consiglieri, un segretario, otto relatori, un numero indefinito di auditori, un vice presidente, un presidente, il re: dava sopra ogni legge parere segreto per giuramento e statuto. Nel medesimo tempo si fece altro giovamento al regno, col comporre le guardie provinciali nelle province, le civiche nella città, e col dar loro armi e potere.
Una legge di Giuseppe diede a censo perpetuo quella vasta pianura di Capitanata, cui addomandiamo Tavoliere, lunga settanta miglia, variamente larga. E così, ristretti i pascoli a' soli bisogni, coltivate le residue terre a piante fruttifere, arricchì la finanza, prosperò l’agricoltura, migliorarono le sorti de' pastori, le condizioni degli armenti. Sin da remotissimi tempi, che sarebbero fuggiti dalla memoria degli uomini, se Varrone nei libri non ce gli avesse ammentati, quel terreno destinato a pascolo, fruttava ricco tributo allo stato. Nel XV secolo Alfonso I d’Aragona richiamò al fisco per contratti perpetui quella parte del Tavoliere venduta o data in dono a Baroni ed a' preti, e così eran rimaste le cose sino al 1806.
Intanto molti mali presenti affliggevano il regno. Il generale Regnier, travagliato sopra i monti di Tiriolo, intese a raccorre le schiere in Cosenza, ad unirle alle altre poche del genera] Verdier, e a lentamente ritirarsi verso Basilicata. Imperò Amantea, guardata dai Borboniani, fu libera d'assedio; Scilla, dai Borboniani assediata, più stretta e disperata di soccorso; Cotrone ceduto agli Anglo-Siculi; tutte le Calabrie perdute da' Francesi; ad esempio di quelle, la Basilicata, i due Principati e Molise formicavano di bande borboniche; la Terra di Lavoro era sommossa da Fra' Diavolo, gli Abruzzi dal Piccioli, le Puglie dalle navi nemiche scorrenti l’Ionio e l'Adriatico. Scilla, dopo aver fatto mirabile desistenza, alfin cadde il 16 di luglio del 1806, perché fu aperta con le mine dagli assalitori larghissima breccia nelle mura. Gaeta si arrese a' 18 dello stesso luglio. Il colonnello Storz. dopo la mortal ferita del prode Philipstadt, viste già aperte le mura, concordò rendere Gaeta a' Francesi ed imbarcare la guernigione per Sicilia. Furono morti o feriti 900Borboniani; 1100Francesi: tra Borboniani ferito nel capo il principe Philipstadt; tra Francesi il generale Vallongue, colpito da scheggia di bomba, cessò di vivere il terzo giorno, ed il general Grignyebbe mozzato il capo da una palla da sedici. Erano gli assediati sette mila a quel torno, metà degli assediatovi; bordeggiavano in giro alla fortezza o stavano ancorati nel porlo quattro vascelli inglesi, sei fregate, trenta cannoniere o bombarde, alcune navi da trasporto.
L’oste francese, dopo l'assedio di Gaeta, sotto il comando dello stesso Massena volse alle ribellate Calabrie, bandite dal governo in istato di guerra. A cotanta minaccia quelle genti non furon prese da timore; ma adunatesi in gran numero in Lauria, e aventi ritirata sicura su gli alpestri monti del Gaudo, s’inselvarono davanti alla città, ed offesero. con colpi d’archibugio le prime schiere francesi; indi sbigottendo si misero in volta. Latina, per primo esempio, fu messa a sacco ed incendiata dal vincitore, sì che arsero con le magioni alcuni infermi dal corpo, e parecchi non ancora usciti di fanciulli, cui età novella faceva innocenti. Procedendo l’esercito, Massena cinse di assedio Amantea e Cotrone; quindi volse a Palme. Amantea, guardata da difensori con animo fermato ad estremo combattere, cedette al fine per fame, ma a patti onorevoli. Consumale affatto le vettovaglie, si arrese pur Cotrone; ma i difensori andarono liberi, imbarcate sopra fregata inglese, che a vista della cittadella bordeggiava.
Frattanto s’impose tributo su i poderi rustici ed urbani, detto Fondiaria; abolite le antiche contribuzioni dirette, ineguali ed assurde. Gli arrendamenti ritornarono alla finanza: chiarite le ragioni degli assegnatori, e scritte in un libro, detto Granlibro de' creditori dello Stato. Separato il patrimonio regio da quello dello stato, l’uno si affidò al ministro di Casa Reale, l’altro ad un direttor general e. Simile alla direzione del demanio fu ordinata quella de' dazi indiretti. Si ridussero a due i già sette banchi della città; uno di Corte nell’edifizio di San Giacomo, l'altro di privati nella casa detta de' Poveri.
Poco appresso fu composto il Tesoro Pubblico, dove con regole di legge si concentravano le entrate ed uscite della finanza, e sì che del patrimonio fiscale il Tesoro chiariva ogni credito, ogni spesa; il banco accertava il denaro entrato ed uscito. Si abolì per legge la feudalità, ritornando intera la giurisdizione alla sovranità, e dichiarata da questa inseparabile. Per altra legge, abolite le sostituzioni fedecommessarie, gli attuali godenti divennero franchi padroni delle già vincolate proprietà. Per avara e finanziera idea furon disciolti gli ordini numerosi di San Bernardo e San Benedetto. Si diedero a' giudizi criminali libere forme. Per altre leggi si prescrisse che ogni città, ogni borgo avesse maestri e maestre, perché i fanciulli e le fanciulle fossero ammaestrati nel leggere, nello scrivere, nell'arte de' numeri e ne’ doveri del proprio stato; che ogni provincia avesse un collegio per gli uomini; una casa per le donne, ne’ quali si apparassero e le scienze e le arti belle e le nobili esercitazioni a colta società pertinenti. Altre leggi fondarono le scuole Speciali. S’instituí,riccamente dotata, un’accademia di storia ed antichità e di scienze ed arti, che poscia cresciuta, fu addomandata Società Reale.
Tali eran le cose nel nostro regno al finire dell'anno 1806. Mesto cominciò il 1807 per opere inique, per crudi castighi, timori, pericoli. Luigi La Giorgi, ricco e nobile, straziato morì in carcere; il duca Filomarino ebbe il capo mozzato; il marchese Palmieri, colonnello, fu appiccatoper la gola alle forche; parecchi chiari personaggi e donne patrizie e donne di onesta fama e preti e frati eran tenuti prigioni.
Per novelli provvedimenti fu la città illuminata la notte da 1920 lampadi lucentissime; mentre per lo innanzi col suo bruno ammanto furti ed oscenità copriva: le maggiori città del regno ne imitaron l'esempio. Si aprì novella strada da Toledo a Capodimonte, e però si demolirono parecchi edilizi, e si edificò il ponte della Sanità, magnifico per mole. Per ampliare il foro del par agio reale fu abbattuto il convento e la chiesa di San Francesco di Paola. Altra legge compose lo stemma reale, il quale nel mezzo dello scudo avea l'arme imperiale francese, intorno a questa le insegne delle quattordici province del Regno, ed una, in maggior campo, della Sicilia; la collana della Legione di Onore di Francia contornava Jo scudo sostenuto da due Sirene: il manto normanno per foggia e colori sosteneva in cima la regia corona, Furono coniate al tempo stesso monete d’oro e di argento con la effigie e 'l nome di Giuseppe re delle Due Sicilie.
I nuovi allori colti da Napoleone in Alemagna influivano alle nostre cose. Dopo le battaglie di Eylan e di Friedland, presa Konigsberg, spinto il re Federigo fuor de' suoi stati, l’imperadore Alessandro verso la sua Moscovia risospinto, chiesta la pace da' vinti, fu conchiusa in Tilsit. Si fondò per essa il regno di Vestfalia dato a Girolamo Buonaparte, si aggrandì il regno di Sassonia degli stati polacco-prussiani, ed il regno di Olanda della signoria di Tever; furono riconosciuti la Confederazione del Reno, e Giuseppe re di Napoli, Luigi di Olanda, Girolamo di Vestfalia. A questi medesimi giorni cominciarono gli sconvolgimenti della casa di Spagna, e l’astuto imperatore de' Francesi cogliendone il destro, per ambizione ed insazietà d'imperi, si pose in animo di giugnere a' suoi dominii la penisola, da' Pirenei all’Oceano, e di condurre al trono di Spagna il re Giuseppe. Questi nell’ultimo mese del 1807 recatosi a Venezia e avuti con l’imperatore segreti abboccamenti, ritornò in Napoli.
In lunga e fosca notte del 30gennaio 1808 per esplosione di polvere precipitarono ventidue stanze del palagio di Serracapriola, abitato dal ministro di Polizia Saliceti. La figlia, gravida dieci mesi, lo sposo, duca di Lavello, e Saliceli medesimo furono in vario modo, con diversità di pericolo, feriti; un servo ebbe infrante le gambe; ad un altro fu spenta la vita. Infra quei rottami furon trovati i resti di una macchina intesta di corde intrise nel catrame, avvolte a molti doppi, capaci di trenta rotoli di polvere: un tal Viscardi ne fu l’autore.
Ad esempio della Legion di Onore di Francia, fu istituito l'Ordine Reale delle due Sicilie, che avea per fregio una stella a cinque raggi color rubino, in mezzo alla quale da una faccia l’arma di Napoli e 'l motto Renovata Patria, dall'altra la effigie del re con lo scritto Ioseph Napoleo Siciliarum rex instituit, sormontata da un aquila d'oro appesa a nastro turchino. N’era il re gran-maestro, cui succedevano 50dignitari, 100 commendatori, 500cavalieri. Né furono fregiati i primi ufiziali della corte e della milizia, i più celebri artisti, i più sapienti del reame.
Gia volgevano due anni, da che l’oste francese era nel Regno; e tenea tutte le province, eccetto Reggio, Scilla ed alcuni paesi dell'ultima Calabria, soggetti ai Borboniani e agl’Inglesi. Nelle vaste pianure di Seminara,Rosarno e Nicotera venivano improvviso a battagliarsi i due eserciti. Ne’ piani di Seminara l'oste guidata dal principe di Philipstadt mise in volta ed in rotta i francesi, i quali radunatisi sotto il duce Regnier, riassaltarono il campo, lo disfecero e fugarono il nemico sino a Reggio. Al cominciar di febbraio Regnier con nuovi reggimenti andò contra quella città; ma quattro navi inglesi, remando vicino al lido, rompevano le file, uccidendo soldati francesi. Quand'ecco per sollevata procella i fortunosi flutti spingono furiosamente le navi verso terra, e i soldati francesi, tenenti in boccale spada, cacciatisi a nuoto infra le agitate onde, si uncinano con la sinistra mano al bordo, con la destra combattono, co’ piè si rampicano, trionfano: quattro navi armate di cannoni sono predate da fanti nudi. Un brick capitanato per Glaston, comandante di un vascello inglese, viene in lor soccorso, e, spinto anch’esso da furioso libeccio in su la costa di Calabria, si arrena: i Francesi corrono al vicin lido, altri mettonsi a nuoto; si combatte due ore; muore il capitano; il legno, che avea 14 cannoni, non pochi soldati e numerosa ciurma, si arrende. Caldo per questa vittoria il generale francese, debellò nel giorno stesso la città di Reggio, e poscia voltate a Scilla le schiere, le artiglierie, gli strumenti di guerra, il dì 4 di febbraio ne cominciò l’assedio, che ai 17 terminò, ritiratisi gl’Inglesi su le preparate navi per una scala coperta, intagliata con gran fatica nel vivo sasso ne’ 18 mesi, che colà dimorarono.
All'immensa congerie de' vizi e degli errori dell’antica giurisprudenza, frutto di diciotto secoli d’italiane sventure, furon sostituite novelle leggi, le stesse di Francia, componenti il codice Napoleone, così appellato, perché Napoleone, primo console e legislatore, gli avea dato il suo, nome: erano le civili, le penali, di commercio e di procedura civile e criminale.
Giusta ciò che da parecchi giorni già si buccinava, il re partissi. Iodi ad un mese, da Baiona bandì per editto esser chiamato dai disegni di Dio al trono della Spagna e del le Indie; concedere a documento di amore verso i Napolitani un politico statuto, raffermativo de' beni operati per suo mezzo, operatore di maggiori beni. Quella costituzione, addomandata Statuto di Baiona, perché avea data di Baiona del 20 giugno del 1808, era garentita al regno delle Due Sicilie dall’imperatore Napoleone. In luglio dello stesso anno partì verso Francia la famiglia del re Giuseppe, la moglie e due figliuoli, tre mesi avanti giunta a Napoli. La regina appellavasi Giuseppa Clary, nata in Marsiglia, di casa mercatante, onesta, ma oscura.
Ai 31di luglio, per decreto dell'imperatore Napoleone appalesossi il re successore; ventotto giorni durò l'interregno, e reggevano Io Stato, senza nome di re, le antiche leggi, l'autorità de' magistrati, la potenza degli eserciti,
Nato in Cahors nel Quercy, di genitori poveri e modesti, Murat, destinato da suo padre al sacerdozio, spacciatamente si diparte dal collegio, arrotasi in un reggimento, diserta, si traduce a Parigi, fassi ascrivere nella guardia costituzionale di Luigi XVI, e alla soppressione di questo corpo, ottiene ii grado di sottotenente in un reggimento di Cacciatori a Cavallo. Di grado in grado per viene a quello di Tenente-Colonnello. Rimosso nel 9 termidoro da quei posto, rimessovi dopo il 13 vendemmiaio, gli vien dato carico nell'armata d'Italia La sua audacia colpisce Buonaparte, il quale lo elegge a suo aiutante di campo. Insino da questo istante Murat aggrappasi alla fortuna del suo general e, lo seguita in Egitto, gli dà mano a distruggere il governo dittatoriale. Il primo console, trambasciando di desiderio di sempre più aggraduirsi una persona, che tutta davasi al servigio di lui, e che grandemente aadavagli a' versi per gli alti disegni, che in sua mente volgeva, crea Gioacchino a comandante della guardia consolare, e gli dà in matrimonio la sua propria sorella, Maria Annunziata Carolina, bella della persona ed avvenente.
Nella seconda conquista d’Italia del pari che nella prima Murat combatté con incredibile gagliardia: cacciarsi infra le grandini di palle fulminate dagli arcobugi e da' cannoni, precipitarsi furente in mezzo alle più dense mischie, avevaselo a baia: a piè delle Alpi e delle Piramidi, su le sponde del Danubio e del Boristene, da per tutto dà prove d'instancabil valore, e sempre studia attesamente a vittoria. Imperò gli onori piovono sopra di lui: elevalo viene al posto di Maresciallo dell’impero; nel 1805, alla dignità di Principe. Un decreto dell'imperatore Napoleone, da lui domandato statuto, dato in Baiona il dì di luglio del 1808, diceva: «Concediamo a Gioacchino Napoleone, nostro amatissimo cognato, gran duca di Berg e di Cleves, il trono di Napoli e di Sicilia; restato vacante per lo avvenimento di Giuseppe Napoleone al trono di Spagna e delle Indie.»Ilnovello re doveva incominciare a governare lo Stato dal dì primo del vicino agosto con le regole dello statuto di Baiona del 20 giugno idi quell'anno.
Murat iva pur di questo tempo enfaticamente strombazzando le più piaggiatoci promesse, e, infra le altre cose, impromettea di serbare la costituzione del suo predecessore; giurava lo statuto di Baiona; e con altro decreto nominava a suo luogotenente il maresciallo dell'Impero Perignon.
Spartasi tra gli abitanti del reame di Napoli la notizia dell'elezione del nuovo re, gli animi tra le speranze d’un felice ed i timori d’un assai triste avvenire incerti ondeggiavano: imperciocché, ben eglino ammontavano la felicità e le grandezze impromesse loro dall'editto di Gioacchino; ma raccordavansi pur bene de' recenti fatti di Spagna e della ribellagione di Madrid, da lui con molta strage di popolo repressa, e dell'assassinio, ond'egli fu incaricato, del duca d’Enghien, se pur verace ne sia stato il grido.
A dì 6 settembre di quell'anno ei giugne in seno alla bella Partenope, fa mostra agli occhi de' Napoletani d’un fasto teatrale, e per lo screzio delle sue vestimento, dona in qualche sorta la dignità reale in rappresentazione. Il popolo calcando accorreva, e con gridi di gioia accompagnollo sino alla reggia; per la città si fecero luminarie grandi. Il dì 25 dello stesso mese fece ingresso nella città Carolina Murat con quattro suoi figliuoli. Furono pur grandi le festi, ma non magnifiche quanto quelle che si fecero all’arrivo del re, e tra quelle esultanze il re meditava la spedizione di Capri. Per ben due fiale crasi sotto il reggimento di Giuseppe quella spedizione tentata, ed altrettante per mancanza di segreto era tornata a vuoto. L’audace Murat sostener non seppe, come l’indolente Giuseppe, che gl’Inglesi dominassero nel golfo di Napoli. Nella notte del 3 ottobre muove la spedizione dal porto di Napoli, ed altra minore da Salerno. Al mezzo del giorno 4 l’isola e investita da tre parti, dal porto, dalla marina e da un luogo alpestre al lido di Anacapri. Scalaronsi con incredibil arditezza le rocce, che stanno a cavaliero a quell’isola, dalle truppe franco-napolitane capitaneggiate dal tenente-generale Lamarque, e Gioacchino dalla manna di Massa dirigeva egli stesso la spedizione. Capri fu presa d’assalto; gl'Inglesi l'evacuarono, e 'l colonnello Houdson-Lowe abbandonò quell'isola, per recarsi su quella di S. Elena, e servire da carceriere a Napoleone. Cutalimpresa per rattezza, modo ed effetti crebbe gloria a Gioacchino. Di lì a poco egli abolì il decreto di Giuseppe, che area dichiarato le Calabrie in istato di guerra, e però ritornaron quelle Province sotto l’usbergo delle sacre leggi; e grazia agli esuli di poter rimpatriare, furono sprigionati i rei distato, sciolte le vigilanze, e nel proseguimento del suo regno furono pur anche richiamati a libertà dalle crude relegazioni di Compiano, Fenestrelle e di altre più rimote carceri della Francia parecchi individui; i poco avventurati vi eran periti, i peggiori viveano, perché Morte fura Prima i migliori, e lascia star i rei.
Diessi pur opera in quel tempo, che il registro delle nascite delle morti e de' matrimoni affidato fosse a magistrati civili,e che 'l matrimonio celebrar non si potesse in Chiesa come Sacramento, se prima celebrato non si fosse nella Casa del Comune come patto di società. Fu aperto il registro delle i poteche. Furon ordinate con un sol decreto per la parte amministrativa la municipalità di Napoli e la Prefettura di Polizia. Fu no minato un corpo d’ingegneri di ponti e strade, e rimase il consiglio di lavori pubblici surto sotto Giuseppe. Fu fondata in Napoli, e segnatamente nell'edilizio addomandato dei Miracoli, una. casa di educazione per le ben costumale fanciulle; e poiché prendevano cura suprema la regina, fu dal suo nome appellata Casa Carolina. Furon composti due reggimenti di Veliti, tutti gentiluomini. Al cominciare dell'anno 1809 si pubblicò la legge della coscrizione. Avuti i soldati, formavansi i reggimenti di tutte le armi, s’ingrandivano le fabbriche militari, fondavansi novelle scuole, nuovi collegi. Si volle allor formare un progetto d’istruzione universale, la quale, incominciando dalle scuole elementari, si estendesse sino alle scienze sublimi ed alle accademie. cotal profferta fu fatta al cavalierGaldi, il quale, di ritorno da una missione in Olanda, era ben conosciuto nel mondo letterario per diverse opere di erudizione, ed in ispezieltà per alcuni suoi trattati su l'istruzione pubblica di Napoli. Stabilironsi a tal uopo in ogni comune scuole primarie, delle quali l’ex-ministro francese Miot data avea la prima forma così alla grossa. Un altro divisamento di costui venne pur messo in esecuzione, quello, cioè, di formar in ogni comune scuole di fanciulle, dirette da maestre.
Le scuole secondarie, che di presente esistono, furon fondate; le scuole ed i collegi degli Scolopi, non che quelli di Maddalone e di Catanzaro, furono riorganizzati; quello di Catanzaro fu eretto a Liceo. Fondaronsi collegi a Monteleone, a Solmona, a Campobasso, a Caravaggio ed a Napoli; licei a Reggio ed a Salerno: quest'ultimo era bellissimo di tutti i licei d’Italia. Ristabilissi il collegio italo-greco a S. Adriano in Calabria e quello di Arpino, patria di Cicerone, il qual collegio dal nome di quell'ingigne oratore fu appellato Tulliano. L'orlo botanico, il collegio di medicina e di chirurgia, l’osservatorio astronomico furono creati; ed i gabinetti di fisica e di. chimica riccamente provveduti d'dstrumenti e di apparecchi.
Muratal suo giugner. in Napoli composto avea due reggimenti di Vèliti, come dicemmo dianzi, ed altri battaglioni e compagnie sotto altri nomi; ma si tenui mezzi di guerra non bastavano a' bisogni ed alle ambizioni di lui. E però al cominciare dell'anno 1809 si pubblicò la legge della coscrizione. Avutisi i soldati, si composero i reggimenti di tutte le armi, e Gioacchino ingiunse che a' 25 di marzo, dì Natale di lui e della regina, si disiribuissero ai nuovi reggimenti dell'esercito ed alle legioni civiche le bandiere. Imperò dodici mila soldati anelatisi in due file lungo la strada di Chiaia furon presenti a quella ceremonia, e contossi per futura memoria di lei una medaglia di argento, la quale avea nell'una faccia l’effigie del re, nell'altra quattordici bandiere (quante erano le province) ordinate a trofeo, col motto: Sicurezza Interna; ed attorno: alle legioni Provinciali, il 26 di Marzo del 1820.
Graziosamente sorridea la ventura a Murat al mezzo di quell'anno, quando gli 11 di giugno il telegrafo dell’ultima Calabria annunziò la spedizione anglo-sicula, forte di sessanta legni da guerra d(')ogni grandezza, e di dugento sei da trasporto, sciolta dai porti di Palermo e Melazzo, navigare i mari della Calabria, sotto il comando del generale inglese Stewart. Poco appresso salparono dal porto di Messina due novelle spedizioni, delle quali una disbarcò nel golfo di Gioia soldati, l’altra nella marina tra Beggio e Palme altri tre mila individui: gli uni cogli altri congiuntisi stettero per istanza sopra i monti della Melia, ed impresero l’assedio di Scilla. Di quel medesimo tempo tre flotte sicule-inglesi correvano intorno alle coste de' tre mari Adriatico, Ionio, Tirreno minacciando i luoghi forti, assaltando i deboli. Gioacchino intanto punto non mostravasi sbaldanzito; e come quegli che per natura operoso era, questi coll'esempio incorava, quelli consigliava, ed a tutto dava accuratamente provvisione; ordinò per custodia della città la milizia urbana, cui diè nome di Volontari-scelti, alla quale si ascrissero tostamente per difesa comune e i nobili ed i magistrati e gli statuali e i maggiorenti tutti; diede pur opera al tempo stesso che' le schiere si adunassero in tre campi, uno in Monteleone di quattro mila soldati, altro in Lagonegro di mila seicento, il terzo di undicimila in Napoli e ne' dintorni: non a scendevano a 17 migliaia i combattenti per Murai, avendone poco innanzi mandate in Roma altre sei migliaia, e stando altri reggimenti nel Tiralo e in Ispagna, per servire agli ambiziosi disegni dell'imperator de' Francesi.
L’armata nemica giunta alle acque di Napoli ed a pompa e con ¡studio attelatavisi, tutto il golfo parevane ingombro. Rimasa per due giorni così schierata, assaltò nel terzo Procida ed Ischia: quella alle prime minacce si arrese, questa alla sfidata difendendosi, fe’ debole resistenza. Pochi fanti intanto congiunti con più numeroso stuolo di cavalieri guardavano la spiaggia da Portici a Cuma; alcuni battaglioni custodivano il colle di Posillipo; il resto dell'esercito accampava sul poggio di Capodimonte. Gioacchino stava in dibattito se doveva, o no, far venire a Napoli da Gaeta dov'era ancorata e sicura la sua piccola armata, composta d'una fregata, di una corvetta e 38 barche cannoniere, Ma per mal pesato consiglio e per bramosia di combattere avvisossi chiamarvela. Essa capitanata da Bausan spiegò tostamente le vele per la volta di Napoli, e scorta dall'armata nemica, parecchie navi di questi le si spiccaron contra, e scontratesi entrambe nel mare di Miliscola, per ben due ore con orribile spietanza combatterono. Otto delle napolitano barche affondarono, cinque furon predate, e diciotto tirate a terra, disposte a battaglia, guerreggiavano; le altre sette barche e i due legni maggiori assai malconci, presero asilo net porto di Baia. La flotta anglo-sicula perdè due barche andate a fuoco, il fuoco impigliò un maggior legno, e patì guasti e morti non poche. La fregata e corvetta napolitano ristoravano frettolosamente i lor danni, mentre il nemico rabberciava i suoi sdruciti legni e in quella il capitano Bausan, vedendo che durava il comando del re, per render paghe le guerresche brame di lui, uscì del porlo con le due navi (avventato e pericoloso partito)e volse le prore a Napoli, Parecchi nemici legni assaltarono con incredibil celerità quei due, i quali, mai non ritmando di combattere, sforzatamente navigavano, fino a tanto che rottisi gli alberi maggiori e rovesciati, spezzato il sartiame, e forate in cento parti le vele, lenti lenti come pompa funebre procedevano, osservati dal re, dalla regina e da' lor figliuoli, i quali, punto non curandosi delle nemiche offese cui si esponevano, commisti vedevansi al popolo, che a stormo traeva alla riviera di Chiaia per cotal miserando spettacolo.
Giunto il sole al suo balzo entravano in porto le navi napolitano; e le anglo-siculesi slargavano, ritornando alle loro stanze inSicilia. Murat sentendosi altamente gravato dell’oltracotanza degli Anglo-siculi, che occupavano varie terre delle Calabrie la dimane spedì ordine al generale Partounneaux di muovere da Monteleone, e rappiccar loro aspra battaglia per rincacciarveli, A gran giornate procedeva il general e; ma prima che a Scilla e. a Melia giungnesse, gli Anglo-siculi, togliendo a furia l’assedio e 'l campo, ed abbandonando artiglierie, altre armi, attrezzi, ospedali e cavalli, andaron in volta. Pochi altri giorni rivolti, intesa la battaglia di Wagram, {prodigiosi fatti della Germania e l’armistizio tra la Francia e l'Austria fermato in Znaim, il nemico smurò i forti e le batterie di Procida e d'Ischia, rimbarcò le genti, abbandonò le {sole, richiamò per segni le altre sue navi, che scorrevano lungo i nostri lidi, e ritornò a' porti della Sicilia,e di Malta.
Venuta a fine la guerra esterna, s’incese la interna, vasta ed orrenda. Innumerabili bande di scherani miseramente travagliavano tutte le province del regno. E però fu preso Gioacchino da tanto sdegno. che dettò tre leggi, prescrivendo con la prima, che i beni liberi di quelle genti fossero confiscati, e parte data in ricompensa ai danneggiati, parte in premio ai più zelanti seguaci del governo, il resto venduto a benefizio della finanza. Con la seconda legge invitava i Napoletani, che militavano pel re Borbone, ad abbandonare quei vessilli, e venirsene, in patria, ove avrebber avuto, secondo che meglio loro abballava, od il ritiro dal servizio, o lo stesso grado, che lasciavano nell'esercito di Sicilia. Con una terza legge si prescrisse, che in ogni provincia, perenta del comandante militare e dell'intendente, si facesse lista degli assassini, chiamati di poi Fuorgiudicati; si affiggesse ne’ pubblici luoghi di ogni comune; si desse ad ogni cittadino facoltà di ucciderli o arrestarli; arrestati, si giudicassero dalle Commissioni militari; ugual pena di morte avessero i promotori o sostenitori dell'assassinamento; s’incarcerassero le famiglie dei capi o de' più conti delle bande. Fra i delitti di assassinio e quelli, che da esso derivavano, il censo giudiziario del regno numerò in quell'anno 1809 trentatremila violazioni delle leggi. Per le anzidetto provvisioni minorò il ladroneccio, ma non fu del tutto spento.
Giunse infrattanto il 15 agosto, dì natalizio dell'imperatore Napoleone, ed il popolo apparecchiavasi a gran festa, quando possente flotta nemica a gonfie vele navigava nel golfo alla volta di Napoli. Pervenuti a gittata, e schierati a battaglia, alle tre ore dopo mezzodì i legni nemici lanciarono sopra la città le prime offese, e Tarmata napolitana, poco forte, ma soccorsa dal lido, andò incontro al nemico, guidata da Gioacchino sopranave ricchissima, vestilo da grande ammiraglio dell'Impero. Si combatté vigorosamente insino a sera, quando il nemico, nessun danno fatto né ricevuto, prese il largo; e 'l re fe’ ritorno alla reggia tra i suoni festivi del popolo, che in quel prospero incontro ismodava.
Murat, prima che fosse quell'anno rivolto, levò altri reggimenti di fanti e cavalieri, regolò le amministrazioni militari, ordinò l’artiglieria, il genio e l’armata marittima, preso dalla vaghezza delle militari cose, e dal patto fermato con l’imperatore Napoleone di costruire in un certo tempo quattro vascelli e sei fregate. Come la coscrizione per l’esercito, fu l’ascrizione per l’armata; si provvide con tre leggi alla guerra marittima, alle amministrazioni, alle costruzioni. Fu regolata l'amministrazione delle comunità, suggellandola troppo a' ministri del re. Proseguendo le provvidenze della commessione feudale, si preparò la ripartizione de' beni feudali fra cittadini. Si sciolsero tutti gli ordini monastici possidenti (ducentotredici conventi di frati e monache), si lasciarono i cercanti.
Ma fra tanti ordinamenti non si fe’ motte dello statuto di Baiona, comecché patto di sovranità; di costruzione, nulla,
Fermato a Vienna il 14 di ottobre del 1809 il trattato di pace tra l’Austria e la Francia, presero la volta di Parigi 'prima il re, poi a regina, chiamativi da Napoleone per grave caso di famiglia, il divorzio con l’imperatrice Giuseppina. Eranvisi assembratigli altri re o principi del parentado di Buona parte, tranne Luciano, nemico, e Giuseppe, guerreggiante in Ispagna. Tutti, o vuoi per adulazione, o vuoi per senno, allo scioglimento di quel matrimonio assentivano: disapprovavate il solo Gioacchino. Il senato riconobbe il divorzio, e legittimollo. L’arciduchessa Maria Luisa, figlia di Francesco I, fu scelta ad Imperatrice, perché appartenente alla casa d'Austria, la più regia in Europa; inclinava Gioacchino ad altra della casa di Russia, perché la più possente. Muratintertenevasi ancora in Francia, quando le isole di Ponza e Ventotene da' soldati napoletani, e dal principe di Canosa, che li reggeva, furon abbandonate. Il ministro di Polizia Cristoforo Saliceti morissi a quei giorni per morbo violentissimo. Si disse morto di veleno, avvalorandone la voce i sintomi; ma poi fu visto che di tifo maligno trapassava.
Rimasta in Francia la regina, il re fe' ritorno a Napoli, tutto volgendosi alle cure di sfato. Fondò in ogni provincia una società di agricoltura, te assegnò terreno per gli esperimenti e per semenzaio e vivaio di utili piante, aprì scuote agrarie, diè premii e più vaste promesse agl’inventori di macchine o processi giovevoli all'agricoltura, coordinò le società agrarie delle province col giardino delle piante in Napoli, al quale fece dono di 24. moggia di terreno, allato al Reclusorio; e comandò che vi si alzasse vasto e bello edilizio e per conserva di piante e per esperienze e per insegnamenti botanici. A molti comuni si concessero mercati liberi e fiere.
Il re, data provvisione a molte cose di governo, nuovamente partissi per Parigi, per assistere alle sposalizio dell'imperatore de' Francesi, celebratesi il 1. 0 di aprile del 1810. Non appena finite le cerimonie delle imperiali nozze, Murat ritornò a Napoli, e baldamente palesò il disegno di assaltar la Sicilia. Spinto dal suo genio di guerra, ed abbaglialo da Bonaparte, accelerò i preparamenti, e preso il nome di luogotenente dell'imperatore, pose a campo, nella strema Calabria, su la riva del Faro, tra Scilla e Reggio, un esercito più francese che napolitano, aspettando, sì come l’imperatore aveva ingiunto, di menarlo in Sicilia. Ma Gioacchino muovere non potea, se prima non lo assentiva il general e Grenier, cui Buonaparte aveva eletto a comandante delle schiere francesi. Erano sedici migliaia i soldati di Gioacchino, e trecento i legni da guerra e da trasporto. Sul colle chiamato del Picale, poco distante dal mare, fu rizzata in mezzo al campo la magnifica tenda del re, e vi attendavano intorno i capi dell’esercito e della corte. Appetto a quelle schiere, su le rive del Faro da Messina alla Torre, area posto gli alloggiamenti l’oste inglese. dodicimila soldati, e sopra i monti accampava in seconda linea l’esercito di Sicilia, altri dieci mila uomini; stavano nel porto di Messina, ancorati, o mobili, vascelli, fregate, legni minori da guerra, mentre si affaticavano a fortificare la minacciata gravina grande moltitudine di soldati e di operai. Da Reggio a Scilla, da Torre di Faro a Messina, in mare, in terra, di giorno, di notte, da ambe le parti fieramente si combattea. Murat il suo valore consultando, soventi fiate apparecchiossi al tragitto, e l'avrebbe mandato ad effetto, se Grenier non fosse stato, che gl'impeti di lui ratteneva,
Eransi così cento giorni rivolti, a sdegno guerreggiando, ad effetto non già; e, omai tracorso il mezzo del settembre, per l'equinozio il mare era furiosamente combattuto da contrari venti. Compreso allor Gioacchino da sdegno contro a Grenier, che adduceva l'impossibilità dell'impresa, e volendo dargli prova, che lo sbarco in Sicilia non era in nullo modo di mondo impossibile, preparate nella cala di Pentimele tante navi quante contener potevano mille e seicento Napolitani, comandò che approdassero alla Scaletta i soldati, e per la via di Santo Stefano si mostrassero a tergo di Messina, impromettendo che il resto dell'esercito e dell’armata darebbe l’assalto tra Messina e la Torre. Grenier vietò che i suoi movessero. I Napolitani discesero al disegnato luogo, e combattendo contra schiere dieci volte maggiori, parte di essi fecer ritorno in Calabria, parte rimasero prigioni. Gioacchino magnificò con laudi quei fatti; e pochi giorni appresso, levato il campo, partissi, ed imbarcatosi al Pizzo tra baldorie, feste ed allegria popolare (inganni della ventura per ciò che nel suo fato era scritto), fe’ ritorno in Napoli. Così dette in nulla quell’impresa, che costò gravi somme al reame di Napoli, ed oltre alle morti, alle ferite ed alle prigionie, rovinò per lunga pezza la Calabria, ove tutte le piantagioni di ulivi e di viti furon rase od estirpate dalla mano devastatrice dei soldati, e fu incentivo a confiscare molte barche di America venute in Napoli con promessa di sicuro e libero commercio. Per colmo di sventure da tre mila briganti miseramente travagliavano le Calabrie e le altre province del regno. Quella piaga dello stato era profonda; facea mestieri, per guarirla, applicarvi il ferro ed il fuoco, e ciò eseguì il generale Manhès, aiutante di campo di Murai: egli avea già dato prove di sua abilità nell'esterminare vari sciami di scherani, che infestavano gli Apruzzi; il medesimo successo ottenne nelle Calabrie, comeché costretto fosse di combattervi i briganti alla spigolata, e poscia in tutto il reame. Sì che molti combattendo spigliati, furon uccisi, altri morti per tormenti, ed altri di stento, alcuni rifuggiti in Sicilia, e pochi, fra tante vicissitudini di fortuna, rimasti, ma chiusi in carcere, o confinati ne’ loro inaccessibili covi. Ed in breve le intraprese dell'industria rinvigorirono; e rianimato il commercio interno, i mercati e le fiere, per lo innanzi deserte, ripopolarono, il regno prese l’aspetto della civiltà e della sicurezza pubblica. L’universale andava strombazzando la somma efferatezza di Manhès, ma fu di presente utilissima. Gli assassinii de' briganti erano enormità, ed il generale Manhès fu strumento d’inflessibile giustizia, incapace, come sono i flagelli, di limite o di misura.
Altro benefizio universale, men presto, ma più grande, si operò nello stesso anno 1810, età novella per la vita civile del popolo napoletano, primo anno di libertà prediale e industriale, di servitù disciolte. La tante fiate vanamente scossa feudalità, fu alla fin fine atterrata, né solo per leggi, ma per possessi; essendosi divise le terre feudali tra le comunità e i baroni, e di poi le comunali infra i cittadini.
Il primo giorno del seguente anno, tra le consuete feste della reggia, il re concesse con titolo e dote, ma senza diritti ed usi di feudo, alcune baronìe a general i e colonnelli dell'esercito; ne’ succedenti anni nominò, ora per premio a' servigi, ora per favore, altri baroni, conti e duchi, e concedé titoli senza terre, o terre senza titoli a militari, a magistrati, ad artisti. Poco dopo videsi sventolare il vessillo di Napoli, del quale i colori furono in campo turchino il bianco e l’amaranto. Nel giorno stesso fu prefissa la forza dell’esercito, ed era di 63,727 uomini, indipendentemente da 51,767 legionari permanenti. E pur mancavano per compimento del detto esercito 11,510 uomini, e 3351 cavalli. Esso era composto di 26,184 uomini d’infanteria di linea; di 11,700 d’infanteria leggiera;. di 3354 di cavalleria; di 1312 del genio. L’artiglieria col treno e co’ cannonieri littorali ascendeva a 7588 uomini; l’infanteria della guardia reale a 3129; la cavalleria a 2695; la marina a 4050; la gendarmeria reale a 2460; la gendarmeria ausiliaria a 1265. Chiamarono i reggimenti, legioni; i general i di divisione, tenenti general i; e quei i brigata, marescialli di campo: molti altri nomi da' nomi francesi svariarono: che già sentivasi da Gioacchino, e traspariva nel regno il desiderio della indepennenza. La nuova scuola Politecnica ingrandì il già collegio militare; ne sursero novelle di Artiglierie e del Genio. Il comandar duro di Buonaparte era sprone a Gioacchino, d’indole libera e presuntuosa, per iscuotere il giogo della Francia. Spuntò allora il primo sdegno fra i due cognati.
Nacque a quei giorni all’imperatore de' Francesi un figlio, cui appellò Re di Bontà. Gioacchino per impostagli riverenza, si recò a Parigi: e sebbene credevasi che vi si fermasse sino al battesimo, a fine di accrescerne la pompa, inatteso tornò a Napoli anzi che la ceremonia si celebrasse. E giunto appena, congedò le schiere francesi, con decreto, che nessun forestiero, se non prima dichiarato cittadino napolitano, come prescriveva lo statuto di Baiona, potesse rimanere agli stipendi militari o civili. Spiacque l’ardito comando a Buonaparte, che in altro decreto disse: non bisognare ai compagni di patria o di fortuna di Gioacchino Murat, nato francese, e asceso al trono di Napoli per opera dei Francesi, la qualità di cittadino napoletano per avere in quel reame ufizi civili o militari. Il re infuriò, la regina placava gli sdegni. Vinse il decreto di Buonaparte: l’esercito francese uscì del regno; ma i Francesi, che avevano in Napoli militare o civile impiego, restarono.
Volgeva l’anno 1812, e Gioacchino tutto inteso alla ventura dello stato, fondava nuovi collegi e licei, e, fatte novelle ordinanze per la istruzion pubblica, con solenne ceremonia la università degli studi inaugurava. Introdusse per decreto il sistema metrico, il quale, desiderato ed applaudito da sapienti, rigettato ed abborrito dal popolo idiota, poco tempo visse nelle leggi, non mai negli usi, e l’antica barbarie di svariati pesi e innumerabili misure restò. Furono in quell’anno medesimoordinate e quasi compiute molte opere pubbliche, cioè teatri nelle più ragguardevoli città delle province, strade, ponti, edifizi, prosciugamenti di paduli, acquedotti. Ma fra tutte sono più degne di ricordanza la strada, che dalla città mena al campo di Marte; la grandiosa Casa de' matti eretta in Aversa; l’osservatorio astronomico fondato sul colle di Miradois, con disegno del barone Zach, ed ¡strumenti di Reichembac; la strada di Posillipo, che intende a prolungare l’amenissimo cammino di Mergellina e condurre alle terre, sacre alla mitologia ed alla storia, di Pozzuoli e di Cuma, evitando l’oscuro periglioso calle della Grotta; il Campo di Marte. La strada di Poliposo, per grandi lavori d’arti, per tagli di monte e traversar di balze e di borri, costò dugentomila ducati, pagati, non dallo stato, dal re, in dono alla città. Vasto terreno (moggia 900, metri quadrati 316,759) sul colle di Capodichino, ove nel 1628 Lautrech attendò gran parte di esercito per assediar la città, fu destinato da Gioacchino a campo militare, chiamato di Marte; e perciò sbarbicati gli alberi, svelte le viti, e demolite le case, che il coprivano, fu ridotto a pianura. Diciottomila pedoni, duemila cavalieri, le corrispondenti artiglierie vi si moveano ad evoluzioni militari, in due linee attelati.
Null'altro di memorabile si fece in quell’anno, però che in Aprile, il re, lasciando reggente la regina, si partì di Napoli, richiesto dall’imperator Napoleone per comandare la poderosa cavalleria dell'immensa oste di Francia, composta di Polacchi, Prussiani, Tedeschi di tutta Germania, Annoverasi, Spagnuoli, Italiani, Francesi, combattente centra la Russia, il verno e la barbarie. Era primo reggitore dell'avanguardia il re di Napoli. Il Niemen partiva i due eserciti nemici; e dato da Bonaparte il segno della pugna il 22 di giugno del 1812, Gioacchino con la possente sua schiera, valicato il fiume, pose primiero il piede su la terra de' Russi. Prese indi a poco la città di Wilna, ed oltre spingendosi, per audacia ed arte di guerra gli fu dato di entrare in Witepsk, indi Smolensko, e sempre più procedendo vinse in Wiasma, ed incessantemente combattendo col retroguardo russo, e respingendolo, giunse alla sponda della Moskowa, ove ruppe l’ala sinistra del nemico afforzata con opere e con fulminanti batterie di cannoni. Ivi fu l'orribile strage de' Russi, e dopo la battaglia, i vinti, sempre incalzati, traversarono Mosca, dirigendosi in prima alla volta di Rollomensk, poscia di Kaluga, ed il re, non rattenuto da bisogno di riposo, caldo di guerra, inseguì il nemico fin su la Nura, a venti leghe da Moshow o Mosca. Sorse speranza e voce di pace;. si concordò tregua; restarono sospese tredici giorni, le armi; l’imperator de' Francesi aspettando la pace, l’imperator de' Russi, il verno. Il governatore Postpochin macchinò l’incendio di Mosca; Buonaparte imprese a ritirarsi verso Smolensko. In questa, l’esercito russo, ch'era incontro a Gioacchino, infrangendo il patto di avvisarsi tre ore innanzi della cessata tregua, assaltò i Francesi; vasta battaglia in tutta la linea; la stretta di Woronoswo restò a' Francesi; morì fra molti il general Dery, aiutante di campo e tenero amico del re. Gioacchino in tutta la guerra di Russia provò quanto possano la prudenza, il valore, Fuso di guerra. Le schiere ordinate de' Russi e de' Cosacchi infestavano à sciami la linea francese, ritirantesi, ma in ogni scontro vincitrice. Indi a poco il verno inacerbendo a 18 gradi di Reaumur, perirono molti cavalli e guerrieri, e più infermarono. Néil freddo fermossi a quel grado t in due notti, più che 'l gelo potendo la nudità e 'l digiuno, morirono 30,000 cavalli, ed uomini in gran numero: la cavalleria dell’esercito scomparve; i già cavalieri andavano a piedi; i carri, le artiglierie, il tesoro furono abbandonati. Ridotto l'esercito sul Niemen, Buonaparte, movendo per Parigi, lasciò luogotenente il re di Napoli. L’esercito giunto dietro all'Ouder, ristoravasi appena calle durate fatiche, quando il general Yorchcon le squadre, di Russia disertò i campi francesi. Gioacchino in tanta calamità serbò animo sereno, e mostrassi sempre più preveggente, operoso, instancabile, per dar riparo con nuovi fatti di armi all’inatteso abbandono. Infine, condotto l’esercito francese a stanze comode e sicure, fermali i Bussi, terminò la guerra del 1812; e Gioacchino, deponendo in mano del viceré d’Italia il comando supremo, fé’ celere ritorno a Napoli, seco lui menando le milizie napolitane, le quali, comeché non guerreggiassero ne' più aspri luoghi della Russia, non però di meno assai morti patirono, e molti per crudo gelo furon monchi o delle dita o delle mani o de' piedi.
Bonaparte, udita la partenza di Murat dal campo, agramente per pubblico foglio biasimollo, e in una lettera indiritta alla sorella, regina di Napoli, scrisse ingiurie per Gioacchino, chiamatolo mancatore, ingrato, inetto alla politica, indegno del suo parentado, degno, per le sue macchinazioni, di pubblico e severo gastigo. Gioacchino, nel bollore dello sdegno, a quel foglio dirittamente rispose, e amaramente punse l’alterezza di Napoleone. Ma Murat avevasi il torto; però che egli sull'Oder non era re, ma bensì duce, non mica Napolitano, ma francese: lì stava, ed afflitta, la sua patria; lì stavano in periglio quelle schiere, che gli aveano procacciato e fama e trono.
Tosto che Gioacchino fu tornato da Russia, alcuni individui, a lui cari, il consigliarono di trattar pace con la Inghilterra, occupar l’Italia, edordinarla una ed indipendente, appressatagli agevole l’impresa, dappoiché dalle Alpi al Faio avea l’Italia comuni i codici, la finanza, i bisogni, il comporre, l'ordinare, il comandar delle milizie; era vota e d'armi francesi e tedesche; tutta Europa guerriera adunata sulle sponde dell’Elba; Buonaparte percosso, inabile a ridivenire signore del mondo. Allettato Gioacchino da cotal i rappresentanze, spedì messo in Sicilia a lord Bentich, il quale, solamente inteso ad infievolire la possanza del gran nemico Buonaparte, aderì, ma escludendo dalla proposta unione la Sicilia, e volendo che 25,000 soldati inglesi, uniti ai Napolitani, sotto al comando di Gioacchino, operassero in Italia; e fosse agl’Inglesi consegnata sino al termine dell'impresa, in pegno della fede del re, la fortezza di Gaeta. Spiacquero a Gioacchino que’ patti, e rispeditovi il legato, e trovato che Bentich rimanea saldo a' primi termini, concordarono, e Bentich spedì in Inghilterra nave da corso, Avvisos, per chiedere al suo governo la conferma del trattato. la questa Buonaparte rispose lettere di domestico affetto; e nel tempo stesso il maresciallo Ney ed il ministro Fouché scrissero al re, dicendogli il primo, che la cavalleria apertamente l'appellava su l'Elba, che forse il destino di Francia stava nel suo brando; il secondo, che debito, onore, interesse lo chiamavano a Dresda. Gioacchino, per caldo pregare che facessero la regina e 'l ministro Agar, resisteva; ma vinto alla fin fine da' loro scongiuri ed argomenti, appalesò il motivo del suo ritegno, e la regina gli rispose, che il suo debito natale verso la Francia lo appellava al campo di Dresda, e però andasse a combattere sull'Elba: ch'ella da reggente farebbe in nome del re prorompere in Italia l'esercito anglo-napolitano. Si persuase il re, e la dimane partissi. Dopo un mese ritornò da Inghilterra l'Avvisai, e riportò il consentimento di quel governo a ciò eh erasi concordato. Tardi; ché Bentich, saputa la partenza di Gioacchino, erari fatto di nuovo a lui nemico.
Frattanto Gioacchino cignevasi in Alemagna la fronte di novelli serti di gloria. Egli giunse a Dresda quasi al mezzo di agosto, uopo gravissimi casi di guerra. Furono asprissime le battaglie di Lutzen, Bautzen e Wurchen. Espugnata Dresda da' Franchi, procedevano insino di Oder. Fatto armistizio in Plessvilz, intrapresi, e poi rotti i maneggi di pace, ricominciarono i combattimenti. Il re Gioacchino in quei giorni di vicina guerra, offertosi di imperatore con riverenza e contegno, ne fu lietamente accolto ed abbracciato: ei seguì Buonaparte ne’ combattimenti della Slesia e della Boemia. Essendo stata assaltata dal maggior nerbo degli eserciti alleati Dresda, difesa da 1,000 appena giovani francesi, vi accorsero tostamente dalla Slesia con nuove schiere. Buonaparte e Murat. Si adunarono in città 105,000 Francesi aventi intorno 200,000 nemici. In quell'esercito di Francia, apparecchiato a battaglia, reggeva il tutto e guidava il centro Buonaparte, l’ala sinistra Ney, la diritta Murat. A 26 di agosto fu assaltata la città; ma ad un cenno di Buonaparte aperte le barriere, Murat, ch’era fulmine trattenuto in man di Giove, sboccò il primo come torrente di guerra, reggitore di 30,000 soldati a cavallo, assalì sul fianco l'oste nemica, la ruppe, spin, se i fuggenti su le schiere ordinate, e così a tutti, affollati e confusi, toglieva o scemava la facoltà di combattere. Con pari ventura, combatterono il centro e l'ala sinistra de' Francesi, sì che Russi, Alemanni e Prussiani tornavano frettolosi e disordinati verso Boemia. Gioacchino sull'Elba fece ammenda del mancamento su l’Oder. Tre eserciti perseguitavano i fuggitivi nella Boemia, un quarto accennava a Breslavia, un quinto a Berlino; Buonaparte in Dresda apparecchiavasi a nuove battaglie. Ma siccome la fortuna e di vetro, ed allorché risplende, s’infrange, così in un tratto il duca di Reggio, prima trattenuto, poi respinto da' Prussiani e Svedesi guidati da Bernadotte, combatté in Gros-Boeren, e perditore si ritirò in Interborg. Il duca di Taranto dà in Islesia la giornata di. Kalzbach, e vinto da Blucher, prussiano, riduce le sue legioni dietro al B00er. Il general e Vandamme, accerchialo dalle troppe schiere nemiche, con la più parte dell'esercito e preso in Boemia. Il maresciallo Saint-Cyr a stento si sa difendere; ha poca fortuna il re di Napoli. Il principe della Moshowa succeduto nel comando al duca di Reggio, combatte in Denneviz, e perde; Blucher e sulla Sprea; Schwartzemberg di nuovo a Pyrna; Buonaparte respinge or l’uno, or l’altro, ma non avendo spazio alle arti di guerra a cagione della gran calca delle nemiche genti intorno a Dresda, abbandona la città, e disegnando nuove basi e nuove linee, invece di ripiegare sopra Lipsia con maraviglia grande de' nemici e degli stessi suoi general i, incamminò l’esercito verso Torgavia e Magdeburgo. Il re di Napoli, lasciato con 40,000 soldati contra gl’immensi eserciti di Schwartzemberg e, di Witgenstein, valorosamente combattendo, abilmente volteggiando, dava tempo a' nuovi concetti di Buonaparte serbava Lipsia, e fece in modo, che di poi l’esercito potesse ritirarsi per la più breve linea sul Reno. Adunato in Lipsia l’esercito, nel seguente giorno vi fu assalito per gran battaglia, gloriosa e infelicissima all’esercito francese. In Erfurt, finiti i pericoli della ritirata, Gioacchino prese commiati dall'imperatore tra scambievoli fraterni amplessi, ultimo commiato ed ultimi segni di amicizia e di affetto, e giunse in Napoli al finire dell’anno 1813.
Sin dal 1811Bentick preparava mutamenti in Sicilia, volendo dare a quello, stato novella costituzione. Nel 1812 l’atto fu composto, e nel 1813 praticato. Quella, che prese nome di costituzione siciliana, era la inglese, migliorata nel modo di elezione e nel numero e nelle proporzioni de' deputati delle comuni. Intanto peggioravano le cose di Francia: la neutralità della Svizzera presso che violata; gli eserciti tedeschi su l’Adige; Venezia bloccata; cresceva nel nostro reame la scontentezza per le asprezze e le violenze adoperate contra la setta de' Carbonari per mezzo del generale Manhès; cresceva la contumacia nell'esercito; a dir breve, i Napoletani avean cominciato a disamare Gioacchino. Incalzato Murat da cotal i avvenimenti e pericoli, diresse lettera all'imperator Napoleone, e questi per superbia o sospetto non rispondeva. Murat era per unirsi all'Austria, quando giunse in Napoli il duca d’Otranto, Fouché, già ministro, mandato da Buonaparte a spiare in segreto l'animo di Gioacchino ed a mantenerlo nelle parti della Francia. Trattenutosi pochi dì, tornò a Roma. Partilo Fouché, a mezzo dicembre del 1813 venne il conte di Neipperg, legato dell'Austria, e convenendo col duca del Gallo, trottatore per le parti di Napoli, fermarono al dì 11 di gennaio del 1814 lega fra i due Stati per la continuazione della guerra contra la Francia. Altro trattato, che dissero Armistizio tra Napoli e la Inghilterra, fermarono al 26 gennaio dell’anno stesso il duca del Gallo e lord Bentinch, stabilendo immediata cessazione di ostilità, libero commercio, accordo comune, e con l'Austria, su la vicina guerra d’Italia.
Gioacchino sin dal precedente novembre avea mosso due legioni verso i quartieri di Roma e di Ancona, apprestato altre schiere, ed annunziato vicino il suo arrivo a Bologna. Intanto il generale Miollis, governatore di Roma, con forte presidio acquartierò in Castel Sant'Angelo; il generale Lasalcette in Civita-Vecchia conpoche schiere francesi; il general Barbou con 1500fra soldati ed impiegati civili si chiuse nella cittadella d'Ancona, i Napolitani sorpresero il castello dei Cappuccini, poco di poi occuparono tutta la Romagna con le Marche. In gennaio Gioacchino andò a Roma, e non ottenne, come sperava, da Miollis Castel Sant’Angelo e Civita Vecchia: passò ad Ancona, né Barbou volle cedere la cittadella; ond’egli comandò,partendosi per Bologna, che le schiere napolitane procedessero per congiungersi alla legione tedesca, retta dal generale Nugent; stringere d’assedio Ancona, Castel Sant’Angelo e Civita Vecchia; ordinare le parti civili de' paesi conquistati. Lo stesso Murat era duce di tre legioni di fanti, d’uria di cavalieri, 22,000 soldati; avea 60cannoni; attrezzi corrispondenti. Si cominciò l'assedio di Ancona, e poscia si volser le cure a Castel Sant'Angelo, indi a Civita Vecchia. Il generale Barbou, per fallimento di vittuaglia non potendosi più tenere, dopo 24 ore di fuochi, fece con quei d'entro consiglio di rendere la cittadella di Ancona, e di patteggiare che il presidio francese avesse con gli usati onori sicuro passaggio in Francia. Per le altre fortezze fu concordato, che cedessero a patto di tornare in Francia i presidi, liberi e sicuri. E dopo ciò i Napolitani guardarono Ancona, Civita Vecchia, Castel Sant’Angelo, i forti di Firenze, Livorno e Ferrara. Poco appresso, lord Bentinch sbarcò schiere inglesi e siciliane, sotto vessillo, che portava scritto: «Libertà e indipendenza italica», e le incamminò sopra Genova. Bellegarde con 40,000 Austriaci campeggiava la sinistra sponda del Mincio; il re di Napoli con 22,000 de' suoi, toccando il Po, e guardando il Ferrarese, il Bolognese, gli stati di Roma e la Toscana, avanzava gli avanguardi sino a Reggio e Modena; Nugent sotto di lui con 8000 Tedeschi accampava. Bentinchcon 14,000 Anglo-Siculi stava sopra i monti di Sarzana. Dall'opposta parte il viceré con 50,000 Italo-Franchi teneva i campi nella destra sponda del Mincio, custodiva un ponte sul Po a Borgoforte, occupava Piacenza. Poca guernigione francese guardava Genova,
In questo il Papa, liberato da Buonaparte, incamminato verso Roma, era già sul confine di Parma, e, proseguendo il viaggio, giunse a Bologna, indi a Cesena, sua patria, dove rimase sino a che le guerre di Francia e d’Italia ebbero fine; e di poi come in trionfo entrò in Roma il dì 24 di maggio di quell'anno 1814. Al dì vegnente le milizie napolitanedi là si partirono. In questo tempo scoppiò rivoluzione simultanea e generale nella provincia di Teramo. Era disegno de' Carbonari adunarsi armati nella campagna, entrare nella città, togliere d’uffizio i magistrati e mutargli in altri, gridare caduto l’imperio di Murat. Ma accorsovi tosto il generale Montignycon le più fide squadre, quella spedizione, senza nerbo di forze né interne né esterne, tostamente cadde, e molte morti, molte pene, lagrime ed afflizioni furono il fine di quella rivoltura.
Intanto il generale Grenier con 14,000 Italo-Franzesi combatté ne’ campi della Nuca e di Parma la legione austriaca retta dal generale Nugent; ed altre schiere per il ponte di Borgoforte assaltavano Guastalla. In ambo i luoghi i Tedeschi vinti e scacciati lasciarono sul campo 400 tra morti e feriti; due mila e più prigionieri. Grenier, messa guernigione in Parma e Reggio, tornò alle sue linee per Borgo forte. Gioacchino stabilì di assaltar Reggio, e ricondurre la legione tedesca a' suoi campi di Parma e della Nura. Scontratisi i nemici sul ponte di San Maurizio appresso a Reggio, dopo aver combattuto con forze, animo ed arte uguale, la vittoria fu per gli Austro-Napolitani. Chiusi in Reggio gl’Itali-Francesi, debolissime le mura di quella città, potevasi agevolmente espugnare; ma Gioacchino concesse libera ritirata a quei presidii. A’13 di aprile il re connovemila soldati passò il Taro, e. dopo vari combattimenti e morti d’ambe le parti, il nemico riparò in Piacenza. I Napolitani disegnavano i modi di espugnar la città, quando al meriggio del 15 di aprile del 1814 un foglio del generale Bellegarde, riferente la presa di Parigi, annunziava sospesa in Italia la guerra, ed aperte le conferenze di pace col viceré. Gioacchino comandò che la guerra fosse sospesa, e subito tornò a Firenzuola, indi a Bologna. Pochi dì appresso, il viceré fece accordi con Bellegarde e Gioacchino: stabilirono, che dell'esercito italo-franco i Francesi ritornassero in patria; gli Italiani serbassero il paese, che allora occupavano, racchiuso tra il piede dell'Alpi, il Po ed il Mincio; i Napolitani prendessero le stanze prefisse ne’ trattati della confederazione; le fortezze oltre il Mincio, ancor guardate da' Francesi, fossero cedute a' Tedeschi di Bellegarde. Frattanto Genova, investita dagli Anglo-Siculi, e fatta consapevole degli avvenimenti di Francia, crasi data per capitolazione a lord Bentinch, il quale la ordinava a repubblica, e vi ristabiliva leggi e magistrati a foggia del 1797.
A quei giorni, non sì tosto furono scomparse da Milano le milizie francesi, che il popolo tumultuosamente proruppe, abbassò, disfece tutte le insegne del passato dominio, uccise spietatamente il ministro Prina, e minacciò nella persona il principe Beauharnais, ilquale non ritornò a Milano, andò in Baviera presso il re, suo congiunto; e però Bellegarde spinse le schiere sino alla città, capo del regno italico. Pio VII ristabilì le antiche leggi. Vittorio Emmanuele, appena tornato al trono del Piemonte, prescrisse esser leggi e costituzione dello stato quelle del 1770. Ferdinando IIIavea richiamato in Toscana le leggi di Leopoldo. Tutto il già regno italico, Parma, Modena, Lucca, le tre Legazioni, e le terre chiamate Presidii della Toscana erano occupate da' Tedeschi. Quei Presidii, possesso di tre secoli, frutto di tre guerre di Alfonso I di Aragona e di Filippo IV, utili in pace a' re di Napoli, non poca forza nelle guerre d’Italia, furono obbliati nella consegna toscana fra Roccaromana e Rospigliosi.
Gioacchino, lasciate nelle Marche due legioni sotto l’impero del general e Carascosa, governatore di quelle province, tornò in Napoli. Indi a poco si lessero gli editti del general Bellegarde, nunzi del ritorno dell’antica Lombardia all'impero d’Austria, e i trattati di pan ce fermati a Parigi il 30di maggio, nei quali, non facendosi motto del re di Napoli, si convocava congresso di ambasciatori a Vienna per i casi dubbi di dominio. Gioacchino nominò suoi ambasciatori nel congresso il duca di Campochiaro ed il principe di Cariati, ma volse i suoi maggiori pensieri alle cose interne; di parecchi tributi alleviò il peso; per novelle ordinanze giovò al commercio esterno ed interno, compose nuovi reggimenti di fanti e cavalieri; furon meglio ordinate le milizie civili, e prescritta per la città di Napoli una guardia detta di sicurezza, 12, 000, partiti in sei battaglioni di fanti ed in imo squadrone di cavalieri, con vesti, armi e fogge militari.
Napoli a quei giorni era pieno d’Inglesi e di personaggi di altre nazioni, ed i più pregiati per fama o grado erano ammessi alla reggia, sì come la regina d’Inghilterra, allora principessa di Galles, la quale fu accolta tra feste dovute al suo grado. Ed in una di quelle feste, in Portici, giunse da Vienna l'annunzio, che la regina di Sicilia, Carolina di Austria, era morta nel castello di Hetzendorl, la sera del 7 di settembre di quell'anno 1814, così all'improvviso, che le mancarono gli aiuti dell'arte e gli argomenti di religione. A cotal avviso Murat e sua consorte si ritirarono, e la festa si sciolse. Altri annunzi eran pure al tempo stesso pervenuti a Gioacchino. Prima che Buonaparte cadesse, la Russia, la Prussia, l’Austria e l’Inghilterra eransi accordate, incerte condizioni di alleanze fermale a Trove, di darein Italia al re Ferdinando di Sicilia il contraccambio de' perduti dominii di Napoli. In altro allo di quei potentati, conchiuso più tardi in Chaumont, erano confermati i patti dell'alleanza dell'Austria con Gioacchino. Ma tosto mutarono le fortune; che nel congresso di Vienna accusato Gioacchino di mancamenti nella guerra d’Italia, e però non più confidando nell'alleanza austriaca, nelle proprie forze bensì, volle accrescerle, e porse cagione a novelle lagnanze. L’imperatore d’Austriasignificò a Gioacchino che restituisse al Papa le Marche, e Murat afforzò di maggiori presidi quelle province, ed attese ad accrescere le. fortificazioni di Ancona.
A questi giorni udissi in Napoli che Ferdinando avea privatamente tolta per moglie Lucia Migliaccio, vedova del Principe di Partanna, di nobile stirpe. E sapevasi pure che egli in Sicilia avea ripigliato il governo dei popoli, giurata la costituzione dell’anno 12, aperto, disciolto, riaperto il parlamento, e vi avea sempre ragionato da Re benigno. E però Murat, geloso che in Sicilia il credito e la potenza crescevano, in Napoli decadevano, per novelli decreti impedì il commerciocon quell'isola. Gli apparecchi di guerra crescevano in Napoli al cominciar dell’anno 1815, quand’ecco dopo alcuni giorni di straordinario movimento, giugne nuova, che l’imperatore Napoleone, imbarcato il dì 26 di 23 febbraio a Porto Ferraio, con mille soldati ¡veleggiava verso Francia. Il messo giunse in Napoli la sera del 4 marzo, e Gioacchino il dì seguente diresse lettere alle corti d’Austria e d’Inghilterra, dichiarando, che felici esventurate le future sorti dell’imperator Napoleone, egli starebbe saldo alle fermate alleanze; inganni, però che sensi contrari chiudeva in cuore. Ei convocò un consiglio, composto di Napolitani e Francesi, col disegno di sedurre gli altrui pareri, e persuader tutti alla guerra. Ma il consiglio vedendo nella guerra grandi pericoli per Napoli, ed in Gioacchino passione anzi che senno, conchiuse, che si aspettassero le risposte da Vienna e Londra alle lettere del 5; la fine dell'impresa di Buonaparte; e la decisione del congresso europeo su le cose di Francia; ma già destini di Murat maturavano: a' dì 15 marzo 1815 appalesò la guerra, alla quale per genio e per abito era sempre irresistibilmente frascicato.
A’ 22 di marzo mosse l'esercito, forte di 35,000 fanti, 5000, cavalli, 5000 cannoni, diviso in due parti. Guardia, e Linea, delle quali l'una (due legioni della Guardia) per la via di Roma, e l'altra (quattro legioni) per le Marche. Fu chiesto al Pontefice, ma indarno, amichevole passaggio; e procedeva intanto l’esercito per le vie di Frascati, Albano, Tivoli e Foligno. Allora il Papa, nominata una reggenza al governo, di presente passò a Firenze, indi a Genova, seguito da molti Cardinali, e dipoi da Carlo IV, re di Spagna, e da altri personaggi di fama. Il re Gioacchino recossi ad Ancona. L'imperatore d’Austria spedi in Italia nuove schiere, 48,000 fanti, 7000 soldati di cavalleria e del treno con 64 cannoni. La guerra fu denunciata il 30 marzo. Una legione di Murat assaltò Cesena, dove stavano 2600 Austriaci, e dopo breve combattere fu abbandonata da' difensori, che ordinatamente si ritirarono a Forlì, e quindi ad Imola e a Bologna, guardata da 9000 Tedeschi. Giunsero i Napolitani il 2 aprile incontro a questa città, e ‘l general Bianchi, sia per prudenza o per ricevuto comando, abbandonò la città, dirigendo 3000 dei suoi verso Cento, e guidandone seco altri 6000 per la via di Modena. I Napolitani entrarono nel giorno stesso in Bologna. A’ dì 4 procederono, la prima legione verso Modena, la seconda verso Cento, la terza giungeva in Bologna. La prima scontrò il nemico ad Anzola, e combattendo lo spinse dietro la Samogia, quindi dietro al Panaro, fiume che mette in o, e si valica su di un ponte detto di Santo Ambrogio, allora munito di opere, di cannoni e soldati distesi per lungo tratto della sponda. Tre volte i general i Pepe, Carascosa e de' Gennaro assaltarono il ponte; tre volte tornarono perdenti. La fortuna mostravasi avversa ai Napolitani; espugnare il ponte era necessità, e però il re ne diede il carico al general Filangieri, il quale, mentre molti cannoni scomponevano le sbarre del ponte, visto aperto un varco, comandò, che la preparata colonna di cavalleria passasse il ponte, ed egli il primo seguito da 24 soldati a cavallo prorompe su la nemica sponda da molte schiere difesa, e con grandissimo valore combattendo, le disordina, le vince, procede. Ma la colonna, che dovea secondarlo, non muove; però che il generale Fontaine, o per timidezza o per invidia d’onore, non obbedisce al ricevuto comando. Il perché i Tedeschi sopra il picciol drappello degli assalitori incessantemente tirando, pochi di questi cadono, alcuni rinculano, otto soli col general e, certo del vicino soccorso, pugnano con virtù da eroi; ma colpiti da mille offese, mai non aiutati, cadono tutti e nove, otto estinti, e 'l Filangieri, come corpo morto, gravemente ferito. Vi accorre il re seguito da fanti e cavalli. I Tedeschi scorati dansi alla fuga traversando Modena; i Napolitani vi entrano. Nello stesso giorno e nei due seguenti la seconda legione napolitana prese Ferrara; la terza guernì Cento e San Giovanni; la prima occupò senza contrasto Reggio, Carpi e tutto il paese tra il Panaro e la Secchia; a' dì sette, innanzi la dimane, la legione seconda investì il ponte di Occhiobello, forte per munizioni e soldati. Sette volte la legione assaltò, altrettante fu respinta; perdè non pochi soldati, molti uffiziali furon feriti, il re sempre esposto ai pericoli.
In questa Gioacchino ricevé un foglio vergato da lord Bentinck, indiritto gli da Torino il 5 aprile, nel quale l’altero inglese diceva: «Che per i patti della confederazione europea e per la guerra mossa dal re all’Austria, senza motivo, senza cartello, egli, tenendo rotto l’armistizio tra Napoli e l’Inghilterra, con tutte le sue forze di terra e di mare aiuterebbe l’Austria». Letto il foglio, il re per gravi cure di guerra e di governo fe’ ritorno a Bologna, ove radunò in consiglio i suoi ministri ed i primi de' general i, e fu risoluto, che fosse da Toscana richiamata la Guardia per le più brevi vie di Arezzo e San Sepolcro; si scegliessero nuovi campi dove i monti Appennini, accostandosi al mare Adriatico, con le ultime pendici toccano il lido; e si accogliessero in Ancona tutti gli impedimenti dell’esercito.
Frattanto i Tedeschi su la sinistra riva del Po crescevano di novelle schiere spedite con gran celerità dall’Alemagna. Eglino assaltarono Carpi, guernito da 3000 Napolitani. Tornato a voto il primo impeto, i Tedeschi cresciuti di numero la espugnarono, e per lungo spazio inseguirono il nemico, che disordinatamente si ridusse a Modena: d’ambe le parti fu pari il numero de' morti e de' feriti. Le schiere di Reggio, unite all'altre di Modena, insieme si ritirarono dietro al Panaro, ove si posero a campo. La legione terza, abbandonata Mirandola, tornò alle antiche stanze. Il 10 aprile un reggimento napolitano, e un piccolo squadrone di cavalleria accampati a Spilimberto, furono assaliti così all’impensata che fuggendo ripararono confusamente dietro alla prima legione a Sant’Ambrogio. Pel cadere di Spilimberto venute in dominio del nemico le due sponde del Panaro, il re prescrisse che la prima, legione accampasse dietro al Reno, la seconda marciasse per Budrio e Lugo sopra Ravenna, la terza per Cotignola sopra Forlì. L’oste tedesca assaltò la prima legione. sul Reno, ma fu vinta. In poco d’ora rivenuta più forte, tre volte assaltò l’oste napolitana, tre volte fu respinta: l’assalirono la Quarta fiata più impetuosamente i cavalli ungheresi, e furono ancor essi rotti e fugati. La notte il re andò ad Imola, e tutto l'esercito, abbandonata Bologna, imprese ordinatamente a ritirarsi. Marciava l’esercito da Imola à Faenza, indi a Forlì, indi a Cesena; il general tedesco Neipperg da lunge il seguitava. Il re, per attendere le due legioni della Guardia, che a gran giornate ritornavan per Arezzo e Perugia, fermò l’esercito dietro al Ronco, accampando l’avanguardo a Forlimpopoli, il centro tra Bertinoro ed il Savio, la riserva in Cesena e Cesenatico.
Eransi due giorni rivolti senza alcun fatto d'anni, quando nei mattino del terzo, l’oste napolitana valorosamente respinse le schiere di Neipperg, le quali lasciarono sulla sponda del Ronco 40 morii o feriti e 30 prigioni. Poi quando fu un pezzo tra notte, sette battaglioni tedeschi, e due squadroni di cavalli, lenti lenti guadarono il fiume, e tentavano di sorprendere il nemico; ma il comandante de' Napolitani, maggiore Malchevski, Polacco, animoso ed esperto alla guerra, ingannò nelle tenebre il nemico, venuto ad ingannar lui, sì che morirono 500 Tedeschi. Nella notte del vegnente giorno il re levò il campo dalla sponda del Ronco, sguarnì Forlimpopoli, retrocedè, e, fallita al tutto la vettovaglia in Cesena, passò a Rimini, quinci a Pesaro, indi a Fano, a Sinigaglia, ed il 29 aprile ad Ancona: il re il 30 andò a Macerata, ov'erano arrivate il giorno innanzi le due legioni della guardia. A’ 2 di maggio le legioni d'Ambrosio e Livron mossero da Macerata verso il nemico. Alcuni Tedeschi del general Bianchi allo sbocco de' Napolitani, ripararono ne’ campi di Monte-MiIone, tra ’I Potenza e 'l Chienti, e di là scacciati dopo non poca zuffa, ordinati a scaloni retrocederono; i Napolitani avanzarono, espugnarono una forte posizione, e fortemente guernita, e per nuove avventurose geste procederono sino a vista di Tolentino. Diradata la caligin folta, ch’avea resa lunga l’alba del 3, fu visto fortissimo il nemico, 16,000 uomini. schierati sopra i colli, che fan cortina alla città. Divisava il Tedesco gettare i Napolitani nelle valli del Potenza, impadronirsi della grande strada, tagliarli da Macerata, da Ancona, dagli Abruzzi. Ma i battaglioni della guardia di grandissima forza pugnavano, e nella sottoposta pianura con pari prodezza e ventura si guerreggiava, ed ivi tra' molti Napolitani fu ferito il general Campana, che in quel giorno e nel precedente avea valorosamente combattuto. Il generale di Aquino, che dopo la ferita del generale d’Ambrosio, guidava la seconda legione, spedi spicciolate tre compagnie leggiere, le quali procedendo fino al piano, oppresse da' cavalieri nemici, furono prigioni. Il re ordinò che la legione di Aquino assaltasse il fortissimo fianco sinistro del nemico; ed Aquino, marciando in quadrati per quei terreni malagevoli ed alpestri, pervenne al piano con le sue genti disordinate e confuse. Addatosene il nemico, le assaltò; le assalite schiere trepidarono, e 'l primo quadrato, dopo breve contrasto scomponendosi; sparpagliato e ribelle tornò alla collina; il secondo quadrato ne seguì l’esempio; gli altri due furono con ordine richiamati. Tutte quelle schiere napolitane tostamente si ricomposero, avendo perduto pochi uomini, tra i quali ucciso il duca Caspoli, ordinanza del re, appena uscito di fanciullo, bello della persona, animoso in guerra, caro alle squadre.
Al cadere del giorno, stanchi i soldati dal sanguinoso, ma inutile combattere, cessavano, per comune bisogno, di offendersi, quando il re, scoperta su le vette di Petriola la mezza legione per suo comandamento partita da Macerata, le andava incontro per disegnare il campo, e in questa gli venner veduti da lunge due frettolosi corrieri, l'uno de' quali eragli inviato dal generale Montignv, dagli Abruzzi, l’altro proveniva da Napoli, spedito dal ministro cella guerra. Riferiva Montignyle sventure di Abruzzo, Antrodoco preso da 12,000 Tedeschi, essersi data Aquila, ceduta a patti la cittadella, sciolte le milizie civili, commossi i popoli a pro dei Borboni, se stesso con pochi respinto a Popoli. Riferiva il ministro la comparsa del nemico sul Liri, lo sbigottimento de' popoli, i tumulti di alcuni paesi della Calabria. A cotal i novelle Gioacchino smarrì il senno, e, senza prender consiglio qual fosse da fare, deliberò da sé di menare l'esercito nelle proprie terre, e però dispose la ritirata. Il re, mostratosi in quella bisogna capitano e soldato infaticabile, operò col senno e con la mano, e in brevissimo tempo tutte le sue squadre ordinate a scacchiera, combattendo, riconduceva. La notte, allassati i Napoletani dal combattere e dalle durate fatiche riposarono a Macerata. Cominciò il movimento da questa città; il re era nella colonna del centro, la quale, giunta al piano, trovò impedita la strada da 800 fanti tedeschi con tre cannoni e 600 cavalli arringati percome battere, mentre che squadre più numerose assaltavano la città per le vie di Monte-Milone e Tolentino. L’esercito napolitano, messosi alla ventura di combattere, aprissi il varco, e si salvò. Intanto la brigata di 3000 uomini, ch'era uscita di Mont-Olmo, si fermò inSanta Giusta, e le altre due colonne giunsero a porto di Civita, e s’incontrarono alla legione Carascosa, che ordinatamente veniva di Ancona. In Macerata alloggiò l’esercito di Bianchi. Neipperg, non più rattenuto, gli si congiunse per Jesi e Filottrano. Quei due general i, mentre disegnavano le mosse e geometrizzavano novelle linee, davano, loro malgrado, tempo ai Napolitani di ristorare i danni e d’afforzarsi; ma di questo esercito era in vero perduto l'animo e la speranza, confuse le ordinanze. La Guardia, che dovea per comando accampare a porto di Civita, scomposta proseguì verso Fermo, e disperdessi; la seconda e terza legione alloggiarono confusamente e ribellanti; la brigata, che dovea fermarsi a Santa Giusta, andò inattesa a Fermo, e però al tutto le fallì la vittovaglia e 'l campo. A tante sventure si aggiunsero, per istemperata pioggia ed aspro gelo, cruda notte, torrenti inguadabili; quini assai scompigli e deserzioni. L’esercito a bande recavasi a Pescara, e gli abbandoni divenivano maggiori, perché più agevol cosa era a' soldati il far ritorno alle proprie case.
Stava a difesa della frontiera del Liri il generale Manhès con la quarta legione, 5000 soldati. Egli avea condotto a' 2 di maggio le sue schiere a Ceperano, perché sul finire di aprile aveva avuto contezza, che il nemico per la valle del Sacco procedea verso il Regno. Quelle squadre, partite in due brigate, occuparono Veroli e Frosinone, ed a' 6, sapute le sventure di Tolentino, furono sollecitamente ritratte a Ceperano, quindi, bruciato il ponte, a Roccasecca, Arce, Isola e San Germano; il corso del Liri e parte del Garigliano, linea difensiva del Regno, Portella e Fondi abbandonali; Itri era ben guardato dal 12. reggimento. Pochi soldati di Nugent campeggiavano tutta la frontiera dall’Aquila a fondi; le schiere di Bianchi e di Neipperg ordinate ad esercito avanzavano contra il Tronto ed il Liri; gl'Inglesi predarono una nave napolitana carica di attrezzi per Gaeta; poderosa armata era in Sicilia sul punto di levar l’ancore, accostarsi a diversi lidi, e disbarcare gran conta di soldati; nello interno. i popoli ribellati; nello esterno, caduta ogni speranza di pace; il principe di Cariati, di ritorno dal congresso di Vienna, rapportatore dello sdegno de’ re alleati; amare invettive ricevute per lettere dall'imperatore de' Francesi, che chiamava quella sconsigliata guerra principio e forse cagione della rovina dell'Impero: da cotantefiere punture era trafitto l’animo di Gioacchino in Pescara. Allora volgendosi alle civili istituzioni, architettò così alla ricisa una costituzione politica, delle fogge comuni, e mandolla a Napoli per essere pubblicata. Era finta la data di Rimini 30 marzo, comeché spedita il 12 maggio, pubblicata il 18; non che tardo ed inutile, ridevol sostegno di già vacillante trono.
A quei giorni giunto nel golfo di Napoli con due vascelli e due fregate il commodoro inglese Champbell, spedi ambasciatore alla reggente, domandandole, a riscatto di guerra, le navi e tutti gli attrezzi di marina, ch'erano ne’ regi arsenali, e minacciando, se non se gli dessero, di tirar razzi a migliaia sulla città. Preso consiglio qual fosse da fare, alcuni consiglieri e magistrati di grido avvisarono rigettar la temeraria inchiesta; il ministro di Polizia ed altri pregavan pace; e la reggente, sponendo ch'era per mestieri non accrescere il numero de' nemici, e togliere a Napoli occasione di agitarsi, die’ carico dell'accordo al principe di Cariati. Fermarono:
Che fossero consegnati al commodoro i legni da guerra napolitani, e tenuti ne’ magazzini regi in deposito gli attrezzi di marina; che sì degli uni «come degli altri si disponesse da due governi napolitano ed inglese, finita la guerra d’Italia:
Che la regina con la famiglia, persone e in robe di sua scelta, avesse imbarco e sicurezza sopra un vascello di Champbell:
Ch'ella potesse mandar negoziatore in Inghilterra a trattar pace:
Che la guerra tra l'armata inglese e Napoli cessasse a ratificamenti dell'accordo.
I quali subito dati, assicurarono la città, e la regina, che, attendendo alle streme cure dello Stato, e conversando con animo virile tra le milizie urbane, ne accresceva lo zelo, sedava i movimenti del popolo corrivo agli eccidi ed alle ruberie del 99. Stavano nella reggia la sorella Paolina, Io zio Cardinal Fesch, e la madre Letizia, a' quali la regina apprestò imbarco per Francia; ed ai quattro teneri suoi figliuoli per Gaeta; e trattandosi di surrogare a Manhès altro generale di maggior senno e valore, il quale, respingendo i Tedeschi oltre il Liti, lasciasse, al re libera ritirata dagli Abruzzi, ella scelse, il generale Macdonald, napolitano, e ministro della guerra a quel tempo. Avuto il Macdonald il comando della quarta legione, mosse contro al nemico, e per piccioli fatti d’armi lo cacciò oltre la Melfa. il re intanto proseguiva a ritirarsi per la via di Abruzzo, seguito dalle meglio ordinate schiere della prima legione, accresciute di un battaglione italiano di nuova leva, solo aiuto, che per l'indipendenza d’Italia dessero gl'Italiani all’esercito di Napoli. Il generale Carrascosa, che comandava la retroguardia, fermatosi sule rive del Sangro per aspettar l’esito de' movimenti di Macdonald, assalito, uccise molti de' nemici, altri ne fe’ prigioni, e spinse il resto confusamente nella città di Castel di Sangro:estrema ventura a' murattiani vessilli
Era divisamento e speranza del re giugnere con le schiere del generale Macdonald quelle che seco lui dalle Marche menava, riordinarle in Capua, trarre dalle province nuovi armati, e, lasciate ben guernite Ancona, Pescara, Gaeta e Capua, assembrare 15,000 soldati dietro la difensiva linea del Volturno. Imperò cautamente ritirandosi, Muratteneva sempre in linea le schiere, perché contemporanee giugnessero per le vie del Garigliano, di San Germano e degli Abruzzi. Ed in vero a' dì 26 il reggimento de' granatieri della Guardia accampava in Sessa, là quarta legione in Mignano, la prima a Menafro, le altre squadre spicciolate entravano nella fortezza. Ma in quella notte, assalita la quarta legione in Mignano da sopra i monti di San Pietro, scompigliatosi il retroguardo disordinatamente ritiravasi. Il generale lo soccorse con un reggimento di cavalleria, la quale, offesa da luoghi dove i cavalli aggiugner non poteano, a briglia sciolta rinculò, sì che le schiere, stanti a campo in Magnano, sbalordite a notte bruna dal vicino e crescente calpestio, travedendo nemici ne’ compagni, ciecamente sopra di loro presero a tirare. Confusione orrenda, irreparabile! Quei combattitori di guerra reciprocamente rendevansi offese per offese, credendosi chi sorpreso e chi tradito, siche sempre più intrigandosi le schiere, alla fin fine ogni ordine si scompose, abbandonarono il campo e diedero in volta. Avuto contezza di cotal avvenimento il generale Carrascosa,che veniva di Abruzzo, accelerò il cammino, e quella stessa rattezza ingenerò novelle deserzioni. Il re recossi a San Leucio, regia villa appresso a Caserta. Ivi gli venne rapportato, che soli 5000 fanti e 2000 cavalieri, entrambi sbalorditi e svogliati, erano in Capua; che molte artiglierie eransi per abbandono perdute; sciolta ogni disciplina; che i Tedeschi, in numero e in fortuna, stavano intorno a Capua, e 'l principe reale don Leopoldo insiem con loro; che sei province (tre Abruzzi, Molise, Capitanata e Terra di Lavoro) già obbedivano a' Borboni; che gl’Inglesi avean doppiate le forze navali nel golfo di Napoli, ed il re di Sicilia stavasi a Messina sul punto di valicare il Faro con poderose armate. A cotal i relazioni, veggendo. Murat già declinante l’impero, certo e vicino dei Borboni il ritorno, cavatosi d’ogni speranza, e deponendo le cure di capitano e di re, volse di pensiero a salvare se stesso e la famiglia. E’ però delegato il comando dell'esercito al general Carrascosa,sul cadere del giorno recossi privatamente a Napoli andò alla reggia, e giunto alla regina l'abbracciò, e con voce ferma: La fortuna ci ha traditi, sclamò, tutto e perduto... Ma non tutto, ella soggiunse, se conserveremo l’onore e la costanza. Furono ammessi a strettissimo circolo di corte i più fidi e' i più cari, e dopo breve discorso congedati. Provvide co’ ministri a molte cose dello Stato; e mostrossi sereno, confortatore dei mesti, liberale.
Prima di partire, volle dar termine con la pace a' travagli del Regno, e ne elesse negoziatori i general i Carrascosa e Colletta, i quali a' 20 di maggio co’ general i Bianchi e Neipperg, e con lord Burghersh, per le parti dell’Inghilterra, convennero in una piccola casa del proprietario Lanza,tre miglia lontana da Capua, onde prese data e nome di Casalanza il trattato conchiusovi. Fermarono: pace fra i due eserciti; la fortezza dì Capua cedersi nel dì 21, la città di Napoli co’ suoi castelli nel 23, quindi il resto del Regno, ma non comprese le tre fortezze di Gaeta, Pescara ed Ancona; i presidi napolitani, che uscivano da' luoghi forti, avere gli onori convenuti; il debito pubblico garentito; mantenute le vendite de' beni dello Stato ì conservata la nuova nobiltà con l’antica; confermati ne’ gradi, onori e nelle pensioni i militari, i quali, giurata fedeltà a Ferdinando IV, passassero volontari a' suoi stipendi.
Avuta Gioacchino contezza del trattato, al cadere dello stesso giorno partissi sconosciuto verso Pozzuoli, e di là sopra un palischermo si tradusse ad Ischia, ove rimase un giorno, e il dì 22 sopra legno più grande con poco seguito di cortigiani e di servi si partì per Francia. Intanto in Capua, all’uscire della prima legione napolitana per dar comode stanze a' Tedeschi, la plebe si alzò a tumulto, ruppe le prigioni, e in peggiori disordini prorompeva, se da pochi general i ed uffiziali non fosse stata repressa. La stessa prima legione, non sì tosto ebbe messo il piede, fuori della fortezza che per diverse vie si disperde. In Napoli la plebaglia, velando di allegrezza i suoi moti, già tumultuava. Carolina Murat, che stava ancora nella reggia, reggente del Regno, ben veggendo che la guardia di sicurezza non sarebbe stata bastante ad infrenare quella bruzzaglia, pregò per lettere l’ammiraglio inglese a spedire in città qualche schiera a sostegno degli ordini civili, e n’ebbe 300 Inglesi, alla vista dei quali paventaron forte i tumultuanti. Ella in quel mezzo imbarcossi sopra vascello inglese con alcuni della sua corte, e tre già ministri, Agar, Zurlo, e Macdonald, e pochi altri personaggi. Frattanto i fuggiaschi di Capua, chiamati dal desìo di preda, pervenivano a torme nella città; i prigioni di Napoli levavansi a tumulto, fortemente scuotendo le porte delle carceri: la guardia di sicurezza era ormai stanca, gl'Inglesi pochi, e, che maggior cosa è, sovrastava la notte. Era l’istante, in cui prevalendo la plebaglia già tenevasi presta a prorompere, quando esortati da messi e lettere della municipalità, giunsero al declinare del giorno alcuni squadroni austriaci, i quali congiuntisi con le guardie urbane, dopo aver ucciso cento, almeno, di quei tristi, e ferito altri mille, soppressero i tumulti, ed ogni iniqua speranza di dar la spogliazza ammorzarono. In quella notte furono in città luminarie grandi, e nel seguente giorno tripudi e festive grida di popolo, e nel porto il vascello, che albergava, la regina, e le altre navi tutte, ornati a festa. A’ 23, secondo i fermati patti, fecero ingresso le schiere tedesche, le quali con suoni e segni di vittoria seguivano il principe reale D. Leopoldo Borbone.
Il congresso di Vienna dichiarò Gioacchino Murat decaduto dal trono di Napoli per la guerra d'Italia nel 1815,e ristabilita la vecchia dinastia dei Borboni. L’esercito siciliano ed i cinque fogli del re Ferdinando, scritti in Messina dal 20 al 24 maggio, giunsero in Napoli quando la conquista era stata già compiuta da' Tedeschi. Di quei fogli erano i sensi: pace, concordia, obblio delle passate vicende; vi si toccava di leggi fondamentali dello stato; erano confermati gl'impieghi militari, mantenuti i civili, conservati i codici del Decennio, e gli ordinamenti di pubblica economia. Furono ministri il marchese Crcello, il cavalier Medici, il marchese Tommasi.
Il telegrafo segnò la partenza del Re da Messina, ed allora Carolina Murat sciolse dal porto di Napoli, prese i figli a Gaeta, e seguì l'odioso cammino di Trieste. Il dì 4 giugno pervenne il Re a Baia, il 6 a Portici, e dopo tre giorni fece pubblico ingresso in Napoli sopra un destriero tra gridi di sincera gioia.
A quei giorni giunse in Napoli la nuova della battaglia di Waterloo data il 18 giugno nella quale i Francesi, comandati da Buonaparte furono intieramente sconfitti dagl'Inglesi e Prussiani, i primi sotto gli ordini del generale Wellington, ed isecondi sotto quelli del generale Blucher. Con feste la vittoria fu celebrata, e allora il general Begani, comandante di Gaeta, che ancora combatteva sotto l'insegna di Murat, cede la fortezza. Il propugnacolo di Pescara, comandato dal general Napoletani, era stato ceduto il 28 maggio; la rocca di Ancona; di cui il comandante era il generale Montemajor, nel dì seguente.
Cominciando il riordinamento del Regno dalla finanza pubblica, furono confermati i sistemi finanzieri del Decennio; la legge delle patenti abolita; sopra rendite iscritte si vendevano i beni dello Stato, si francavano i censi, si alienavano i beni delle fondazioni pubbliche e mutavansi in rendite sul Gran Libro dello Stato; si fondò la cassa di sconto, usata in Inghilterra, in Francia ed altrove, alla quale fu adoperato un milione di ducati del banco di corte.
Essendo grave all’erario il mantenimento dell'oste tedesca, s’imprese a comporre il proprio esercito. Fu creato un consiglio detto Supremo, come Aulico quello di Vienna, composto del principe reale don Leopoldo, presidente, del marchese Saint-Clair, vicepresidente, e di quattro general i, consiglieri.
Nell'amministrazione civile; furono. confermati gli ordini municipali e provinciali, ma rivocato il consiglio di Stato. Il ministero dell'Interno fu commesso ad un tal Parise, Siciliano, e, dopo la sua morte, al ministro di marina general Naselli. Si fece eletta di parecchi magistrati di buona lama e dottrina per riformare i codici dello Stato; erano intanto in vigore quelli del Decennio, abolito solamente il divorzio: altre adunanze riformavano il codice militare.
Dopo la battaglia di Waterloo e la caduta dell'impero francese, varie buccinavansi le voci su le sorti di Gioacchino Murat; chi lo diceva in Tunisi, chi in America, chi avvisava che ascoso si tenesse in Francia, o che travagliato si fuggisse a ventura. Ho di sopra narrato le sventure di lui nella guerra d'Italia, e la fuga dal Regno, e come in Ischia imbarcatosi sopra picciol naviglio navigasse per Francia. Giunto a Frejus il 28 maggio approdò al lido stesso tocco due mesi avanti dal prigioniero dell'Elba. In su la terra di Francia mille dolci pensieri e mille amare rimembranze il martellavano, alche potendo in lui, più che la speranza, il timore, non osò recarsi a Parigi, si fermò a Tolone. Scrisse lettere a Fouché perché s’interponesse a suo pro appresso all'imperatore Buonaparte, e questi rispose a quel ministro con rammentargli le offese dal cognato ricevute. Im. però Gioacchino dimorò in Tolone sino alla caduta di Buonaparte dopo la battaglia di Waterloo; ché Tolone, Nimes, Marsiglia, agitate dopo quei fatti da furie civili, e i partigiani dell'impero trucidati, Gioacchino si rimpiattò, e mandò lettere allo stesso Fouché, testé ministro di Buonaparte, ora di Luigi, pregandolo di un passaporto per l’Inghilterra, la stessa cosa scrivendo a Maceroni, suo uffiziale di ordinanza quando regnava, rimastogli fido, e per ingegno e fortuna noto a' re alleati. Ma Fouché non rispose, e Maceroni venuto in sospetto della Polizia di Francia, fu imprigionato. Cercato da' manigoldi di Tolone, insidiato dal marchese La Rivière, il poco avventurato Gioacchino scrisse lettere al re di Francia, ma indiritte a Fouché, perché questi di propria mano gliele appresentasse; il foglio al re non avea data per non appalesare l’asilo, né mentirlo; quello al ministro diceva, dall'oscuro abisso del mio carcere. Vani tornarono i prieghi di Murat: ché l’astuto ministro non rispose, e 'l re pur tacque. Da ultimo memore del cinto diadema e de' fasti di guerra e de' tanti confidenti colloqui co’ re collegati, deliberò di recarsi a Parigi, e fare lor chiara la misera sua condizione. Non imprese il cammino di terra, perché vivido e rappreso stava ancora sul suolo il sangue del maresciallo Brune; e però fe’ noleggiare una nave, che il menasse a Hayrede-Grace, donde senza periglio muover potea per Parigi. Quando fu un pezzo fra notte recossi Gioacchino alla recondita spiaggia disegnata al piloto; ma o per errore o per caso andò la nave in altro luogo, e Murat vedendo, dopo lungo aspettare, che già spuntava la prima luce, rinselvossi, e, dopo aver campato altre insidie, alfine sopra frale navicella si fuggì di Francia alla volta di Corsica, terra ospitale, patria di molti combattitori di guerra, già suoi compagni di gloria. Eransi due giorni rivolti che navigavan per quell'isola, quando d’improvviso abbuiasi il cielo, s’addensano le nubi, e per le folate impetuose del vento le onde orribilmente si accavallano, sì che per trent'ore corre il legno a fortuna dimare. Calmatasi la procella, abbatterono ad altra nave più grande, che veleggiava verso Francia; ed uno de' tre seguaci di Gioacchino pregò il piloto che vedesse raccoglierli, e, per larga mercede, menarli in Corsica, appresentatogli il sofferto temporale, e 'l picciol naviglio in più parti sdrucito e mal concio per gli urti de' fortunosi flutti e de' contrari venti. Ma quegli, o perché fosse d’umanità svestito, o che temesse di agguato, o di contagio, non si curò di loro, ma guatolli, e, rigettando con disdegno l’inchiesta e le profferte, via trapassò. Indi a poco furon raggiunti que’ malavventurosi dalla Corriera, che del continuo spassa tra Marsiglia e Bastia; ed appena Gioacchino palesò il suo nome, fu accolto ed onorato dare. Il dì seguente sbarcò a Bastia. La Corsica era a quei giorni sconvolta da rivoltare politiche, e Gioacchino per prudenza e sicurtà passò a Vescovado, indi ad Aiaccio, sempre perseguitato da' reggitori dell’isola, e sempre difeso dagl'isolani sollevati in armi. I quali popolari favori l'inanimirono a far disegno, non rivelato che a' suoi più fidi, di raccogliere una squadra di Corsi, pronti a cimenti, di noleggiare alcune barche, di approdare a Salerno, dove stavano 3000 delgià suo esercito, di passar con loro ad Avellino, quindi alla Basilicata, e di riempiere procedendo, della sua fama tutto il regno, e di sconvolgerne il civil reggimento. Il lungo uso di guerra e la sua naturale baldanza gli facean perdere il ben dell'intelletto.
Anzi che movesse, lettere indirittegli dal Maceroni, da Calvi, annunziavano ch'egli a lui veniva apportatore di buone novelle; e giunto il dimani, narrò brevemente i propri casi, e gli porse un foglio, che in idioma francese diceva:
«Sua Maestà l'Imperatore d’Austria concede asilo al re Gioacchino sotto le condizioni seguenti.
«1. Il re assumerà un nome privato; la regina ’avendo preso guelfe di Lipano, si propone lo stesso al re:
«2. Potrà il re dimorare in una delle città della Boemia, della Moravia, o dell’Austria superiore, o, se vuole, in una campagna delle stesse province:
«3. Farà col suo onore guarentigia di non abbandonare gli stati austriaci senza l’espresso consentimento dell'Imperatore; e di vivere qualuomo privato sottomesso alle leggi della monarchia austriaca.
«Dato a Parigi il settembre 1815.»
Per comando di S. M. I. R. A.
Il PRINCIPE DI METTERNICH
«A re caduto dal trono, disse Gioacchino, non rimane che morir da soldato. Tardi giugnesti, Maceroni; tre meri aspettai, ma indarno, la decisione de' re alleati; ho già fermo in mio cuore di riconquistare il reame di Napoli, se il vuol fortuna, ¡strumento di Dio. Io tento quelle vie, onde Buonaparte tornò al trono di Francia: ei fu sconfitto in Waterloo, ed ora e prigione in Sant’Elena; se correrò egual sorte, sarà Napoli la mia Sant’Elena». Disse ed accomiatollo. La notte del 28 settembre Gioacchino con 200Corsi sopra sei barche salparono di Aiaccio, ed era sereno il cielo, placido il mare, propizio il vento, apparecchiata ad ogni cimento la schiera, gaio oltre l'usato Murat. Per sei dì prosperamente navigò quella piccola flottiglia, poi per tre giorni combattuta da contrari venti si disperse; sì che due legni, l’uno de' quali tenea Gioacchino, erravano per fortunose onde nel golfo di Santa Eufemia, altri due a vista di Policastro, un quinto nei mari della Sicilia, ed il sesto a ventura. Gioacchino stette alquanto in dibattito, e poscia (avventato partito)! deliberò di approdare al Pizzo per muovere con 28 seguaci al conquisto di un regno.
Agli 8 di ottobre, giorno festereccio e guardato per tutta la città, vi sbarcò seguito dai suoi, cacciossi in mezzo alla piazza col suo vessillo inalberato, sciamando: «Io son Gioacchino, gridate tutti: Viva il re Gioacchino Murat». I circostanti tennero silenzio. Gioacchino, addatosi delle fredde accoglienze, volse i passi verso Monteleone, città grande, ov’egli sperava giuocar di migliore. Ma nel Pizzo un tal Trentacapilli, capitano, ed una gente del duca dell'Infantado fanno tostamente accolta di aderenti e partigiani, e quando sono a gittata scaricano sopra di lui archibugiate. Rimane ucciso il capitano Moltedo, ferito il tenente Pernice, si apparecchiano gli altri a difendersi con valenteria, e Gioacchino coi cenni e con le mani il vieta. Gli abitanti del Pizzo vi traggono a calca, ingomberano il terreno, sì che chiuso ogni varco, non offre scampo che il mare, e Gioacchino, aggrappandosi per balze e greppi, vi s’inerpica, sdrucciola. precipita giù, giugne al lido,chiama ad alta voce Barbarà(era il nome del condottiero), ma la sua barca più al largo correa. Murat stava a fidanza di Barbarà. Reco fede d’onest'uomo! Gioacchino, disperato di quel soccorso, sforzasi di lanciar nell’acqua uno schiffo, che per avventura stava a secco in sulla riva, quand’ecco gli e alle spalle Trentacapilli con numeroso stuolo di gente armata di archibugi, stocchi, mazzeri, sassi; lo accerchiano, gli si avventano addosso, gli strappano le reali vestimenta,ed i gioielli che portava al cappello e sul petto, il feriscono in viso, e pur anche le donne si danno a tempestarlo di fieri colpi. Così sfregiato il menano in carcere nel picciol castello della stessa città insiem co’ compagni, che avean presi e pur mal conci. Prima la fama e poi lettere annunziaron quei fatti al podestà della Provincia. Comandava nelle Calabrie il general Nunziante, il quale a quei giorni avea sue stanze in Tropea: egli spedì al Pizzo il capitano Stralli con alquanti soldati. Questi recatosi al castello imprese a scrivere i nomi dei prigioni, e, dopo averne interrogati due, domandato il terzo del nome: «Gioacchino Murat, re di Napoli»quegli rispose. A questi accenti compreso lo Stralli da maraviglia mista a rispetto, il pregò di passare a stanza migliore, e gli si porse largo di cure e cortesie. In poco d'ora vi giunse Nunziante, sommessamente salutò Murat, e di presente il provvide di cibo e vestimenti, conciliando (malagevol opera)! la fede al re Borbone, e la riverenza a un tempo e la pietade a Murat, caduto in fondo di fortuna.
Il telegrafo incontanente annunzia a Napoli i casi del Pizzo. Per via di segni e di messi fu dato immantinente comando che un tribunal militare dovesse giudicarlo. Giugne il comando nella notte del 12, si eleggono sette giudici, e quel concilio adunasi in una stanza del castello. In altra Gioacchino dormiva l'ultimo sonno della vita. La dimane entratovi Nunziante, e trovatolo che dormiva come i fortunati, preso da pietà non destollo; ed allorché per sazietà di sonno aprì le luci, quegli composto a dolore gli fe’noto che il Governo avea prescritto ch’ei fosse da una commessione militare giudicato. cotal annunzio gli fe’ velo di pianto a' lumi; ma tosto di se medesimo seco vergognandosi, rincacciollo, e domandò se gli era dato di vergare una lettera a sua consorte, e Nunziante accennatogli il sì, scrisse in idioma francese:
«Mia cara Carolina, l’ultima mia ora e suonata: tra pochi istanti io avrò cessato di vivere, e tu di aver marito. Non obbliarmi mai: io muoio innocente: la mia vita non è macchiata di alcuna ingiustizia. Addio, mio Achille, addio, mia Letizia, addio, mio Luciano, addio, mia Luisa, mostratevi al mondo degni di me. Io vi lascio senza regno e senza beni. Siate uniti e maggiori dell'infortunio; pensate a ciò che siete, non mica a quel che foste, e Iddio benedirà la vostra modestia. Non maledite la mia memoria. Sappiate che il mio maggior tormento in questi stremi di vita e il morire lontano dai figli. Ricevete la paterna benedizione, ricevete i miei abbraccia menti e le mie lacrime. Ognora pre sente alla vostra memoria sia il vostro infelice padre—Gioacchino. Pizzo 13 ottobre 1815».
Recise alcune ciocche de' suoi capelli e le chiuse nel foglio, che consegnò e caldamente raccomandò al general e. Vietò al capitano Starace di parlare in sua difesa; e al giudice compilatore del processo, che il chiedeva, secondo la costumanza, del nome, rispose tuonando: «Io sono Gioacchino Murat, re delle due Sicilie, e vostro; partite, sgomberate di voi la mia prigione». Rimasto solo, non piangeva, sì dentro impietrò, tenendo fisse ed immobili le sue pupille sopra i ritratti della sua famiglia. Indi a poco il sacerdote Masdea il pregò, che gli dovesse piacere d’acconciarsi dell'anima, ed egli, rendendosene agevolissimo, rispose: Io sono acconcio di ciò fare. Ei compié daddovero gli atti di cristiano con filosofica rassegnazione, e, ad inchiesta dello stesso ministro di Dio, scrisse in idioma francese: «Dichiaro di morire da buon cristiano—G. N. —»
Frattanto il tribunale militare profferiva: Che Gioacchino Murat, con 28 compagni avendo eccitato il popolo a civil rivoltura, e però offeso la legittima sovranità, qual nemico della tranquillità pubblica era condannato a morte, in forza di legge del Decennio mantenuta in vigore. Il prigioniero, dopo aver udito con freddezza e disdegno la sentenza, fu menato in un piccol ricinto del castello, ove lo attendeva uno squadrone di soldati attelato in due file. Il malarrivato Murat si tiene allora spacciato; e però rinverdendo in lui la natural baldanza, ricusa la benda, onde voleano far velo a' suoi occhi, guata con intrepidità serena il ferale apparecchio delle armi, Sporta in fuori il petto, e da se stesso allogandosi in attitudine da offerire il più di superficie ai colpi di archibusi: Soldati, sclama, mirate al cuore, additandolo con la mano, salvate il viso. Disse, e più non fu. Le sue spoglie in un co’ ritratti della famiglia, cui, tuttoché spento, pur tenea strette in mano, furon sepolti in quello stesso tempio cinque anni innanzi eretto dalla sua pietà, quando trovandosi egli al Pizzo, il su mentovato sacerdote Masdea gli domandò un soccorso per compiere le fabbriche di nell’edilizio, e Gioacchino il concesse più largo delle speranze. E così al quarantesim'ottavo anno di vita, settimo di regno, di questo mortal secolo trapassava Gioacchino Murat, addomandato l’Achille della Francia, perché prode ed invulnerabile in guerra al par di quello della Grecia; dotato di desiderii da re, mente da soldato, cuore di amico...
Erano pochi giorni rivolti dopo i fatti del Pizzo, allorché il nostro regno fu di spavento e pietade invaso; la peste si apprese in Noia, piccola città della Puglia, cui l’Adriatico bagna, popolata di 5200 abitanti, per esecranda fame d’oro introdotta con alcune merci, ignorandosi se da Dalmazia o da Smirne. A’ 23 novembre quell'orribil flagello di Dio troncò la prima vita, e al 7 giugno del 1816 ebbe fine: durò quella sventura sei mesi e mezzo, e spense il vivere a 728 abitanti di Noia. Provveder divino volle salvo il regno e l’Italia.
A quei giorni si apprese in una notte il fuoco, e fu caso, al magnifico teatro di San Carlo, mentre da pochi attori facevansi le prime prove di un dramma. In meno di due ore quel grandioso albergo delle arti belle tramutossi in cenere. Ingiunse Ferdinando che fosse al più tosto rifatto, e dopo il volger di sette lune risorse più bello dell’antico.
Per magrezza di ricolto patì fame il popolo in quel medesimo anno e nel seguente, e compagne della penuria e del disagio furono le febbri, divenute mortali e contagiose.
Avendo udito il Re, quand'era in Sicilia, che demolivasi in Napoli il sacro tempio di San Francesco da Paola per ingrandire il foro della reggia e sostituire a quella chiesa un Panteon, ei fe’ voto di rialzarla più decorosa quando che a Dio piacesse di rimenarlo al suo perduto trono. Esaudillo l’Altissimo nel 1815, e allora il Re tostamente decretò, che si riedificasse quel tempio, commettendone l’opera all'architetto Bianchi da Lugano. Con pubblica e sacra ceremoniavi pose il Re con le proprie mani la prima pietra il 17 giugno del 1816. Il Landi, il Camuccini edi migliori ingegni napolitani nella pittura e scultura resero assai pregevole quei monumento pe’ loro immortali lavorìi.
La Polizia, dopo essere stata per parecchi mesi nelle mani del cavaliere Medici, passò in quelle del principe di Canosa, e rivocato costui, fu nominato, non già ministro di Polizia, ma direttore del ministero, Francesco Patrizio.
Nel 1817 il Re fregiò d'una medaglia, che chiamò di Onore, tutti i militari, che ne’ dieci anni della dominazione francese eran seco lui rimasi in Sicilia; era di bronzo, con l’effigie del Re in una faccia, nell'altra con lo scritto: Costante attaccamento; una stella a quattro raggi la conteneva, sostenuta da nastro rosso. Fu questo l'ultimo atto del supremo Consiglio per la guerra: ché gioito, ed eletto capo delle armi il generale Nugent, nato al servizio allora dell'Austria. Le molte compagnie di miliziotti composte nel 1790, poi dette nella repubblica guardie civiche, abolite alla caduta di quel governo, rinnovate nel regno di Giuseppe, accresciute da Gioacchino, e chiamate legioni provinciali, vennero formate nel 1817 in reggimenti ventuno, quante sono le province nelle due Sicilie. Nella città dominante erano stati confermati cinque battaglioni (quattro di fanti, uno di cavalieri) di guardia di sicurezza, i medesimi già formati sotto la signoria di Gioacchino.
Il congresso di Vienna riunendo in un regno le due Sicilie, re Ferdinando, IV nel reame di Napoli, III in quello di Sicilia, fu Inel regno unito, e, pigliando esempio dai re normanni, appellò duca di Calabria il figlio erede del trono; principe di Salerno il secondo nato; duca di Noto, il primo figlio del duca di Calabria; principe di Capua il secondo; conte di Siracusa il terzo; ed il quarto conte di Lecce. Altro editto dello stesso giorno instituí un consiglio di cancelleria di dodici consiglieri ordinari, cinque straordinari, otto refendari; ed era ufizio degli ordinari il consigliare; de' referendari l’informare; e degli straordinari il dar voto, ma solamente nelle adunanze general i. Il consiglio, partito in tre camere, provvedeva all'amministrazione delle comunità, ed alle fondazioni pubbliche o religiose. Altre due leggi, pure di quel giorno, riordinarono il consiglio di Stato e il ministero: questo fu diviso in otto segreterie di Stato; la Polizia, in luogo di un ministro, ebbe un direttore. I siciliani empivano la quarta parte della cancelleria del consiglio di Stato, del ministero. Il duca di Calabria fu detto luogotenente del Re in Sicilia.
Per nuova legge, riguardante il Tavoliere di Capitanata, fu destinata non poca parte di quelle immense terre a pastura vaga e nomada. L’oste alemanna, ridotta a 12,000 soldati, partissi nell'agosto dell'anno 17, e, comecché fosse il nostro reame d’ogni straniera forza scemo, vi si godeva pace tranquilla, sopra tutto quando fu fatto compiuto eccidio de' Vardarefli, brigata di scherani, genia di grassatori, che a quei giorni le nostre terre miseramente infestavano.
Nel 1818 Napoli fermò il concordato con la corte di Roma; ma prima ch'io imprenda a farne motto, pensomi sarà per riuscir utile al lettore lo sporre gli altri trattati con le corti straniere. Il re di Napoli a' 9 Giugno 1815aderì al congresso di Vienna. Ai 12 dello stesso Giugno fermò alleanza con l’Austria. Ai 26 settembre 1815 si unì alla S. Alleanza. Ai dì 3, 17 e 29 aprile 1816 conchiuse pace con gli stati di Algeri, Tunisi e Tripoli, negoziatore per le nostre parti lord Exmouth, ammiraglio britannico; pagando il governo di Napoli annual tributo di 40,000 piastre spagnuole, e, nel tempo del trattato, il riscatto de' già fatti schiavi. Per trattati novelli del 25 settembre 1816 con la Inghilterra, del 26 febbraio 1817 con la Francia, e del 15 agosto dello stesso anno con la Spagna, furono aboliti gli antichi, e si diede al commercio delle tre su mentovate nazioni il ribasso del decimo dei dazi, che si pagano dagli altri legni stranieri o napolitani. Nell’anno 1818 fu concordata con tutte le corti europee l’abolizione dell'Albinaggio. Nel dicembre 1819 si fece trattato col Portogallo, e si convenne dargli, per essere tradotti a Rio–Janeiro, i condannati a vita il16 febbraio 1818 Napoli accordossi con Roma, e furon eletti a negoziatori, il cavalier Medici per le parti di Napoli, il Cardinal Consalvi per quelle di Roma; i quali trattatori convennero in Terracina, e fermarono il concordato, del quale le parti degne di essere ammentate sono le seguenti:
1. Riordinamento delle diocesi; erano i vescovi 132, poi ridotti, per vacanze non provvedute, a 43; oggi saliti a 109.
2. Riconoscimento delle vendite de' beni ecclesiastici, seguite ne’ regni di Ferdinando, Giuseppe e Gioacchino. I beni non ancora venduti, restituirsi.
3. Ristabilimento de' conventi nel maggior numero che si possa, avuto riguardo alla quantità de' beni restituiti, ed alle assegnazioni possibili alla finanza.
4.Diritto di nuovi acquisti alla Chiesa.
5. Divieto, al presente Re, ed a' Re successori di disporre de' possessi ecclesiastici; oggi via più dichiarati e riconosciuti sacri, inviolabili.
6. Annuo pagamento a Roma di ducati 12,000 sopra le rendite de' vescovadi napolitani.
7. Ristabilimento del foro ecclesiastico per le discipline de' cherici, e delle cause (benché fra i laici) che chiamò ecclesiastiche il tridentino concilio.
8. Facoltà di censura ne’ Vescovi contra qualunque trasgredisse le leggi ecclesiastiche ed i sacri canoni.
9. Libero a' Vescovi comunicare co’ popoli; libero corrispondere col Papa; concesso ad ognuno ricorrere alla corte romana; i divieti del liceatscribere rivocati.
10. Facoltà de' Vescovi d’impedire la stampa o la pubblicazione de' libri giudicati contrari alle sacre dottrine.
11. Dato al Re proporre i Vescovi; riserbato al Pontefice il diritto di scrutinio e consecrazione.
12. Prescritto il giuramento de' Vescovi, cioè: «Io giuro e prometto sopra i santi evangeli obbedienza e fedeltà alla real Maestà. Parimenti prometto che io non avrò alcuna comunicazione, né interverrò ad alcuna adunanza, né conserverò dentro o fuori del Regno alcuna sospetta unione, che noccia alla pubblica tranquillità. E se, tanto nella mia diocesi che altrove, saprò che alcuna cosa si tratti a danno dello Stato, la manifesterò a S. M.»Intendevano all'adempimento delle rifermate cose il marchese Tommasi per le parti di Napoli, il vescovo Giustiniani per quelle di Roma.
Avendo narrati i trattati intervenuti dal 1815 sino a questi giorni, mi avviso dover pure riferire i matrimoni degni di storia nel medesimo tempo effettuati. Ai 4 aprile. 1816 furon celebrate le nozze tra ‘lduca di Berry, nipote al re di Francia, e la principessa Carolina Ferdinanda, figlia primogenita del duca di Calabria, la quale aveva appena tracorsi i tre lustri, gradevole della persona, di colto ingegno. A’ 16 luglio del medesimo anno il principe di Salerno si avvinse in coniugal nodo con l’arciduchessa Maria Clementina, figlia dell’imperator d’Austria. Ed a' 3 agosto 1818 l'infante don Francesco di Paola, fratello al re di Spagna, strinse matrimonio con la principessa Luisa Carlotta, secondogenita del duca di Calabria, giovinetta pur ella di vaghe e leggiadre forme.
In questo tempo il Re insiem con la moglieFloridia si tradusse a Roma per inchinare il Papa, ed al ritorno menò seco lui il fratello Carlo IV, in quella città confinato dopo i rivolgimenti del suo regno. Il duca di Calabria indi a poco recossi pur egli a Roma, trovò inferma la regina di Spagna, e, vistone il fine, accelerò il ritorno a Napoli.
Nel 19 gennaio 1819 serenamente di questo mortalsecolo passava Carlo IV, nato in Napoli l’anno 1748, partitone con Carlo, suo padre, nel 1789; e le sue spoglie, prima deposte nella chiesa di Santa Chiara, dove han tomba i re di Napoli, furon poscia trasportate nella Spagna.
In aprile dello stesso anno venne a Napoli per diportarsi l’imperatore d'Austria Francesco I, in compagnia della consorte e di una figlia, seguito dal principe di Metterniche da parecchi personaggi di fama. Ebbe alloggiamento nella reggia; indi nel maggio seguente si parti.
Inquesto tempo fu instituito l'ordine cavalleresco di San Giorgio, con l’aggiunto nome di Riunione, per segnare il tempo, nel quale i due regni separati si composero e riunirono in uno. Il nastro e turchino orIato di giallo, i colori della stella rubino e bianco, i motti in hoc cigno vinces circondanti l’effigie del Santo, ed all’opposta parte, virtuti dandosi cotal ordine militare al valore ed ai servigi di guerra per giudizio di un capitolo di general i; gran maestro il Re, gran contestabile il principe ereditario della corona, gran collane gli avventurosi capi dell’esercito, gran croci i general i più chiari in guerra, e così discendendo per otto gradi sino a' soldati. Indi a poco pubblicaronsi i novelli codici, sei, ma in nulla mutarono quei di commercio e di procedura.
A questi giorni ritogliendo nella provincia di Lecce i germi di politici sconvolgimenti, vi andò commissario del Re con la possanza dell'alter-ego il general Church, nato Inglese, agli stipendi di Napoli, il quale, per rigor grande e giusto, rese a quella provincia la quiete pubblica. La Polizia, prendendo novelle forme, si unì al ministero della Giustizia, e ne fu eletto direttore un tal Giampietro; sì che in questo tempo avevasi Napoli codici eguali, giusti; la finanza ricca, comune; l'amministrazione civile, sapiente; il potere giudiziario, indipendente; i ministri del Re, e gli amministratori delle rendite nazionali, soggetti a pubblico sindacato; e finalmente decurionati, consigli di provincia, cancelleria, tutte congreghe di cittadini e magistrati, attendenti al bene comune; s’imprendevano lavori di pietà e di utilità pubblica; la fondazione di alcuni altri Orfanotrofi, delle scuole di agricoltura, di veterinaria, e di applicazione militare, sono opere di questi tempi, come, pure la riforma del sistema di coniar le monete; pro«sperava lo Stato; a dir breve, Napoli potea noverarsi tra i meglio governati regni di Europa, quando nuovo avvenimento intervenne, la civil rivoltura del luglio 1820, per la quale si gridò la costituzione delle Cortes di Spagna. Il ministero fu cangiato, molte mutazioni accaddero nello Stato, delle quali non fia disaggradevole il non far motto. Le principali corti, la Russia, l’Austria, la Prussia, riprovavano il novello governo di Napoli; la Francia nolriconosceva; taceva l’Inghilterra; e comecché la Spagna, la Svizzera, i paesi Bassi, la Svezia ne facessero formale riconoscimento, non però di meno era poca la sicurtà a fronte del periglio. E però dopo nove mesi per deliberazioni fatte da' re contrari, ed in ispezialità da' sovrani di Russia, di Prussia e d’Austria ne' congressi di Troppau e di Laybach, re Ferdinando, che, imbarcato il mattino del 4 dicembre dello stesso anno sopra vascello inglese (il Vendicatore, lo stesso che dopo la battaglia di Waterloo accolse prigioniero in Rochefort l'imperatore Buonaparte), erasi recato a que’ medesimi congressi, rientrò nel suo regno, accompagnato da poderosa oste austriaca, retta dal general Frimont, il 23 marzo del 1821. Quell’esercito d’Austria stanziò nelle nostre province per lo spazio di cinque anni.
La Sicilia in cotal i rivolgimenti non si rimase tranquilla. Palermo tumultuò, e la rivoluzione si distese da questa città sino al Vallo dello stesso nome, ed indi al contiguo di Girgenti. Dio, Re, costituzione di Spagna ed Indipendenza fu il motto della rivoluzione, bruttata dalle violenze nella città, dalle scorrerie nelle campagne, dalle uccisioni e ruberie ne’ paesi contrari: cose umane e divine la stessa furia distruggeva con turpitudini d’anarchia. Il general Church, capo militare dell'isola, il quale volle reprimere que’ moti, fu dalla plebaglia oltraggiato; minacciato, inseguito; e 'l general Coglitore, a' suoi fianchi ferito. Il general Naselli, luogotenente del Re, fu scacciato. Non però di meno Palermo fu tra breve tempo sottomessa dalle milizie, che da Napoli furono colà spedite. Nuovi tumulti, che in poco d’ora trascorsero in ribellione, intervennero pure in Messina il 26 marzo del 1821. Il luogotenente del Re, principe della Scaletta, minacciato e fuggitivo, i magistrati atterriti e nascosti; la somma della possanza in mano del generale Rossaroll, che reggeva le milizie di quel Vallo. Ma rallentata la foga, gran numero di cittadini nella stessa Messina si assembrarono armati in sostegno della quiete pubblica, e per infrenare ed opprimere i rubelli, sì che di costoro, chi fuggì, che si nascose; e 'l general Rossaroll, dopo brieve disordinato impero, imbarcato da fuggitivo, andò in Ispagna.
Il Re, fermate le massime d’impero, per nuova legge sciolse le milizie civili, rivocò le leggi del reggimento costituzionale. In questo mezzo arrivò in città ministro di Polizia il principe di Canosa. Furon create le giunte di scrutinio per esaminare il contegno serbato dagli ufiziali della corona in quelle politiche rivolto re. Al consiglio di cancelleria si fé succedere la Consulta generale del Regno.
Cessati i civili rivolgimenti, insorsero i naturali nel 1822.
Orribili turbini devastarono vasti tenimenti, uccisero uomini ed armenti; per fulmini, in un medesimo giorno, in vari luoghi, fu spenta a parecchie persone la vita; la città del Pizzo, inondata dalle acque marine per furioso vento sollevate, perdè tre uomini, e restò ingombra di sassi e d’alga; il Vesuvio eruttò più fiate fiamme, ceneri e lava, e comecché questa, di sé coprendo non poca terra, ingenerasse danno a' circostanti poderi, non però di meno fu lieve cotal dammaggioa comparazione dell'altro cagionato dalle piogge di ceneri e lapilli, che addensate per acqua in dura materia, insterilirono vasti e fertili campi. Nella città del Vasto molte case franarono, e, salvatisi gli abitanti, que’ rottami, coprendo terre ubertose, addoppiarono i danni. Nelle Calabrie, negli Abruzzi, nella Sicilia continui tremuoti faceanvi traballerò gli edilizi, ed oppressavano quei trangosciati abitatori.
In questo medesimo anno il re di Prussia, i suoi figli ed il sovrano di Lucca vennero a diporto in Napoli, e poco appresso, sopra vascello napolitano, vi giunse la già imperatrice duchessa di Parma, vedova Buonaparte. Ed a questi giorni con pubblica festevol ceremonia si espose nell'edilizio de' regi studi la marmorea statua del Re, colossale, in foggia di guerriero, opera di Antonio Canova.
Si cambiò il ministero di Polizia in Direzione; il principe di Canosa, che n’era ministro, fu nominato consigliere di Stato. Si ricomponevano i magistrati, l’esercito. Per decreto fu fatto ministro il cavalier Medici, che allora dimorava in Firenze; e ‘l Re, rivocati gli antichi ministri, altri ne scelse: Canosa uscì fuori del Regno.
Radunatisi un giorno per consiglio nella reggia diciotto personaggi, a quel consesso si fecero cinque domande in affari di Stato; ed essendo espressa nelle dimande stesse la volontà del governo, il consiglio rispose affermando, e si decretò:
Che le Due Sicilie si governassero separatamente, sotto l'unico impero del Re: fossero proprie le imposte, la finanza, le spese, la ’giustizia criminale e civile, e propri gl’impieghi, così che nessun cittadino di uno Stato potesse aver carica nell’altro.
Che il Re trattasse le cose del Regno in un Consiglio di Stato di dodici almeno, sei consiglieri, sei ministri:
Che le leggi o i decreti e le ordinanze in materia di governo fossero esaminate da un consesso di trenta almeno consiglieri per lo stato di Napoli, diciotto per la Sicilia, col nome di Consulte, da radunarsi separatamente in Napoli e in Palermo:
Che le imposte regie fossero distribuite in ogni provincia, per ogni anno, da un consiglio di provinciali, con facoltà di proporre alcun miglioramento nell'amministrazione degli stabilimenti pubblici o di pietà:
Che le comunità si amministrassero con ordinanze più libere delle antiche, le quali sarebbero dettate dal re, dopo aver inteso i consigli dello Stato.
In questo medesimo anno il Re fu chiamato a novello congresso in Verona, ed a sua inchiesta minoravano nelle Due Sicilie i presidi austriaci (da 42,000 a 30,000). Sciolto il congresso di Verona, re Ferdinando I recossi a Vienna, quindi fe’ ritorno a Napoli. Il principe Ruffo e 'l general Clary, poco innanzi nominati ministri, furono dimessi.
Al cadere dell’anno 1823 ed al sorgere del 1824 in torvo aspetto mostrossi a noi la natura. La città di Sala fu scossa da tremuoto; Avigliano franò in gran parte; in Messina tempesta impetuosa con fulmini e tremuoti scaricò in pioggia tanto stemperata che furon devastate le campagne fatti deserto i già deliziosi giardini o fertili tenimenti; furon abbattute le case; molti soffogati miseramente perirono; molti sopra i tetti ripararono. Né la natura la risparmiò a Palermo, che disastri maggiori tollerò per tremuoto.
Morti memorabili avvennero pure a questi medesimi tempi. Di questo mortalsecolo agli eterni riposi trapassava Nicola Pergola, dotto in matematica, autore di molte opere. Moriva Giuseppe Piazzi, astronomo chiaro nel mondo. Le mortali spoglie deponeva l'esimio cerusico Bruno A manica, e la fama e la pietà facevan insieme piato per le laudi di lui. Del suo frate pur si svestiva Domenico Cotogno, dotto, eloquente, insigne per nuove dottrine in medicina.
Al cader dell'anno 1824 ammalò il re Ferdinando, ma leggermente, sì che ne ottenne presta guarigione. Nella sera de' 3 gennaio 1825, dopo le cristiane preci, entrato in letto, e adagiatosi nella sua coltrice, saporitamente vi si dormiva, quando da questa vita mortale, non è sì ratta la saetta folgore, all'immortale fé tragetto. Il domane fu trovato cadaver freddo stranamente avvolto nelle lenzuola e nelle coltri; le gambe e le braccia erano stravolte, la bocca aperta come per chiamare aiuto, o per raccogliere le aure della vita; livido il viso e nero; gli occhi spalancati fulminante apoplessia gli spense la vita.
La morte del re delle Due Sicilie Ferdinando I fu bandita con editto del re delle Due Sicilie Francesco I. Il testamento del defunto Re confermava le successioni al trono stabilite da Carlo III suo genitore; e però chiamava erede al Regno il duca di Calabria, Francesco. Ei visse anni 76, ne regnò 65: rara felicità di principe, che nella sua vita può governar tre vite del suo popolo.
Durante il reggimento di Francesco I sorse più bello lo spirito della vera pietà nel cuore de' suoi sudditi, e più chiara la reggia divenne della luce onde divampava, la face della religione.
Questo sovrano corresse alcune leggi civili; altre del codice penale emendò; die’ nuovi ordinamenti alla milizia, alla navigazione; incoraggiò l’agricoltura, la pastorizia; erger fece nell’università di Messina le cattedre di ostetricia, di anatomia e di clinica; rese più dovizioso il museo borbonico, protesse il pennello, lo scalpello, l’amatila e 'l bulino; stabilì nella real accademia delle arti una seno la elementare di disegno; fe’ restaurare la basilica ed i templi di Pesto e quella dell'anfiteatro campano; nuovi tesori di antichità disotterrar fece dal seno di Ercolano e di Pompei; da ultimo un real Ordine istituì dello stesso suo nome, per decorarne coloro, che, eccellenti nelle arti e nelle facoltà delle scienze, avean fatto pro alla patria per le loro ammaestranze.
Mentre cotal i cose operava questo monarca, la morte, che con lento morbo da più anni il travagliava, fèglisi più dappresso, e, l’ultim'ora intimandogli, il tolse a' Viventi il dì 7 novembre dell’anno 1831, lasciando numerosa prole, cui natura fu di vaghe e leggiadre forme assai larga, composta delle A. R. D.(a)Carolina Ferdinanda Luisa, oggi Duchessa di Berry, nata dal primo matrimonio del Re coli Arciduchessa d'Austria Clementina, D. Ferdinando, allora Duca di Calabria, D. Carlo Principe di Capua, D. Leopoldo Conte di Siracusa, D. Antonio Conte di Lecce, D. Luigi Carlo Maria Conte di Aquila, D. Francesco di Paola Conte di Trapani, D.(a)Luisa Carlotta disposata a D. Francesco di Paola Infante di Spagna, D.(a)Maria Cristina, presentemente vedova di Ferdinando VII Re delle Spagne, D. Maria Antonia, maritata a Leopoldo II, Arciduca d'Austria, Gran Duca di Toscana, D. Maria Amalia, D. Maria Carolina Ferdinandina, e D.(a)Teresa Cristina Maria.
Pubblicata dal nuovo Re Ferdinando II la morte del re delle Due Sicilie Francesco I pella reggia si composero i volti ed i discorsi a mestizia e lutto. Per testamento del trapassato monarca venendo chiamato erede al trono il Duca di Calabria, Ferdinando, a Francesco I successe la Maestà dell'Augusto nostro Signore.
ALLA STORIA DEL REGNO DI NAPOLI
Per Antonio Pandullo
DI TROPEA
E qui sarebbe d’uopo una viva e poetica eloquenza, per tutti discorrer acconciamente i più rapidi progressi delle scienze fisiche e meccaniche, delle discipline filosofiche e morali, delle matematiche e filologiche, conoscenze, degli studi chimici e meteorologici, delle cognizioni artistiche ed estetiche, delle industrie agricole e commerciali, delle produzioni coloniali e manufatturiere, delle arti marinaresche e guerriere; e quindi convenientemente favellare del nostro celebre Osservatorio meteorologico fondato non ha guari alle falde del Vesuvio, in virtù della più bella ed utile ispirazione di chi regge con tanto senno e saviezza i nostri destini.
Un magnanimo desiderio, in effetto, d’apportare incremento alle interessanti cognizioni ed allo studio della meteorologia, la quale strettissimamente appiccasi alla geografia fisica ed alla medicina, e che corredata dall’analisi delle variazioni diurne e periodiche puole oltre modo giovare alla progressione successiva dell'agricoltura, sospinse l’animo benefico di Ferdinando II a fare innalzare l’Osservatorio anzidetto non molto lungi dal giogo dell'ignivomo monte.
Un sì benefico pensiero non potea certamente non riscuotere l'approvazione de' savi, sovra tutto delle anime veramente filantropiche: imperocché ben pochi luoghi su la superficie di questo nostro globo rinvenir si potrebbero sì acconci ed opportuni a misurare la pressione atmosferica, le varie correnti de' venti, l’appariscenza periodica delle meteore, ed i sorprendenti fenomeni dell’elettricismo, quanto le alture d’un monte, il quale spingendo i suoi controforti sino alle rive adiacenti del mare, e signoreggiando la sottoposta ridente pianura, trovasi a lato d'un cono vulcanico, che nelle variate e frequenti sue eccezioni offre ciò che di più sorprendente e maraviglioso puot'esser interessante subietto d’investigazione e di esame pei felici cultori delle scienze naturali.
Némeno generoso è stato il proponimento Sovrano di serbare a questi nostri giorni l’inaugurazione d'un tale Osservatorio. Epperò siamo ben lieti che agli addottrinati nel le cose naturali, assai chiari negli attuali tempi, e pur troppo famigerati in questa nostra Capitale, venga dato di compiere questa gloriosa cura, la quale sarà forse memoranda ne’ fasti della scienza; e che alla sua reale presenza sia dischiuso per la prima volta questo grandioso edificio, da cui, mentre apprestasi luogo opportunissimo! alle curiose ed utili investigazioni de' dotti, argo campo s’offre ad un pari d’osservare mi da presso uno de' più maestosi laboratori della natura, ed in tal sito dove non è mica a temersi la sciagura cui soggiacque malavventurosamente il principe degli antichi naturalisti.
Némeno lieti siamo d’accenare, sebben rapidamente, a' giovani studiosi delle cose patrie un gran tratto d’ispirazione sovrana nel dar opera alla grande ristaurazione ed ordinamento de' pubblici e privati archivi napolitani, per opera dell'inclito signor Commendatore Antonio Spinelli de' Principi, di Scalea, Consultore di stato e Soprintendente generale di tutti gli archivari stabilimenti del Regno.
E qui. pur richederebbesi un dettato preciso e chiaro, forbito e dignitoso come il suo,' per tutti discorrere gl’immensi vantaggi che su alla nostra civilizzata nazione derivano dal serbar interi ed autentici a' posteri i valorosi e sapienti fatti de' loro avi, donde la grandezza procede del nostro Reame, e tutta la nobiltà della patria istoria. Per sì gloriose cure impertanto, il presente archivio di Napoli può meritamente risguardarsi, per unanime avviso della gente savia, il maggiore in magnificenza ed in ordine fra quanti la culla Europa ne vanta e conosce.
Percorrendo, in effetti, col pensiero tutti gli archivi stranieri delle antichità, e facendoci forti dell’opinione di coloro che allo studio consecraronsi della diplomatica e degli archivi, osiam sostenere che leggi ed annali di popoli sì bene, non già un immenso adunamento di carte utili ed interessanti, gli antichi archivi racchiudessero; infra il novero de' quali son degni pur troppo di nota, per le stranezze ed esagerazioni, gli archivi di Daber, di Caldea, di Egitto, della Fenicia, di Tiro, dei Babilonesi, dei Medi e degli Ebrei.
Assai deplorabile era lo stato degli archivi negli antichi tempi, allorquando i Barbari irruppero nel Romano Imperio, e tutte inondarono queste nostre belle contrade. Ma la Stella Rigenerativa levatasi in Oriente, cessar fece la distruzione e la morte, di che le vandaliche torme prendean barbaro diletto, e così fu salva repente la sapienza degli antichi. Non pochi eletti ministri allora di nostra Religione augustissima, in solitari ed alpestri luoghi ridottisi, difendendo se stessi serbaron a un tempo i tesori dell’antichità che con pene e fatiche trascrissero.
Di quivi il rinascimento, e più tardi la ristaurazione, de' nostri archivi Dalle guerre ferocissime nacquero le pie largizioni e le fondazioni de' monasteri a ripararne le commesse colpe. Di qui le donazioni e i privilegi, le immunità e le concessioni, di cui furon tutti intesi e solleciti quei venerandi Religiosi a custodire gli atti e le prove. E le prove e gli alti di private persone e di Princi pi copiavano in codici che ne’ loro archivi serbavano; e però ai popoli del tempo avvenire preparavano così la storia o gli annali del nostro Reame. Dopo quest'epoca sorsero a novello ordine, ed or sovra tutto a sommo grado di perfezionamento elevati, gli archivi di ragion pubblica e privata, quelli del palagio, de' concili, delle chiese, della città e de' Notai. —
Ecco delineati come in un quadro metodicamente ragionato i principali fatti, le più circostanziate vicende, gli avvenimenti più interessanti, ch'ebber luogo nel nostro reame, partendo fedelmente dalla sua origine sino ai nostri tempi.
Gettando intanto, comunque rapidamente, un colpo d’occhio su le nostre istituzioni fondamentali, tanto dell'ordine giudiziario ed amministrativo, quanto del potere supremo del governo e della disposizione attuale delle leggi, assai chiaro risultano le magnanine cure, i benefici e salutari miglioramenti a noi prodigati dalla REGNANTE DINASTIA, la sola, alla quale noi dobbiamo sempre mai eterna riconoscenza.
Néi tratti di Sovrana munificenza son pur ora finiti. Il nostro savio e magnanimo RE FERDINANDO II altri espedienti va adottando più energici ed efficaci, affine d'apportare un perfetto e compiuto immegliamento nei rami tutti di pubblica amministrazione, di sodale progresso, di positiva ed universale prosperità, e ciò per vie maggiormente render felici e contenti i suoi amatissimi sudditi. —
Innanzi ch'io ponga fine a questo mio lavoro, vo' raccorre in pochi versi le svariate dinastie, che tennero il governo del reame delle due Sicilie, e il tempo della loro durata, perché nella memoria di chi farassi a leggerle si potessero altamente suggellare.
La prima dinastia fu la Normanna, la quale regnò per 68 anni, dal 1130al 1198. La seconda la Sveva, che governò per 70 anni, dal 1198 al 1268, La terza l’Angioina, che durò 170 anni, dal 1268 al 1435. La quarta l’Aragonese, che tenne il regno per 86 anni, dal 1435 al 1521. La quinta e la più lunga l'Austriaca-Spagnuola, la quale imperò per anni 101, dal 1621 al 1707. La sesta l'Austriaca, la quale ebbesi la signoria per soli 27 anni, dal 1707 fino al 1734, anno in cui fu investita della sovranità delle due Sicilie la dinastia Borbonica.
Gli ULTIMI AVVENIMENTI POLITICI
DI ROMA E DI CALABRIA, DI SICILIA E DI NAPOLI
Il faut trouver une forme de' gouvernement qui mette la loi au dessus de l’homme.
J. J. Rous.
Se havvi pel saggio un tenebroso tempo consecrato al silenzio, ed un tempo più rischiarato e luminoso ch'ei destina al parlare, e questo senza dubbio il prezioso ed accettevol momento in cui, dopo un ben lungo silenzio, schiuder conviene la bocca, sciorre il freno alla lingua, frangere i ceppi al pensiero, e far che libera e franca fuor se n’esca la bella imagine della nostra intelligenza, la fedele espressione degl'intimi nostrisentimenti, la dipintrice sovrana di tutto ciò che sentiamo e pensiamo, la parola, rivelatrice pubblica ed universale di tutto ciò che s’ignora, ed annunziatrice di consolanti verita di alla pur troppo invilita ed oppressata gente.
Lungi impertanto dal concepir temenza dalcanto della vile menzogna, dell'infame ed atroce calunnia; lungi dal lasciarci scuorare dalle ripetute minacce del possente e temuto egoismo; lungi dal farci sopraffare dalle dicerie degli uni e dagli oltraggi degli altri, dall’assurda ipocrisia di questo e dalle seducenti maniere di quello, opporre e d'uopo all’errore la diritta ragione, far pugnare con noi contro la violenza del vizio l’augusta verità, appellare infine al suo soccorso, in questa Santissima nostra Riforma, l’autore stesso d’ogni santità, il Moderatore eterno della natura, per la cui gloria s’è dolce cosa il combattere, e senza paragone più dolce il vincere e trionfare.
Non havvi cosa che tanto infastidisca ed annoi lo spirito umano, quanto la lettura di un opera lunga ed affatto scevra d'interessanti vedute. Sarà nostra cura il tenerci assai lungi da così gravi e pericolosi inconvenienti, in tempi sovra tutto in cui, costituito vedendo in problema l’intero stato sociale, precipitar soglionsi talmente le opinioni e i pensieri, in rapporto agli avvenimenti politici, ch'è sperabile appena il veder accordare qualche rapido istante a gravi ed interessanti dottrine, a narrazioni di fatti patrii, e della più alta importanza.
In mezzo al vorticoso movimento che tutto avvolgeva e menava per disordinati fini il mondo delle personali esistenze, più non leggevasi un buon libro che furtivamente e con un’attenzione incessantemente distratta da novelli obbietti. É questa per me la più possente ragione, per cui non sonmi indotto finora a pubblicare qualche altra opera, che ho appena preconcepito ed annunziato nel mio Corso di Filosofia Sperimentale. Epperò sforzerommi di colpire in mezzo alle sociali evoluzioni, che preparami, l’occasione più acconcia e favorevole per renderla legalmente di pubblica ragione. Ei non conviene per ora indiscretamente disturbare le profonde meditazioni delle menti più illuminate e chiare, che osan riformare la sublime scienza degli umani destini, la gran teoria dei naturali e positivi diritti della tradita finora ed abbastanza illusa umanità.
Sento pur troppo in me stesso una secreta forza di presentimento che questo tenue lavoro, da una profonda convinzione altamente ispirato, a collider farassi parecchie opinioni accreditate dal tempo che tutto può, e convalidate dall'opinion cieca che tutto ammanta e trasforma. Ma una considerazione siffatta, comunque solidamente rafforzata da un’epoca trista, in cui più non siamo, ed in cui si osava financo attentare alla più sacra ed inviolabil proprietà dell’umano pensiero, non mi ha punto al presente impedito di liberamente svelare alle ottenebrate intelligenze le più ascose ed alte verità. Non èmica necessario che un narratore di politici fatti raddoppi di sforzi e di cure per dare altrui semplicemente nel genio; e neanco e questa una condizione indispensabilmente appiccata e giunta alla facoltà di pubblicare le proprie opinioni: facoltà che io porrò in esercizio, non con altre vedute nell’animo che quelle di giovare alla più sacra delle cause in cui si trova impegnato il sociale sistema, né con altra. speranza nel cuore che quella di raccorre da miei concittadini e fratelli una grata e lusinghiera accoglienza.
Non havvi individuo al mondo che sia più di me pienamente sommesso alle leggi del paese, ove per sorte son nato e vivo; e lo sarei del pari, ove per avventura sbalzato fossi negli estremi confini del globo; lo sarei stato ugualmente nell'antica Roma, sotto la dolce influenza della Repubblica, come sotto la più dura dominazione de' fieri tiranni, e sempre per gli stessi motivi, e nella medesima intensità di sentimento. Un’ombra vana d’indipendenza assoluta, una larva lusinghiera di falsa libertà non mi seduce gran fatto; sento in me, per lo avverso, qualche cosa di celeste ed immortale che ad ogni maniera di servaggio vile o d’ignominioso abbrutimento cerca istintivamente sottrarmi. La face rischiaratrice della filosofia ha felicemente involato l'uomo al fatal giogo dell'uomo. Ei non havvi un sol mortale nel mondo, fra le specie tutte civilmente umanizzate, che ripeter non possa o non debba, ubbidendo alle leggi: Ravviso ben io in ogni rappresentante di Nazione e di Governo il mio moderatore e padre, purch'ei non pretenda che io restimi un capriccioso «dispotico nume colla terra» son libero, e non conosco altro padrone su di me che l'Eterno, il quale è peranco suo signore e capo.
Niuno oserà certamente contrastarci un diritto naturale, un privilegio esclusivo, che lui in noi trasfuso ed indelebilmente impresso natura sin dal nascer nostro. Le discussioni politiche, per se stesse assai gravi e sincere, sur un subietto che tiene occupata oggimai una gran parte degli spiriti napolitani, esser non potrebbero severamente interdette che daun timido e sospettoso dispotismo, vittima crudele delle sue vaghe inquietezze.
Il tenebroso genio del male, tremando sempre per le meschine sue opere, trovar seppe ingegnosamente un astuto e cavilloso principio, di cui formossi un terribile scudo contro la verità e la ragione: e combattete l’errore, diss’egli, ma disgiugnendolo sempre dalle individuali esistenze. Ciò importa tanto quanto il dover a lui lasciare il positivo e il reale,e il riserbare per noi l’ideale e l’asfratto, affine d’aver egli il diritto di trattarci da stravaganti e dementi. Assai più dolce ed util cosa sarebbe, senza dubbio, lo stabilire per sì fatte materie le più general i e solide teorie; ma ben altramente procedon le cose in questo cieco mondo. Le sociali comunanze vivono e muoiono, riproducessi ed annientansi secondo le dottrine degli uomini ond’esse sono governate; ed impugnar non potrebbersi queste stesse dottrine, senza attaccare a un tempo e i discorsi ch'esprimonle, e gli atti che le consacrano con le più imponenti formalità. Or, nel doversi trattare di atti e di discorsi, le personali esistenze con sempre in ¡scena; e più grande apparisce agli occhi delle attonite genti la lor imponente autorità, più forte sentir fassi il bisogno di scinder la benda indegna che forma la loro illusione. Per quale strana, in effetto e mal intesa carità sacrificar si dovrebbero la societade e l’ordine morale, le teorie più sacre de' diritti e de' doveri, all'orgoglio insultante di taluni acciecati individui?
Havvi senza dubbio di taluni rimproveri, ch'è assai più dura ed increscevol cosa il farli che il pubblicamente subirli. Ma ne’ miseri tempi decorsi in cui eravamo, ed in cui tutto era stravolgimento nell'uomo, maggior pietà si concepiva pel rimorso che mormorava, che per la coscienza che gemeva nelsuo disperato timore. Il suo zelo penace, ma però libero e franco, ingenerava una specie d’irritamento importuno; come il selvaggio al suo figliuolo, così diceva l’egoismo smodato al vindice della verità: Vedi, soffri e taci!— Giustissimo cielo! e per qual ragione non doveva esser permesso all'uom saggio di schiuder la sua voce per la giusta difesa della pur troppo afflitta e languente umanità? Niun motivo certamente di personale interesse o di assurdo amor proprio indur può l’animo mio a sostener l’interesse della verità e del diritto. Néignoro peranco che chiunque discende nell'arena, preconoscendo assai bene qual alto destino ve lo attende, star dee sempre apparecchiato e disposto al pieno adempimento d’un sacro dovere, poco o nulla importandogli de' giudizi degli uomini e de' loro vani discorsi.
Egli era omai gran tempo, che il mondo procedeva indeclinabilmente nella stessa guisa, e che il desolante egoismo opponeva ingiusta guerra a tutto ciò che serviva, d’ostacolo alle sue vili passioni ed alle sue basse idee. E così parea che andar volessero le cose sino a che le masse sociali inondar dovranno la faccia della terra; ma non era questa una sufficiente ragione per dovergli cedere ignominiosamente il terreno.
Era ben di mestieri, per lo avverso, che cedesse ei stesso alla verità, e cedesse pur troppo eternamente, allorché sarebbe pervenuto il giorno del felice trionfo. Le leggi della terra, comunque fondamentali ed inscuotibili ci appaiano pel momento, subir dovranno o presto o tardi qualche scossa terribile e fatale; ed in effetto, non era mica per noi visibile né certo che quest'ordine apparente di cose, ricovrantesi all'ombra di tutte le moderne teorie secretamente ispirate dal più turpe egoismo, avesse mai ricevuto dal Dio di giustizia e di pace le più salde promesse di eternale durata.
In qualunque guisa intanto concepir si voglia, in taluni momenti, la vivacità o la forza delle mie espressioni, desidero di cuore che sien sempre giudicate dal patrio sentimento che halle istintivamente ispirate. Il desiderio di umiliare o di ferire l'orgoglio di chicchessia, del pari che il disegno di profonder lode ed incenso, adulazione ed allettamento ai grandi della terra, è stato sempre un sentimento affatto ignoto al cuor mio. Vedute più alte, e a un genere più nobile e più sublime, han guidato il mio spirito, nell'intraprendere e menar a compimento quest’altro interessante lavoro storico; ed ove i miei sforzi avesser bisogno di esser un giorno giustificati innanzi al tribunale del mondo, non esiterei punto di produrre a mia difesa queste poche e semplici parole LEGGETE E GIUDICATE. La sposizione fedele ed ingenua de’ fatti, che in sé quest’appendice storica comprende, non offre allo spirito umano che un subietto di riflessioni profonde pei politici e per i amministratori di leggi, pei governanti e pei governati, per le masse e pei loro moderatori. L’avvenire che ci attende, e cui noi aspiriamo colla più alta impazienza, ben altre istruzioni ed altri ammaestramenti ci riserba; imperocché ha il suo termine ogni cosa, e peranco l'oppressione ed i torti, la sofferenza e la pazienza. Le umane specie, che più non sono, e quelle altresì che non hanno ancora finito di penare, non han veduto finora che il male in azione, l’egoismo in trionfo e la virtude in depressione ed avvilimento. Qual mente sagace e penetrante preveder potea lo spettacolo, che succeder dovea senza dubbio alla tenebrosa costituzione delle cose passate? chi èmai così accorto ed illuminato da indovinare peranco a quali modificazioni o strani cangiamenti andranno un tempo le sodali masse soggette? chi può conoscere altresì quali e quante anime grandi e generose elevar dovransi un giorno sulla sfera delle rigenerate razze, per assumer energicamente la offesa del vero e del bene, del diritto e del giusto, senza di cui non può darsi, né concepir può mente umana la vera idea di pubblica salvezza? —
Comunque da gran tempo occupato siasi lo spirito umano della sublime scienza dei DIRITTI dell'uomo e del cittadino, come quella ch'estimar puossi la più degna di tener altamente occupati i più sublimi geni, sembra non pertanto di andar fallita nella sovrana destinazion sua, e di non aver fatto finora quel felice progresso cui l’universale impazientemente agognava. I suoi princìpi sono ormai divenuti un interminabil subietto di problematiche discussioni, e diveder fansi i filosofi assai poco d’accordo infra loro relativamente alla fondamentalbase che si dovrebbe ad essi accordare. Appo la maggior parte de' pensatori antichi e moderni, l’importante TEORIA del naturale ed universal diritto, in luogo di rischiarare egualmente gli animi di coloro che sono nell’ampia sfera compresi dello stato sociale, èfatalmente divenuta una scienza astratta e misteriosa, Per una di quelle strane ed inconcepibili contradizioni che ha ella comuni con tutte le umane conoscenze, ha perduto di vista l’esperienza e la spregiudicata ragione, e guidar fessi ciecamente dall’entusiasmo e dall'individuale interesse.
Di qui le più assurde e stravaganti ipotesi di tanti esimi espositori della sublime scienza de' destini dell’umanità, le quali, lungi pur troppo dai semplificare la scienza e renderla via più popolare, non han fatto che ammantarla di tolte e spesse tenebrie, a segno che lo studio più importante per l'uomogli e oggimaiaddivenuto affatto inutile e vano, si forza di renderlo inaccessibile ed oscuro, enigmatico ed astratto. Per una specie di debolezza quasi comune a tutti i primi pensatori della repubblica delle lettere, han costoro, raddoppialo di sforzi per trasfondere nelle loro dottrine un tuono d’ispirazione e di mistero, affine di renderle più rispettabili e sacre al volgo stupido e ignaro.
Dì qui l’ignoranza ingran parte de' propri doveri e delle obbligazioni correlative, la violazione de' diritti o de' princìpi fondamentali della civil comunanza, il rovescio delli stati e la rovina delle Nazioni, le rivoluzioni e le guerre civili, i contrasti piùfieri ed accaniti fra le opinioni politiche, i mutamenti improvvisi e repentini di Governi, le inevitabili scene, da ultimo, di orrore e di sangue, cui son teatro fatale le Province ed i Regni, come pur troppo, nell’epoca presente in cui siamo, e avvenuto fra noi. — Nel compilare la Storia del nostro Reame, mi era ben io avvisato di chiuderne il corso intero e non interrotto de' principali avvenimenti, che in variate epoche hanno avuto luogo in queste nostre contrade, senza punto far motto degli ultimi casi che segnatamente avvennero, a questi nostri tempi, in Roma, nelle Calabrie, nella Sicilia ed in Napoli. Ma ben riflettendo, che avrei senza dubbio violato la storica fedeltà ed esattezza, da un canto, e tradita dall'altro non che defraudata la giustissima aspettazione de' contemporanei, del pari che la prudente curiosità e saggia investigazione de' posteri, ove avessi voluto per poco passare sotto silenzio, od ammantare d’ignominioso obblio i fatti principali, le più salutari riforme politiche, che a questi ultimi giorni hanno avuto inopinata e tostàna esistenza nel nostro Regno, fommi perciò sollecito, per quanto almeno comportano e la brevità del tempo e la posizione attuale delle nostre cose, a lame rapidissimo cenno.
L'assunzione di Pio IX al Trono di Roma fu principio di vita sociale, cagione possente di civile riforma, provvidenziale sorgente di rigenerazione politica per tutta l'Italia. I gravi disordini da prima, i pericolosi partiti, le sediziose fazioni, le risse interminabili, i furti e gli abusi d’ogni generazione, che assai di frequente accadevano in talune province. dello Stato Pontificio, hanno indotto quel Governo ad energicamente provvedervi, non solo co’ mezzi di repressione corrispondenti al momentaneo bisogno, ma a prevenirli davvantaggio con quelle savie misure, che le cagioni ne distruggessero, o ne diminuissero almeno la perniciosa influenza. Né lieve fu poscia in quel sommo Potentato il sentito bisogno di procurare ai suoi popoli un positivo immegliamento, un nazionale progresso, un’illustrazione sociale, che pienamente corrispondesse alla vastità del suo concetto, alla rettezza delle sue vedute, alla santità delle sue intenzioni, tutte corrive ad un pubblico e troppo inteso ben essere.
Epperò penetrata la bell'anima del Sommo Pontefice della grande importanza di questa verità, dispose di richiamarvi l'attenzione de' Capi delle Province, affinché di concerto con le Magistrature locali desser principio e compimento al suo grandioso e colossale progetto. Per darvi quindi il necessario sviluppo, a seconda delle diverse circostanze, nella somma sua sapienza si è degnalo disporre, che tutte le Autorità locali del suo Stato si desser cura di esaminare le differenti posizioni de' popoli, i variati loro bisogni, il loro stato attuale, i mezzi di sempre più migliorare la presente condizion loro, i temperamenti più acconci a così importante provvedimento, i modi più agevoli infine onde mandarlo felicemente ad effetto. E perché avesse opportuno mezzo a ben riuscirvi, deliberò l'augusto Pontefice che, oltre all'intervento delle Autorità Vescovili, nella parte che peculiarmente riguarda l'immegliamento civile e religioso, vi concorresser peranco co' loro lumi le Magistrature Municipali, del paro che i Consigli Provinciali dell'intero Stato Pontificio.
Una sì benefica disposizione, feconda pur troppo di utili risultamenti, sotto i rapporti religiosi, morali e civili, presentò allora, non solo alla romana gente, ma ai popoli tutti italiani, ed oserei ancor dire, all'Europaintera, una prova novella della filantropica premura, onde quell’Inviato dal cielo provvidenzialmente attendeva a promuovere il bene, reale, politico e fisico del suo Stato e de' suoi dilettissimi suggelli.
A questo generale benessere, in effetto, furon sempre dirette le mire di quell'uomo celeste, interamente persuaso che, dal conseguimento pieno di esso può solo ripetersi la prosperità de' popoli, e non già dall’adottare certe teorie, che di lor natura sono inapplicabili alla situazione attuale degli uomini, alla condizione presente de' tempi; o dall’associarsi a talune tendenze, dalle quali ogni supremo imperante di buonsenso debb’esser del tutto alieno: teorie e tendenze che da molti savi vengon disapprovate, e che comprometterebbero manifestamente quella tranquillità interna ed esterna, di cui ha bisogno ogni Governo che ami di procurare o promuovere la felicità pubblica de' suoi governati.
Sin dal primo istante impertanto che quel sommoReggitore del cattolico mondo, animato come e da distinto zelo dì generale immegliamento, diessi ogni cura per compiere la grande opera della sua missione divina, l’opera dell'italica misurazione; e che l’attenzione di quasi tutta l’Europa era a Roma rivolta, sì che tanto si sperava o tanto si temeva per qualunque risoluzione che in quella Dominante si prendessse, ogni atto, ogni parola, ogni manifesto, che emanava dal Governo Pontificio, diveniva un subietto inesauribile di comenti e di osservazioni; di chiose e d’interpetrazioni politiche.
Tutto ciò, in effetto, che avea luogo nei Pontifici Dicasteri, e che ivasi divulgando da' pubblici fogli di Lucca e di Genova, di Torino e di Firenze, offre una luminosa conferma di questa nostra asserzione. E chi dentro vi cercava un argomento a più vive speranze, chi vi scorgeva un motivo a nuovi timori, chi vi leggeva una dichiarazione di misteriosi principi, chi pretendeva infine di rinvenirvi un disinganno ed una ritrattazione. Tanto e vero che gli umani giudizi dipendono in gran parte dagli affetti individuali e dai privati interessi! Affine d’impedire pertanto che la pubblica opinione, ali montandosi d’illusioni fallaci, e non propizie alla causa perpetua della civiltà, trasmodasse oltre i confini probabilmente voluti da chi compiva il pensiero della grande rigenerazione italiana, ha creduto allora molto acconcio ed opportuno più d’un ingegno illuminato e savio d’offrire alla considerazione dei sudditi pontifici, e degl'Italiani, dottissimi comenti, che, compendiando i principi fondamentali della già introdotta Riforma, ne determinassero la politica importanza, e togliessero agli uni l'occasione di troppo audacemente sperare, ed agli altri il pretesto di troppo bassamente temere.
Due erano allora, e due sono per anco a queste nostri tempi, i punti principali, nei quali il partito detto degli OSCURANTISTI diverge e dissente dall’altro partito appellato de' PROGRESSISTI; vogliam dire, la condizione morale del popolo e l'azione governativa. Quanto al primo punto, mentre il partito oscurantista riponeva ogni sua fiducia esclusiva nell'ignoranza della Plebe, nell'elemosina de' ricchi e nella virtù delle pene; il partito progressista, volendo che ogni classe si attendesse il miglioramento sociale, sostituiva all'ignoranza l’istruzione, all'elemosina i salari, al timore de' gastighi l’educazione e l’incivilimento sociale, il vantaggio comune e l’amore del bene.
Relativamente al secondo punto, in questo dissentivano gli uni dagli altri, che i primi faceano del modo di governar gli uomini un mistero di stato, e del pubblico potere un monopolio impudente, un assurdo egoismo; mentre i secondi, sostituendo al mistero la pubblicità, chiedevano e desideravano l’esercizio de' mezzi legali, in forza di cui l’opinione pubblica agir potesse direttamente su lo stesso Governo.
E agevol cosa l’intendere, per la più esatta conoscenza delle cose politiche e storiche de' nostri tempi, come l'un punto e l’altro eran logicamente causa ed effetto al tempo stesso: imperocché, ove mediante i benefizi dell’educazione il popolo abbia acquistato con la coscienza della propria forza, la cognizione più acconcia del bene e del male politico, ivi il mieterò diviene visibil cosa, ed il monopolio del potere un'utopia. E dove questa coscienza e questa cognizione non sono stabilite e diffuse, ivi non può mica parlarsi né d'opinione pubblica, né dell'azione. di questa sul governo degli uomini.
Circa questi due punti impertantos’incontrano in conflitto le opinioni più estreme, le teorie più divergenti, le tendenze più contraddittorie, su le quali se il partito degli Oscurantisti ha sempre torto, il partito dei Progressisti non sempre ha ragione. Diciamo che il primo ha torto, poiché condanna gli uomini all'ignoranza ed alla miseria, all'oppressione ed alla schiavitù, all'avvilimento ed alla dipendenza fatale; e in somma un’offesa, un torto, un insulto alle leggi divine ed umane, alla nobiltà ed eccellenza dell’umana natura. Diciamo che il secondo non sempre ha ragione, poiché talora e troppo esclusivo, talora elimina dal. calcolo alcuni elementi che ne son parte integrale, talora infine ad un Ottimo ideale praticamente impossibile, sacrifica il Bene positivo di facile conseguimento.
In effetto, se l’ignoranza e un male, un’educazione regolata esclusivamente dall’egoismo religioso, o sproporzionata a' bisogni, veri del popolo, e forse un bene? Se l'ozio debb’essere rigorosamente bandito dallo stato, dovrà per questo ogni sentimento morale esser sacrificato all’indisciplinata attività dell’industrialismo? Se a tutto non bastano i mezzi repressivi, dovrassi forse disarmare il Governo? S’è cosa cui ripugna la coscienza del genere umano, l'interdire al popolo ogni azione sul governo di se stesso, dovrassi perciò esser esclusivo circa i mezzi pratici di conseguirlo? —
L’indole del Governo, la civiltà del popolo. le Convenienze politiche sono altrettanti criteri, che non debbon esser dimenticati giammai da qualunque onesto cittadino, ii quale senza mistero a individuale interesse, e senza ossequio a nessun pregiudizio, voglia provvedere al bene positivo del suo paese. Fra molte teorie egualmente innocue, ugualmente moderate, ve ne sono alcune che non possono, almeno pel momento, eccedere i confini della pura speculazione. Fra molte tendenze egualmente generose, comuni ad un’epoca di civiltà, non tutte sono ugualmente opportune, o meritevoli egualmente di esser incoraggiate e promosse. La convenienza e l'opportunità sono due criteri sommi, principalissimi sempre in ogni discussione civile o politica. Premesse queste idee general i, eccoci al fatto storico della rigenerazione italiana.
La forma di Governò adottata provvidenzialmente da Pio IX fu una vera e formate dichiarazione di novelli princìpi, in virtù di cui il Governo Pontificio, elevandosi al di sopra d'ogni partito, mentre dichiarava, e protesta tuttora apertamente, per le idee fondamentali di Civiltà, richiamava la pubblica opinione dentro i confini della convenienza e dell’opportunità.
L’Oscurantismo si affidava sul Codice Penale; la riforma pontificia invece lo chiamava impotente a tutto ottenere. L’Oscurantismo tentava promuover l’ozio, mezzo fa tale di corruzione, e predilegeva l’elemosina manuale, mezzo umiliante di schiavitù e di dipendenza; la predominante opinione invece dell’epoca attuale deriva dall'ozio la causa della pubblica immoralità, e va predicando al povero la legge santa del lavoro, l'oscurantismo voleva assolutamente l’ignoranza delle infime classi della società; l’italica riforma vuole invece avviarle a migliore esistenza, mediante l'educazione religiosa e morale, politica e sociale: voleva l’oscurantismo e mistero e monopolio nel Governo; la sociale riforma invece chiede il soccorso dell'opinione pubblica, manifestandosi legalmentemediante i consigli municipali e provinciali: pretendeva l'oscurantismo ad ogni costo l’avvilimento e l’abbiezione sociale, malgrado la conoscenza degli effetti deplorabili e funesti; la politica riforma invece prometteva, e realmente ottenne, un epoca di risorsa e di immegliamento general e.
Base di queste politiche riforme pare attualmente che voglia essere la pubblica istruzione del popolo, il progressivo incivilimento dello rigenerata Italia, Vuole la nascente riforma, in effetto, che la società sia religiosa, e quindi invocò il ministero sacerdotale; la vuole costumata e civile, e però proclama l'efficace intervento de' nobili, l’utile soccorso di probi e savi cittadini; vuole l'avvantaggio operoso il grosso del popolo, e per questo l’invita ad apprendere un mestiere; lo vuole disciplinato e prode, valoroso ed agguerrito a difesa della patria, e per seguenza l’addestra all'esercizio delle armi.
Scopo finale d’ogni politica riforma, debb’essere il bene positivo, reale e pratico della civil comunanza; ed al felice conseguimento di questo eran tutte costantemente dirette le filantropiche sollecitudini de' primi riformatori italiani. Quel Governo che assume la disciplina militare come mezzo di educazione civile, rende splendido omaggio alla dignità dell’uomo, ed alla fede de' concordi suggelli. Quel Governo che nelle riforme legislative più intimamente connette coll'ordine sociale, ed invoca il consiglio amico, sperimentato, prudente de' cittadini, pone un termine al monopolio capriccioso e smodato, offre una barriera insormontabile al mostruoso ed assurdo egoismo. Quel Governo da ultimo il quale non teme d’istruire ed armare il popolo, solennemente dichiara al cospetto dell'Eterno e della patria, ch’egli rinunzia per sempre all’esecralo dispotismo.
Ma l’amor di sistema, i pregiudizi dell’educazione, le seduzioni dell’immaginativa avviar potrebbero di leggiero le menti alquanto riscaldate verso teorie impossibili, o potrebbero almeno dare agli affetti umani una tendenza incompatibile affatto col bisogno della pubblica pace, dell'individuale e rea] sicurezza. La riforma dei principi italiani ha già dato anche su questo alle redente genti un salutare ed energico provvedimento.
Sapea bene il Regnante Pio Nono che le teorie e le tendenze oggi comuni alla maggiorità degl’Italiani, non eran punto immorali od empie, né sediziose o corrompitrici del morale costume. E però come speculazioni non le condannava e non le proscriveva, ma con mirabile economia di senno, mentre proclamava la tolleranza civile delle opinioni, ne dichiarava alcune inopportune, altre incompatibili con la condizione del Governo, altre ripugnanti al sentito bisogno della pace interna ed esterna dello Stato.
Sono le teorie del dominio della mente; sono le tendenze del dominio dell'affetto. Di teorie e di tendenze tutta componsi la pubblica opinione, la quale dal raziocinio riceve la cognizione del bene, e dall'affetto l’impulso a desiderarlo e volerlo. Tutto si riduce per conseguenza nel mondo morale e politico all’azione simultanea di teorie e di tendenze; e quindi non tutte le teorie, ma talune soltanto sono inconvenienti; non tutte le tendenze, ma certune solamente sono inopportune e strane. Non tutte le teorie, non tutte le tendenze, ma alcune soltanto sono pericolose e sospette.
Sono inconvenienti quelle teorie, le quali portassero diminuzione vera e propria di sovranità, o lesione di diritti alla social comunanza; perché la prima e un despotismo e non un dominio, perché i secondi son garantiti da patti sociali; perché su la prima e su i secondi la sola volontà di chi regge i destini de' popoli non è mica onnipossente. Sono inopportune quelle tendenze che spingessero il Governo a divorziare per subitàno fatto dalle Tradizioni, le quali invece riputiamo che debban essere la pietra fondamentale d'ogni riforma, che stabilmente voglia introdursi negli Stati Italiani.
Non poche teorie intanto e strane tendenze, pericolose oltre modo per la pace e sicurezza pubblica appalesarono in questi ultimi tempi in Italia, le quali o spinger volevano il Capo di Boma a farsi autore di guerre infra i principi cristiani, od esigevano dal medesimo ambizioni di temporale dominazione. eccedente i confini dell'influenza morale e dell’autorità dell’esempio; opinando forse taluni che quel savissimo Principe per un solo moto della sua volontà divider potesse col popolo la suprema Maestà dell'Impero, ovvero alienare qualunque degli attributi essenziali della. Sovranità,
E però vi eran di quei che fermamente credevano, che potesse Pio Nono ad un tratto immaginare ed eseguire una riforma completa, cui contradivan le regole della convenienza politica; ad eranvi di coloro che forte temeano, che voless’egli rinnovare le vetuste pretensioni, riunendo sotto l’esclusivo vessillo Guelfo le province italiane. E mentre tanto speravano gli uni, e tanto gli altri temeano, forse una sottile e tenebrosa insidia desiava speranze inopportune, ed eccitava timori panici ed indecorosi; ma neppure questa volta ha fatto difetto alla prova la sapienza di Roma.
Imperocché tra un Governo Costituzionale propriamente detto, ed un Governo temperato da garanzie fondamentali; tra un Principe che alieni parte di Sovranità, ed un Principe che voglia restituire ai sudditi l’esercizio de' loro diritti sacri ed inviolabili, che furon usurpati dal mostruoso dispotismo; fra un Papa che inalbera il vessillo dell’indipendenza Italiana, ed un Papa che ricusando di servire altrui d’istrumento, la promuove difendendo da ogni insidia e da ogni straniero insulto la propria, corre intervallo immenso, che il sofisma, le basse passioni, le picciole gelosie e la paura non possono né diminuire, ne occultare. In questo intervallo vi sono teorie di civiltà, che Roma ha ormai proclamato al cospetto del mondo; sonovi teorie di libertà civile, che il Papa potea liberamente santificare, e l’ha detto, e l'ha fatto; sonovi tendenze che posson essere promosse senza disturbo della pubblica pace, e sono già state compiute; havvi da ultimo talune tendenze, cui il Papa non ha ripugnato giammai, ed hallo pur troppo mostrato col fatto.
Aspettarono in effetto i sudditi pontifici conquella calma ch'è il frutto migliore della sapienza; e le promesse, e i voti, e i desideri hanno avuto il più pieno e il piùsoddisfacente compimento. Aspettaron peranco gli altri popoli italiani; e già le sorti del Bel Paese, senza disturbo della pubblica pace, furono irretrattabilmente e con soddisfazione altissima cangiale. Perocché non vi e quasi un solo Stato Italiano, per cui non sia spuntata la lieta aurora d’un giorno più avventuroso e felice, d’un più ridente e glorioso avvenire. I prodi Italiani, calcando finalmente una terra già libera e redenta, e vedendo a un tratto germogliati i semi di rigenerazione da parecchi anni preparati, han provato quella divina ed immensa gioia, ch'è solo concepibile da chi solo altamente la sente.
Al grido festoso di libertà, di riforma, di politiche concessioni, di Costituzione, di gloria al Principe Riformatore, di lega italica, d'italiana indipendenza, di viva Pio Nono più d'una testa riscaldossi nel nostro Regno, più d'un cuore infiammossi, più d'una voce incominciò a suonar libera e franca, in più d'una contrada tuonò forte e ridestossi l'eco di quel suono eccittatore, e già un segreto fermento sordamente propagavasi da pertutto, cui era meta e scopo il voler risorta a novella vita di gloria e di libertà questa nostra classica terra, ch'è terra ancor essa di VALOROSI e di PRODI.
E’ qui nuova storia, e più alti destini appalesami per la nostra patria redenta, per le nostre rigenerate contrade.
La prima a tumultuare infra le nostre Province, fu appunto Cosenza, nella Calabria settentrionale o citeriore, compresa ne’ domini al di qua del Faro. Nella Capitale di essa, che ne porta lo stesso nome, ebbe luogo la prima esplosione, che fu immantinente seguita da un breve si, ma sanguinoso conflitto. Stuolo di gente armata, che annunziata venne da prima con lo specioso nome di brigantaggio, sotto la scorta e direzione di taluni capi. piombò ratta dagli adiacenti paesi su quella Città, e partitasi in due agguerrite bande, si diresse l'una verso il palazzo dell’Intendente, di cui tentavasi far cattura; e prese l'altra la direzione delle prigioni, con atteso disegno di trarne a libertà quei detenuti per ogni generazione di delitti, e poscia, fatto più grosso e più formidabile il loro attruppamento, menare a più agevole e più sobitàno compimento i lor occulti disegni. Ma, sia ventura, sia caso, sia provvedimento energico e pronto per parte di colui che regolava i destini di quella Provincia, la prima divisione di quell'ammutinata gente fu valorosamente respinta e via dissipata; e non diverso destino era riserbato alla seconda, alle cui spalle fu incontanente la Gendarmeria, la quale finì di sbaragliare quei tumultuosi, non senza molte morti e gravi ferite dall'un canto e dall'altro, e, quel ch'è più doloroso ed affliggente, con l'amara perdita pur anche del Capitano di quel corpo, sventurato figlio dell'immortale filosofo Pasquale Galluppi di Tropea.
Sedati appena questi primi tumulti, altri ancor più gravi e più strepitosi, a un tempo si stavan preparando in altre contrade. Perocché mossesi da prima a rivolture politiche la Città di Messina, ne domini al di là del Faro cui tosto non cessò di far eco la Città di Reggio, nell'ultima Calabria meridionale. Ebber luogo in quella molti fatti d’armi e sanguinosi conflitti, fra il partito de' Riscaldati e quello della Truppa, in cui furono inevitabili le morti, le ferite, gli arresti, le esecuzioni di giustizia, la fuga, l'espatriazione, l’orrore, il lutto, la desolazione. Appalesaronsi in questa non diverse scene di terrore, né men luttuose catastrofi, degne purtroppo di storica rimembranza. Sollevossi a gran tumulto il popolo, si imbrandirono le armi, si corse alle carceri, si abbatterono di esse le porte, si diè libertà ai prigioni, scambiaronsi colpi e ferite, effusione di sangue e morti dal canto de' cittadini e de' soldati, diedersi alla fuga talune Autorità civili, talune altre vi preser parte, alcune vi offersero generosa resistenza, alcune altre piegarono alla circostanza de' tempi ed alla superiorità di forza, si emanarono edittidel giorno, si affissero pubblici cartelli ai cantoni della Città, pubblicaronsi perentori decreti e statuti, crearonsi momentaneamente nuove leggi e novelli Magistrati, destinaronsi uffici, dispensaronsi impieghi provinciali, distrettuali e comunali, si schiusero i fondachi, ribassaronsi i prezzi del sale, de' tabacchi e del pane; in una parola, tutto cangiò di forma, d'aspetto, di governo, d'amministrazione e di reggimento politico in quell’ammutinato paese; e tutti questi strani cangiamenti non formarono insieme, nella loro rapida durata, che un’immaginosa ed illusoria scena di soli tre giorni.
Telegrafici segni e messi estraordinari fan chiaro intanto alla Corte di Napoli un sì clamoroso e subitàno avvenimento. Alcuni Vapori carichi di truppe e di artiglierie spedisconsi repente a quella volta; si tenta un pronto e celere sbarco dal canto de' soldati; vien loro opposta una momentanea e lieve resistenza; si tirano a sdegno da' legni di mare pochi colpi di cannone centra le mura della Città; dansi in fuga gli ammutinati, e dileguansi via; vi sbarca, sul lido la forza militare; rientra ogni cosa nell'ordine e nella calma primiera; ed il compimento finale di questa scena tristissima, fu la destituzione di molti Capi ed Autorità comunali, amministrativi e civili, l’arresto di non pochi promotori della rivolta, qualche pubblico esempio di giustizia, la fuga o scomparsa di non pochi altri, e finalmente, fra le molte morti e ferite da ambe le parti, l’uccisione di Leopoldo Cava, Capitano di Gendarmeria, e quella d’un rivoltoso appartenente alla famiglia de' tanto famosi Romei.
Né qui si arresta l’Iliade funesta d'orrore e di sangue, che rese immortali nella storia del nostro Reame quelle calabre regioni, del pari che tutti coloro ch’ebber parte maggiore, a questi ultimi tempi, a tanta scena lacrimevole e trista. Come gonfio torrente che nel suo rapidissimo corso, va sempre più straripando, e, rotta ogni diga, sormontato ogni ostacolo, abbattuta ogni barriera, fuor esce impetuosamente dal suo letto, e tutto inonda, e via più si spande e si dilata, ed ogni cosa allaga ed aggira ne' suoi vorticosi gorghi; quel torrente di rivoltosi fuori sbucando da' patrii tetti, ben muniti di valore e d’armi, attruppansi coraggiosamente insieme, escon fuori dal perimetro del loro paese, spandonsi in diverse terre, percorron differenti contrade, e così di luogo in luogo, di monte in monte, per dirupi e per selve, pervengon finalmente nel Distretto di Ceraci, famosa sede un tempo de' vetusti e magnanimi Locresi, e propriamente in Bovalino.
Colà giunti appena quei prodi fuggitivi, come ogni cosa era ben preparata e disposta, associansi repente agli altri loro confratelli o compagni di ventura, che fan loro assai lieta e fraternale accoglienza, pronunzian voti e giuramenti di combatter sino all’ultimo sangue per la causa comune della tanto sospirata libertà, la sacra causa della rigenerazione italiana. Eran già sulle mosse di volger ratti e precipitosi i passi verso l’antica Locri, quando spiccavansi da quella Città il Sottointendente ed un Uffiziale di Gendarmeria, seguiti da poca gente armata, con deliberato proponimento di sorprenderli e sbaragliarli. Vana ed inconsiderata deliberazione, consiglio temerario ed imprudente di quelle due Autorità, che avventuravansi con si picciol drappello di far fronte a così numeroso stuolo, d’armata e valorosa gente! Cadder quindi agevolmente quei pochi nelle mani de' rivoltosi, e, lungi dal fame strazio o dal dar libero sfogo a vile vendetta, furono sol paghi quei magnanimi di forzarli ad impugnare la bandiera Costituzionale, il vessillo della libertà e della redenzione, l’emblema eterno del riscatto e della italica rigenerazione, ed in questo atteggiamento farli procedere alla testa di quel calabro attruppamento.
Deliberano intanto quei prodi ed imperterriti campioni di avviarsi verso la Città di Geraci; ma ne vengon forte contrastati e respinti. Vedendo per siffatta guisa tradita, anzi che secondata, la loro comune aspettazione, volgon incontanente il cammino verso Siderno. Han quivi cordiale accoglienza ed ospitalità, non mezzani soccorsi e sempre crescente incoraggiamento. Ristoratisi alquanto, volgon repente il cammino verso Gioiosa. Favorevole accoglienza del pari, profusione di cuore da per tutto. Quei bravi abitanti si fan loro larghi di donativi e di offerte, e, fra gli evviva e gli applausi, fra le feste ed i tripudi, fra canti di gioia e di pubblica galleria, dopo di essersi solennemente intuonato nel sacro tempio l’inno consueto di gloria e di lode, imbandiscon loro generosa e larga mensa.
Ciò fatto, pensan tostamente tradursi, in Roccella, città non mezzanamente munita e fortificata fin dall’invasione de' Saraceni, affine di deliberar colà più maturamente sul partito da prendersi in così ardito e malagevol cimento. Quand’ecco s’avvisano di far da prima il loro ingresso nell’antica, forte e ben murata Città di Castelvetere, non più che sei miglia da Roccella distante, con meditato ed atteso disegno di stringer anco alleanza con gli abitanti di quell'inespugnabil paese, avvalorarsi vie più del loro numero e delle loro forze, e così, via via più oltre tracorrendo, aver libero passaggio in altre terre ed in altre Città, con animo sempre di guadagnar cuori, di piegare al loro gli altrui voleri, di acquistar nuovi proseliti e più coraggiosi campioni, di render in somma più formidabile e forte la loro lega. Vano tentativo, fallito disegno anche questa volta! Perocché armati e disposti valorosamente a difesa gli abitanti tutti di quel paese, e deliberati ad ogni costo di respinger la forza con la forza, offron loro sì poderosa e ferma resistenza, da obbligarli a cangiar consiglio e deliberazione.
Mentre in tal guisa eran disposte le cose, forte in dibattito i loro cuori, incerte e vacillanti le menti, dubbi e sospesi i pensieri, fu solo bastevole una semplice e strana casualità, per finire d’immerger gli animi loro in un abisso di miseria e d'inevitabil rovina. Un falso e mal concepito timore, loro ispirato dall'appariscenza fatale di taluni navigli che navigavan per ventura a quella volta, e la cui vista destò tosto in essi le più sinistre interpetrazioni per parte del Governo, i più neri presentimenti per la trista posizion loro, finì di abbatterli, di scoraggiarli, di avvilirli. Di quell’immenso stuolo a armati, chi diessi quindi alla fuga, chi cercò di nascondersi, chi si cacciò nelle selve, chi inerpicossi per dirupi e scoscese, che si diede orribilmente in preda al più disperato dolore.
Mettendo intanto a profitto una sì subitàna ed inattesa avventura, non esitan punto un istante i testé citati Sottintendente ed Uffiziale di Gendarmeria, rimasi già soli ed in balia di se stessi, di salvarsi fuggendo, e far lieto ritorno nel luogo di lor residenza, non senza gioia e sorpresa a un tempo di. quegli attoniti e mesti abitanti. In questo, per disposizione e provvedimento, di Governo, buona parte delle truppe napolitane, sotto la direzione e 'l comando di Nunziante e di Statella, ingombra tostamente tutto il Distretto di Geraci, con alta missione d'abbattere, dissipare e sperder interamente quelle torme di ribelli, così nomati. È loro pensier primo, e, direi quasi, interessante, esclusivo, quello di dar opera energica e pronta che i capi di quei malaugurati rivoltosi cadano ad ogni costo, e per qualsiasi mezzo, nelle loro mani. Ei non eran più che cinque gli sventurati martiri della libertà, il cui splendore non fu per essi che rapido baleno, tetra e fosca luce, che si ecclissò rattamente, ed immerse per sempre nelle tenebre e nel terrore la loro patria infelice, le loro desolate ed angosciose famiglie. Ed eccone i nomi gloriosi ed immortali, degni purtroppo di eterna rimembranza, e di esser eternamente trasmessi od infuturati alle generazioni avvenire: BELLO di Siderno, MAZZONE di Roccella, VIRDUC Idi S. Agata, RUFFO di Bovalino, SALVATORE di Bianco.
Sia perfidia e tradimento enorme dal canto de' loro propri concittadini e fratelli; sia avidità di falsa gloria, di mentito onore e di pretesi meriti o requisiti; sia nefanda ed esecrabil fame di oro, che tutto tenta e tutto osa negli animi vili ed ingordi; sia mancamento infine e violacene di fede, eh esser dovrebbe inviolata sempre ed intatta anco fra i più fieri ed accaniti nemici, era scritto nel ferreo volume degli eterni fati, che quei cinque sciagurati banditi che noi pur nomeremo gloriosi ed invitti proselitidella napolitana rigenerazione, cadesser finalmente in potere dell’inesorabil Giustizia.
Omia Calabria, di dolore ostello!
Strettamente avvinti in durissimi ceppi quei prodi, ch’eran pria tutti intesi a frangerli per sempre, e non per essi soltanto, ma pe’ loro cari fratelli pur anche; gravati di catene, cinti di funi, derisi, ed insultati da chi meno attendeanselo; infamemente vili pesi quai ribaldi ed esecrati felloni, o quai contaminati di pubblica ignominia, tradotti vengono come in trionfo nelle prigioni di Castelvetere. Un supremo comando li vuol poscia di colà immantinente sbalzati nel carcer più tetro e più tenebrosa di Geraci; che era forza d’irrevocabil fato che aver dovessero que’ cinque valorosi e fine e tomba in quella famigerata terra.
Ahi dura terra, e perché non ti apristi? —
Porgeva intanto una larva di conforto e di assurda speranza alle loro derelitte famiglie non mediocre il presagio, che la gloria italiana e la causa giustissima della comun nostra redenzione non avrebber punto sofferto né tollerato la loro perdizione totale. Fallaci auguri, vana fidanza, lusinghiero e stolto presentimento! Perocché mentre i voti e le speranze, i timori e i conforti, le illusioni e gl'istinti affettivitumultuavano l’anima ed il cuore delle proscritte vittime; e che i più strani e contrari affetti insieme commisti, sentitamente martellavano gli animi de' cari congiunti, de' teneri amici, or confermati nella speranza e nel presagio, or precipitati nella disperazione e nel lutto; un Consiglio di Guerra ne istruiva il processo, ne pronunziava l’inappellabil sentenza, dava il voto di morte....
Finché occhio umano beva l’alma luce del sole, per molto piangere ch'egli abbia fatto, non ¡speri d’aver ancora versato la sua ultima lacrima; finché cuore sensibile sia ancor palpitante nel seno, non creda di aver peranco grondato l’estremo suo sangue. La rea mano del dolore fa spremere con acerbissima stretta qualche arcana stilla di pianto, qualche novissima goccia di sangue; le viscere rinascono sotto il rostro del duro avvoltoio, che le divora.
E lo sapean pur troppo quei miseri dannati a morte, cui parea vivere entro ad una notte immutabilmente profonda, quando conobbero ch’era spacciata per essi, e che più nere ed abbuiate faceansi le tenebre mortali; quando, alzati gli occhi al firmamento, ammantato lo videro di nera ed ampia nube, in cui parea loro di leggere scritto a cifre di fuoco: MORTE. Né l'ignoravan meno i loro inconsolabili congiunti, alle cui orecchie luttuosa percorse e rimbombò una Voce, che gridava: SVENTURA, SVENTURA! E maravigliando il resto de' concittadini che avanzasse loro sentimento per piangere, ne inchiesero l’alta cagione, e saputala, ancor essi sclamarono: SVENTURA! e lacrime ardenti traboccando dalle palpebre, solcarono a torrenti le loro livide e smorte guance.
Ed ora questo dolore in me si rinnova; ora che mi vien fatto di favellare di questi estremi momenti di sventura. 0 cielo, e come lo potrò io? Lo spirito e infermo; le immagini ferali di morte, e di qual disperata morte! mi passano traverso la mente fugaci come ombra sopra la parete; la narrazione funesta di sì acerbo caso, ch'io studiava agevolmente proseguire, e già divenuta malagevole e scabra; al maggior uopo ogni soccorso mi manca; mi rimane il cuore soltanto, che ha sentito e sente tuttora di esser vivo per la trafitta dell’orrendo dolore.
Dopoché quei cinque sventurati rinchiusi furono in quell’orrenda prigione, se ne stavano assorti nella meditazione delle tante sventure che dovean in breve trascinarli sì barbaramente ad ignominiosa morte. Più di ogni altra però li crucciava orribilmente l’idea del supplizio cui venian condannati da' loro concittadini e fratelli; e però, non la morte, ma il motivo ed il modo atterrivanforte i loro cuori convulsi.
Ed io sfido l’uomo più coraggioso della terra a non atterrirsi orribilmente all'idea, ch'egli sano nella persona, intatta l’integrità delle forze del corpo e della mente, nel fiore della gioventù, nelle più ridenti speranze d’una prossima rigenerazione politica, ad un tratto sente intimarsi, come gli uomini, i suoi concittadini in gran parte, han già decretato ch’ei muoia, e muoia il tal giorno, alla tal ora, in tal modo. Oh! questo debb’esser senza dubbio un tormento, oltre il quale e impotenziata affatto a spingersi la più tetra immaginazione. No, non è mica il pericolo della morte che lo cagiona; perché io credo che in punto ancora più spaventevole, cioè nel fervore d’una pugna, d’una battaglia, d’un assalto, non invada certamente questo terrore nemmeno i cuori più pusillanimi e vili. Perocché nel moto d’una battaglia, ove la foga, lo spettacolo, la mischia confusa, l’ira, il coraggio, l’emulazione, il furor di combattere, la gloria di vincere e trionfare, inebriano i sensi e gli spiriti siffattamente da non vedere, o visto, da non curare il pericolo, ove questo e pure incerto, sebbene prontissimo, possibile la resistenza, applaudita la franchezza, beffato il timore, ove il colpo mortale giunge repentino, viene assolutamente esclusa ogni fredda riflessione generatrice del tormento morale della morte.
Ma nel caso d’un condannato, per lo avverso, dove tutto e premeditato, dove si sa che ogni respiro abbrevia la vita accostando a quell'ora fissata per la morte; il non poterla impedire; il saper intanto che dipende da un cenno degli uomini, e per un lieve errore o delitto di opinione; il preconcepire di esser circondato da ogni intorno di simili suoi, che molti lo compiangono, che pochi lo tradiscono, ma che niuno può prestargli vita e salvezza; esser moribondo nel vigore della salute e della vita; esser oppresso da una possanza materiale sotto una forza invisibile; in una parola, tutta la cerimonia ferale d'un’esecuzione di morte, tormentar deve l’immaginazione del condannato in un modo che non puossi neanco immaginare con qualunque altro paragone delle miserie umane.
Invano io credo che la ragione e la filosofia confortar tentino il paziente. Oh! che son mai allora le loro consolazioni, quando il male sì affannosamente ne stringe! Belli sono i precetti della filosofia banditi dalle cattedre e dai libri, eccellenti contro ai mali passati ed ai futuri; ma nelle presenti sciagure, quando il dolore c’incalza, quando inevitabil rovina sovrasta, allora la natura reclama altamente i suoi diritti, e ridendo della filosofia, sparge al vento i suoi conforti.
Né quei miseri condannati a morte ve ne trovavan alcuno, sebbene nel loro pensiero si sforzassero di rintracciarvelo. Il caso additò loro dove realmente ne avrebber trovato uno efficace, potente, poiché gettato lo sguardo smarrito e confuso in un angolo di quell’antro tenebroso ammantato di lurida paglia, ebber veduta la veneranda Immagine del primo rigeneratore d’Italia, dell'immortale Pio Nono, che uno di costoro stretta portava nel suo seno, e che, per ¡smarrimento di sensi, si avea poscia lasciato cadere sul suolo. Tutti e cinque con gli occhi fissi in quella Immagine, provavan quei miseri una commozione che nel profondo de' cuori faceva lor dire, sebbene il labbro fosse muto ed immoto: 0 tu, salutato da tutta Italia, Principe riformatore di tanti milioni di redenti; tu Inviato dal Cielo per porger ristoro e vita a tante oppressate genti; tu conforto e speme de' nostri fratelli, abbandoni or noi, tuoi veri proseliti, e non vieni a darci sollievo in sì terribili angoscie!... —
Queste meste parole profferiva appena balbettando uno di costoro, quando tutto a un tratto la foga del dolore scoppiò in un torrente di pianto, interrotto da un gemilo profondo e da un fremito convulso che fini in un lungo sospiro; e gli altri quattro confratelli di sventura piansero al suo pianto.
Gia si appressava a gran passi l’istante fatale, in cui consumar doveasi il memorando sacrifizio di sangue. A un cenno già dato, dispongonsi sotto le armi le truppe, e tutta ingombrano del loro marziale apparato l’atterrita Città. Tutto in quel momento ispirava orrore, fatto, desolazione, spavento. Non un uomo, néuna donna più si mirava per le deserte strade. Ogni cosa colà favellava di morte. Schiuse intanto le ferree prigioni, ne vengon tosto tratte fuori, o più tosto fuor trascinate le cinque vittime duramente destinate al ferale supplicio. Due file di soldati strettamente attelati li cingon in mezzo. In atteggiamento di mestizia e di profondo dolore, procedon via quei nostri REDENTORI secondi. Giungon finalmente nel ricinto fatale, ove altra schiera di soldati, già designati affatto sacrificatore, attesamente attendeali; e colà, genuflessi, bendati, in duri ceppi avvinte dietro il dorso le mani, forte suggellando col sangue la novella redenzion nostra, il nostro novello riscatto, han tempo appena di pronunziare i dolci e cari nomi di VIVA PIO NONO! VIVA LA COSTITUZIONE! VIVA LA LIBERTÀ!... e già più non sono!...
Allora un fremito universale ruppe la taciturnità del luogo; chi dette in pianto; chi esclamò; chi si pose a recitare le preghiere del suffragio; chi, alla vista di quello spettacolo, coprendosi gli occhi con ambe le mani, rimase assorto da angoscioso affanno; chi gemendo, ansava come travagliato da insopportabil tormento; chi finalmente, percuotendosi la fronte ed il petto, esclamava: Oh! Dio non lascerà invendicata la lor morte; l’Italia farà portar pena del sangue versato dagl'innocenti!... —
L’infausto annunzio arrivò tosto a ferire l'orecchio dell'unica sorella, che si aveva uno di quei cinque GLORIOSI; le si volea da prima fare un mistero del tragico avvenimento; vano ritrovato di pietosa prudenza! conobb’ella ogni cosa; comprese tutto; le si schierò agli occhi il corteggio ferale della Giustizia che le trucidava il fratello. Sorpresa da un tremito convulso che le impediva di muoversi, si pose a gridare nel fervore del suo delirio: Pietà, o carnefici, pietà di mio fratello!.... 0 Vergine, Vergine mia, travolgi le braccia e le mani che impugnano gli strumenti di morte. Sospendi quei colpi che sono per torgli la vita. È sangue d’un innocente.... e innocente la causa.... Molli corsero verso quella derelitta che, sfigurata e abbattuta dal dolore, si strappava le vesti ed i capelli. Sopraggiunse in fine il padre tristissimo; guardollo spaurita; lo riconobbe; gli lesse nel volto ciò che dubitava: — Tutto e finito: — esclamò con accento disperato, e divenuta più pallida della morte, restò come una stupida; essendo pur vero quel che disse un antico filosofo, che i dolori, quando sono eccessivi, istupidisco no. Venne pietosamente confortata e adagiata sul letto. Sviare l’anima sua sensibile da quell’orrendo pensiero, fu opera pietosa, ma vana. Un’altra, vittima di quella tremenda giustizia dovea scendere dentro il sepolcro; la meschina dopo pochi giorni spirò... —
Calabri, Italiani, se qui non piangete, di che solete voi piangere? Ma non tutte le angosce trovan sempre conforto nel pianto; le più gravi, per Io avverso, son vaghe più tosto di cupo e profondo silenzio. Quando gli amici, i concittadini, i congiunti recaronsi a consolare lesuperstiti ed afflitte famiglie di quei cinque GLORIOSI,le cui anime, sciolte dalle terrene e guaste membra, eranal cielo volate, non profferirono motto, né piansero; si assisero sì bene secoloro in terra per molti giorni e molte notti, perocché videro essere la loro doglia molto grande e molto profonda.
Ed invero, o famiglie sventurate, che cosa importa a voi miserissime, che i figli vostri sien oramai diventati dominio di storia? Che cosa vi giova, che non possa ormai memorarsi RIFORMA in Italia, o COSTITUZIONE nel nostro Reame, senza che il pensiero ricorra al valore e alle prodezze de' vostri spenti figliuoli? Che vale, che le ossa di quei vostri dilettissimi, onorati di grande memoria e di gran fama, sien benedette insieme con quelle di molti grandi Eroi, ond'ebber comune la sorte, e che pur dentro alle tombe fremon ancora del sacro amore di patria e di libertà? Né vi conforti punto l'idea, che, presso a quei magnanimi e forti, li riconoscan eglino per figli ed eredi dell’immensa anima loro: tutto questo non può consolarvi, o desolale famiglie, anzi vi accresce il dolore e l’affanno. Voi non vedete altro al presente, tranne cenere ed ossa, or rende piaghe ed ancor rappreso e vivido sangue!...
Non io negletto ed incolto scrittore ho sì pronto e spedito, sì agevole ed animato lo stile, onde pigner altrui acconciamente le altre più ferali scene d’orrore e di lutto, di desolazione e di sangue, che hanno avuto luogo, a questi tracorsi giorni, nella pur troppo infelice e flagellata Sicilia, e sovra tutto in Palermo, Capitale di essa, e nella Città di Messina. Non la mia bassa e rozza eloquenza nelle storiche dipinture quella sibbene d’un Tacito, d’un Machiavelli, d’un Muratori, d’un Guicciardini, d’un Botta, si richiederebbe più tosto, per tutte francamente narrare, e tutte partitamente discorrere le orrende stragi, le uccisioni crudeli, le disperate morti, le orrorose carneficine, che orrendamente insanguinarono quel trinacrio suolo.
Ma dacché sembra pure che il concetto dolore pel duro flagello celle guerre civili, cui tuttora e teatro quell'Isola sventurata, trovi un qualche sollievo sfogandosi; poiché il tributo della laude a quei benemerenti e magnanimi cittadini, che di grandissimo valore pugnarono per la nostra gloriosa e comun causa, e vinserla versando generoso sangue, più tosto che bisogno per loro, sia ufficio principalissimo del viver nostro civile; poiché il caso presente così proceda pie no di grandezza e di sventura a un tempo, che dicendo le valorose imprese di tanti eroi della libertà italiana spenti da fatti precoci, si venga a parlare della storia memoranda de' nostri immegliati destini, di quanto questa nostra comun patria dolcissima accoglie in sé presentemente di più prezioso e di grande, io farò forza a me stesso, e tenterò laconicamente, come colui che guarda e passa, qualche picciola cosa accennare.
Sia qualunque il torpore o la debolezza in cui gli abitanti delle due Sicilie sembravan esser fatalmente caduti, esisteva non però di manco da pertutto un segreto sforzo di rigenerazione intellettuale, morale e politica, un germe fecondo di vero e positivo immegliamento, ch’è sempre l’effetto della grazia del cielo che ci vuol vivi e SALVI. Malgrado la forza progressiva e sempre crescente dell'egoismo individuale, sentivan le masse in se stesse una vita novella che cercava spandersi e propagarsi ovunque t e però l’invincibile presentimento d’un’imminente trasformazione sociale agitava e muoveva secretamente i cuori napolitani e siciliani. Sien qualunque le illusioni cui nascer faceva il desiderio, per più riguardi, sì naturale d’un consolante e permanente riposo, chi potea mai lusingarsi che le cose relative al mondo politico restasser sempre tali quali erano allora? chi potea credere alla loro durata?chi sognava mai una stabil dimora in mezzo a tante ruine, a tanti vortici di tenebrose ed allarmanti opinioni? chi de' napolitani o de' siciliani spiriti non aspirava altamente ad una novella patria riformata, ad un altro rigenerato mondo, che non era mica quello in cui pria si viveva?
Or, poiché i popoli delle due Sicilie ivansi indeclinabilmente avanzando verso un più felice avvenire, di cui nulla cosa impedir non potea la realizzazione necessaria; quante volteciò che debb’essere, produrrassi immancabilmente, malgrado tutte le concepibili resistenze, la vera saggezza consiste, secondo noi, nel secondare il movimento che arrestar mica non puossi, a fine di evitare le terribili scosse, le violenti commozioni, cui apporterebber infallibilmente cotal i deplorabili resistenze. Moderar deesi il pendio o la declività del fiume, anzi che innalzar una diga contro il suo corso; imperocché, tosto o tardi, frangendosi il riparo, le acque imprudentemente ammassate e raccolte, apporteranno da lungi una devastazione su quel medesimo suolo cui dovean provvidenzialmente fecondare.
La Sicilia, in questi ultimi giorni, ci ha porto la più chiara e visibil prova d’una cosiffatta verità. Nel giorno dodici Gennaio, giorno sacro alla Gala solenne di Corte, per gli anni trentotto di S. M. il Re N. S. i vapori politici, ond'era gravida la trinacria terra, e di cui il fermento maturavasi incessantemente, produssero infine la prima e più terribile esplosione in Palermo, Capitale di quell'Isola. Né giunge tosto infausta novella al Governo. Molti Vapori e legni da guerra con celerità sorprendente spedisconsi per colà, carichi di truppe, di artiglierie e di bellici attrezzi. Si minaccia e si tenta dalla parte di mare, si resiste e si protesta dal lato di terra; si avventan colpi da una parte, scambiali vengon dall'altra; disbarcan le truppe, e vien loro contrastato l’ingresso nella ben chiusa e fortificata Città; vengon aggrediti di assalto i cittadini armati, ed oppongon loro. una formidabil resistenza; gravi ferite e molte morti da ambe le parti; la Città in tumulto e in allarmi, in fiera costernazione e scompiglio le truppe; tutto annunzia un funesto avvenire, ogni cosa e presagio di comune inevitabil rovina; quella florida e ridente contrada e già tutta divenuta un teatro di guerra, un tristo spettacolo di sangue e di strage....
E poi, considerando io meco stesso il luttuoso e lacrimevol tema, mi cade vinto ogni ardire, e se la paura di far cosa vile non mi dissuadesse, io del tutto mi rimarrei, imperocché quale persona, non dirò calda e sensibile, ma di più duro e adamantino cuore vive nel nostro paese, che, od udendo sì miserevoli casi, o leggendoli per opera di scrittori valorosissimi illustrati, non si commuova ed attristi? Quale animo meno aperto alle umanissime affezioni, udendo meritamente levare a cielo da tutta Italia tante animegrandi e generose, tanti arditi e magnanimi eroi, deliberatamente intesi a combattere e morire per la difesa della comun causa giustissima, non gli encomi o rimpianga come se figli o fratelli ei si fossero?
Deposta intanto dall'animo qualunque importuna iattanza, mi sia permesso affermare, che mal si apporrebbe colui, che avvisasse poter meglio i contemporanei nostri fratelli apprendere altrove, che in quell'insanguinato ostello, i fatti orrendi ed atroci delle ultime guerre civili, colà sviluppate ed inferocite... Questi fatti nondimeno, queste stragi e queste guerre han fruttato buon seme per noi; questo seme ha sviluppato buon frutto e somma gloria; e questa gloria durerà lungo tempo alla nostra patria; e noi veramente speriamo nell’Eterno, che sia perdurarle lunghissima.
Cosa degna non pertanto di molta considerazione si è questa, che le riforme costituzionali, apparse tra noi, in questa Capitale, assai pure e caste, assai liete e scevre di sangue, fruttar non dovessero poi per la Sicilia, che discordie cittadine e cittadina strage. Delle moltissime cagioni, che sapranno di ciò rinvenire gl'intelletti sani, usi a specolare sottilmente le ragioni e cagioni delle cose, a me sembra dover recare innanzi principalmente questa una. Le politiche riforme od innovazioni, per istinto divino di coloro che le promuovono o sviluppano, si propongon sempre migliorare gli umani destini, e simile intento conseguono, o di conseguire si affaticano mercé de' contrasti. E però, in Palermo, ne’diacenti villaggi, nelle aperte campagne, ne’ contadi pur anche, tutto tumultuava orribilmente, e tutto divenne un vasto campo di battaglia. Fra i cittadini chiusi da un medesimo muro, e le truppe vaganti al di fuori, a tutte le intemperie suggette, al duro cimento esposte di dover combattere, non con un solo nemico, ma con molti e più formidabili ancora, la fame, la sete, il gelo, il freddo, la neve, le malattie, inferociva la guerra, si asserragliavano le strade, lungo le case, o piuttosto fortezze, si formavano all’improvviso aerei ballatoi, ove uomini invasati dal furore correvano a balestrare saettarne, a rovesciare sassi, e peci liquefatte, e mobili d’ogni valore, d’ogni qualità e costruzione, ed olii bollenti financo sopra gli assalitori; le suore claustrali, dimentiche del proprio sesso, della condizion loro, del sacro recinto ov’eran castamente rinchiuse; i Religiosi Benedettini del paro, congiunti ad una schiera numerosa di liberali, cui somministravan armi ed asilo nel proprio ostello, ferivano d’ogni arma i nemici; le donne in massa, d’ognicondizione od età, ne imitavan l’esempio con entusiasmo ed ebbrezza; le campane poste in alto per laudare la Maestà dell’Eterno, o con tocchi incessantemente concitati innaspavano le ire, o venivan fuse e tramutate in bocche da fuoco, da vomitare strage e morte; da presso, da lungi, dinanzi, da tergo, di qua, di là, di su, di giù, andava percorrendo il grido: all'armi! All'armi! Sangue! Sangue! e il fragore delle mazze ferrate percosse sulle membra nemiche, lo scroscio delle aste, de' piuoli e delle falci, che rotti in frantumi saltavano ai colpi delle spade e de' fendenti a due mani, il rumor delle lance perforanti gli scudi di acciaio, lo strepito de' cavalli catafratti, sia che uccisi cadessero nella mischia, sia che fossero attesamente svenati per non esser preda del nemico, sia che tra loro si urtassero, sia che inviluppandosi, essi e i cavalieri andassero sottosopra in un fascio, le voci d’ira, i lamenti del dolore, le grida di pianto, la superbia della vittoria, l’orgoglio del trionfo, i singulti della disfatta, la disperazione de' perdenti, l’insulto de' soverchianti, la furente gioia de' vincitori, la disperala rabbia de' vinti, il rabido accanimento d'ambo i partiti, la violazione delle clausure, la fucilazione di Frati inermi, la violenza al sesso imbelle, il disserramento delle prigioni, l’evasione de' cattivi od imprigionati, le finte rese, la fuga ignominiosa, le furtive uscite, gli abbandoni illegali e vigliacchi, le violazioni di fede, l’infrangimento di palli, le capitolazioni fraudolenti, le mitraglie fischiarci e micidiali, i corpi stivati e guasti per terra, i cadaveri imputriditi od insanguinati, le pestilenziali o miasmodiche esalazioni, le stragi inenarrabili insomma, empivano d’affanno, di paura e di morte le confuse genti.
E mentre coteste, ed altre più truci scene accadevano in Palermo, il tanto famoso e magnanimo Ruggiero Settimo indirizzava al Popolo il seguente PROCLAMA:
«Figli miei! l’ora del vostro trionfo e già venuta. Un ultimo fatto di armi vi resta a compiere, e la vostra anima esulterà nella più sublime delle vittorie.... delle vittorie nazionali. Popolo eroico ‘l pretender da te il giuramento di vincere, o morire, e oramai inutile, quando hai finora combattuto più che con le armi, col petto italiano colla generosità fraterna, ed hai voluto provare il piacere del vincitore, sol per alleviare le miserie de' tuoi prigionieri. Tu, ancorché perdente, sdrai sempre dall’Europa onorato, come uno de' primi popoli della storia contemporanea.»
«Figli miei! pria di sera dovrà il palazzo essere espugnato: io vi sarò capo, se il volete, in quest’ultima impresa; ma se vi verrà fatto al penetrare colà entro, ven prego, fate lacere l’aspro dolore delle vostre ferite, obbliate l’agonia de' vostri compagni d’armi morenti, e non riconoscete in quei soldati gli assassini di monaci inermi, i sacrileghi violentatori di donne imbelli; colà entro altre armi non dovete recare, che pane per gli appaurati, ivi rinchiusi, coppe di acqua pura per gli assetati, fasce pe feriti, bare per onorevoli sepolture de' cadaveri. Non una gocciola di sangue si versi, di quel sangue preziosissimo, sangue vostro, sangue italiano; sovra tutto sien le donne rispettate, che non sono che vedove piangenti, ed orfane vergini; sien le une raccomandate alle madri vostre, le altre alle vostre sorelle, e l’onore di tutti sia dato in custodia alla fede nazionale. I soldati, che hanno colla mitraglia distrutto gran parte di voi, più che la vostra vendetta meritano la vostra estimazione, poiché né manco l'amor di Patria gli ha fatto venir meno ad un giuramento dato ad una causa ingiusta. Considerate quali sarebbero stati, e quanti esempi di prodezza vi avrebber dato, se la fortuna avesse lor fatto difendere la causa vostra, della Patria, dell'umanità. Niun rancore adunque si serbi, e sien quelle mura riguardate da voi, non con ribrezzo, ma con amore:esse non debbono esser per voi, che un ostacolo, che vi ha impedito da gran tempo di abbracciare alcuni vostri fratelli. Oh! ve ne supplico, figli miei, sia la purità della vostra gloria la sola mercede che vogliate concedere alla mia canizie.»
«Prostratevi ora riverenti, Sacerdoti di Dio, benedite le vostre bandiere; (tutti s’inginocchiano) all’armi! all’armi! si muoia senza infamia, si vinca senza rimorsi. All’armi!»
La truppa intanto vinta dalla resistenza dell'invitta Palermo, ed esposta a perire per mancanza di mezzi, ha precipitosamente abbandonato quella Città, guidata per lunghi e tortuosi giri dal così dello Boia di Palermo, che co’ soldati, avanzo dell'armata, si è salvato recandosi a Napoli.
Il generale dell’armata ostile, volendo dall’atto finale alla sua tragica spedizione, ha fatto, pria di fuggire per l’imbarco, scarcerare tutti i condannati al bagno del Molo, affine di gettarsi come lupi sulla Città; ma, ob sorprendente prodigio dell’opinione patriottica i condannati, resi liberi, stan fermi dinanzi alla casa di pena, e spiccano un araldo al Comitato per ricevere le sue ordinazioni; conseguenza di quella famosa legge che garentiva tra essi il rispetto alle proprietà.
Fratelli, concittadini, posteri, se queste mie carte potranno ammollirvi il cuore, e farvi piangere, troppo bene speso io terrò il lungo amore che mi fece cercare i modi facili ed acconci dell'eloquio italico, troppo avventurosi gli studi: un caldo affetto, un sospiro, una lacrima, sarebber per me un premio, una grazia, una lode più grande assai di quelle ch'io avessi ardito desiderare o sperare.
Fin qui delle tragiche, orrorose scene, onde fu teatro la Città di Palermo, cui volger dovremo peranco un’altra volta il pensiero: vediamo adesso quai destini eran riserbati a Napoli, quai mutamenti politici v’intervenivano, qual condotta osservavasi da' nostri savi e valorosi concittadini, quali generose riforme a noi largamente concedeansi dal magnanimo cuore del nostro Augustissimo Moderatore e Padre Ferdinando II.
Addottrinati siamo per la lettura delle antiche e recenti storie, che non evvi stato, appo tutte le nazioni del mondo, mutamento alcuno di reggimento politico, senza l’efficace intervento delle masse operatrici di grandi cose e di strepitosi avvenimenti, senza la benefica influenza di qualche anima grande e generosa, cui stia profondamente a cuore l’opportuno immegliamento de' sociali destini.
Aver però non conviene troppa fidanza nel potere dell'uomo, indipendentemente da un provvidenzial magistero. Ei può molto senza dubbio, ma non può tutto. Solo l’influenza benefica dell’Eterno su’ corpi morali e civili dalla sua divina essenza procedenti, compier puote esattamente la grande opera dell'intellettuale e morale restaurazione, nella politica o civile rigenerazione. L’economia dell'umanità, del pari che quella del mondo fisico, ha le sue leggi general i, contro di cui si cozzerebbe vanamente; leggi sì fatte fissano la direzione, e, dirò così, determinano la curva, che dovrà la social massa descrivere nel suo passaggio a traverso del tempo. Or, l’azione di cotal i leggi sovrane non mai ci si svela con sì manifesta chiarezza, quanto nell'epoca in cui i popoli, cedendo ad una forza incognita di se stessi, son menati, in apparenza ciecamente, nella vasta lor orbita, come gli astri nel vano immenso dello spazio; e lo scopo verso cui dirigonsi non pertanto e certamente quello cui loro addita e prescrive l’Ordinator supremo, lo scopo divino della rigenerazione de' popoli.
Da un tanto vero, incontrastabile per chiunque non ammette punto che il sistema degli esseri intelligenti sia stato formato alla ventura e abbandonato poscia a sestesso, legittimamente scende, che posseggon i popoli presenti di Europa una regola sicura e quasi infallibile, dietro la quale ponderar possonsi gli avvenimenti morali e politici, ed in general e tutti i fatti e tutte le riforme possibili dipendenti dalla libera azione dell’uomo.
Tutto ciò che opponsi alla tendenza insormontabile dell’umanità, e ingiusto in se stesso,e però funesto nelle sue conseguenze: ciò che favorisce o fomenta il progresso della riforma, e buono ed altamente salutare, comunque non se ne ravvisi immediatamente l’effetto. cotal maniera elevata di considerar le cose, non solamente mena a più solidi risultamenti che verun’altra mai, od a previsioni più certe per l’immegliamento futuro, ma scevra d’avvantaggio le discussioni politiche pel bene de' popoli da tutto ciò che aver potrebbero di personale. Ed e ancor questo un gran vantaggio pe’ Governi e pei governati. In una cosiffatta altezza di pensieri regna una calma maravigliosa, una tranquillità di coscienza inconcepibile affatto da chiunque non l’abbia ancora provato: i vapori, a' onde tutte formansi le più fiere procelle ed ingeneransi le più terribili bufere, non ammassansi che nelle più basse regioni dell’aria.
Tranne qualche spirito debole e smarrito, cui notte ha sorpreso innanzi sera nel buio del passato, niun evvi ai nostri dì che chiaro non vegga, che tutte le frazioni d’un popolo, d’una comun famiglia, di fratelli composta e di cari cittadini, gravitino verso il comun centro d’una grande unità, che costituir doveasi o tosto o tardi, poich'ella e il termine oramai de' nostri sforzi comuni ed il compimento felice de' nostri prosperi destini. Sarebbe stato adunque un violare una delle primitive leggi dell'umanità e combatter a un tempo l’ordine provvidenziale, il chiudersi nell'angusto recinto dell’abborrito sistema d’un interesse individuale, di talune vecchie nazionalità, d’un patriottismo esclusivo, d’un egoismo assurdo e impudente.
Avvicinar deonsi, per lo avverso i popoli, giungersi di più in più infra loro stendersi a vicenda la mano, scambievolmente aiutarsi e proteggersi, addoppiare estringer in uno il sacro legame della fraternitade universale, senza di che gemeranno eternamente sotto l'orribile peso d'infiniti mali. E che altro e mai ciò, se non lo sviluppo del principio stesso di sociabilità che ha l'Eterno trasfuso nel cuor dell'uomo creandolo; dono magnifico e celestiale, poich'è la sorgente d'un progresso continuo senza limite assignabile?
La simpatia, il naturale istinto, la ragione, l’esperienza, il buon senso, tutto, in una parola, tranne le ree passioni, efficacemente concorre a spinger i popoli per questo calle di verità, di vita e di virtù sociale. Ciò che volea finora dividerli, o renderli tentava perfettamente isolati, era il genio del male e della discordia, era il mostruoso personale interesse, opposto pur troppo ai veri interessi dell'umanità, che sono stretti e giunti intra loro dalla natura umana in tal modo, che il bene di ciascuno si accresca col bene di tutti, e il bene di tutti con quello di ciascuno.
La scienza stessa financo, e sia quella peculiarmente che ha per iscopo là politica, non è forse più feconda, e non si dilata via più, a misura che diviene accessibile ad un maggior numero di spiriti? il suo progresso non dipende forse in gran parte dalla moltiplicità degli sforzi simultanei? — Nel comunicarsi a vicenda i pensieri, nel far palesi §li uni agli altri i propri bisogni, o quelli ella ci vii comunanza, nel trasmettersi le idee dall'uno all'altro individuo dell’umana specie, il movimento dell'intelligenza s’accresce e dilata vie più, si sviluppa e rafforza indefinitamente, e la diversità de' punti di veduta, richiamando l’esame e la comparazione, abbrevia, compendia, modifica la durata degli errori inevitabili, in fatto di politico reggimento.
Unirsi in uno, e vivere d’avvantaggio; e ciò ch'è vero del pensiere, lo e igualmente nell'ordine materiale. Se fattizie barriere si elevasser tra' popoli per inceppare le loro reciproche relazioni; se i prodotti de' diversi climi e delle industrie differenti non circolasser senza ostacolo da un’estremità del globo all'altra, su’ mari e su’ continenti; se la libertà commerciale non trionfasse da periodo dell’egoismo, dell’interesse privato, del fisco e de' monopoli privilegiati, aumentar mai vedrebbesi, o promuovere almeno, inun’incalcolabile proporzione, la ricchezza comune, l’universal floridezza, il generale benessere? —
E però la giustizia e la carità, d’onde procede la vera unione, la fratellanza vera, sono le due precipue leggi, non solo dell’ordine morale, senza di cui veruna associazione umana non potrebbe sussistere un sol giorno, ma di tutta altresì la prosperità materiale. Quest’ultima ba d’avvantaggio un’altra condizione indispensabile, la scienza; e i popoli, ch’estimar deonsi nell'attuale sistema politico, come tanti fratelli costituenti un’ampia e comune famiglia, sono felici e forti, agiati e contenti, secondo la misura della giustizia pratica, della carità e della scienza, che costituisce la lor vita morale ed intellettuale. Tutto ciò dunque che, nelle istituzioni, nelle leggi, negli atti del potere, lede la giustizia e la carità; tutto ciò che colpisce la pubblica coscienza; tutto ciò che di rettamente opponsi allo sviluppo della scienza, alla sua rapida e facile diffusione, e fatale a' popoli, ed ba per effetto lo spingerli perdutamente nella miseria e nella barbarie.
Del pari che, ne’ loro reciproci rapporti, tendon eglino all'unità, come a loro scopo finale, ba visibilmente ciascun di loro la stessa interna tendenza, cioè, una tendenza ad organizzarsi dietro il principio, irrevocabilmente acquistato dall'umanità, d’una colleganza fraternalmente universale, d’una nazional carità, d’un vincolo perfetto di socialbilità, e, per seguenza, d’una volontà scempia affatto d’ogni generazione di violenza, esente da ogni limite arbitrario, sia nelle leggi Messe inviolabili di natura, sia nell'unanime od universal consentimento, al di là di cui ogni altro volere e assurdo, né aver puote esistenza verno legittimo potere.
La fratellanza e la carità universale, l’amor dell’umanità e del generale benessere, i vincoli di pace e di vera unione, altamente proclamati a' di nostri dalla ragione e dalla coscienza di tutto l’uman genere, son dunque le solide e ferme basi, su cui riposar dee l’intero edilizio sociale; e però, il solo tentare di rovesciarle, e lo stesso che voler arrestare il corso delle umane tendenze, un attaccar direttamente la vita stessa degl’individui tutti che han comune con noi la specie, un voler annientare le disposizioni stesse di natura, un opporsi apertamente all’attuale Riforma, annunziatrice di pace, d’unione, di fratellanza, di patria carità, infra gl’individui tutti componenti il nostro Reame.
Or, l’Europa antica, e chi noi sa? era politicamente costituita sul principio contrario a quello che or domina avventurosamente presso le più incivilite Nazioni, illuminate fur troppo e rischiarate dalla Filosofia e dalla politica che son luce vera per eccellenza. Esplicitamente o implicitamente partivasi da questa massima, che i popoli, destinati unicamente ad ubbidire come schiavi, appartenevano di diritto o ad un uom solo, o ad una classe superiore di persone, stabilite attesamente per governarli e ridurli in istato d’ignominiosa servitù: di quivi un ammasso di smodate ineguaglianze, una scena ferale di crudeli oppressioni, una serie sempreppiù decrescente di diritti, di cui il primo termine era l’autoritade assoluta d’un solo, superbamente elevatosi a condizione. di tiranno, o il voler dispotico e capriccioso di molti, addivenuti gli assassini dell'umanità, il flagello vivo de' popoli; ed era l’estremo opposto la servitù più o meno abbietta delle masse.
Avventurosamente comprese queste altissime verità il valoroso ed illuminato popolo napolitano; le comprese del pari pienamente l’anima bella e generosa di Ferdinando II, nostro Padre amorevole più che clemente Moderatore e Re. Ma che può fare a pro della sua Nazione invilita ed oppressa un savio e benefico Principe, sinistramente impressionato, o, dirò meglio, incessantemente modificato dal soffio avvelenatore di CHI volea perderlo nella cara e dolce opinione de' suoi fedelissimi popoli, di chi tentava inimicar questi al loro diletto e prezioso Monarca? —
E però una lotta terribile, un contrasto mortale, apparecchiato dagli sviluppi precoci degli spiriti più illuminati ed ardenti, regnava, egli era ormai un pezzo, infra due principi opposti, fra due contrari partiti. Ed il combattimento d’opinione, ch’era permanente e grande sin dal principio di Gennaio del 1848, divenne poscia più accanito nel 25 di esso, si sviluppò energicamente, si estese e propagossi dapertutto nella Capitale; ed eranequasi centro l’immensa strada di Toledo, mirabilmente ingombra da un’onda di valoroso popolo, concitato quasi a tumulto, e più mirabilmente secondato dal gentile e nobil sesso, assiso in vaga e lieta pompa sui balconi delle proprie abitazioni.
Questo era l'urto, il contrasto era questo, che regnava allora infra i due partiti, il partito de' liberali, e 'l partito degli assolutisti. Ma qualunque esser potessero allora le fasi passeggiere di quella politica collisione, il principio della caritade universale, dell’amorevol fratellanza, della patriottica unione, avendo seco le forze tutte morali della nazional comunanza, forze indestrutlibili ed incessantemente crescenti, era assurda la vittoria che il secondo partito tentava in vano di disputar al primo.
Sposare, in effetto, il partito degli oscurantisti, o prestargli vilmente soccorso, e un grave misfatto contra il vero diritto, e un prolungar infruttuosamente, con una calamitosa e deplorabil pugna, i disordini ch'esso seco trascina, le sofferenze individuali e le terribili angosce della civil comunanza che aspira al riposo, e che non rinverrallo giammai, se non nel pieno godimento di ciò che le leggi naturali dell’uomo, dicui la sorgente e in Dio, ad appetir l’obbligano ed a cercare invincibilmente.
Non mai l’uman cuore sarà pienamente tranquillo, se pria un cotal giusto voto non sarà dell'intuito soddisfatto. Il principio di carità e d’amore, di sociabilità e di fratellanza,sempre vivente ne’ nostri petti, malgrado tutti gli sforzi e i tentativi tutti dell’abbattuto egoismo per distruggerlo, reagirà poderosamente contra il vizio opposto; e l’individuale interesse, inquieto sempre d’incontrar da pertutto un’invincibil resistenza che infrena l’azion sua comprimente, cercherà in se stesso, nella sua estensione, un rimedio inutile e vano.
E però il movimento, agli occhi del saggio e magnanimo Moderator nostro, non fu mica un disordine, e né anco una minaccia di disordine; né punto si mosse, per seguenza, ed arrestarlo, né l'arrestaron le brave e generose nostre truppe, né vi fecer ostacolo alcuno i loro prudenti e valorosi duci, né più tentossi di ristringere od inceppare quell'inviolabil facoltade, onde sono gl'individui dell'umana specie naturalmente potenziati, d’avvicinarsi infra loro, di scambiarsi gli amplessi, di avvicendarsi i baci di fratellevole amore, di stringersi gli uni gli altri le amiche destre, di proromper in mille segni di nazionale allegrezza, di esultare di pubblica gioia, di giugnersi in forte lega fra loro ed agir di concerto in uno scopo d’interesse comune. Né facea più d’uopo isolarli, né spiar con diffidenza, come ne’ tempi tracorsi, i loro più occulti pensieri, il lor andamento morale, gl'intellettuali procedimenti, né moltiplicare le spie, né dilatar le reclusioni, né oppor flagelli al malcontentamente pubblico per mettersi seco in equilibrio, né rientrare, in fine, per tutte le vie nelle irreparabili ruine del passato. Sarebbe stato questo un errar funesto per quegli spiriti che si fosser lasciati prevaricare. L’umanità non va mica retrogradando; né stazionario può più nomarsi il suo movimento o sviluppo; la strada al bene e al riposo, alla sicurezza e tranquillità sociale fé schiusa intieramente; non d’altro fa d’uopo che batterla con fermezza, con intrepidezza e coraggio.
La forza morale, irresistibile ad ogni urto, allorché vuole usar fermamente e con saviezza de' suoi diritti, andrà incontro ad un rapido accrescimento, e così vedrà più chiaramente lo scopo che dee proporsi, e i mezzi per raggiungerlo. Una saggezza preveggente aprirebbe allo spirito umano una via pacifica verso questo scopo, donde allontanar non potrebbesi giammai; niun ostacolo potrebbe arrestarlo gran fatto, o non l’arresterebbe forse che al duro prezzo di funeste sciagure nazionali.
Non impediscasi punto alla forza pensante, intelligente e libera il suo cammino, e nulla avrassi a temere dal canto suo. Ingenerava paura il suo progressivo sviluppo, ma a torto. Più lo spirito dell'uomo e illuminato e collo, più sarà in istato di conoscer la somma de' doveri che assislongli, e meglio ancora e più esattamente adempierli. Ei non è naturalmente violento che contro l’ingiustizia, contro l’oppressione manifesta, meditata, proterva di altre ione morali. Istintivamente attaccato all'ordine sociale e morale, voluto dall’Eterno in tutte le cose, e che non puot'esser disturbalo senza ch'ei soffra, ne rispetta financo l’apparenza; e quando a difender si accinge il suo diritto, ciò avviene, perché una voce che punto non inganna, la voce di Dio gli dice: TU LO DEVI.
Il mostruoso sistema dell’egoismo materiale e dell'oscurantismo oltraggiente, in opposizione al sacro principio dell'amor, sociale, della patriottica fratellanza, della cantate voi divergenza e propagazione de' lumi, rimena tutte le cose, nella civil comunanza, alle spregevoli proporzioni dell'individuo. Era questo il male che. divorava la generazione dell'epoca passata. Ella non credeva all'indomani, perché l’individuo noi conosceva per anco. Di che cosa, in effetti, occupar mai si poteva costui, se non d’un godimento passeggiero? Egli ammassava dunque tutto il suo amore per concentrarlo in questo stesso godimento, e giugner avrebbe voluto insieme gli altri godimenti tutti, per tutti concentrarli poscia in un sol istante che rapidamente fogge.
Fatevi pure a chiedere, di grazia, a coteste anime fredde ed insensate qualche sforza di generosità, un sacrifizio pel ben pubblico, ed elle non v'intenderanno punto. E nulla cosa intanto operasi di grande, di veramente utile e durevole nella società, che in virtù di generosi sforzi e di coscienziosi sacrifizi. La forza morale di tutta l'umana specie n’è capace pur troppo. ma esclusivamente ella sola. E però sol ella ha potenziala facoltà di produr gli uomini destinati a realizzare, come l'han già realizzalo col fatto, l’opera veramente sociale della nostra epoca di redenzione o di nazionale riscatto.
Modellare la società intiera, I’universal comunanza del nostro paese, su la ferma e solida base d'una morale unione fraternalmente perfetta; coordinar le leggi secondarie a questo stesso principio di sociale benessere e d’ingenita uguaglianza, all'ombra consolante ed augusta di queste stesse leggi; sistemare le individuali occupazioni e diriger la ripartizione delle cariche o degl’impieghi, delle nazionali industrie o de' comunali mestieri in maniera, che, senza colpire alcun interesse legittimo, ritorni ogni cosa al comun vantaggio, al più gran benessere di tutti i nostri fratelli, tal era senza dubbio il gran problema da risolversi, e tal e pur troppo in quest’epoca avventurosa di politica rigenerazione il consolante teorema, che tutte tiene positivamente occupate le generose menti che vanta questa nostra patria, alla cui testa ci e dato provvidenzialmente di veder collocato il nostro Augustissimo Sovrano ed umamssimo Padre, Ferdinando II; è questa la più grandiosa e stupenda opera prescritta alla comune alleanza di cotesti esseri benemerenti della Nazion nostra, che han bramosia di vantare permanenza e vita nella grata memoria nostra, ed in quella altresì de' posteri nostri.
Un’opera cosiffatta, l'opera sublime ed immortale del nazionale risorgimento, lo direm con piacere a chiunque de' nostri cari fratelli, sarà costantemente dinanzi a' nostri occhi, consacrata sempre nel cuore, profondamente impressa e suggellala nella mente.
Pienamente sommessi non però di meno, sì come ad onesti cittadini conviensi, a tutte le leggi che dalla forza morale verranci imposte, e non sorpassando giammai i limiti ch'elle fissano in qualunque grave materia alla discussione, deplorerete sempre il fatale errore di coloro che vivean un tempo nella lusinghiera persuasione, che il silenzio, in fatto d’immegliamento sociale, o civile, o morale, arrestar potesse il movimento generale degli spiriti, le loro interne e necessarie modificazioni. Di quivi, e non d’altronde, nelle tenebrose epoche del passato, l’abbrutimento delle anime, il materialismo universale de' corpi morali. Imprigionar mica non puossi, nella felice posizione in cui di presente siamo, né più inceppare il pensiero, essenzialmente necessario all'uomo morale, imprimendo inopportunamente il suggello sul labbro veritiero.
Noi siam di credere fermamente che la carità sociale, ne’ tempi e luoghi in cui ci viviamo, sia il miglior garante dell'ordine morale; che la mutua amorevolezza ispirata dalla patriottica uguaglianza di spirito, di pensiero, di vita e di diritto, sia il più valido e possente scudo della società; che tutto ciò da ultimo che toglier vuolsi ad un cosiffatto principio, ch'è pur sacro ed incontrastabile per se stesso, passa incontanente sotto il dominio dell'ignorantísimo cieco e brutale. Sin a tanto che il sistema del linguaggio parlalo o scritto non sarà punto interdetto; che i segni convenzionali ed articolati, pronunzienti liberamente l’uman pensiero, non verran confiscati; che conservar potrassi la speranza di realizzare con la convinzione e per le vie legali, ciò che si crede di esser un diritto, un bene vero e reale, non ricorrerassi giammai, lo speriamo fermamente, a verun altro mezzo illegittimo, ch'esser potesse dalla violenza ispirato; essa e sempre l’ultima ragione di colui che non ne ha d’avvantaggio, o ch'estimasi impotenziato affatto a produrne delle altre.
Se havvi in noi una ferma e soda credenza, fondata su lunghe e serie riflessioni, su vasta ed estesa lettura, e quella appunto, che la diffidenza, e forse anco l’odio che reciprocamente ispiravansi le classi superiori o privilegiate, come addimandavansi un tempo, e le classi inferiori od abbiette della società, aveva per unica sorgente gli ostacoli apportati alla discussione de' loro interessi reciproci. Egli è ben dimostrato però, e qual altra più aperta e convincente dimostrazione che il fatto presente? come cosiffatti interessi, lungi dall'esser inconciliabili fra loro, sono essenzialmente identici; perocché niun immegliamento morale per la condizione dell'umanità e possibile o sperabile, se non in quanto che riposerà sul religioso rispetto d'ogni diritto legittimamente acquistato, e che tutto ciò che l'invilita gente, nel possesso de' diritti da lei proclamati con equità sovrana, acquistar potrà di benessere, in una miglior organizzazione, avrà per effetto l’aumentar quello delle classi, di cui i timori insensati facean cadere in altri tempi odiosi la società in un disperato cordoglio prementele aspramente il cuore.
La soluzion vera, in una parola, del gran Problema sociale che divide i destini, dell’Italia non solo, ma dell'Europa intera financo, non è mica quella di livellar le fortune o gli averi, cosa impossibile, non dirò a tentarsi, ma a concepirsi pur anche, e che altro non produrrebbe che una povertade essenziale, una totale miseria; quella sìbene di elevarle tutte simultaneamente: e null'altro punto d’appoggio, per operare un cotal movimento d’ascensione, che cuore e fermezza d’animo, permanenza e costanza,unione vera di spiriti e nazional carità; non già le ricchezze materiali di già esistenti, che non potrebber mica rimuoversi senza annientarle in un istante.
Da quanto essi rapidamente detto fin qui, scorger puote assai chiaro il vero ed onesto amico dell'umanità, da quale spirito siam noi animati, da quai sublimi sentimenti ispirati, da quale ardente amor di patria mossi e diretti, nell’intraprender ad abbozzare queste poche pagine; il nostro altissimo e sacrosanto scopo, diciamolo pur francamente, non è ostile che all’egoismo, alle passioni individuali cui e rotto il mondo morale, e che desolano l'umanità, agl'interessi, in fine, che rendonsi pur troppo isolati per cercar la loro soddisfazione a spese dell’universale interesse. Da per tutto, ove noi crediamo di scovrire o di ravvisar cosiffatta tendenza, valorosamente combatteremla, e sempre con un’idea tutta morale e coscienziosa d’adempiere in ciò ad un dovere sacro, dovere rispettabile d’umanità nazionale, cui il nostro geloso e dilicato ministero sovranamente ci appella.
Consecrati svisceratamente al vero bene della patria, cui diecci l’Eterno a comun madre, ad invitar ci facciamo gl'individui tutti onde il nostro popolo componsi, a rifondersi ugualmente, per loro comune benessere, nell’unitaria fratellanza e nell’amor nazionale. Allorquando un cotal voto adempirassi, la natural equità de' diritti e la legittima indipendenza degli spiriti regneranpienamente; e questo voto non adempirassi che pel vantaggio de' nostri cari fratelli. Quindi non più guerra, non più inevitabile e mortalguerra, infra gl'individui ed i popoli, fra i cittadini e il Sovrano; vincoli di pace e di carità da pertutto.
Voler impertanto incatenare l’avvenire alle forme sociali, essenzialmente appiccate e giunte al privilegio esclusivo ed assoluto, sarebbe un eternizzar la discordia e deporre nel seno stesso delle novelle istituzioni o politiche riforme, destinate a garantir l’ordine e la stabilità dell'ordine, un germe indestruttibile di discordie e di collisioni eterne. Nino essere morale e sociale violar puote impunemente le sue leggi, le leg. gi dell’ordine pubblico, dell’universale benessere; ed ove per poco se ne allontani, il dolore o la pena ricondurravvelo tosto.
Cessiamo di lottare contro i nostri simili, guardiamci di divenir gli oppressori de' nostri fratelli, ed incontanente il pesò de' mali, sotto di cui ci fu dato di gemere pur troppo, allevierassi da se stesso a poco a poco. La fraternitade universale e il finale ed unico scopo dell'umanità; fuor di essa, niun riposo, pace e tranquillità nulla. A realizzare questa Razional fratellanza, quell’opera eminentemente sovrana, sono tutti diretti unicamente i nostri sforzi. E desse l'ultimo termine che assegna quaggiù la Provvidenza alla nostra personalità libera, attiva e intelligente.
Chiunque de' nostri fratelli avrà fatto, o fatto fare agli altri, un sol passo verso di essa; chiunque de' nostri cari concittadini ne avrà risvegliato peranco il sentimento nel fondo de' cuori, questi, nel giorno in cui lo spazio e l’eterna notte ci si apriran dintorno, in cui, su’ confini delle due esistenze, non riman altro a ciascuno che la ricordanza delle sue opere, chiuder potrà dolcemente le luci a questo mondo d’illusioni, e dormir eternamente sonni tranquilli. La sua missione non sarà stata vana sulla terra.
Le osservazioni intanto che abbiam fin qui ragionatamente esposte, lungi dall'esser distaccate dagli avvenimenti storici o politici de' nostri tempi attuali, appiccansi punto per punto ai fatti presenti, che ne son conseguenza e compimento logico a un tempo.
Le intenzioni de' nostri concittadini e fratelli, coscienziosamente tendenti ad un nazionale immegliamento, non, sono in se stesse, e per le loro conseguenze, che filantropiche e sante; i sentimenti che gli animano per la comun nostra prosperità, non sono che nobili e puri, generosi e grandi; gli alti princìpi onde sono animati nella qualità di riformatori p promotori del pubblico vantaggio, trasfondon vita e speranza a novelli e più felici destini. La lor opinione e tutta basala spi saldo fondamento della giustizia, perché fa guerra ostinala all'usurpazione o violazione de' diritti più sacri dell’umanità. Hanno costoro costantemente protestalo contro abusi siffatti; e buona parte di essi han suggellato col sangue una sì generosa protesta. Perseveraron eglino con fermezza ne’ loro buoni sentimenti, e, per metterli in opera, si appoggiaron con fiducia e sicurezza di coscienza sulla giustizia della santissima causa. Per la giusta difesa di questa sacra causa, innumerevoli vite sacrificaronsi nella Sicilia, nelle nostre Calabrie e nelle salernitane contrade.
Alla sola idea di nazionali riforme e di miglioramenti amministrativi, tutto ciò che concepir puossi di buono e di grande, d’avvantaggioso e d’incoraggiante per l’avvenire, destossi a un tratto nell’animo di chiunque; e l’entusiasmo d’un popolo sentitamente commosso a sì consolante idea, non ha nulla di comune colla bassezza d'un culto egoista e coi materiali interessi. Al nome di riforma, o di Costituzione, sì lungamente proscritto fra noi, ed ora sì apertamente proclamato, non havvi un cuore fra' petti napolitani, che non frema e non esulti di gioia. Nel santo pensiero d’unità nazionale, di nazionale vessillo, di vita collettiva, le mani si serrano, si corrispondon gli animi, i cuori s’intendono, i giuramenti pronunziansi, si elevano al cielo i più fervidi voti.
Dolce cosa e consolante pur troppo, in effetto, e il vedere un'unione immensa di uomini, di concittadini e fratelli, aventi un principio comune credenti fermamente a questo stesso principio, come nel solo che possa rispondere ai bisogni comuni, alle intime aspirazioni d'un intero paese, e tutti intesi ad incarnarlo in una serie di atti che abbraccia la durata della propria esistenza atti coronati pur anche colla sublimità del martirio!
E cosa assai commovente era del pari il vedere in questa nostra Capitale, negli ultimi giorni che han preceduto il civico risorgimento, uno stuolo innumerevole di valorosi cittadini pronti a fare di sé qualunque maggior sacrifizio, ed a morire financo, pel felice conseguimento della già ottenuta UNITA' NAZIONALE. E come mai si potea non dar luogo ad un sentimento immoderato di pubblica esultanza, se questa stessa UNITA' di paese e di cuori, di volontà e di pensieri,,che si stava già preparando, era quasi sul punto d’offrire ai cittadini la scelta fra il lento e regolare sviluppo di principi già consecrati, e l’iniziativa spontanea delle masse? Come non lasciarsi invadere gli animi da verace allegrezza, alla consolante idea d’un partito universalmente basato, al dolce presentimento d’un principio nazionale conosciuto ed ammesso, d’una libertà garantita e proclamata a pieni voti, d’una casta regolatrice de' diritti de' governati e de' doveri de' governanti? —
In tale stato eran le cose nella Capitale, e siffattamente disposti gli animi de' valorosi cittadini, moderati oltre modo, ma intrepidi sempre e costanti ne’ loro altissimi disegni, e sempre sprezzanti i gravi rischi dell’ardua intrapresa, e costantemente deliberali a marciare di fronte, e decisivamente risoluti a raggiugner lo scopo della rigenerazione d’un intero popolo; quando l’animo del clementissimo nostro Sovrano, altamente penetrato della giustezza della causa che animava tutta la Nazione in fermento, e dar volendo sempre più a' suoi amatissimi soggetti non equivoche prove di paterna! generosità, si è mosso a un fratto a far subire un subitano cangiamento nel Ministero, e con Decreto del 18 gennaio siffattamente deliberava:
I. Sono istituiti de' Consultori in servizio straordinario;
II. Allorché la nostra residenza sarà nei nostri domini al di qua del Faro, saranno di diritto Consultori straordinarii il Presidente della Suprema Corte di giustizia, il Presidente della gran Corte de' conti, il Presidente della Gran Corte Civile, i Direttori general i, il Presidente della pubblica istruzione!, il Sopraintendente della pubblica salute, ed altri che crederemo opportuni fra' nostri sudditi de' nostri reali domini di qua e di là del Faro. Nel caso poi che la nostra residenza avrà luogo ne’ nostri reali domini al di là del Faro, saranno del pari di diritto Consultori straordinarii il Presidente della Suprema Corte di giustizia in Palermo, il Presidente della Gran Corte de' conti, il Presidente della gran Corte civile, il Giudice di Monarchia, il Presidente della pubblica istruzione, i Direttori general i, il Sopraintendente di pubblica salute, ed altri che crederemo opportuni fra' sudditi de' nostri reali dominii di qua e di là del Faro;
III. Il nostro Consigliere Ministro di Stato' Presidente della Consulta generale del Regno e autorizzato a chiamare alle sessioni delle Commissioni delle Consulte, e della Consulta general e, i cennati Consultori straordinarii, che vi avranno voto al pari de' Consultori ordinarii;
IV. Ogni Consiglio provinciale del Regno alla fine delle sue sessioni ci presenterà una terna tra i principali proprietarii che trovansi nell'esercizio di Consiglieri Provinciali. Ci riserbiamo di scegliere un Consigliere provinciale per ciascuna provincia, per intervenire nella Consulta in tutte le discussioni risguardanti l’amministrazione delle rispettive province;
V. I Ministri Segretarii di Staio a portafoglio potranno, ove lo credano necessario, intervenire nelle sessioni della Consulta. Essi occuperanno il posto immediato dopo il Presidente generale della Consulta. —
Eran nondimeno sì lieve cosa pel popolo napolitano cotal i concessioni sovrane e civiche riforme che poca o nulla impressione han fatto general mente nell’animo d’ognuno. E pero a misura che andava crescendo il malcontento de' cittadini, si andava via più disponendo il magnanimo Re Ferdinando ad esser più largo di ulteriori dimostrazioni di sincero attaccamento verso il suo popolo prediletto. Un altro Decreto quindi pubblicossi, avente per ¡scopo la promozione di utili miglioramenti nella grande amministrazione dello Stato; e conteneva le disposizioni seguenti:
I. Le Consulte di Napoli e di Sicilia dar parere necessario sopra tutti i progetti di leggi e regolamenti general i;
II. Esaminare e dar parere rispettivamente sugli stati discussi general i delle reali tesorerie de' reali domini di qua e di là del Faro, sugli stati discussi provinciali e sa quelli comunali di cui per legge e a Noi riserbata l'approvazione, sulle imposizioni de' dazii comunali, e sulle tariffe di essi;
III. Sull’amministrazione ed ammortizzazione del debito pubblico;
IV. Su’ trattati di commercio e sulle tariffe doganali;
V. Su’ voti emessi da' Consigli provinciali a termini dell’articolo 30 della legge de' 10 di dicembre 1816;
VI. Sugli affari qui annunziati i Ministri a portafoglio. non potranno portare a Noi proposizioni in Consiglio, senza aver prima sentito il parere della Consulta;
VII. L’amministrazione de' fondi provinciali e affidata ad una deputazione che i Consigli Provinciali nella loro annua riunione nomineranno, ed alla quale ne sarà affidata l’amministrazione sotto la presidenza dell’Intendente;.
VIII. Gli atti de' Consigli provinciali, ed i loro stati discussi, dopo la sovrana approvazione saranno resi pubblici per la stampa;
IX. Volendo Noi confidare agli stessi uomini di Napoli e di Sicilia l’amministrazione de' loro beni, per quanto sia compatibile col potere riservato sempre al Governo per la conservazione del patrimonio de' comuni, vogliamo che la Consulta generale ci presenti un progetto che aver dee per base:
1. La libera elezione de' decurioni conferita agli elettori;
2. Ogni attribuzione deliberativa conceduta a' Consigli comunali;
3. Ogni incarico di esecuzione confidato a' Sindaci;
4. La. durata della carica de' Cancellieri comunali.
Ma non fu pago perciò di cotal mutamenti né pienamente soddisfatto il partito nazionale. I cittadini napolitani ardentemente aspiravano a più ampie e radicali riforme, ad una COSTITUZIONE formale, nella credenza e convinzione intima di doversi adoperare pur eglino in Europa intorno ai destini dell’Umanità, aspiravano, in una parola, all’altissimo grado di NAZIONALITÀ’ UNA e forte, avvedutamente conoscendo che senza forza, non vi puo’ esser garanzia vera e durevole per la libertà del nostro sviluppo nazionale. E però, serbando ogni cittadino le proprie credenze, ed alimentando nel cuore le «lesse speranze, aspettava più acconcio il momento di farle prevalere e sviluppare entro i termini sempre della legalità, non men che di una tranquillità senza pari, e sempre con sommissione profonda ai regolamenti sociali in vigore ed all'inviolabil legge del Pubblico buon ordine. Ed il buon ordine publico intanto, la civile concordia, la fraternale unione, il rispetto alle leggi, la libertà individuale, le sagge vedute di sociale interesse, eran l’obbietto sacro del loro voto comune, su cui avean decisa e concorde o1 limone, il voto e la necessità d’una novella esistenza politica.
Un intento sì sublime, sì grandioso ed interessante eran costoro sicuri d’ottenere o tosto o tardi. Era nondimeno possibile ch'ei soccombessero a tanta impresa, per se stessa malagevole ed ardua; ma e pur certo altresì, che altri ancor prodi e valorosi cittadini continuata avrebbero la lotta. Caddero, e vero, più volte i nostri coraggiosi fratelli, per inciampo di costumi e per ostacolo opposto da influenza straniera; ma questa volta, grazie alla Provvidenza sovrana ed alla convinzion somma d’un immegliamento di sorti future, si eran eglino rialzati più forti nell’opinione, e con maggior fidanza pur anche, che nulla possanza, se non momentaneamente, potea rapir loro la vittoria e ‘l trionfo.
In mezzo a questa lotta di opinioni e di sentimenti, a questo contrasto di tendenze e d’inclinazioni, di teorie e di credenze, di speranze e di mal concepiti timori, l’estero e tenebroso genio del male si prendeva diletto di sparger sinistre dubbiezze ed immaginosi allarmi in più d'una mente ancor vacillante, in più d'un cuore non ancora ben rifermato, forte temendo il trionfo delle idee e delle anarchiche passioni. Ma il tempo ed il fatto, positivamente smentendo una calunnia sì atroce ed infame, han dimostrato pur troppo, assicurando chiunque del successo contrario, che cosiffatte stranezze non son fatte per noi. Il popolo napolitano, lo sappia pur una volta l’invido straniero, non è né COMUNISTA né TERRORISTA; ei tiene invece per paradossale ed assurdo il comunismo indiscreto e 'l terrorismo immorale. Il partito liberale ha trionfato e regnato fra noi in variate epoche ed in diverse politiche vicende. Si potrebbe forse citare nelle nostre patrie istorie un sol atto di proscrizione, una sola legge di spogliazione o confisca di beni?— Se la moderazione quindi e riposta nel non abusare della vittoria, in questo caso noi siam tutti moderati e discreti.
Il popolo napolitano (apprenda pure quest'altra verità la trista gente che nulla comunanza e niuno rapporto può vantare co’ nostri interessi) non va mica mendicando stranieri appoggi nella sua giustissima causa, nella sua momentanea lotta; ei vuol solo che si rispetti inviolabilmente il principio che fu in altri momenti, ed in ben altre vicende, sì altamente proclamato; di lasciare, cioè, che ciascun popolo attender possa come meglio gli abbella e attalenta, senza intervento straniero, alla miglior organizzazione della sua vita interiore.. Che ogni Nazione europea si tenga dunque pronta, sopra un piede imponente, ed il popolo napolitano farà solo il resto quando gli si parerà più agevole ed acconcia l'occasione.
Ma ci debb’essere a cuore la pace, qualche Aristarco obbiettava, ed evitare la lotta nazionale, la guerra civile. E ne’ tempi in cui scriviamo queste pagine di storia patria, la guerra non è forse ovunque sviluppata ed accesa, fomentala e promossa? Non era ieri in ¡svizzera, ed oggi in Italia? E con qual altro misterioso nome appellar noi dovremo quanto stassi di presente operando in diversi punti, in variate contrade della nostra lacerata penisola? Si crede forse di poter dare in coscienza l’assurdo nome di pace a questa lotta ostinata, perciò solo che si combatte a campo-chiuso, fra le pubbliche piazze, negli esecrati ergastoli, ne’ penosi esili, nelle procurate ed occulte morti, negl'ignominiosi e ferali patiboli? E non si è abbastanza versato patrio sangue a Ceraci ed a Reggio? E non si son tirati a piùnon posso tanti colpi di cannone a Palermo e a Messina? Non si son bombardate e mitragliate le mura, i palagi, gli ostelli sacri per anco di quelle due magnifiche e grandiose Città?— Ah! più non dica lo straniero importuno, (ed è noto a chiunque di quale straniero c’intendiamo parlare) che gli sta a cuore d’impedire la guerra; dica più tosto, e ne ignoriamo l’arcano motivo, che non mezzanamente teme la vittoria e 'l trionfo.
La cagione delle nostre lotte e de' nostri terrori, procede in gran parte dalla, mancanza d'un diritto internazionale, giù conosciuto e legalmente rappresentato in Italia. E non vi ha più diritto internazionale fra' popoli, perché più non havvi comunanza di credenze fra governo e governo. La politica de' principi in Europa ha da gran tempo degenerato dalla vera e sana politica che, giugnendo l’uomo all’uomo, li fa risguardare come veri fratelli; ed appiccando popolo a popolo, estimar falli in fra loro come un’ampia e comune famiglia; non si cerca ed apprezza invece, a questi nostri miseri tempi, che la politica degl'interessi del giorno; e perciò nella maggior parte de' gabinetti europei il vero Nume e la forza. Ma per l’uomo veramente di stato, per l’uomo dell'amor patriottico e della cittadina alleanza, non havvi altro Ente, tranne i trattati e le leggi, la pubblica salvezza ed i vantaggi comuni.
Uno sguardo passaggiero alla Carta, una rapida occhiata alla Storia, ed ognuno dirà francamente: I trattati e le leggi, la pubblica salvezza ed i vantaggi comuni son lo scudo e 'l garante più forte di tutte le sociali masse nel tempo e nello spazio. I segni d’una conquista consumata, sono brevi intervalli di riposo per l’umanità; essa si arresta un istante, e poi riprende il suo costante cammino. Solo l’Eterno, e la sua eterna legge d’incessante progresso per le sue creature, son duraturi e permanenti per noi.
Qualche genio francese, che ha fama europea e senno eminentemente politico, avrebbe dovuto pur troppo approfondire i segni de' nuovi avvenimenti, i sintomi delle novelle nazionalità, chiamate fra non guari a prender parte al comune lavoro, alla ristaurazione comune, Avrebb’egli potuto chiamare, all'ombra della Francia ringiovinita, le nazioni tutte di Europa ad una revisione solenne de' trattati, che rinnegan ora il progresso, e che annullar converrebbe colla forza. Ei lo poteva, lo doveva forse anco, e non l’ha voluto! Si è voluto più tosto profanare il pensiero col contatto del potere; si ha voluto sacrificare pur anche la filosofia e la politica, la giustizia e l’umanità ad una fredda o pretesa ragione di Stato. E però, lungi dal saper indovinare e apprezzare, dal promuovere e garentire il felice progresso del tempo, non si è invece che pur troppo contribuito, con un assurdo esempio di smodato egoismo, d’indifferenza fatale, a trasfonder negli animi una diffidenza su tutti e su tutto; ed ha ciò ritardato in gran parte il nazionale progresso, la riorganizzazione cotanto sospirata delle nostre patrie cose.
Stretto oggi non però di meno il Genio dell'indifferenza dalla forza imponente del progresso, cui forse internamente abborre e disprezza, si vede assalito a un tratto da novelli e provvidenziali avvenimenti che non può né prevenire né arrestare. La resistenza ù forte, la lotta terribile, ostinato il con? traslo; ma fu più forte però il partito liberale, che di grandissimo valore pugnò, vinse, trionfò.
La provvidenza del cielo, in effetto, la siciliana strage, la larga effusione del sangue fraterno, la rimembranza funesta de' CALABRI MARTIRI,la storia tristissima delle patrie sventure, il fatto presente delle intestine discordie iniquamente elevale a guerre civili, i rei suggerimenti di consiglieri malvagi, le macchinazioni infernali di CHI trarre voleaci ad irreparabil rovina, le occulte trame degli EMPI già scoverte e sventate, le tenebrose insidie de' FELLONI e RIBALDI energicamente atterrate, la caduta fatale de' più imprudenti PERVERTITORI del nostro buon Re e Padre, il terribil crollo di coloro che falsamente risguardavansi come le più salde colonne di quel Trono, di cui tentavan sordamente minare le basi, ciecamente immemori di quell’aurea sentenza di colui che scrisse:
Che fortuna quaggiù varia a vicenda,
Mandandoci venture or buone or triste;
Ed a' voli tropp’alti e repentini
Soglion i precipizi esser vicini;
l’inattesa degradazione e scomparsa de' SATANNICI FABBRI d’ogni nostro male, e d’infinite sciagure per questa nostra cara patria, le preghiere de' buoni, le dolci insinuazioni. de' veriamici della patria, le calde insistenze di tutta la Reale Famiglia, cui sta a cuore pur troppo il nostro miglior bene possibile, le calde ed unanimi rappresentanze insomma di tutta intera una comunanza di prodi, cospiranti ad un voto comune, il pubblico voto della nazionale rigenerazione: han talmente colpito ed impressionato l'anima grande e generosa dell’Augustissimo nostro Sovrano Ferdinando II, che il 29 di Gennaio, giorno memorando e sacro ne’ fasti della patria storia, con un atto veramente magnanimo d’impareggiabil demenza, siffattamente si mosse a decretare:
«Avendo inteso il voto generale de' Nostri amatissimi sudditi di avere delle guarentigie e delle istituzioni conformi all’attuale incivilimento, dichiariamo di essere Nostra volontà di condiscendere a' desiderii manifestatici, concedendo una COSTITUZIONE;e perciò abbiamo incaricato il Nostro nuovo Ministero di Stato di presentarci, non più tardi di dieci giorni, un progetto per esser da Noi approvato sulle seguenti basi:
Il Potere legislativo sarà esercitato da Noi, e da due Camere, cioè una di Pari, e l’altra di Deputati; la prima sarà composta d'individui da Noi nominati, la seconda lo sarà di Deputati da scegliersi dagli Elettori, sulle basi di un censo che verrà fissato.
L’unica Religione dominante dello Stato sarà la Cattolica Apostolica Romana, e non vi sarà tolleranza di altri culti.
La Persona del Re sarà sempre sacra, inviolabile, e non soggetta a responsabilità.
I Ministri saran sempre responsabili di tutti gli atti del Governo.
Le forze di terra e di mare saranno sempre dipendenti dal Re.
La Guardia nazionale sarà organizzata in modo uniforme in tutto il Regno, analogamente a quella della Capitale.
La stampa sarà libera, e soggetta solo ad una legge repressiva per tutto ciò che può offendere la Religione, la morale, l’ordine pubblico, il Re, la Famiglia Reale, i Sovrani esteri e le loro Famiglie, non che l’onore e gl'interessi de' particolari.
Facciamo nota al Pubblico questa Nostra Sovrana e libera risoluzione; (e confidiamo nella lealtà e rettitudine de' Nostri Popoli, per veder mantenuto l’ordine e il rispetto dovuto alle leggi ed alle autorità costituite».
La fausta novella d’un si fatto Decreto sparsasi a un tratto in tutti i punti di questa Capitale, e di bocca in bocca colla rapidità del baleno trasmessa; la vista di sì salutari avvisi, confermanti solennemente il lieto annunzio, ed in tutti i cantoni affissi della nostra Città; la fede rassodata, ed il voto unanime d’un Pubblico, oltre modo ansioso d’immegliati destini, già pienamente pago e soddisfatto; il grido concorde della nostra fervida gioventù, che ieri ancora fremeva e moriva in silenzio, e che oggi raccoglie nelle libere manifestazioni del suo voto supremo, il frutto de' precedenti suoi sforzi; l’esultanza di pubblica gioia in cui fansi a prorompere i petti de' più caldi cittadini, che a sì grand’opera valorosamente concorsero, e che stati sarebber più pronti a ricominciare la magnanima impresa, ove il GENIOesecrando della discordia e del male tentato avesse arrestarla nel suo glorioso progresso; il gruppo ammirabile in somma di tutte queste circostanze, che segnalavan per noi il giorno più lieto e più coscienziosamente sentilo della nostra mortale esistenza, non son mica tal cosa da potersi acconciamente pignére o descrivere da storica penna, e neanco immaginare o concepire da mente umana.
Non tantosto quest’Atto Sovrano vedeasi affisso a' cantoni di Napoli, che stuolo immenso d'ogni gente traeva lietamente a leggerlo, ed in ogni petto destavansi veraci sensi di viva gratitudine verso il magnanimo Principe, in cui sin dal primo istante che da propizia stella venne appellato a regolare i destini di questo Reame, l’ardente cura della prosperità de' suoi popoli fu sempre in cima de' più vigili pensieri, e che ora ha manifestato di volerla consolidare in modo stabile e solenne sopra basi inconcusse.
Un solo affetto fu in tutti i cuori in quel giorno avventuroso consecrato a pubblica esultanza; un solo pensiero predominava in tutte le menti de' cittadini ebri di gioia e di entusiasmo, il pensiero d’una rigenerazione già maturata e compiuta; un solo nome suonò su tutti i labbri fra gli evviva e gli applausi, quello di Ferdinando II, seguito ancóra da questi altri: Viva la Costituzione! Viva Pio Nono! Viva l’italica indipendenza! I Napolitani abbracciaronsi quai cari fratelli, e ne’ loro teneri amplessi, ne’ loro baci amorevoli, ivan colmando di benedizione il nostro comun padre e re. La folla del popolo inondante le pubbliche strade, e quella peculiarmente di Toledo; la nobile e fiorita calca delle più cospicue signore, assise sui balconi de' loro sontuosi edilizi, e più briosamente corrispondenti al grido festoso del popolo, tutti insomma nel loro libero entusiasmo, fra le coccarde e le bandiere pomposamente sventolate, null’altro più ardentemente bramavano che vedere, applaudire e salutare col grido della riconoscenza il loro amato Monarca, che han sempre considerato come il maggior dono che lor sia venuto dalla mano dell’Eterno, in cui sta la fortuna de' popoli e quella de' loro Moderatori.
Vide il magnanimo Re, conobbe, sentì questo desiderio nazionale, questo voto impaziente di tutti gli animi, ed esitare non volle un istante a pienamente appagarlo. E però ad uscir fessi a cavallo dalla Reggia, avendo a fianco i suoi Reali Germani, infra il corteggio de' suoi general i, delle Guardie del Corpo, di Guardie di Onore e di Usseri. La pubblica commozione non ebbe allora più limiti. Tutta la popolazione di Napoli accorreva a gran calca a Toledo, ed in tutte quelle vie pur anche per le quali presupponeasi ch'Egli passasse; e tutti unanimemente, alla vista del Re, alla vista di migliaia di costituzionali vessilli, alzando le voci di evviva, applaudendo con mani, esultando di gioia nel cuore, agitando fazzoletti, formando d’ogni carrozza una specie di festoso carro trionfale, elevando in alto cappelli, e sulla strada, e dalle ringhiere, e dalle terrazze di tutti i palagi, faceangli incredibile filial festa che. mal si potrebbe esprimere a parole, che via più raddoppiavasi all’atto clemente de' suoi affabili saluti, e il sentimento profondo della quale, meglio che ad ogni altro segno, appalesavasi alle tenere lagrime che copiose irrigavano i volti quasi di tutti. Tanta era, in effetto, la moltitudine che amorosa gli si affollava d’intorno, affine di far prorompere dal petto la piena de' suoi grati sentimenti, ch’era gradito intoppo a' suoi passi. Il Re intanto, traversando Toledo in tutta la sua. lunghezza, proseguì il cammino per la strada degli Studi, Largo delle Pigne, Porta S. Gennaro, Forcella, Lavinaio, Marina, giro lunghissimo, in cui quasi tutta la Città si com prende, e poscia pel Largo del Castello si ridusse alla Reggia, raccogliendo ad ogni passo le stesse benedizioni, gli stessi applausi comuni.
Chi vide il giorno felice, in cui Ferdinando, chiamato dalla Provvidenza al Trono dei suoi Maggiori, percorse anche a cavallo la Capitale, preceduto dal corteggio più bello de' Re, la CLEMENZA, accompagnato dalla scorta più fedele de' Principi, i propri FIGLI,seguito dalla forza più imponente de' Monarchi, i CUORI di tutto un popolo devoto; costui vide pur troppo la fatidica immagine di onesto giorno di gloria. In quello, schiudeva Egli il fonte di molti beni per la nostra cara Patria, quel fonte cui cercava inaridire la già svelata fellonia del tenebroso GENIOdel male; in questo, che vivrà eterno ne’ nostri fasti, apriva Egli per noi un’era novella ed incomparabile, l'era della ristaurazione politica; e le presenti e le future sorti della redenta Patria in modo magnanimo, e con esempio unico, solennemente stabiliva. E non chiudeasi intanto quel giorno festoso, anzi la sera di quel giorno memorando, che col grido non mai interrotto, e che suonerà perenne nel cuore di tutti, col grido di giubilo e d’amore, di riconoscenza e di fede, di concordia e di pace.... Viva il Re! Viva Pio Nono! Viva la Costituzione!
Mentre le feste e i tripudii, la galleria pubblica e le luminarie grandi per tutta la Città oltre modo beavano gli abitanti di essa, e lieti a un pari rendeano circa sei milioni di abitanti; mentre tutti estimavansi quai dolci fratelli nel sacro vincolo di amor di patria e di libertà, di verità e di giustizia; mentre il fior de' Napolitani era tutto inteso a ben servire la Patria, non più col vigor delle braccia e con la punta della spada, ma con la fermezza de' cuori e delle tendenze in ogni buon volere, coll’acume della mente e col valor della penna; due gravissimi mali ancora sovrastavanci, la CONGIURA, la PERFIDIA,il TRADIMENTO,per questa nostra parte di Regno, e particolarmente per la Capitale; gl'intestini torbidi la guerra civile, la strage ed il sangue, pel sicanio suolo.
Era omai qualche tempo già valico, che, per opra iniqua e tirannica d’un formidabil COLOSSO,oramai abbattuto e distrutto, ogni nostro miglior giudizio era invilito e depresso, contrarialo e punito ogni pensiero; sì che orridi tempi e volere iniquissimo ci aveano dell'intutto immersi in un profondo torpore, in un umiliante abbrutimento, in una degradazione di specie, in un totale obblìo di noi stessi pur anche. E però, in cosiffatto stato di violenza costituiti, veniaci in odio non pur l’esistenza, ma la Patria; e alfine non più quasi dell’esistenza e della Patria eravam cosci a noi stessi.
E così tutti, o poco men che tutti, martellati eravamo da disperazione crudele; e tutti eravamo così mal vivi, che peggio che morte. Ma la voce di Dio rimbombò, ci volle salvi, ne suscitò a novella vita di gloria e di splendor nazionale. Gia tutti ritornammo e memori di noi, e cosci della nostra libera esistenza, e pieni di amore ardentissimo per la nostra Patria. Ma che? memori di noi per iscavare a noi stessi la tomba; cosci della vita per farne la vittima d’una novella congiura; più teneri della Patria per vederla irreparabilmente in preda a novelli disordini, à più gravi ed orrende sciagure; perocché si tentava d’intingerla nel sangue dei propri Cittadini, di obbligarci a lasciarla più trista nella memoria de' posteri, di darle per sempre un eterno addio!
Veglia però l'Eterno su' nostri destini! e presto o tardi come non lascia scevra di premiola virtù, così non permette che resti occulto od impunito il vizio. Il sommo Dio,
Che puote a untratto le più basse cose
Cangiar coll’alte; e spesse volte ancora
Colui che siede in cima, a terra abbatte,
E l’uom depresso a nobil grado estolle;
illuminò l’anima del nostro buon Sovrano a tempo, fu sventata e distrutta la macchinazione infernale, e perduto per sempre il reo POTENTE, che aveala iniquamente ordita. Fu del pari conquiso il potere di tutti coloro che aderivano al suo scellerato partito; fu represso l'ardire di quella perfida e perduta gente da lui traviata e corrotta; ritornò clemente e magnanimo, virtuoso e saggio quanto Dio lo creò, il nostro augusto Monarca; ed Egli è or quello che ne risuscita e rigenera, ne fa consci che siam vivi, vivi nella pace e nell’ardentissimo amore per la nostra Patria.
Per reprimer, intanto l’audacia malnata della popolare bruzzaglia, del compro e sedotto LAZZARISMO napolitano, energicamente raddoppiò di cure e di sforzi, di valore e di zelo la nostra GUARDIA NAZIONALE. Valorosa, impareggiabile, invitta, esempio raro di sì bella istituzione civica a tutta Europa, ha ella aggiunto, in cosiffatte circostanze, un novello serto a quella corona di gloria, onde in tutti i tempi, ed in tempi non men pericolosi e difficili di questi, si ha sempre cinta la fronte. Le tanto famose giornate del 15, del 20 e del 28 son tre volumi di storia chericorderanno ai posteri con venerazione ilnome de' cittadini napolitani; né altra contrada in Europa può vantare altrettanto.
La plebe guasta e corrotta, in cui dal DEMONEesecrato della rivolta si veniva soffiando il mal pensiero della rappresaglia, delle ruberie, del saccheggio, della strage financo de' cittadini già segnati e proscritti; la plebe, forte incitata al popolar tumulto ed alla sfrenata licenza, non che messa a ribellioni; contro il tradito sovrano e la parte migliore del nostro paese, già mostrava agli atti ed alle opere i più ribaldi proponimenti: ma la guardia nazionale, rafforzata pur anche da immenso stuolo di cittadini armati, eroicamente stornava la terribile catastrofe. Quanti sono, in effetti, uomini onesti ed amanti della pubblica tranquillità, sì napolitani che stranieri, correndo spontanei ne’ quartieri ci giugnevansi ad essa per accrescerne forza e valore, per dividerne ancora i perigli e la gloria. Né men si adoperarono, in così estremi cimenti e gravi necessità, a comun nostra salvezza le truppe napolitane e svizzere, concorrendo tutti e come bravi soldati e come onesti cittadini a frenare un rovescio di cose, che potea costare e molte lacrime e molto sangue. E però, la guardia nazionale, degna pur troppo di tutti gli onori ed encomi che vengonle prodigati da una riconoscente nazione da lei sì degnamente rappresentata, meritate più grate benedizioni di tutto il regno, i più vivi elogi del nostro generoso Monarca, ed i più alti incoraggiamenti del magnanimo Principe che ne presiede al comando.
Né men energica e salutare influenza spiegò, in tanto malagevol trambusto, sull'animo della plebe un uomo indefinibile e strano, che D. MICHELE VISCOSI comunemente si appella, affine di ritrarla compiutamente dal mal divisato proponimento, e così trionfare della sua cecità, non men che della fellonia di COLUI che aveasela adottata a cieco strumento de' suoi più neri disegni: ed eccone in qual modo.
Non pochi fra quelli che comprendono i princìpi ed il fine del governo costituzionale, godon di presente in lieta pace de' suoi prodigiosi effetti, e continuano la lor vita di tranquillità e di calma, Ravvi poi di coloro che han da luogo tempo nutrita la speranza di conseguire questa felicità per vedere innalzata ad alto onore la patria, ed ora con senno e con amor patriottico si danno a compier la grand’opera, accoppiando alle cure del governo le proprie, per via meglio promuovere il bene nazionale. La plebe inane, che vede quasi impazziti, entusiasmati ed ebri di gioia i cittadini, del continuo gridando: Viva la Costituzione! e che non solo e disposta a compiere le sue criminose vedute in questi tempi di pubblica allegrezza, ma e ancora perfettamente ignara di ciò che intender si voglia pel vocabolo COSTITUZIONE; non ravvisa ne’ cittadini che tanti suoi oppressori e nemici, e nella novella forma di governo una formate aristocrazia tutta intesa a comprimerla e schiacciarla.
In questo stato di cose, il tanto famoso D. Michele e divenuto l’istruttore del popolo basso, l’illuminatore del volgo stupido e ignaro. Molti predicano, scrivon moltissimi per persuadere la sciocca gente intorno ai vantaggi della Costituzione presente; ma il popolaccio non intende né legge; e però l’istruzione e la stampa non producon pienamente il lor effetto. L’uomo del popolo e corrivo più agevolmente al suo scopo. Percorre, in effetto, le più luride strade, si riduce volentieri nelle pubbliche piazze de' più plebei quartieri, sale sur una panca, fa un impasto della tribunizia eloquenza di Demostene, di Cicerone, de' Gracchi, di Antonio, di Fabio e del P. Rocco, si fa felicemente capire, piega e convince, persuade e trionfa.
Ed egli e por vero che, sotto la veduta appunto di siffatte cose, han gli uomini e straordinari del grosso popolo la lor importante missione: appariscon eglino di tempo in tempo nella ci vii comunanza, e abbattonsi tosto in una folla superstiziosa e cieca, ignorante e turbolenta: entran poscia secolei in una profonda simpatia, vi stringon fraternale alleanza, e, quai suoi custodi e duci, quali altre guide e salvatori, nobilmente affrettansi a donarle i comenti e le idee, ¡le istruzioni e i popolari dogmi, le istituzioni e gli schiarimenti, ch’ella istantemente loro inchiede; ed eglino impertanto pensano per lei, per lei agiscono, si affatican per lei, compier le fanno la sua destinazione, sono insomma per lei una provvidenza secondaria. Ove in effetto, per una di quelle contingenziali sciagure ond’è sì spesso colpita e travagliata l'oppressa umanità, venisser meno per lei questi amici dell’uomo, questi popolari istruttori, questi veri moderatori del cieco mondo morale, resterebbe fatalmente la povera plebe nella più assurda ignoranza immersa.
Imperò, tranne sempre la provvida influenza del supremo modarator della natura, tutto debbon a costoro le vulgari masse quel bene materiale, quei sospirati lumi, quei vantaggi tutti individuali, ond'elle godon eminentemente. Ne’ tempi quindi d’immaginazione istintiva e di poetica riconoscenza, avean somma ragione d'addimandarli grandi eroi, sublimi geni, figli del. sole, inviati del cielo; perocché realmente ne possedean eglino le virtudi e 'l carattere, i meriti e la missione. Ma gl'istruttori del popolo, reciprocamente, non han forse bisogno eziandìo dell’influenza delle masse? son queste forse tante inutili e vane esistenze per quelli, quando, ignorando elle stesse lo scopo degli avvenimenti morali o politici, ma forte stimolale da' loro desideri, spinte dal bisogno, agitate, impetuose, ansanti, fan loro ricorso, ne imploran aiuto, ne proclaman l’esistenza, li destan talvolta dal loro letargo, gli spingona grandi imprese, gl’invoglian ad azioni magnanime, ricordan loro sublimi destini; quando, con quella voce unanime, indistinta, confusa, ma penetrante e sensibile, con quell'accento grossolano e rozzo ma efficace e possente, con quel tuono ch’è tuono di Dio, altamente gli appellano, li circondano, gli esaltano e fan loro sentire quei misteriosi avvisi di superiorità e di gloria popolare, ond’è la lor anima violentemente trasportata?
Tutto viene, in effetto, dalla popolar mas sa, dall’aura vulgare della plebe, quel soffio maraviglioso, onnipossente, energico, che investe e colpisce Fattuale eroedel basso popolo tripolitano, internamente l’agita e scuote, gl'ispira patriottici sentimenti, pensieri di ordine pubblico, idee forti, sentite, vive, interessanti, idee di pace e di tranquillità sociale. Unanimemente gridan le masse: vogliamo ascoltare D. Michele! ed ei tosto indirizza loro la parola; ognuno l’ascolta con attenzione profonda; tutti pendon silenziosamente dal suo labbro; si fa mirabilmente capire da ognuno; e ad ogni sua frase popolarmente classica ed originale evvi appiccata e giunta una di quelle troppo espressive ed intraducibili apostrofi, che il popolo, lungi dal sentirsen punto od offeso, trova giuste pur troppo ed acconce alla sua situazione presente. Gl’improvvisati ed istintivi discorsi diquest'uomo singolare succedonsi di giorno in giorno, di luogo in luogo; la folla del popolo incessantemente lo circonda, lo segue da pertutto, gli si stringe intorno, e quando scende dalla sua bizzarra, bigoncia, una e la voce della folla che grida: Ha ragione, ha ragione; siam ora persuasi e convinti.
Ecco quanto dir puossi per ora di quest’uom singolare per eccellenza, di quest(')eroe famoso del popolo napolitano; ei sente forte il bisogno di possedere uno stuolo di esseri semivegetanti sottoposti al suo cenno, e questa folla e il suo tutto per lui, e una massa viva e passionata, e il complesso di tante anime simili alla sua, naturale solo d'attività e di energia materiale, d’istinti sensibili e grossolani. Ove manchi per poco la folla sì fattamente intesa, verrà meno altresì l'energia di quest'uomo sì strano; ei non vive alpresente, non ècapace di sentire la propria esistenza, che in mezzo alla loro società, in mezzo a questa povera massa, in seno a questo popol debole e bisognoso, ch’egli non lascia punto languire e appassire, ma stimola sì bene e scuote, liberamente istruisce e persuade. —
Un’altra non lieve cagione ha contribuito ancora in gran parte a far cessare o spegner dell'intuito, in questi stessi giorni, il tumultuoso movimento pur troppo sviluppato nella sedotta plebe; vogliam aire la bella virtù dell’umanità e della beneficenza, che, tutta propria del nostro paese, non si è mai tanto manifestata che in cosiffatte circostanze e fra tutte le classi della società. E però soscrizioni d’ogni maniera a pro de' bisognosi si son già fatte, e si van facendo tuttavia, tutte proficue e di considerevoli somme. E non solo uomini di gran merito e per fama onestissimi sono a capo di queste spontanee e generose largizioni, ma molte cospicue signore e rispettabili dame del paese eziandìo; sì che tutti a gara concorrono, e con la massima attività, al compimento d'un’opera sì magnanima e bella. Un’altra rilevante somma pur si raccolse in pochi istanti, ed in mezzo a parecchie società di ragguardevoli personaggi, che venne tosto distribuita a taluni già condannati per cagioni politiche, e che ora con ampio perdono sono stati aggraziati dal generoso Monarca:
A quanto si èdetto in poche parole, relativamente alla pietà de' nostri generosi cittadini onde mossersi a venire in soccorso dei fratelli sventurati, fa di mestieri aggiungere, per la verità de' fatti non men che per l’esattezza e fedeltà, storica, che alla carità cittadina accoppiossi pur anche l’imponente necessità di conservar l’ordine e la quiete pubblica; e però inevitabile una privata contribuzione avantaggio de' poveri e de' bisognosi. Alcuni disordini cagionati in questi giorni da pochi del basso popolo, han turbato alquanto la nostra gioia comune; la quale se non cangiossi in terribil tutto per questa Città, fu per opera della nostra Guardia Nazionale, che, pel coraggio e zelo mostrato nelle presenti vicende, come dianzi si è detto, merita una pagina gloriosissima nella storia della nostra politica rigenerazione.
Il nostro basso popolo, ingiuriato e vilipeso negli scritti d’oitramonte, e nondimeno d’indole buona e pieghevole; ma la miseria e la seduzione son triste consigliere al mal oprare; e quando ad esse va congiunta la più stupida ignoranza, che cosa non si dee temere dalla malignità e dalla ferocia, dall’ambizion cieca e tracotante di CHI sollecito fassi a spingere questi esseri sventurati al sangue e alla rapina?
E però fudovere di tutti, e nel santo scopo di porger soccorso ai miserabili, e di provvedere alla tranquillità sociale, e d’invigilare alla propria sicurezza, il venir ad una generale contribuzione, che fosse baste vole a rimetter la calma nelle basse classi, in fino a quando le nostre Camere non proporrebber leggi ed ordinamenti acconci a render il popolo più colto e quindi men bisognoso. —
Toccato avendo rapidamente de' mali, che stavaci preparando l’inaudita fellonia dell’abbattuto MOSTRO di Averno, e che furon provvidenzialmente superati e vinti, non fia ora superfluo né vano lo spender anco qualche molto intorno alle calamità e sciagure, che sovrastavano orribilmente alla Sicilia, mentre avea luogo nella nostra Capitale quanto per noi si è già brevemente accennato. Imperocché ne’ mutamenti di governi, e sovra tutto nelle rivoluzioni, o nelle guerre civili, come gli avvenimenti moltiplicansi, ed i fatti politici vansi sempre più di giorno in giorno sviluppando, così e debito sacro d’uno storico contemporaneo l’accennar tutto, e nulla trasandare di tutto ciò ch'è più essenziale ed interessante, sia per l’intelligenza particolarmente de' posteri, sia per la storica fedeltà ed esattezza sovra tutto, che non deesi in nulla guisa, e per niuna ragione, violare.
La Sicilia, sin da parecchi anni cominciò a sentire i danni d’una ferrea mano ministeriale, che, lungi dal lenire le sciagure cagionate a quell'Isola dalla perdita di migliaia di reputati cittadini, e delle migliori sue glorie, si appesantiva via più, ed imbrandendo la sferza del vitupero, accagionavala ne’ fasti della storia ed immiserivate ad un tempo. Un tristo GENIO, che aveva in pugno il Ministero, fu il fabbro fatale delle sue sventure, l’Attila d’un tal dramma, l’eroe crudele di quella luttuosa catastrofe. Per cosiffatta cagione sovra tutto, e per quell'altra ancora ch'essi per noi dianzi accennata e sposta, cominciò Palermo a meditare quella rivoluzione, che or non ha guari, con esempio straordinario di coraggio, e sì orribilmente scoppiata.
Affine però di evitare, nel miglior modo possibile, lo spargimento di sangue cittadino, senza voler intanto rinunziare ad una riforma governativa, non che alla restituzione de' suoi antichi diritti, cominciò a pubblicare colle stampe moderate memorie sulla necessità d’un’assoluta riforma. Passò poscia più in là, e venne dignitosamente alle civili dimostrazioni; ma restando ancor queste affatto scempie del lor effetto, pubblicavan pei torchi un Proclama, nel modo che segue:
«Il giorno 12 Gennaro 1848, all’alba, segnerà; l'epoca gloriosa dell’universale rigenerazione. Palermo accoglierà con trasporto quei Siciliani armati che sIpresenteranno al sostegno della causa comune, affine di stabilire le forme e le istituzioni analoghe al progresso del secolo, e volute dall'Europa, dall’Italia e da Pio Nono.
«Unione si richiede, ordine, subordinazione ai capi, rispetto a tutte le proprietà; il furto dichiarerassi tradimento alla causa della Patria, e come tale severamente punito Chi è mancante di mezzi, ne sarà provveduto. Con questi princìpi, il Cielo seconderà la giustissima impresa. — Siciliani! all’armi!».
A tal proclama succedeva una dichiarazione, e ne valeva quasi come un’istruzione, al pubblico, e che oggi e la più bella giustificazione del popolo di Palermo, al cospetto di tutta l’Europa. Era ella concepita nel modo seguente:
«Dichiarazione. Le masse armate che dall’interno del Regno correranno a prestar mano forte alla causa Nazionale, prenderan posizione ne’ vari punti delle campagne indicate da' rispettivi condottieri; costoro dipenderanno dagli ordini dei Comitato Direttore composto de' migliori cittadini d’ogni ceto; la popolazione di Palermo uscirà armata di fucili, all’alba del 12 Gennaro, mantenendo il più imponente contegno, e si fermerà nelle parti centrati, aspettando i Capi che si faranno conoscere. Non si tirerà sulla truppa, se non dopo serie provocazioni ed aperte ostilità; in questo intervallo, niuno ardisca di criticare gli ordini ed i provvedimenti del Comitato; ciò e del maggior interesse, perché non si alteri l’esecuzione del piano generale diretto ad assicurare i destini della Nazione e la salute pubblica; qualunque movimento, che sarà suscitato in Palermo, e fuori, prima del giorno 10, si avverte di esser manovra di quella Polizia che tenta aggravare le pubbliche catene. Non si domanderanno contribuzioni ai proprietari, quando non sono volontarie e spontaneamente esibite; servirà ciò per ismentire solennemente quanto dalla Polizia vassi con impudenza. praticando, affine di discreditare il Comitato incapace di esercitare concussioni di migliaia di once a carico di. negozianti e proprietari.»
Spuntò finalmente il giorno 12 Gennaro, ed il popolo di Palermo fu aggredito da' soldati che chiamava fratelli. Ai primi atti ostili, taluni cittadini fra' più coraggiosi e prodi, impugnaron le armi, e, valorosamente combattendo sino ¡a sera, ridussero la truppa avia dileguarsi dalla città. In questo primo scontro, pochi furono i feriti dalla banda del popolo, pochissimi i morti; i soldati nondimeno patiron gravi danni, ed oltre a duggento prigionieri furon fra le braccia de' palermitani, che prodigaron loro i dolci e cari nomi di cittadini e fratelli.
Il giorno 13 poi, per ordine di. De Maio, cominciò il bombardamento che prolungavasi per anco con la notte. Intanto i combattimenti in quel giorno eransi forte ringagliarditi. La truppa era tutta ne’ forti e ne’ quartieri concentrata. Si deliberò di far uscire la Cavalleria, che al primo scontro fusbaragliata e quasi distrutta dalla formidabile squadra condotta da Salvadore Miceli di Monreale.
In questa, il Comitato Provvisorio accompagnato dal popolo si ridusse alle case dei più cospicui cittadini, caldamente invitandoli a concorrer secoloro alla difesa comune; e vi aderiron tutti con generosa effusione di cuore. Stabilironsi perentoriamente quattro Comitali, ossia Direttori, uno per la finanza, uno di sicurezza e difesa, uno per l’annona, un altro di guerra. Designaronsi i luoghi più acconci ed opportuni, per deposito di vettovaglie, e munizioni da guerra.
Il giorno 14, seguitando ancora le bombe e le mitraglie, riunitosi novellamente il Comitato Provvisorio, con sua deliberazione pubblicò i componenti de' diversi Comitati, nella seguente guisa:
«Art. 1. Riunita la municipalità del Comitato Provvisorio accompagnalo dal popolo, si è stabilito di farsi un comitato per provvedere a tutto ciò che riguarda l’annona, preseduto dal Pretore, e composto di Senatori e Decurioni presenti.
«Art. 2. Si è composto il Comitato per provvedere ai mezzi di trovare e somministrare le munizioni da guerra, e tutt'altro che concerne il buon andamento della pubblica sicurezza, preseduto dal Principe della Pantelleria, e composto de' signori Duca di Gualtieri, Riso, Balsamo, Vengara, Caloña, Gravina, Rammacca, La Masa, Porcelli, Pilo, Capace, Bivona, Villafiorita, Castiglia.
«Art. 3.° Si è composto un Comitato per raccogliere tutte le notizie di tutti e singoli gli avvenimenti che succederanno, e poscia divulgarle con esattezza, preseduto dal sig. Maresciallo Settimo, e composto de' signori Duca di Terranova, D. Calvi, Errante, Beltrani,Pisani, Manzone.»
Gli attacchi intanto con la truppa proseguivano gagliardamente, anche perché rinforzata da una spedizione arrivata colà da Napoli, sotto il comando del generale De Sauget; il quale, partendo la sua truppa in Quattro Sezioni, pensa farla marciare sopra Palermo. Qui la carnificina fu sanguinolenta, inenarrabile; e però fa d’uopo batter ritirata a spron battuto.
Il Comitato di guerra intanto, il giorno 17, pubblicava i seguenti bollettini:
«Il Monrealese Salvadore Miceli attaccò e sconfisse, il 13, la Cavalleria in Palermo. Il 14 si batté con la truppa in Monreale, ed obbligolla à rendersi verso le ore 20. Fece dono della vita a tutti coloro che si arresero e dispose che si organizzasse la guardia Nazionale. Adesso e fra noi alla testa di 100 valorosi, che fra poche ore saranno seguiti da parecchie centinaia. Sia 'lode à lui.
«I valorosi Signori Porcelli, Giaciuto, Carini, La Masa,Iacona, Bivona, Oddo, Bastiglia, al cui fugace ardire dobbiamo l’acquistodi varii cannoni, Pasquale Bruno, che ieri si distinse nel conflitto di Porta Macqueda, e gli altri capi di squadra, combattono vincendo.
«Il prode Giuseppe Scordato, dopo di avere disarmata la truppa in Bagaria sua patria, menando seco a Palermo la vinta schiera colle armi deposte, ed un cannone ch’ebhe il destro di prendere in un luogo da lui conosciuto, e da tre giorni in Palermo, ove sempre combatté e vince. Ieri, dopo pranzo, la banda da lui guidata sbaragliò la troppa adunata nel luogo del Palazzo Reale. Sia a lui ed ai suoi meritamente dovuta la comun lode. Il Presidente del 4 Comitato. Firmato Ruggiero Settimo».
Il giorno 18 poi, un altro bullettino dello stesso Comitato era concepito in questi sensi:
«Un gentiluomo inglese, che per sola modestia vuole che se ne ignori il nome, ha posto a disposizione del Comitato di pubblica sicurezza e difesa tutte le munizioni di guerra che si trovavano nel suo legno, e con magnanime parole ha solennemente dichiarato esser pronto ad eccitare le simpatie della sua potente Nazione, e del mondo intero, per la virtù e per l'eroico coraggio con cui un popolo oppresso ha scosso il suo giogo.
«L’Americano Valentino Mott-Jan, spinto da quei sensi generosi che trovansi solo in popoli liberi, degni pur troppo di esserlo, sin dal giorno 12 prestò l'opera sua pietosa e salutare con brava perizia, e mirabile, su i feriti. Egli ha pianto alle nostre lacrime, ha sorriso alla nostra gioia, risguardando la nostra città come sua patria, perché gli uomini virtuosi, di qualunque paese, fra loro sono sempre in famiglia».
Il giorno 19 poi cominciò la seguente corrispondenza fra il luogotenente generale ed il Pretore di Palermo, nel seguente modo concepita:
«Eccellenza, lo spargimento del sangue cittadino e ben doloroso; se potete recarvi da me, avvalendovi dello stesso mezzo di ieri, potrei proporvi qualche altro più efficace temperamento, affine di evitare il male per quanto e possibile. Firmato De Maio Luogotenentegeneral e».
Ed il Pretore tostamente rispose:
«Eccellenza, la Città bombardata da due giorni; incendiata in un luogo che interessa la povera gente; io assalito a fucilate da' soldati, mentre col Console d’Austria portato da una bandiera Parlamentaria mi ritirava; i Consoli esteri ricevuti a colpi di fucile, quando preceduti da due Bandiere bianche si dirigevano a Palazzo Reale....... men|re il popolo, rispetta, mentre tratta da fratelli tutti isoldati presi prigionieri: questo è lo stato attuale del Paese. V. E. se vuole potrà dirigere al Comitato generale di pubblica difesa le sue proposizioni. Il Pretore. Firmato Marchese di Spedalotto».
Le truppe intanto, bivaccate ne’ dintorni di Palermo, prive di vettovaglie, menomate da' monti, scemavano della loro forza morale e materiale di giorno in giorno, e, nella speranza di guadagnar colle trattative, ciò che le armi avean loro negato, incalzavan forte De Maio pel disbrigo della faccenda; di qui. la cagione d’un’altra corrispondenza col Pretore. Ed eccone in qual guisa:
«Eccellenza, per terminare al più presto possibile ogni cosa, e necessario che S. M. sappia ciò che il popolo di Palermo desidera, senza di che non si può divenire ad alcuna trattativa. Per parte mia non mancherò di spedire in Napoli il vapore, e potrò cooperarmi di sommettere alla M. S. il mio sentimento, sperando che le domande siano moderate. Io vi prego di darmi una pronta risposta; intanto non tirerò un colpo di moschetto, purché dalla parte del Popolo si agisca ugualmente: aspetteremo quindi la risposta di S. M. non potendo da parte mia nulla decidere, e non avendo altra facoltà che quella di sacrificarmi pel servizio del Re. opero che V. E. voglia accogliere questa mia preghiera, la quale tende alla pace ed alla prosperità de' Cittadini. — Palazzo 19 gennaro 18|8. — Il Luogotenente Generate. Firmato De Maio.»
Ad una siffatta lettera, o protesta che sia, venne incontanente risposto nel seguente modo:
«Eccellenza, Ieri ebbi l’attenzione di far conoscere a V. E. che le proposizioni dovean esser dirette al Comitato general e; ho comunicato subito la lettera che ora mi ha scritto, e questi signori non possono che esprimere l’universale pensiero. Il popolo coraggiosamente insorto non cederà le armi, né sospenderà le ostilità, se non quando la Sicilia riunita in general Parlamento in Palermo, adatterà a' tempi quella sua Costituzione che giurata da' suoi Re, riconosciuta da tutte le Potenze, non si è mai osato di togliere apertamente a quest’Isola;. senza di ciò, qualunque trattativa e inutile».
Poco dopo, il Luogotenente generale indirizzava altro foglio a S. E. il Pretore, siffattamente concepito:
«Eccellentissimo Sig. Marchese, ho ricevuta la sua lettera di oggi, e son contento di conoscere alla fine quali siano le intenzioni del Popolo Siciliano.
«Di riscontro, ho l’onore di manifestar le che vado. subito a sommetterle a S. M. per quelle determinazioni che stimerà di emettere nella sua saggezza. Sono con sensi di alta stima. — Firmato De Maio.»
Alla precedente lettera si rispose incontanente nel laconico modo che segue:
«Eccellenza, ho ricevuta la risposta di V. E. e l'ho comunicata al Comitato, il quale insiste nelle idee già manifestate. Sono con sentimenti di distinta stima. Il Pretore firmato Marchese di Spadalotto.»
Il giorno 21 poi, verso le ore 22, le squadre di Palermo si ricoprivan di gloria e cignevansi di novello alloro la fronte. Marciavano ordinatamente e con marziale intrepidezza, sotto la rispettiva Bandiera Tricolore, al più ostinato e nero combattimento; ed impegnavasi la pugna con molta gagliardia e furore contra le truppe, disposte nel largo del Palazzo Reale in ordine di battaglia. Sinistre ed allarmanti voci eran corse d'insulti commessi dalla sfrenata soldatesca (e che non osa e non tenta, ne’ tristissimi casi di guerra o di civili tumulti, la militar licenza?) contro le infelici Monache dell’Educandario di Sales; e le povere donne rinchiuse nell’albergo fuori Porla Nuova, del paro che le Claustrali di S. Elisabetta, eran minacciate dello stesso infortunio.
E però vi accorsero tostamente le squadre cittadine, con deliberato animo di evitare ulteriori e forse più gravi disordini ed attentati. Un’apertura fu praticata con molta rapidità dietro il Monastero, e ne uscivano a stento l’una dopo l’altra le Monache, spaventate, derelitte, smarrite assai meno pel timor della morte che potean incontrare fuggendo in mezzo ad una grandine di palle, che pel corso pericolo cui vidersi fatalmente, esposte; avean quindi ricetto e sicurtade in più sicuri ostelli, scrupolosamente scortale da civiche ed onorate bande.
Il vasto fabbricato intanto di S. Elisabetta in un attimo occupossi dal popolo, ed un cannone venne piantato sulla soglia del Parlatoio; attaccossi repente una forte mischia tra le squadre liberali, la truppa del Palazzo Reale e del Quartiere S. Giacomo. In questa, le squadriglie di Santoro e di Scordato, dopo tortuosi giri a traverso de' giardini adiacenti, sbucaron ratte contro i Quartieri Borgognoni e Vittoria. L’assalto allora fu general e; terribile ed accanita la zuffa. Sopraffatta e costernata la truppa da un brulichio di palle, fuggissi alla sciamannata per Porta Nuova, avendo appena libero scampo da potersi rifugiare nel Quartiere S. Giacomo, il quale sovrabbondava di spenti soldati che infelicemente avean sostenuto il conflitto, e poscia sbaragliati dalla mitraglia di S. Elisabetta, del pari che dalla fucileria di tutti i lati. Allora il cannone del Bastione, tirando a raccolta, chiamò entro il Palazzo e nel Quartiere i superstiti dalla zuffa, e la notte ben inoltrata mise termine a quella lacrimevol pugna.
Oh!quanta strage e quanto cittadino sangue risparmiato sarebbesi, se di miglior senno o di maggior saviezza e prudenza si fosse allora fatto uso!... —L’autore intanto e comandante del bombardamento di Palermo, addatosi di non poter d’avvantaggio star chiuso in quella città; vedendosi pur troppo mal ridotto, sfornito di sufficienti truppe, e cinto dapertutto di pericoli in mezzo a nemica gente, fuggivasene solo, e di notte, in compagnia del suo confratello d’armi Vial, che non è mica quello che leggesi nelle immortali storie di Napoleone.
Allora la truppa ivi raccolta aprissi un varco. per di dietro il Palazzo, uscendo fuori Porta Nuova in mal ordine e scomposta, affatto scema di forze e di regole militari, sì che l’artiglieria, che di retroguardia anche essa fuggiva, pestava e stritolava alla rinfusa quanti feriti o moribondi incontrava sotto le sue precipitanti ruote. Ed eran corpi di commilitoni d’armi che, precipitevolmente fuggenti, inconlravan ferite e morie dovunque; perocché, avvistisi gli agguerriti popolani di quella subitana fuga, tenner loro agguato, e quanti poteron colpire colpirono, e quegli altri che scampavano per ventura le palle de' prodi Palermitani, trovavan sciaguratamente nelle più folle tenebrìe della notte, nelle zampe de' cavalli, fra le ruote del treno, e negli stessi colpi de' loro fratelli d’armi, inevitabil morte.
E tanta strage, e tanti cadaveri, e tanto sangue, furon immolati alla codardia d’un SOLO, che, comunque sbalzato da queste nostre contrade, ed esule in estranea terra, forse ora insulta e maledice la nostra patria, o pure, qual altro Nerone, nella sua tranquilla e mostruosa apatia superbamente la deride.
In simil caso, e forse in più trista posizione, il general Pepe, il cui nome soltanto vale un elogio intero, e da un capo all'altro del nostro Regno rimbomba, salvar seppe la truppa, sedare i popolari tumulti, e render a un tempo il più alto servigio al Re, il quale, se comanda adempimento della militar disciplina, l’inviolabilità della Fede e del sacro giuro della pubblica difesa, diciamolo pur francamente e ad alta voce, non ha mai inteso ordinar l’assassinio, la distruzione e l’orrendo scempio de' suoi amantissimi sudditi; perocché a chi ha dato quella spada e quella divisa, ha detto: Difendete le leggi, e non assassinale le proprietà; battete il nemico, e non massacrate i vostri subordinati; siate insomma uomo d’onore, ove pur non siate di prodezza e di coraggio fornito.
Palermo intanto, sgombro affatto d’armi e di armati, come dianzi per noi fu già detto, ad altro non tende che al civile riordinamento ed al ben essere de' cittadini, colla sola guarentigia della sua Costituzione, con l’alacre operosità de' suoi prestantissimi Rappresentanti e col buon volere di tutti. Ove nondimeno un altro ordine di cose sia per succedere all’attuale stato precario, in coi di presente la Sicilia ritrovasi, ci riserberemo altresì di farne alcun motto, pria di chiuder la fedele ed esatta espostone storica de' nostri principali avvenimenti. —
Mentre intanto il nostro Re coscienziosamente ispiravasi al saluto di riconoscenza che gl’indirizzava questa nostra Patria gratissima, per la concessa Costituzione; quando il pubblico intero esultava di gioia verace ed altamente sentita, per la caduta dell’empio POTENTEe del TRADITORE della Patria; mentre col suo allontanamento ed esilio, si vedeva già estinto nel Regno il doloroso grido dell’oppressione e dell'affanno, dell’assurda tortura e della penace agonia; quando gli animi tutti, in una parola, eran forte invasi da viva allegrezza pel libero godimento di miei diritti ch’eransi riconquistati col prezzo di tante vite, e coll’effusione del sangue fraterno suggellati; era forza di destino che una tanta esultanza esser dovesse ancora avvelenata dai casi tristi avvenuti in Salerno, per difetto di pronta partecipazione del Decreto del 29Gennaro. Nel piùforte del loro entusiasmo e della smodata allegrezza in cui vivamente prorompeano quei festosi abitanti, assaliti a un tratto dalla truppa, ebber a piangere qualche morto ed alquanti feriti. I casi del Cilento però furon molto più tristi e desolanti. Il giorno 31, i liberali, che in numero imponente eransi riuniti al Vallo, venner impetuosamente aggrediti da una colonna di Regii con poderosa e formidabile artiglieria, sì che fu con sacrificati e divenuti martiri della già conseguita rigenerazione oltre a cento generosi. Giustissimo Cielo! chi mai pagar dovrà tanto sangue cittadino sparso senza necessità? Come mai sollevare tante vedove desolale ed afflitte, tanti infelici ed innocenti pupilli, che avranno quei cittadini lasciato nella miseria e nel duolo, nel piantoe nel lutto? — Un avvenimento sifatto ha in gran parte converso in profonda mestizia la gioia; perocché il sangue de' cittadini, senza bisogno e senza scopo versato, e sangue preziosissimo per tutti, e non mai abbastanza rimpianto. —
Pur troppo degno inoltre di storica rimembranza e il considerare che, mentre il popolo napolitano era da un lato gravemente oppresso per siffatta sventura, e pienamente contento dall’altro, perché vedeva accolti i suoi voti e non mezzanamente esaudito il comune suffragio dal magnanimo Principe, che tanta prova di civile sapienza aveva data all’Italia; il Carnefice di questa oppressa Capitale, della Sicilia e delle Calabrie, il demone della Nazione, il flagello vivo de' popoli, l’uomo della corruzione e dell'esecrata ferocia, fuggiva di Napoli sul pacchetto da guerra, il Nettuno, con provvida destinazione Sovrana di dover fermare a Livorno. Ma (tratto tremendo di divina giustizia!) non tantosto udissi la novella dell’odiosa presenza di quel fello traditore della Patria e del Re, che un sentimento istintivo, general e, irresistibile d’indignazione s’impadroniva di quegli animi generosi; e la troppo viva memoria delle tante vittime sacrificate al suo genio tenebroso ed infernale, fremer faceandi giustissima ira e di magnanimo sdegno. E però un immenso stuolo di Livornesi, tutti frementi e concitati a furore, ridersi a un tratto schierati su quella spiaggia, altamente protestando contro di lui. Il capitano del vapore inchiese intanto qualche provvigione di acqua e di carbone, affine di proseguir oltre il viaggio; vociferassi che il Nettuno fosse diretto a Tolone, per chiedere il soccorso d’una squadra Francese, e si risvegliò unanime un volere che non gli si fornissero i mezzi per continuare il viaggio. Allora il Comandante del posto, da una civica Deputazione seguito, recossisul Nettuno; espose la volontà del Governo di conceder l’acqua e 'l carbone; fè manifesta l’opposizione del popolo su quel sospetto fondata; e 'l Capitano del Legno, portando la mano sul cuore, lealmente rispose: «Sono italiano anch’io; son vecchio; sono ufficiale d’onore; considero i Livornesi come nostri fratelli; i sospetti del popolo sono scevri di fondamento; non però di meno, più tosto eh esser causa innocente di disturbo 0 di popolare tumulto, accada che può, io porrò immantinente alla vela.»Di se, accomiatassi, partì. —
Intanto il Ministro Ridolfi area pubblicata la notificazione seguente:
«Il Battello a vapore, il Nettuno, dee proseguire il suo viaggio. Mancando di carbone e di acqua, sulla dichiarazione giurata del suo Comandante, e dovere d’umanità il provvedercelo; e già si son dati gli ordini opportuni, perché ciò sia fatto. Il Governo ricorda che non transigerà mai col tumulto, e molto meno quando avesse per oggetto un fatto inumano.»
L’intempestiva partenza del vapore fè mancare di esecuzione l’ordine governativo, né si ebbe luogo a sperimentare se la resistenza popolare sarebbe pur anche durata dopo la dichiarazione del Capitano.
La Guardia Nazionale di quel luogo manifestava inoltre, in su la sera,, la dichiarazione infrascritta:
«La Guardia Nazionale ha ed avrà sempre per nemici tutti coloro che ardiscono sperare nel disordine; e questi, non potendo accusarla per fatti avvenuti, vanno immaginando fatti futuri per denigrarla malignamente. Affine di confonder costoro, i sottoscritti uffiziali della Guardia Nazionale senton forte il bisogno di dichiarare al Pubblico, ch’eglino dividen col popolo un senso di profonda indignazione contra un Carnefice; e però provavan somma ripugnanza di soccorrer COLUIche macellava ieri i loro fratelli italiani.»
«Dichiara inoltre solennemente, che in ogni occasione avrà sempre per nemici i nemici veri d’Italia, qualunque essi sieno; perché là Guardia Nazionale non fu, non è, né sarà mai un cieco strumento di servitù; palladio sì bene dell'ordine pubblico, per conseguire colle virtù cittadine e coll’armi alla mano l’Indipendenza Italiana.»
Questi fatti furon da diversi diversamente giudicati. Noi diremo là nostra opinione con quella storica imparzialità, che la coscienza profonda dei vero pienamente ci detta.
Il sentimento, che mosse il popolo Livornese a protestare contro la presenza dell’inviso TIRANNO, fu italiano e generoso oltre modo. In altri tempi, ed in circostanze diverse, ov’egli fosse per avventura approdato in quella spiaggia, niuno certamente si sarebbe ricusato di prodigargli accoglienza ed ospitalità. Oggi dalmanigoldo della nostra Patria, della Sicilia e delle Calabrie si reputa non mezzanamente offesa tutta la famiglia italiana; oggi lega e giugne infra loro gl'Italiani tutti un’intima solidarietà di sdegno e d’amore, di simpatie e di antipatie, di avversioni e di tendenze; e però l’abborrita presenza dell’innominato FELLONE nel porto Livornese, destò incontanente un senso d’indignazione e di orrore, come se fosse approdato ad un porto di Napoli. Ed e questo fatto una testimonianza novella della patriottica fratellanza, del sentimento nazionale, mirabilmente propagato e trasfuso in tutte le classi del popolo italiano. Il Pubblico Livornese impertanto non fé resistenza alla somministrazione degl'inchiesti alimenti per punire esclusivamente delle tante sue colpe quell’espulso RIBALDO,ma per impedire eziandìo che proseguisse il viaggio, in pregiudizio de' nostri concittadini e fratelli.
Mentre quell’uomo della ben meritata sventura, il cui nome si era reso immortale e nell’Italia ed in tutta l’Europa, da Livorno passava a Gaeta, in attenzione di novello destino, dalle acque di Gaeta a Genova, da Genova a Marsiglia, da pertutto subendo la stessa sorte, da ogni banda reietto, preceduto da vergognosa fama, coscienziosamente accompagnato dagli stimolanti eculei del rimorso, del continuo martellato 'da' latrali orribili della tumultuante coscienza, seguito peranco dalla tristissima opinione che lasciava di sé presso l’universale; mentre iva errando notte e giorno ne’ vasti spazi del mare, tutti trascorrendo i più terribili perigli, e sempre fuggendogli dinanzi quella tradita patria cui non avea più speranza di rivedere; mentre infine correa vario il sermone di esser egli stato sbalzato' in una delle africane spiagge, e fervidi voti elevavansi al Cielo di non farlo penetrare sin nel centro dell’Africa, per tema che, stringendo alleanza colle pantere e colle tigri, cogli orsi e co’ leoni, ed elevandosi a capo e re di quelle belve feroci, non irrompesse poscia in queste nostre pacifiche contrade, per far di noi orrendo strazio e pastura; tutto era tranquillo nel nostro Regno, e tutto ispirava pubblica gioia, alla consolante idea che la nostra cara Patria da un e poca di violenza e di crisi, di tradimenti e di oppressioni, passava ad un’era novella di moderata e saggia libertà, d’organamento d’ordine e di sociale progresso; sì che le lacrime, non più della disperazione e del lutto, ma della tenerezza e del contento, spuntar vedeansi sul ciglio de' redenti fratelli. E tutta la Cittade allora che tanto di libertà si andava acquistando, per quanto più generoso mostravasi il cuore del nostro prediletto Principe, raccoglieva in nno gli ardenti voti comuni, gl'indirizzava all'Eterno per la prosperità e salvezza della Patria e di chine regge i destini, stringeasi co’ nodi più santi di fratellevol ricordanza ai siciliani fratelli, e, spargendo insieme lacrime e fiori sulle gelide urne de' Martiri della comun redenzione, intuonavan da pertutto coll’effusione di cuori italiani l’inno di pace e di libertà.
Néquesti sentimenti di gioia e di vivissimo entusiasmo provavansi allora soltanto da' generosi cuorinapolitani, meritamente risguardati come una sola ed ampia famiglia; ma sviluppavansi eziandìo in tutti gl'italiani petti solidariamente giunti fra loro con saldissimi vincoli di nazionale patriottismo. Imperocché, se non havvi alcun dubbio al mondo che il trasfonder negli animi un fermo convincimento de' più solidi vantaggi provvenienti dal novell’ordine di cose già stabilito, e lo stesso che strignere in indissolubil guisa le presenti generazioni della nostra riscattata penisola; e pur troppo vero altresì che tutti gli sforzi attuali ad altro altissimo scopo non mirano che a concentrar sempre più tutti i sentimenti generosi in un’energica devozione al compimento finale della causa comune d’Italia.
E però non sia sorprendente l’udire che il fausto annunzio delle napolitane riforme, appena pervenuto nella Città di Pisa destò repente in tutte le classi de' cittadini un’inconcepibil sensazione di gioia. La sera di quel giorno in cui vi giunse la novella, una bandiera Nazionale con questo molto scritto: VIVA IL POPOLO DILLE DUE SICILIE, sventolando in mezzo alla Platea del Teatro, fu sufficiente ad entusiasmare quanti vi si trovavan presenti. I gridi di plauso unanimemente indiritti a questi nostri rigenerati fratelli, furon vivi ed energici. Da tutti i palchi, del pari che da tutti i punti della platea, intrecciavansi con dolce simbolo di fraternale unione i fazzoletti e le sciarpe; da ogni banda vidersi in un attimo spiegare congioia tricolori vessilli. I cantanti unironsi insieme agli spettatori, e tutti in uno a festeggiare impresero questo avvenimento solenne; cori nazionali; furbo cantati a un pari dal palco e dalla platea con mirabil concerto. Uscita poscia dal Teatro la folla festosa, preceduta da Banda armoniosa, a percorrer fessi le principali vie della Città, cantando i soliti cori, e ripetendo sempre gli stessi gridi di gioia. Dalle finestre delle case poneansi fuori i lumi, e facevasi eco alla popolare esultanza. La moltitudine quindi si dissipò senza che venisse alterato né punto né poco l’ordine pubblico, senza che si elevasse neppure un accento da interrompere la serenità della festa. Nel suo insieme, una dimostrazione siffatta, comunque improvvisa e tutta istintiva, non potea riuscire né sperarsi più bella. Tutti intanto quei generosi Napolitani e Siciliani, che han loro soggiorno in Pisa, non obbliaron punto di profonder lodi e ringraziamenti ai magnanimi Pisani per le loro manifestazioni di nazional simpatia, che forte gli appicca ai nostri concittadini, i quali co’ lori memorabili sforzi han quasi compita l’opera santissima della Ristaurazione Italiana. I nostri cuori, andavan gridando que' confratelli diletti, han seguito da lungi e con palpiti ogni loro passo in così malagevole impresa; noi gli abbiamo veduti risorgere come l'Antèo della favola contra la detestabil clava, che tentava tenerli nell’oppressione e nel fango, nell’avvilimento e nel nulla eglino han vinto e trionfato nella durissima lotta, e questa loro vittoria, questo segnalato trionfo, riempie di gioia ogni cuor generoso: non mai causa di popoli e stata più ostinatamente combattuta, né più santamente guadagnata e vinta. — Noi pur saremo, non andrà guari, ai nostri prodi connazionali gl'interpetri fedeli de' sentimenti nobilissimi manifestati da' Pisani nell'occasione della loro vittoria, e viviam certi che li gradiranno assaissimo come degni dell’affetto che provan per essi i loro veri fratelli.
A questi stessi tempi, gli Stati Uniti di America han fatto intendere alle alte Potenze Europee, che, sul conto dell’Italia, si associno anch'essi alle idee britanniche, e che son di cuore disposti ad assumer la protezione della nostra Penisola; sì che, guarentendone altamente la sicurezza nella via del totale e compiuto risorgimento, renderan sacro ed inviolabile il non intervento straniero. E però tutto annunzia che in breve l’Italia, infranto generosamente l’ultimo anello di sua lunga e crudel catena, risorgerà grande e gigante, indipendente e donna com’era.
Né sia qui discaro al lettore il veder all’uopo fedelmente riportata la generosa lettera, dagli Stati Uniti Americani a' Pio Nono indiritta, la quale in siffatta guisa venne vergata:
«Venerabile Padre, il popolo degli Sfati Uniti ha veduto con profondo interesse le circostanze che hanno seguito il vostro innalzamento al Sommo Pontificalo, e questo interesse ha preso oramai le progressioni d’una simpatia e d’un’ammirazione senza limiti.
«In nome d’una parte di questo popolo, noi vi offriamo l’espressione di questi sentimenti di rispetto e di alta approvazione che animano l’intera Nazione.
«Noi c’indirizziamo a voi, non come a Pontefice Sommo, ma come a Capo saggio ed umano d’un popolo, poco fa oppresso e scontento, ed oggi felice, ben governato e riconoscente. Noi vi umiliamo questo tributo, non come cattolici, poiché per la maggior parte noi siamo, ma come repubblicani ed ardenti amatori della libertà costituzionale. Comunque sia recente la nostra origine, comeché vastissimo sia l’oceano che separa la nostra cara Patria dal vostro Bel Paese, noi sappiamo che cosa era l’Italia ne’ giorni assai lieti e gloriosi della sua unità, del suo splendore e della sua libertà; noi sappiamo ciò ch’ella divenne sotto il giogo degradante dello straniero, ed in balia delle sue interne discordie; ed intanto abbiam ferma fede che un allo e benefico destino l’attenda, allorquando il suo popolo sia di nuovo unito, libero ed indipendente.
«Nella grande opera della sua rigenerazione, noi vi salutiamo qual Divino istrumento, eletto dai Cielo a compierla pienamente, e noi ardenti prieghi v’innalziamo, affinché i vostri giorni si prolunghintanto, da esser voi stesso testimone dell’intero adempimento di quella saggia Politica, ch’è destinata a rendere il vostro nome immortale.
«Ma, o Venerabile Padre, noi ben conosciamo che la via per la quale vi siete posto, e d’un estremo pericolo e di ardua difficoltà. I nostri Padri hanno lottato in un tempo di periglie di privazioni, per acquistare e consolidare a un tempo i benefizi di cui oggi godiamo: eppure la Provvidenza ci avea fatto dono d’un Capo, che ben di rado possedettero i popoli che affaticaronsi ad esser liberi. Nel mondo da noi abitalo, Iddio volle che la virtù fosse posta alle prove dell'avversità; e che una gloria durevole, qual'è la libertà, fosse accordata solo a coloro che mostravansi degni d’un tanto prezioso dono, pe’ loro sforzi coraggiosi e per un’indomabil fermezza.
«Noi compatrioti di Wasington, di Franklin, di Adams, di Jefferson, sappiamo adunque, che voi non vi siete messo per questa malagevol via, che rinunziando ad ogni agio, ad ogni sicurezza, ad ogni favore aristocratico.
«Noi sappiamo, che voi siete già rassegnato agli ostacoli che vi suscitano le macchinazioni di una Casta Politica, gli odi dei potenti, il biasimo dell'uomo delle buone intenzioni, ma traviato e sedotto, ingannato e tradito.
«Noi sappiamo, che voi siete determinato a combatter con fermezza l'infaticabile ostilità di tutti quegl’ingiusti tiranni, che pretendon crudelmente regnare su qualche porzione dell’alta Penisola Italiana; di tutti coloro che immaginano di far consistere l’ordine sociale nel mantenimento di quelle condizioni di lusso e di oziosità, in seno delle quali han costoro sin qui consumala la loro inutil vita; di coloro che temono, o che nel loro egoismo fingon di temere che la loro religione debba perire, se non viene sostenuta sulle tremule spalle degl’Imperatori e de' Regi.
«E voi colla grazia di Dio vi siete accinto a superare e vincere anche un ostacolo di. questi più grande, cioè l'incostanza e l’ingratitudine delle moltitudini, le quali, appena risorte dal servaggio che le abbrutiva, gridano nel deserto di voler fare ritorno alle cipolle di Egitto.
«Uomini son questi di tal razza, come se ne trovarono fra gli Apostoli del Salvatore, intesi ad abbandonarlo o tradirlo, per lasciar poscia a lui solo sopportare le dure agonie della Croce. Uomini, i quali noi temiamo che non si chiariscano a voi con de' progetti stravaganti, con assurde speranze, con impetuose esigenze, mormorando che nulla è stato meditato, perché tutto non è compito. Noi però crediamo fermamente che voi sarete armato e guidato dall’Altissimo, alfine di ridurre a buon termine la sublime vostra missione.
«Venerabile Padre, siano oscure le nubi che avviluppano il presente, noi sappiamo che l’aurora dell’avvenire dissiperà queste tenebre, per. nulla dirvi di quella fermasi carezza radicata ne’ nostri cuori dall’Eterno, che verun’azione né veruno slancio generoso resteranno senza ricompensa; noi possiamo attestarvi, poggiati sulla nostra avventurosa esperienza, che i benefici della Libertà Costituzionale sopravanzano e compensan 'd’assai i pericoli e i dolori; in mezzo ai quali le Nazioni si avanzano nel loro rapido perfezionamento e sviluppo.
«La nostra vita, come Nazione, si è in breve compiuta, ed ha già dimostrato ad ogni spirito ragionevole l’immensasuperiorità del libero Governo sul dispotismo fatale, della cara libertà sulla tirannide, quale elemento di nazionale grandezza e di benessere sociale. La nostra patria ha mostrato col fatto, che i diritti delle persone e delle proprietà eran meglio assicurati sotto quel Governo che garantisce l'eguaglianza ne’ diritti d’ognuno, che sotto qualunque altro. E se l’avvenire ci preparasse de' pericoli, dovrebbe dirsi che la loro sorgente scaturirebbe, non da eccesso di libertà, ma da un raffrenamento di giusta libertà.
«Finalmente noi ci sentiamo in grado, meglio di ogni altro, di accennarvi i pericoli che, voi sfidate, e le speranze che vi debbon confortare. A dispetto di superficiali apparenze, noi non temiamo affatto che le legioni del dispotismo sieno mosse contro di voi. Lo stato in cui siamo, e uno stato di lotta morale, anzi che fisica, in cui l'artiglieria della stampa domina e distrugge quella del Campo, e l’opinione e assai più possente delle baionette. Noi dunque siamo dunque fidati che voi, contra ogni attentato della forza brutale, siate protetto da un’egida impenetrabile, l’approvazione e la simpatia delle genti dabbene in tutta la Cristianità.
«Ma se per avventura la nostra aspettativa rimanesse delusa, tremi l’imprudente aggressore....! il primo colpo di fucile tirato contro di voi rimbomberebbe di montagna in montagna, di clima in clima, intimando ai prodi di tutte le regioni, di sorgere contro l’ingiustizia e l’oppressione, di combattere per la libertà e pel genere umano.
«Nell'ora solenne di questo grande combattimento, niuno che conosca l'istoria e ‘l carattere del popolo Americano, potrà dubitare quanto le nostre simpatie sarebber attive e produttrici di frutti preziosi.
«All’Italia sarà risparmiata questa devastazione, alla Cristianità lo scandalo fatale d'una guerra siffatta..... noi lo crediamo fermamente. Ma in ogni evento noi speriamo, che questa pubblica e solenne testimonianza dell’interesse e dell’ammirazione, con la quale venti milioni di uomini liberi vi ammirano, non sia stata in vano.... —
«Noi siamo, o Venerabile Padre, con profondo rispetto.»
Questa lettera, piena di fuoco e di sentimenti affettivi, di attaccamento e di tendenza alla sacra causa italiana, di aperte dichiarazioni,3 di liberi sensi, inchiude in se stessa una maschia eloquenza, un’eloquenza tribunizia e veemente che ci dispensa da qualunque comento. Quando il dispotismo del Nordo e costretto a gettare l’abbominevol maschera, a squarciare o presto o tardi, e suo malgrado, la benda indegna onde fassi debolissimo scudo a fronte dell’Italia UNA, INDIPENDENTE; quando e forzato a professare in faccia a tutta l’Europa l’assurdità de' suoi princìpi e la strana incoerenza delle sue conseguenze; quando ha deposto in somma ogni speranza di giustificare peranco colle apparenze della giustizia i suoi impeti brutali, conosciuti eziandìo e risguardati come tali dagli Stati Uniti del nuovo mondo, la sua ultima ora e dunque suonata, e le ingiuste pretensioni della tirannide austriaca non sono, a questi nostri giorni, che le mortali ed estremeconvulsioni d’un potere che langue, le convulsioni d’una tormentosa e disperata agonia.
Rafforza via più questa nostra asserzione la generosa e nobil gara, con cui fansi solleciti taluni Principi italiani ad imitare il magnanimo esempio dell’immortale Pio Nono e dell’augusto nostro Sovrano, che aspirarono i primi all'altissimo onore di far risorgere a novella vita di gloria e di esistenza politica le nostre itale contrade. In effetto, il savissimo Carlo Alberto, Re di Sardegna, emulando sovra tutto il nostro amantissimo Principe, il giorno 9 febbraro 1848, alle due pomeridiane, ha proclamato la Costituzione nel suo Reale Dominio, ad un di presso eguale alla nostra. Estrema gioia, continue feste, galleria pubblica, luminarie grandi per tutta la Città, illuminazione compiuta pe’ principali Teatri, general i dimostrazioni di animo grato e riconoscente, tutto concorse a render singolare e toccante un siffatto avvenimento nazionale.
«I popoli, così esprimeasi l'anima grande di Carlo Alberto, che per volere della Divina Provvidenza governiamo da diciassette anni con amore di padre, hanno sempre compreso il Nostro affetto, siccome noi cercammo comprendere i loro bisogni; e fu sempre intendimento Nostro, che il Principe e la Nazione fossero co’ più stretti vincoli uniti pel bene della patria.
«Di questa unione ognor più salda avemmo prove ben consolanti ne’ sensi con cui i sudditi Nostri accolsero le recenti riforme, che il desiderio della loro felicità ci avea consigliate, per migliorare i diversi rami di amministrazione, ed iniziarli alla discussione di pubblici affari.
«Ora poi che i tempi sono disposti a cose maggiori, ed in mezzo alle mutazioni seguite in Italia, non dubitiamo di dar loro la più solenne prova che per Noi si possa della fede che conserviamo nella lor devozione e nel lor senno.
«Preparate nella calma, si maturano ne’ Nostri Consigli le politiche istituzioni, che sa ranno il complemento delle riforme da Noi fatte, e varranno a consolidarne il benefizio in modo consentaneo alle condizioni del paese».
Ci è grato qui il dichiarare ai nostri cari fratelli, come quel savio ed illuminato Principe, ad imitazione di Colui che regge attualmente i nostri destini con tanto senno e saviezza, ha oramai divisato e stabilito di adottar quasi le stesse basi della nostra Costituzione, del nostro Statuto fondamentale, affine di stabilire ne’ suoi Stati un compiuto sistema di governo rappresentativo.
E in questa guisa, mentre provvede quel Potentato alle più alte emergenze dell'ordine pubblico, non ama più oltre differire di compiere un desiderio general e, un voto eminentemente nazionale, che da lunga pezza nutron a un tempo e il Governante e i governali, di veder rigenerati i popoli, beneficati i sudditi, e sollevate principalmente le classi più povere, persuaso come e quel buon Monarca di rinvenire nelle più agiate quel compenso di pubblica entrata, che i bisogni del suo Stato richiedono.
Protegga l’Eterno l’era novella di universale salute, che aprendo vassi provvidenzialmente pe’ nostri Stati Italiani; ed intanto che i popoli tutti della nostra bella Italia possano far uso delle maggiori libertà acquistate, di cui sono e saranno meritamente degni, aspettiamo da loro permanenza e costanza somma, saviezza non ordinaria e prudenza assai sperimentata, nei sapersi conservare on dono sì prezioso e celeste, il caro dono della libertà e dell'indipendenza, le cui più solide e ferme basi non sono che la saggezza e la virtù, l’osservanza piena delle Leggi vigenti e l’imperturbata quiete, necessarie pur troppo a compiere e consolidare l’opra divina dell'ordinamento interno di tutti gliStati Costituzionali!
Ai desideri intanto ed ai voli comuni dei Cittadini di Roma non lascia di far pieno diritto l’immenso Pio Nono; né cessa quel devotissimo Popolo di corrispondergli con sempre crescenti segni d’amore e di fede. Non devia Egli, in effetto, il suo sublime pensiero dal continuo meditare come possano più utilmente svolgersi e perfezionarsi quelle civili istituzioni che ba ormai proposte allo Stato Pontificio, non da necessità veruna costretto, ma persuaso dal desiderio della felicità de' suoi popoli e dalla stima delle loro nobili qualità.
Ha già volto Costui il suo grand’animo al riordinamento della milizia, prima ancora che la voce pubblica lo richiedesse; ed ha cercato modo di aver di fuori abilissimi Ufficiali, che venisser in aiuto a quelli che onoratamente servono il Pontificio Governo. Per meglio allargare inoltre la sfera di quelli che possano con T’ingegno e con l’esperienza concorrere ai pubblici miglioramenti, ha pur provveduto ad accrescere nel suo Consiglio de' Ministri la parte laicale. E però, se la concorde volontà de' Principi, da cui l’Italia attualmente ripete le novelle riforme politiche, e una sicurezza della conservazione di questi beni con tanto plauso e con tanta gratitudine accolli, vogliamo augurarci che sia per serbarsi stabile e permanente, e che via più si confermino tra costoro e Pio Nono le più amichevoli relazioni.
Ed osiamo ancora sperare che nulla cosa che giovar possa alla dignità e tranquillità de' popoli italiani, sarà mai obbliata o negletta da' nostri Principi riformatori, che ella loro sollecitudine pei rispettivi suggelli han date le prove più decisive e più certe. Ma quali altre prove di generosità e di grandezza d’animo non dovremo peculiarmente attenderci dal magnanimo cuore del Sovrano di Roma, ove sia egli fatto degno di ottener dall’Eterno che infonda ne’ cuori degl’Italiani tutti lo spirito pacifico della sua moderazione e saggezza? — A quest'uopo ha egli protestato altamente in questi ultimi giorni di esser pronto a resistere con la virtù delle già date istituzioni agl'impeti disordinati, come sarebbe disposto a resister del pari a smodate ambizioni, ad inchieste importune, punto non conformi ai doveri suoi ed alla felicità de' popoli d’Italia.
Siamo dunque sensibili alle pontificie assicurazioni, del pari che alle dimostrazioni generose di cui l’ha non pur secondato, ma sorpassato pur anche, nelle sue salutari vedute; e non qi commuova gran fatto il grido sedizioso ed allarmante, che fuor esce da sinistre od ignote bocche ad agitare i popoli d’Italia, con lo spavento d’una guerra straniera aiutata e promossa da interne congiure o da malevole inerzia de' governanti. Spingerci col terrore a cercare la pubblica salvezza nel disordine; confonder col tumulto la saggezza de' consigli di chi amorevolmente ci governa; apparecchiar pretesti, per via di tenebrose macchinazioni, ad una guerra che per niun motivo potrebbe aver luogo in Italia; e questa appunto la cieca illusione, questo l’inganno grossolano e fatale.
Qual pericolo, in effetto, potrà mai sovrastare alla nostra redenta Penisola, ove un vincolo di gratitudine e di fiducia, di vera pace e di nazionale alleanza, non mai corrotto da violenza alcuna, congiunga in uno la forza de' popoli con la sapienza de' Principi, la giustizia del dovere con la santità del diritto? E d’avvantaggio, il Pontefice Supremo della Religion nostra santissima non avrà forse in sua difesa, in difesa peranco dell’Italia tutta, quando fosse ingiustamente aggredita, innumerevoli figliuoli che sosterrebbcr pure col sangue la sua legittima causa, la sacra causa dell'unità nazionale? Gran dono del Cielo e ancor questo, infra il novero immenso e variato degli altri doni, con cui l’Eterno ha prediletto l’Italia; che tre milioni appena di sudditi pontifici abbian poi duecento milioni di fratelli, strettamente collegati con quelli, d’ogni nazione e d'ogni lingua. Fu questa in ben altri tempi, e nello scompiglio di tutto il mondo romano, la salvezza di Roma non solo, ma dell'Italia intera; e questa del paro sarà la sua più possente tutela, finché l’unitaria lega manterrassi salda e costante. —
Spuntar dovea finalmente quel faustissimo giorno, provvidenzialmente destinato a compier la grand'opera della nostra politica redenzione, e compierla in guisa, da fare che il nostro Regno, e fra poco l’intera Italia sino al piè delle Alpi, non avesse più nulla ad invidiare a qualsiesi avventuroso popolo della terra, per ampiezza di libertà ch’ei si goda. Agli 11 di Febbraro, in effetto, solennemente pubblicaronsi gli Atti della nostra Costituzione, su quelle elaboratissime basi di cui si è fatto dianzi per noi menzione. Noi ci asterremo di esporne qui per esteso gli Articoli, e perché già resi di pubblica ragione, e perché ci sta molto a cuore l’amor della brevità, trattandosi peculiarmente d’un ristrettissimo compendio di storici avvenimenti; né vi apporremo qualunque siasi osservazione politica, per tema di non offender il senno rispettabile di colui, che, in tanta causa comune, ha. dato luminoso saggio della somma sua sapienza, e pel quale e senza limite la venerazion nostra, immensa e profonda la stima.
Il savissimo nostro Re Ferdinando II, rigenerando i suoi popoli ad un’era non attesa e felicissima, non risparmia premure ed indagini, diligenza e fatica, per prender tutti quei provvedimenti, che sono pur troppo necessari a compier l’opera ed a farla felicemente duratura. E perché i suoi benefici sieno in tutto il Regno, siccome in una sola famiglia da un sol Padre governata, eguali e per mezzi e per ¡scopo, ha concesso a talune Province tali Moderatori o Governanti, da essere un’arra certa e sicura d’un’incrollabile felicità pubblica e privata.
E mentre nel conferirsi impieghi e cariche a novelli suggelli, e sempre in discordanza la pubblica opinione, imperocché e chi biasima e chi lauda per passionati princìpi, o per preteso demerito degli eletti Magistrati, il voto pubblico e mirabilmente concorde nel far plauso al nostro magnanimo Re, per la scelta fatta de' più accreditati soggetti, molti de' anali con un lungo soffrir di persecuzioni e a infamie, di molestie e di affanni, hannosi cattivata la pubblica gratitudine, la benevolenza unanime, l’universale estimazione. Il tempo degli encomi gratuiti e nefandi, de' prostituiti e vituperevoli elogi, grazie alla Provvidenza Sovranza, e omai tramontato; se qualche residuo ancora ne avanza, e riserbato esclusivamente pe’ vili, che, chiuso il cuore per sempre ad ogni onorata passione, strisciando vanno come velenosi rettili sulle orme di chi può loro indorarne le squame.
Volgendo però sempre il pensiero alle disposizioni sovrane, in ordine alla scelta dei novelli Candidati, diremo con santità di cuore, e con giustezza di causa, che molti di costoro furon già compresi nell’immenso novero di quelle vittime infelici, che l’orrenda inquisizione tracorsa, stupida e dissennata, lungamente colpiva con esecrandi anatemi. Martiri però gloriosi del capriccio e dell’intrico, della violenza e del rigiro, trionfar seppero dell'infamia per onore e costanza, per fede e prudenza; e però la storia de' nostri ultimi tempi, fedele sempre ed imparziale nel suo geloso e. sacro ministero, laudando chi merita lode, e vituperando chi ha fatto di tutto per vituperare se stesso, registreralli nelle sue pagine con note gloriose ed eternali. Avventurati i popoli che vi ottener per moderatori e padri! Voi sarete la face rischiaratrice delle loro abbuiate menti, ed avranno per voi quella luce del vero che fu loro negala e fatalmente interdetta.
Ma qual magica penna potrà intanto con più convenienti ed acconci colori pigner all’altrui intelligenza, o qual più feconda e prodigiosa immaginazione saprà mai concepire le dimostrazioni di gioia e di grata esultanza, in cui proruppero i cittadini tutti d’ogni classe o condizione, d’ogni sesso ed età, in quel faustissimo giorno, al lieto annunzio d’una pubblicazione siffatta? Quale istoria non rimembrerà quell'Era gloriosa di risorgimento nazionale, di restaurazione e riscatto comune? Qual popolo incivilito ed umanizzato non prese parte alla felicità della più bella Terra d’Italia? In qual parte di Europa non ripeterseli pur anche in cento e cento note il glorioso nome di Ferdinando II? E che cosa potevamo noi sperare o conseguir d’avvantaggio? Quale umana famiglia dar puossi il vanto di esser più festosa ed ilare per pubblico risorgimento? Ecco, o avventurati Calabri, o siculi valorosi, o salernitani intrepidi, il prezioso frutto dei sangue vostro generosissimo! Deh! faccia il Cielo che campioni di tal tempra s’abbian del paro i nostri miseri fratelli Lombardi! che, emancipata allora la Penisola da ogni nordico Autocrata, rilanciato al di là delle Alpi uno scettro di ferro e non italiano, e fattasi temuta e rispettata, riverita e grande anco all'esterno Oppressore, sul ciglione de' gioghi alpini collocar potrà gli augusti simulacri di Pio Nono e di Ferdinando II, i quali, stesa la mano di difesa su tutta l’Italia, e guardando con occhio di disprezzo le austriache regioni, diranno: NOI PRIMI RIGENERAMMO QUESTA TERRA DAL LUNGO DOLORE, E NOI NE SAREMO SCUDO E DIFESA.
Ora però comincia per noi un’epoca di gloria, una storia novella per l’Italia; ora vedrassi se gl’italiani petti vantan virtude e costanza, se il braccio italiano possiede forza e valore, e se in ogni nostra Città sarà per risorger un’antica Roma! Il 29 Gennaio si proclamava in Napoli la Costituzione; il giorno 11 Febbraro veniva scolpita in tavole di bronzo, e suggellata sì forte, che i secoli futuri non potran mai cancellarla.
Per parecchi giorni stavasi lavorando alla compilazione di essa; ciascuno: palpitava fra ‘l timore di qualche restrizione e il desiderio della maggiore ampiezza; vociferando andavasi da perfetto, con generale fermento d’ogni partito, l’ottenuta o non ottenuta ratifica degli Articoli in essa compresi, quando la sua compiuta pubblicazione vinse finalmente l’universale aspettazione, perché più ampia della Costituzione francese, cui credeasi che riportar si volesse il Ministero.
Che dir dovremo intanto della Città, della Real Corte, dell'universale sincerissimo tributo di riconoscenza? Non divenne la Capitale che un’ampia comun famiglia, d’un solo pensiero, d’una sola volontà, d'una sola redenzione, li Re uscì tosto dalla Reggia per compiacere ai desideri universali, per cedere alle pubbliche grida, alle affettuose insistenze dell’intera Città, che chiedeva la presenza del suo rigeneratore e padre. Gli venner tolte le redini di mano, e fu guidata la carrozza da ogni ordine di persone. Chi gl'indirizzava benedizioni da un lato, chi lo felicitava dall'altro, chi gli lanciava affettuosi baci, e fuvvi peranco chi si tenne felice di scambiare col Re qualche filiale amplesso. Fu questo senza dubbio il vero trionfo di amore. Quanto non apparve più glorioso questo alloro di pace, che quel di Marengo e di Austerlitz, cotanto famoso nella storia del più ambizioso de' Conquistatori! La forza ed il sangue, il macello e la strage lo mettevan colà; l’amore e l’affetto qua poneanlo in fronte al più generoso de' Re.
E non si ha poi ragione di dire, che la Storia del nostro Reame sta preparando una pagina gloriosa ed immortale a' nostri posteri avventurosi? Qual cosa più ammirabile, in effetto, qual cosa più degna di doversi infuturare alle nazioni avvenire, che quella di vedere un magnanimo Principe, un popolo generoso e devoto farsi grandi a vicenda, identificarsi ne’ cuori, assimilarsi ne’ sentimenti, corrispondersi nelle opinioni, congiugnersi nell’amor vero di patria; veder una Nazione elevarsi a guisa di gigante sopra quante ne comprenda la nostra gloriosa Italia, e tutta intera la Penisola accoglier festosamente il bel dono della rigenerazione e della libertà? Quai preziosi momenti, qual felice entusiasmo, quali affetti coscienziosamente beati non ha mai provato il nostro cuore in quel giorno consecrato ad un generale tripudio?— Vinti dall'ebbrezza, conquistati dalla foga d’una pubblica gioia, trasportati fuor di noi stessi dal dolce sentimento di respirata libertà, credevam quasi soccombere alla forza di sì grandi emozioni, alla folla variata di sì veementi affetti.
Appressandosi intanto l’ora della sera, apparve a un tratto illuminata tutta la Città, ma spontaneamente e con sincerezza di cuore. Per tutta quasi la notte la popolare esultanza fu continua, commovente, vivamente sentita. L’infima classe della plebe affratellavasi co’ grandi, secoloro immedesimavasi, giugneva pur anche a prenderli sulle proprie spalle e recarli come in trionfo. Dalle finestre e da' balconi tutti, le genti stivatamente affollate sventolavano candidi fazzoletti, e melodicamente gridavano Evviva, cui tosto facea fortissimo eco l’innumerevol folla immensamente sparsa nelle vie. I busti di Pio Nono, del Re e della Regina, sollevati in alto, o stretti caramente al petto, eran portati in processione, in mezzo ad un gradito corteo di torchi accesi. Tutti i quartieri della Città improvvisaron una foggia di carri trionfali, su cui vedeansi assisi d'ogni generazione, d’ogni grado, cittadini lietissimi. Ed ecco i frutti della generosità di cuore, per parte d’un popolo singolarmente devoto al suo Re; ecco i frutti della vera grandezza d’animo, per parte d’un Re, che porta impressa nel cuore la cara patria, i prediletti suoi figli!
Le bande militari, specialmente la svizzera, suonaron del continuo armoniosi inni nazionali, a tanta circostanza allusivi. La Gendarmeria, cosa commoventissima! abbottita pria dall'intera società, partecipar videsi alla gioia comune d’un sì gran benefizio che pur la felicita e bea. Di mano in mano che gli individui di quel Corpo ivan passando per. via, levavansi il cappello e facean eco alle grida festose del popolo, e vogliam credere con cuor sincero e commosso. Il popolo del pari rispondeva loro con sincerezza ed ingenuità d’animo, e premeaseli al petto quai cari fratelli. Quindi sopite le passioni, poste in obblìo le provate amarezze, dimenticate affatto le oppressioni sofferte, divenuto redento ed elevato a comun famiglia un popolo intero, pienamente disposti ed intesi gli animi tutti de' novelli Magistrati a metter legalmente per le vie costituzionali le cure governative ed amministrative, sì saggiamente loro affidate ed a moralizzarne l'andamento, pur troppo contaminato e guasto dalle vetuste pratiche del precedente governo.
Come descriver intanto con acconcia e con veniente eloquenza quella memoranda notte, squarciata dal riflesso fulgore di cento mila faci, che giravan senza posa per la strada di Toledo; quel gruppo d’affollate genti e di promiscue voci che gridavano a perder lena Viva il Re, viva la Costituzione, viva la Sicilia, viva la Calabria, viva i martiri calabresi, viva l’Italia, viva la libertà italiana; le feste ripetute in ogni quartiere della Capitale, quelle succedutesi in tutti i teatri, ed il contento de' cuori dipinto sul volto di tutti, cui la parola era divenuta impotenziata affatto a più manifestare di fuori? — All'altezza dell’argomento non più regge la mente e la mano; la scarsa nostra eloquenza e sterile e muta nel celebrare, in queste poche pagine storiche, fatti così sublimi e gloriosi. Un’alma veramente italiana e solamente entusiasta ed ebra della gloria del patrio suolo, della vittoria e del trionfo della care sua Patria. E quel giorno, in effetto, ha celebrato un solenne trionfo, una famosa vittoria; vittoria e trionfo che hanconquistata l’Italia pel santissimo scopo, ed i cuori italiani per la santità degli affetti; vittoria e trionfo di amore e di simpatia, d’affezioni e di tendenze, d’intelletto e di ragione.
Le pattuglie intanto della Guardia Nazionale van percorrendo ogni giorno i punti principali di questa Capitale; il Sovrano, affine d'immedesimarsi via più col suo popol diletto, si manifesta del continuo in carrozza; la Guardia Nazionale gli fa nobil cerchio e corona, gli tributa riverente omaggio e l’accompagna dapertutto; lo riconduce alla Reggia fra gli evviva ripetuti di mille voci di gioia; lo veggiamo insomma sovente in mezzo a coloro ch’egli stesso armava a baluardo e sostegno della sua real persona e di tutta intera la civil comunanza.
Nélimitaronsi solo a quel giorno ed a quella notte memorabile le dimostrazioni di vivissima gioia, per parte del popolo e di CHI paternalmente li governa e modera; chè la vegnente sera del pari un immenso novero di dilettanti d'ambo i sessi, preceduti da quattro bande musicali, circondati da varie centinaia di sfolgoranti faci, accompagnati da un battaglione di guardia nazionale, seguiti da stuolo innumerevole d'ogni generazione di genti, e giunti dinanzi al real palazzo, v'intuonarono inni di festa, attesamente composti, fra le acclamazioni e gli applausi d'un immenso popolo che, a piedi ed in cocchi, con mille altre fiaccole accese, illuminavan quella commovente scena degna purtroppo de' famosi pennelli de' tempi vetusti.
E mentre in quei trasporti di gioia ninno conosceva più limite né modo agl'istintivi affetti, e, cessata la melodia del canto, prorompeva il popolo in reiterate grida di viva il Re e la Costituzione; mentre dal plauso e dall’universale esultanza faceasi rapido passaggio all'armonica e melodiosa dimostrazione, in mezzo ad un religioso e profondo silenzio, sì che parea che quell’immenso spazio disseminato di affollata gente fosse per incantesimo rimasto muto e deserto, il Re e la Real Famiglia, fattisi della persona ai veroni della Reggia, degnaronsi assistere a quella familiare o domestica scena, rimanendo a capo scoverto, ed incessantemente profondendo ringraziamenti di cuore, paternali saluti, profondissimi inchini, con sensibili segni di gioia verace non men passionati e forti di quelli che il popolo manifestava a vicenda. Ed e pur degno d’ammirazione e di rimembranza a un pari, come in mezzo a tanta gente da non potersi sì agevolmente numerare, in mezzo ad un’infinità di accumulate carrozze, senza alcun freno o spavento di forza armata, senza timore o sospetto di vigile e terrorosa polizia, non avvenisse alcun sinistro accidente, né un lieve disturbo peranco, che apportasse distrazione o popolar tumulto: prova novella della docilità del nostro paese, del suo rispetto alle leggi, della sommission sua al novello governo, della rigenerazione insomma da lui pienamente meritata.
Promulgata, in questa, la grata novella della Costituzione, generosamente accordata in parecchi altri Stati Italiani, un immenso drappello di giovani bennati e valorosi recaronsi innanzi ai palazzi de' rispettivi ambasciatori, e manifestaron loro vivissimi sensi di giubilo e di felicitazioni veramente nazionali. E quei generosi Diplomatici, fattisi volentieri a' balconi, lietamente rispondevano: Viva la Costituzione che ci riunisce tutti! Viva l'Italia eternamente! Fecer poscia altrettanto col Ministro di Spagna, il quale, fattosi con lieto viso al balcone: Viva la Costituzione, esclamò; mi e grata oltre modo questa dimostrazione d'un popolo illustre, che risorge alla gloria ed alla libertà per la propria saggezza e per la concessione d'un ottimo Sovrano.
Lo spettacolo poi, dato quella sera in S. Carlo, in cui intervenne la più fiorita ed illustre Nobiltà, i più chiari e distinti personaggi, i Diplomatici più rispettabili di parecchie Nazioni, fu uno spettacolo novello pei cittadini napolitani, se pure l'espressione d'una viva e ben sentita gioia puot'esser più nuova attualmente pei cuori italiani. Null'altro vedeasi in quel vasto e sontuoso edificio che un immenso stuolo di compatrioti e fratelli ornati pomposamente a festa, indirizzanti voci di giubilo al Sovrano, e contracambiante il Sovrano que' teneri sensi di verace affetto. Scoppiaron poscia gli evviva con maggior entusiasmo nell'intuonar che si fece dell'inno nazionale, con molta maestria ed incantevolmente eseguito. Talune coppie danzanti tenean fra le mani un velo, su cui vedeasi a grosse cifre impresso il seguente motto: VIVA FERDINANDO II! VIVA LA COSTITUZIONE! Intender puossi agevolmente con qual plauso e gradimento siasi accolto quest'omaggio, indirizzato a un tempo al nostro Re ed alla pubblica esultanza. É così sempre le voci di giubilo succedeansi a determinati intervalli, sino a tanto che la Real Famiglia non lasciò quella magnifica teatral festa.
Essendo però ripugnante all'umana natura il sentimento d’una gioia intensissima e di non interrotta durata; del paro che la sensazione molesta d’un lungo dolore od affanno non è mica comportevole alla costituzione dell'uomo, perché tiene naturalmente in uno stato di trambusto e di violenza, di convellimento e. di orgasmo, non solo il fisico organismo dell'esser nostro animale, ma l’ammirabile economia peranco del mondo morale; come è dimostrato dalla più costante esperienza, ohe ad una provata gioia e fissai ben raro che non succeda, o tosto o tardi, un' affezione spiacevole od interamente a quella contraria; così era d’uopo che succedesse cotal disordinato accidente, da far avvelenare, comunque per brevi istanti, l’universale esultanza.
E però un numerosissimo stuolo di bassa gente, composto in gran parte di artigiani, di fabbri, di muratori, di allobrogi, di sfaccendati, di oziosi, d’infingardi, di parassiti, di prezzolali e corrotti, di malintenzionati e tenebrosi furfanti, cui sta molto a cuore il disordine pubblico ed il popolar tumulto, in cui grandi cose si sperano e mai nulla di buono conseguesi; armati d’ogni generazione di attrezzi corrispondenti al proprio mestiere, e forse d’altr’arma al di sotto, sbucando a reo disegno da diversi punti, cacciaronsi a un tratto, e tutti nello stesso istante, in mezzo alla gran piazza di Palazzo, sotto la direzione d’un capo ammutinatore portante in pugno una lunga pertica, alla cui estremità sospeso un cartello con talune simboliche cifre, e tutti chiedenti ad alta voce LAVORO! PANE! SUSSISTENZA!
Fu ciò bastevole, come potrà ognuno di leggiero supporre, a sparger sensi di tumulto e di allarme nel più grosso del popolo, a metter in oscillazione di dubbi e di timori, di diffidenze ed incertezze le sospettose menti, a far chiudere issofatto in parecchie vie della Capitale le botteghe, a metter insomma in gran movimento la più sana parte de' cittadini. Non però di meno, per una specie di provvidenzial disposizione, e per energiche misure di governo, vi accorser repente talune pattuglie della Guardia Nazionale, non pochi soldati, ben molti ausiliari, innumerevoli torme di gentiluomini armati; smembraron tosto quell’ammutinata bruzzaglia; partironla in diverse bande; la resero inerme ed invilita, scuotata e muta; arrestarono i più pervicaci e protervi; minacciatoli d’arresto i più pertinaci e sediziosi; furonpesti e malconci i più contrassegnati di baldanza e d’improntitudin somma; fu sbaragliata infine quella ciurmaglia importuna, e via dileguossi come rapido baleno. E così il timore e la calma, il tumulto e la pubblica quiete, il disordine e l’ordine, non furon che l’opera di pochi momenti.
Un avvenimento siffatto nondimeno richiamar dovrebbe la più vigile attenzione, le più preveggenti cure del Governo e de' novelli Magistrati. Le grandi crisi sociali salvamprodigiosamente le masse che, nell'orribil lotta, han saputo valorosamente combattere e trionfare; nella stessa guisa che le subitane crisi in una malattia restaurano e confortano l’organismo animale dell’uomo, posto in pericolo mediante una corruzione qualunque nel suo fisico tessuto. Ma come l’uomo convalescente ha bisogno di cure e di sacrifizi per rinfrancare le spossate forze, o consunte durante la crisi, la social massa del paro reclama altamente i più pronti ed energici soccorsi dello Stato. E lo Stato, ove con rettezza di cuore e di coscienza sia governato, dee sollecitamente apprestarlo, senza indugio veruno, e con la maggior profusione possibile. Indarno i ministri costituzionali addurrebbero a pretesto il timore di comprometter la propria responsabilità; la popolare urgenza non ammette giustificazioni né scuse; la legge del momento null’altra tendenza dee svelare, che quella di ristorare il basso popolo, di riconciliare la plebe, di. sollevare la misera classe degli operai fatalmente tenuti sin da lunga pezza sotto la durissima legge dell’inerzia, d’un’ignoranza sistematicamente vergognosa, e del continuo travagliati da' più fierinemici delle istituzioni novelle; la legge infine de' tempi attuali tender debbe ad una riconciliazione efficace e positiva degl'interessi materiali del basso popolo co’ princìpi già ragionati e sanciti del costituzionale governo.
I veri uomini di stato declinar non deono giammai dalla linea del bene pubblico, della prosperità e floridezza nazionale. I veri amici della patria, riflettendo al male presente, veder sanno i bisogni, le urgenze, le necessità stringenti del momento, ed impegnano all’uopo con molta franchezza, senza diffidenza e timore, tutto il loro potere, tutte le loro forze, la lor vita peranco, non men che le proprie sostanze, ove il santissimo scopo del pubblico bene, del vantaggio comune, della patriottica salvezza, inevitabilmente l’esiga. In tempi malagevoli ed ardui di popolare trambustìo rigorosamente richieggonsi ministri operosi ed umani, attivi ed intesi ad acconciamente promuovere il popolare benessere. Attender quindi mi tempo più accettevole ed opportuno, un miglior ordine di cose, un più sistemalo governo, per fornir di lavoro il popolo, per procacciar fatica agli operai, per dar sussistenza al famelico e al digiuno, per metter insomma la numerosa classe de' faticatori su, la via de' grandi lavori pubblici, null'altro prova che un sentire ben poco addentro la vera ragione di stato, gl'interessi veri del popolo e del ben amministrato governo. Imitar e d’uopo più tosto il luminoso esempio de' grandi uomini di stato, de' più famosi ed esimi politici di Francia, i quali, dopo la tanto famosa rivoluzione di Luglio, sollecitar seppero avvedutamente il Governo a profonder parecchi milioni in Parigi, con uno scopo eminentemente politico, lo scopo conciliativo di tregua e di pace, d’alleviamento di cure e di pesi, di pronta riparazione e di efficace soccorso. Non agire siffattamente in queste nostre critiche circostanze, sarebbe lo stesso che voler dire al popolo: SIMUOIA DI FAME PEL MOMENTO; A TEMPO PIU’ OPPORTUNO AVRETE LAVORO E SOCCORSO.
Ma le anime veramente grandi e generose, gli amici veri dell’umanità e della patria, gli uomini elevati a qualche grado di potere da un movimento di rinnovazione e dal turbine sociale; hanno purtroppo, in questa nostra Patria redenta, generosi sensi di amor patriotico e ben conta filantropia; e però non havvi alcun sospetto che tener debbano un siffatto linguaggio col prossimo loro, coi loro più cari fratelli; né temer deesi punto che, ne’ duri casi di popolare urgenza, se ne stian eglino indolenziti ed inoperosi, o fatalmente diacciati ed indifferenti ai bisogni del popolo: avran più tosto costoro assai di coraggio e di fermezza, d’operosità e di solerzia, nella posizion nostra presente. Imperocché sanno ben eglino che si è oramai perduto abbastanza di tempo, e tempo prezioso pel popolo; né il tempo e tal cosa aa potersi vanamente od impunemente sprecare!
Non andrà guari impertanto, osiamo almeno lusingarci, che, sensibile il novello Governo al pubblico grido, a dar farassi si salutari ed energiche disposizioni, da por mano senza ulteriore ritardo al pubblico lavoro in Napoli, nelle province, dapertutto insomma: emaneransi almeno, lo speriamo di cuore e con fiducia somma, tali ordinanze da servire come pegno di buona fede e d’amore pel bene universale, ed esser con grato animo accolte dovunque, purché sappiasi però operar tosto e bene! Perocché la scossa e stata violenta e forte, di lunga durata ed opprimente; il popolo ha fame, e cerca lavoro ed occupazione; la scarsezza de' viveri ha fatto soffrir molto, e molta miseria ha ingenerato, peculiarmente nelle masse popolari o plebee; la classe povera si è ammiserita d’avvantaggio, e gli speculatori audaci, monopolisti, rigiratori, tristi ed invidi della prosperità pubblica, si sono oltre modo arricchiti ed impinguati. Fa di mestieri adunque che si dia ora un’occhiata al popolo languente ed oppresso, sfinito di forze, smunto di danaro, privo di mezzi, esausto d’ogni avere e fatalmente colpito da lunga miseria; fa ora pur d’uopo che si prendano in considerazione, con carità veramente cristiana e fraterna, gl’interessi più sacri delle povere masse, duramente gementi sotto il peso di tante sofferenze e di tanta inopia; e necessario infine che si propaghino i mezzi di circolazione, vantaggiosa sempre al commercio e all’industria, che, come acconci veicoli dell’agricoltura incoraggiata e promossa, non mezzanamente aumentano il valore de' suoi prodotti, e concorron pur anche assai validamente al generale benessere. Per cotal guisa, dandosi opera d’avvantaggio che il rappresentante universale d’ogni cosa agevolmente circoli per tutti i punti del nostroReame; promovendo direttamente e per indirette vie, in una sfera sempre d’attività perenne, le professioni tutte e d’ogni generazione i mestieri, le arti, le industrie; dando un eterno bando altresì a non pochi pregiudizi, inceppanti la prosperità ed il sociale vantaggio, e che regnan tuttora in questo nostro paese, promuoverassi in un modo incalcolabilmente crescente il napolitanoincivilimento, ed assicurerassi a un tempo una specie di popolarità nazionale all’era novella di costituzionale risorgimento. —
Un altro grido di malcontento elevossi pure in questi ultimi giorni, per parte degli oppressi ed infelici emigrati, che trovansi deplorabilmente confinati in diversi punii del Regno, ed in esteri luoghi per anco, e che pietosamente reclamavano una novella amnistia, dopoquella assai ristretta ed insufficiente che avea preceduto la già concessa e pubblicata, Costituzione. Alla nuova del divulgato Decreto dell’amnistia anzidetto, il cuore di quegli esuli sventurati erasi aperto ad una vivissima gioia, forte, lusingandosi di essere stati già pienamente pagati loro fervidi voti; e però corner ansiosi a leggerne l’espressioni con un lusinghiero e fallace con suolo. Purtroppo deluse speranze, vana ed ingannevol bramosia! l'assoluzione ed il perdono Sovrano procedente da un cuor generoso e veramente paternale, non era punto sì ampio ed esteso da comprendervi eziandìo quei sciagurati detenuti; perocché non eran richiamati in patria che gli emigrati dal 1830in poi. I liberali per seguenza del 1820, essendone stati espressamente esclusi, eran impotenziati affatto a rivedere e salutare la rigenerata lor patria, a premere contro i loro cuori i dolci concittadini e fratelli.
Qual alto od arcano motivo avesse mai potuto dettare quella dolente ed afflittiva eccezione l’ignoriamo dell’intutto. Sappiamo nondimeno chi sono gli emigrati di quell’epoca trista e malaugurata, e che cosa han fatto od intrapreso da quel tempo in poi. Un gran numero di costoro, dopo di essersi on la fuga provvidenzialmente sottratti a' più atroci supplizi che voleansi infligger loro, pervenner direttamente in Ispagna. Non guari dopo, scoppiò colà una guerra intestina per parte dell’esercito e de' liberali contra il popolo, incivile fautore dell'esecrato assolutismo. Continuaron quindi quei prodi a combattere di gran valore per la difesa della santissima causa nelle file dell'estera legione. In cotal guisa, pel giro di diciotto mesi, od a quel torno, duraron costoro le più gravi fatiche ed i più orribili stenti. E quando il Duca d’Angoulème intervenne alla testa di centomila combattenti, dopo averlo per lo spazio di due anni coraggiosamente combattuto, furon tradotti in Francia prigionieri di guerra. Colà l’occupazion loro di tutti i giorni, la lor cura di tutte le notti, fuesclusivamente quella della patria rigenerazione. Ma impotenziati allora a far cosa veruna, nulla potendo tentare e conseguire con felice successo, attesa la condizion trista e calamitosa de' tempi, aspettavan con pazienza il momento più acconcio ed opportuno per agire, combattere, trionfare.
Néper molti, in effetto, di quegl’intrepidi liberali presentossi invano l’occasione di pugnare e sparger financo il proprio sangue per l’indipendenza di estere Nazioni. Taluni di essi corserratti nella Grecia, e cooperaron forte al buon successo di quella guerra generosa. Nelle tre famose giornate di Luglio del pari, la Francia ribellata non mancò di averli in mezzo alle file de' combattenti. E dopo il trionfo della rivoluzione, fidando altamente nel principio di non intervento proclamato dal Parlamento francese, si fecer ad organare un piano generale per l'indipendenza italiana, e dalla frontiera della Savoia e dalla Corsica tentaron invadere l’Italia con altissimo disegno di porger soccorso alla causa liberale; ma tradilli poscia il ministero francese, e quei miseri espatriati subiron in Francia una persecuzione fierissima, e confinati vennero in varie città di provincia, sotto la più dura sorveglianza della polizia.
In questa guisa visser quegli uomini valorosi sino all'epoca consolante dell’attuale risorgimento italiano, sempre travagliati ed oppressi, infelici sempre, e vie più caldi amici della sacrosanta comun causa. E chi di costoro rimaso in estere contrade, chi reduce nella patria, chi sbalzato in un punto e chi confinato in un altro, tutti calorosamente han contribuito al risultamento glorioso del 29 Gennaio. Per qual ragione adunque i liberali del 1820 non dovean esser ugualmente amnistiati? Perché non dovean anch’eglino, in questi giorni di allegrezza e di comune esultanza, godere nella cara patria il sospirato frutto delle loro lunghe sofferenze, il prezioso frutto inaffiato col proprio sangue? — Si fecer quindi unanimemente a scongiurare quei mesti proscritti il novello Ministero con ferina fidanza di veder emendato l’inescusabile errore, siccome proclamavan costoro, e forte sperando che non volesse mostrarsi sì poco amico del governo costituzionale, tenendo ancor lontani coloro che non mezzanamente contribuirono alla restaurazione italiana.
Ben altri reclami; più commoventi e patetici, più luttuosi e toccanti, era ancor dato sentire al nostro magnanimo e generoso Sovrano; i pietosi reclami de' miseri detenuti o condannati nell’isola di Tremiti. Tristo a dirlo e a pensarlo! e molto più tristo e più duro ad esser paranco costretto a consecrar cose in queste poche pagine di cittadina storia, ch'esser dovrebbero coverte di eterno obblio!....
Per qual grave misfatto quelle povere vittime, sacrificate in gran parte alla capricciosa e bizzarra polizia de' tempi tracorsi, star dovrebbero condannate d’avvantaggio in una estranea ed arida terra? perché relegarle in uno sterilissimo suolo, dalle tante scelleranze appestato e corrotto, che la malizia e la malvagità di taluni impunemente vi esercitano? E fia mai vero che il grido dell’umanità languente; dell’oppressa e degradata natura giugner non possa o non debba sino al piè del Trono, mentre variati e moltiplici esempi di generosa clemenza, di largizioni paterne, ci ha dato sinora il nostro magnanimo Re, nel breve giro d’un mese? — Una prova siffatta di grandezza d’animo a pro dei cari suoi figli, anima il cuore di quei derelitti e schiude loro la via alla più dolce di tutte le speranze, il conseguimento della cara libertà,
L’orribil peso d’una condanna, capricciosa od arbitraria talvolta, fatalmente da taluni di quei miseri ricevuta, li facea comprender nel novero di quell'indomita ed abbrutita gente. Ansiosi di scuotere il giogo assurdo e crudele, cui dovean subire ne’ tempi decorsi; dal desiderio vinti di voler infrangere la cinta catena ed aprir libero al cielo il represso respiro; pienamente ignari della lor sorte futura, e di tutto ciò che restava loro a soffrire, deliberaron in fine quei meschini a confessar quei delitti che non avean punto commesso, e che strappare voleansi ad ogni costo dalla loro propria bocca: fu questo un delitto in apparenza, ed una pena nel fatto; apparver quindi nella società con l’ignominiosa divisa di rei, e dovean per seguenza scontarne rigorosamente il fio.
Quanti giovani lontani da' loro congiunti, dalla patria, dall’educazione cittadina, dalla generale esultanza? Con qual cuore, con quali esempi, a quale scuola d’immoralità e di vizi si allevaron mai costoro? Aumenteranno gli anni con le sviluppate turpezze e con la depravazione del costume, con le scelleranze e con le brutalità mostruose!
Un’altra classe più sventurata di esseri aumenta pur anche la squallida oppressione di quell'orrida e contaminata terra: venian costoro imputati, o, direm meglio, calunniati per qualche trasognato delitto; spingeasi innanzi un processo, e mancavan di prova, o di elementi di prova, i pretesi reali: ciò nulla montava; eran costoro ancor rei; chi accusa od incolpa, chi calunnia o querela non fatta: innocenti per la giustizia criminale, rei per la giustizia politica, o più tosto per l'ingiustizia della passata polizia...
Giustissimo Iddio! pur troppo quei miseri li confessano ed adorano nella tua somma giustizia: son divenuti, e vero, quasi selvaggi o barbari, ma li raccoglie ancora una terra, ancora un raggio di lusinghiera speranza gli alimenta e conforta; son eglino reietti e scherniti, vilipesi ed oppressi, anzi allo stato di estrema disperazione ridotti, ma le loro mani non fumano d’un sangue innocente, son dolci e tranquilli i loro sonni, il loro cuore non palpita di atroci rimorsi; e l’esecrazione d’un pubblico intero non cade punto sur essi; su fabbri sì bene del loro destino tristissimo.
Sventurati e infelici! quante volte non han mormoralo i rigori ad Cielo, perché non teneali in ¡stato di mediocre fortuna! Allora la condanna e l’esilio non gli avrebbe sì duramente colpiti. Quanti delinquenti e quanti rei d'ogni generazione di colpa, a forza di corruzione e di rapporti, di maneggio e d’intrico, hansaputo sottrarsi a quella lenta agonia di tenebroso inferno e di morte! Ma erano di condizione misera quei voluti ribaldi, e però fuor d’ogni speranza di esser protetti e salvi; e tanti felloni non di meno, gravati di nequizie e di scelleranze, di enormi concussioni e soprusi, respirati l'aura di libertàe di contento. Néconcepiscon invidia per costoro; senton forte il desiderio soltanto d’averne almeno uguale la sorte.
Non v’inorridite, o miei Cittadini, nel sentire questo sfogo innocente di doglianza e di affanno; e l’espressione spontanea ed istintiva del più acuto dolore che preme disperatamente più d'un cuore sensibile. Risguardati sono quegli esseri sfortunati come i più infami e più malvagi della terra; la condizione del luogo che ve gli accoglie e comprende n’è prova di fatto. La sventura od il caso gli unisce, e tosto l’insinuazione del male, il contagio della corruzione, il soffio dell'immoralità, il veleno della depravazione contamina l’uomo, paralizzai! compagno, corrompe e travia l’amico di sciagura.
In quella terra di desolazione e di lutto, non havvi civile istituzione che possa umanizzarli e renderli migliori; non pubblica o privata, censura da tenerli a freno e sottrarli al delitto; non pratiche cittadine che possano dar loro la più superficiale lezione, il più passaggiero esempio di civili virtù o di sociali maniere: colà tutto è solitudine, tutto è abbandono, tutto ispira corruzione ed orrore; l’ozio mortale che regna, la mancanza delle utili ed avvantaggiose occupazioni, la privazione dell'industria e del commercio, son esca e fomento ad ogni concepibile nefandezza....
E più d’ogni altra cosa, li tormenta e martella la cruda fame! Chi può mai comprendere in tutta l’estension sua il significato e la forza d’un sì orrendo vocabolo? il solo famelico. — Il nostro provvido Re avea fatto loro assegnare un cotidiano sussidio, una sussistenza conveniente ed acconcia alla posizion loro infelice; ma era d’uopo, per lo avverso, che gli smerciatoci delle alimentari sostanze colà stabiliti, finissero di spogliarli ignudi, affine di accrescer ingordamente le loro sostanze, e compiere a spese di quelle vittime infelici il periodico tributo promesso ad una branca di politiche Arpìe, che accordavan loro protezione e favore.
Le leggi penali hanno stabilite provvide pene uniformemente ai gradi di reati o di delitti d’ogni generazione; quel codice di leggi e tutto filosofico e profondamente ragionato, pieno di lume e di saviezza, di equità e di giustezza; in esso e patente e visibile il progresso delle più incivilite nazioni europee; la gradazione delle pene di polizia, correzionali, criminali, è, eminentemente giudiziosa ed umana. Intanto chi di costoro si trova colà sbalzato e punito per via di condanna? Ben pochi. Tranne questi, tutto il rimanente e vittima della calunnia e della prepotenza, del rigiro e dell’intrico.
In questo stato di cose, fuvvi più d’un’anima benefica che generosamente pregossi ad atti di comune intercessione pel bene di quei miseri non solo, ma di quanti altri infelici espatriati rinvenivansi in diversi luoghi del Regno, ed al di fuori ancora. Il cuore del clementissimo Re ch'èavvezzo a sentir altamente, ne ha inteso i reclami e le intercessioni pietose; la sua sensibilità si è scossa; palpitò il suo seno; e, squarciata la benda indegna del politico mistero, trionfar facendo la giustizia, schiudendo un’era più felice e più gloriosa, covrendo d'impenetrabil velo il poetato, deliberò con un atto generoso di sovrana clemenza di trarre un numeroso stuolo d’oppressata gente a libertà, civile.
E però dopo di esser proclamata e sanzionata in pubblica forma la costituzione politica della Monarchia, volendo il Sovrano estendere Febbraro a decretar fessi siffattamente:
Art. 1. L’azione penale per contravvenzioni e per delitti inferiori a questo giorno e abolita.
Art. 2. Le pene di polizia e le pene correzionali, applicate per contravvenzioni e delitti con sentenze o decisioni divenute irrevocabili prima di questo giorno, sono condonate.
Art. 3. Le pene criminali applicale con sentenze, o decisioni già divenute irrevocabili ad individui che attualmente si trovano nei luoghi di restrizione,, sono diminuite d'un grado.
Art. 4. Nel caso di più pene, cumulate a carico di uno stesso individuo, la diminuzione conceduta col precedente articolo e limitata alla pena che nel giorno di questo Decreto il condannato sta espiando.
Art. 5. Non sono compresi nell’indulgenza conceduta co’ precedenti articoli i giudicabili ed i condannati per reati in materia di falsità di moneta, di carte, bolli e suggelli Reali, compresi nel libro II. titolo V. capitolo 1. 2. 3. delle leggi penali, per calunnia, falsa testimonianza, e subornazione di testimoni, per malversazione e per altri misfatti di persone in carica, compresi nella classe di abusi di autorità, riportati, nel libro II titolo IV, capitola IV dette leggi penali per furto qualificato per violenza, e per ricettazione di oggetti furtivi da tal reato pervenuti; per misfatti militari; e per recidiva da misfatto a misfatto.
Grazie a si provvidenziali disposizioni provvenienti da un Re magnanimo e generoso, respiraron tosto aure di pace e d’individual libertà non pochi detenuti ed oppressi, che o gemevano innocenti in oscure prigioni, la generale esultanza in tutti i luoghi di detenzione e di pena, in data del 17 ò dal seno della propria famiglia e crei la cara patria eran dispoticamente rilegali in estranea terra. Primi a partecipare delle sovrane indulgenze, furon tutti coloro che per fatti di opinione si eran 'resi tanto famosi ed immortali in questi ultimi avvenimenti politici del nostro Regno. De’ più valorosi liberali della Città di Reggio, chi ottenne la tanto sospirata libertà, chi fu promosso a cariche civili od amministrative, chi riscosse da per tutto general i applausi, chi venne portato come in trionfo per le pubbliche vie, chi con grandezza d’animo e profusione di cuore accolto e festeggiato nelle case più ragguardevoli de' nostri generosi napolitani. E con Decreto del 22 marzo 1848, il tanto valoroso e prode D. Giovannandrea Romeo dell’anzidetta città fu nominato Intendente della Provincia di Principato Citeriore.
Quella sovra tutto, che richiamò l’attenzione dell'universale, e che meritò le più cordiali accoglienze de' personaggi più esimi e distinti di questo paese, fu senza dubbio l’ornatissimo Canonico Pellicano, il quale interessato venne peranco dal Re a predicare, in questi passati giorni, nella Chiesa dello Spirito Santo, sul dilicato ed interessante subietto del novello regime costituzionale. Indirizzò egli, in effetto, la sua coscienziosa parola ad immenso uditorio, e fu pur bello l’udire gli accenti liberi e franchi del vero, istintivamente manifestati dall'apostolo della libertà e della politica restaurazione. E vuolsi pure sperare che continuerà egli con generosi sforzi a predicare ed insinuare a' cittadini tutti, che la vera unione, l’ordine pubblico, il rispetto alle leggi ed a' novelli Magistrati ingenerano la nazional forza e la maggior libertà civile.
Pel valore in gran parte di questo rispettabil Canonico levossi la Città di Reggio, siccome accennammo altrove di passaggio, a novelle e più lusinghiere speranze; ma l’agitazione cd il fervor popolare rimanean soffocati pur troppo dalla material forza che frapponeasi tra il popolo ed il passato governo. Quindi tra' più prodi e con l’esempio e con la parola incitar seppe Pellicano la sua patria a pacifiche dimostrazioni, altamente reclamando il beneficio delle leggi fondamentali e delle consolanti riforme, come garanti della già preparata rigenerazione nazionale. Nétemé allora costui d'affrontar pericoli e di sormontare poderosi ostacoli; impavido sempre, per lo avverso, sempre forte e costante, consacrò sull’altare della patria tutto il suo pingue patrimonio, la sua stessa persona pur anche, istruendo e consigliando che le Calabrie si appalesasser rispettosamente nelle loro generose vedute, comunque armate e disposte sempre a combatter di grandissimo valore pel comun nostro riscatto. Fu egli allora abbattuto e vinto, ma la sconfitta fu per lui più onorevole della vittoria momentaneamente riportata da' suoi persecutori, perché non contaminata da reità veruna, e perché amò meglio succumbere alla necessità fatale, che concitare i popoli a civilguerra ed a strage, o promuovere i mali del più assurdo anarchismo. Se venner compri, in quei tempi di crisi, infami sicari per ¡sgozzare cittadini onorati e dabbene, attender dovransi non solo l’esecrazion pubblica, ma un legale giudizio in rigor di legge e sotto la vigilanza di magistrati preesistenti ed incorrotti.
Raggiunto finalmente, quando al ciel piacque, l’altissimo scopo, furon franti i suoi ceppi, rotte ancor le catene de' suoi valorosi commilitoni, e si ebber patria e libertade a un tempo. Né solamente costoro, ma tutti i loro compagni di sventura altresì, che forte pugnarono per la comun causa santissima, respiraron infine le aure soavi della civil libertà, e provaron tutti l’inconcepibil diletto di rivedere la cara lor patria.
Se havvi in noi sentimento che invincibilmente ci spinga verso un centro sensibile e forte vi ci appicchi; se sentesi l’uomo noti mezzanamente affezionato a qualche punto della terra, in forza d’un naturale legame, d’un sentimento possente ed ammirabile; quel comun centro e la PATRIA,e quell’istintivo od arcano sentimento e il dolce amor di PATRIA LIBERTA'. E compongono la patria quei cari luoghi in cui abbiamo la prima volta veduta la luce, dove le nostre dilette genitrici hanno avuto cura della nostra infanzia, dov'elle ci trasmisero le consolanti tradizioni che rannodano le generazioni viventi a quelle che son già travarcate ed a quelle che succederanno; i luoghi in cui abbiam sentito la forza d'amore, in cui abbiam sofferto pur troppo; lo scoglio della nostra spiaggia; l’antica quercia piantata da' nostri antenati; il tetto di paglia o di marmo, dove fu la nostra culla, dov'è l'ereditaria tomba, dove i nostri avi ci aspettano nel ferreo sonno di morte.
La patria! sono le gloriose memorie ch’ella ci offre tuttodì, le ceneri de' nostri maggiori, i geni tutelari, la favella, i costumi, le sacre leggi che rendonci sotto la lor ombra lieti e felici, le savie istituzioni in forza di cui siamo stati educati, il sudore che la stessa patria ci costa, Io splendore che ne abbiam tratto, l’aria che vi abbiam respirato, il terreno da noi tante volte calpestato, le mura che ci hanno accolto, i sassi, i campi, le siepi che sono stati sovente muti spettatori de' nostri fatti, di tutte le nostre imprese. La patria! ella è la terra natale, in una parola, che tutti i cittadini, gli abitanti tutti hanno interesse sommo di conservare, e cui verun di essi abbandonar punto non vorrebbe; poiché sì volonterosamente non si abbandona il proprio riposo, la propria gloria, la propria felicità, a meno che circostanze fatali irresistibilmente non ci obblighino a contrarie e violente determinazioni.
Gloria, trionfi, onori, amici, parenti, famiglia, il sacro nome di PATRIA tutte in sé comprende queste idee, e tutto le si sacrifica generosamente, financo la propria esistenza; poiché la ruina della patria trae seco irreparabilmente la perdita di tutti i beni, ond’ella ci assicura il legittimo godimento. Una volta acceso questo nobil sentimento, desto una volta il dolce amor di paria, più non si spegne negli umani pelli; questo celeste fuoco, vivo tuttora si conserva sotto le ceneri della ricordanza. Migliaia d’individui oppressi, che strascinavano una meschina esistenza in lontane terre, in mezzo alle ruine d’un aridissimo suolo, tra gente strana ed ignota, esclamavan col sentimento del dolore e della pietà: La nostra cara patria! quando fia mai che rivedrem noi la dolce e diletta patria! Esiliati gl’infelici dalle patrie mura, erranti di paese in paese, di contrada in contrada, nudriti di obbrobri e di persecuzioni, trovavan almeno qualche ombra di consuolo nelle loro coscienziose memorie; e non udivano senza gioia, senza felice commozione e senza forte intenerirsi, il dolce nome di patria. E molti di costoro esclamavano: Potremmo abbandonar noi il nostro paese, le nostre leggi, i nostri concittadini, i nostri cari fratelli, per salvare i quali siam qui spinti a penare e morire?
E però, nel loro allontanamento fatale, via più si accendeva e faceasi vivamente sentire ne’ loro cuori afflittissimi l’amor di patria libertà, per farne l’orrendo ed eterno supplizio. Sentivan costoro tutto ciò che avean allora realmente perduto; maledicevan allora la crudeltà degli umani destini. Il giorno e la notte, il mattino e la sera, i prati e le colline, i ruscelli e le valli, i fiori e le messi, ì frutti e le brine, i lidi e gli scogli, tutto rammenta all’uomo dell’esilio e della sventura ciò che ama, ciò che ha di più caro, e ciò che ha fatalmente perduto. Qual trista esperienza, qual prova crudele, individuale, continua, non ci fa tuttora concepire ed emetter fuori dal cuor nostro un cosiffatto sentimento!
L’infelice, che vedesi lungi sbalzato dalle patrie mura per solo motivo di politiche opinioni, tutto s’attrista e sen duole, tutto si cruccia internamente e dassi in preda ad un disperato cordoglio che gli preme aspramente il cuore. Egli è forzato a viver in mezzo a stranieri interessi, in mezzo ad altri individui, in odio forse a sestesso, cui l’abbandono involontario del proprio paese affligge, o le proprie sventure colman di tristezza e di lutto. Ravvisa talvolta nemiche braccia, mani ostili e crudeli arrotare i ferri micidiali contra la sua patria, contro gli sventurati compagni}contra gli oppressi o traditi fratelli, e sarà impotenziato a difenderli, a morir anco per essi. Ei vive, ed i suoi dolenti genitori gemono nelle miserie e nella desolazione da un canto, ed egli dall'altro mena del continuo la morente sua vita nel tutto e nell’abbandono; ei vive, e de' suoi più dolci e cari pegni di filiale affetto, chi e già disceso nella tomba, e chi sta presso a discendervi; ei vive, e gli autori della sua vita, giunti all’orlo del sepolcro, profferiscon più volte, quasi balbettando in dimezzato linguaggio, gli affettuosi nomi de' cari Egli, ma dal labbro di questi più non udranno pronunziare né avvicendar giammai quelli di tenero padre, d’amorevol madre; egli esiste, ed agli organi immediati della sua esistenza incanutiscon sulla fronte i capelli, e nullo conforto vien prodigato al penoso lor vivere, e il figlio lontano, l’esule sventurato non puote aiutarli a morire, e da inflessibile volere di fato gli vien negata financo la dolce consolazione di assisterli nelle lor lunghe ed afflittive infermità... costoro intanto tramontano a questa terra di esiglio e di dolore, a quest'ostello di miserie e d’oppressioni, e vive questi i suoi giorni nell’amarezza e nelle angosce mortali, ed ecclissansi i suoi occhi nelle lagrime del tutto e della disperazione!
Da un solo pensiero occupato questo dolente figlio della sventura, il pensier truce di morte; lontano da ogni consolazione cd incapace d’ogni altra cura, che non sia quel la d'identificarsi tosto con le preziose reliquie di quegli esseri a lui più cari; mestamente assiso in riva al mare, volge scoraggiato lo sguardo ormai indebolito in mezzo ad un orizzonte senza confini, vi cerca ansioso il punto verso il quale e situato il suo paese, e 'l calle che convien battere per ritornarvi. A un cotal e stato angoscioso e preferibile purtroppo la morte; eppure ei la respinge atterrito: morire, senza rivedere la patria, la superstite famiglia, i suoi più cari amici! morire, senza che dir possa a sestesso: Colà riposano santamente le ossa di CHImi ha dato quest’essere!... Un cosiffatto sacrifizio e superiore di assai alle forze umane. Gli uomini non dovrebber giammai imporlo agli altri uomini; non mai dovrebber sì spietatamente esigerlo da' delinquenti; spegner loro più tosto la vita, che menarli lungi dal patrio suolo.... —
Hanno pure una patria gli uomini, che da savie leggi son governati, e non temon punto gli effetti delle arbitrarie violenze di barbari despoti, appo di cui la volontà capricciosa tien luogo di legge. Perché mai contrade un tempo ridenti e coltivate, sono adesso sì aride ed incolte? Perché si vuole assolutamente così; perché si crede che ogni tentativo d’immegliamento sarebbe affatto scempio di vantaggiosi ed utili effetti per la civil comunanza. E sin a quando accuserà l’uomo la sorte per tanti mali di cui è fabbro egli stesso? Fino a quando i suoi occhi rimarrai) chiusi al chiaro lume di ragione, ed il suo cuore alle insinuazioni della verità che gli si presenta dapertutto? —Uomini ingiusti, se non potete sospender il prestigio che affascina i vostri sensi, se il vostro cuore e incapace di comprender il linguaggio della ragione, interrogate almeno le ruine del passato, leggete gli ammaestramenti che vi danno le storie nostre.
Quante volte le nazioni osservan rigorosamente le leggi dell’umanità, e dirigono saggiamente le masse, o moderano con diligente cura i loro destini, forse il moderator sovrano d'ogni cosa turba l’equilibrio morale o politico de' governi per ingannare la loro prudenza? svelle forse le messi che l'arte fa germogliare? devasta le campagne popolate dalla pace? rovescia le Città o le Capitali cui le arti e 'l commercio rendon fiorenti? asciuga forse e dissecca le sorgenti utili all’industria ed all'economia sociale? Se grandi paesi trovansi ridotti in solitudine, se ridenti contrade veggonsi annientate e distrutte, fu la mano di colui che tutto può, o quella dell'uomo, che rovesciò le loro mura, ne distrusse gli edilizi, ne fè crollare financo le fondamenta? fu il braccio dell’Onnipossente, o quello dell’uomo che portò il ferro ed il fuoco, la strage ed il sangue, la desolazione ed il lutto nelle città, e nelle campagne, ne’ paesi e nelle famiglie?.... Allorché la guerra civile miete barbaramente gli abitanti, se rimane nna Provincia spopolata e diserta, è forse il volere dell’Eterno che in siffatto stato la riduce? èil suo furore, o quello de' suoi rappresentanti e ministri che siffattamente la flagella? È il suo orgoglio, o quello de' moderatori de' destini degli uomini ch’eccita micidiali guerre ed esterminio ferale d’immensi cittadini? sono le sue passioni, o quelle dei grandi della terra, che, in diverse guise e sotto svariate forme, tormentan gl’individui ed opprimon i popoli? —
E voi intanto rimanete oziosi e indolenti, o freddi contemplatori dell’umana perversità! Per prezzo di tanti delitti impunemente commessi dal tenebroso GENIO delle più inaudite scelleranze, che or più tra noi non esiste, sarà pur d'uopo che chiami l’Eterno a novella vita i lavoratori ch'egli svenò, i cadaveri freddi e disseccati che rinvennersi ancora ne’ ceppi in fondo alle sue catacombe infernali, che rianimi tante vite al suo dispotico furore barbaramente immolate? — Ma vendicocci però con usura il cielo! itormenti della propria coscienza, il rimorso del male già fatto, l’idea terribile della sua situazione presente, l’esecrazione ed ignominia dell'universale, l’aria financo che respira, tutto gli sembra portare la nera impronta di ciò che egli e realmente. —
E ci sottrasse pur anche l'Eterno al non men tristo flagello d’un altro fello e reo personaggio che, compagno fedele e socio carissimo alle ribalderie del primo MOSTRO abbattuto, gli fu compagno e collega eziandìo negli stessi casi di sventura. Un cotal Monsignore D. CELESTINO COCLE, la cui storia esecranda fia meglio covrire d’obblivione profonda, per la ragione che
HORRENT AURES AUDIENDO EA CRIMINA PATRATA!
vergognosamente fuggiasco da questa Capitale, al primo annunzio della caduta fatale del suo perfido protettore ed amico, non men che al rumore propalatosi dapertutto di essersi già sventate le inique sue trame, il suo tradimento orrendo, i suoi abbominevoli delitti, erasi rifugiato ed ascoso nella vicina terra di Somma; donde snidato alle grida allarmanti d’un popolo mosso a giustissimo sdegno, erasi ridotto di furto a Castellammare, e propriamente nel palazzo del Vescovo di quel luogo. Quel popolo altresì, fatto pienamente istrutto del suo arrivo e del suo clandestino soggiorno colà, levossi ratto a tumulto, si munì d’armi e di sassi, e, corrivo ad irrefrenabil furia, minacciava di spegnergli la vita. Vi accorse però immantinente la Guardia Nazionale accompagnata dal Sottintendente, e lo sottrassero per avventura a quel furor popolare. L’indomani finalmente, 6 Marzo del 1848, il vapore NETTUNO, Comandato dal sig. Salinas, trasportava in Malta per ordine Sovrano quel ECCELLENTISSIMO PRELATO.... —
Giunti finalmente alla meta i voti comuni di tante sventurate vittime, barbaramente sacrificate al dispotico volere di quell’abbattuto mostro, infranse d'un sol colpo il nostro generoso Sovrano le loro catene, e fu bastevole una sola parola perché uno stuolo immenso di proscritti fosser ritornati a libertade ed a vita civile, in mezzo alla pubblica esultanza de' loro concittadini e fratelli, e perché divenisse egli stesso il provvido salvatore di tutto il nostro Reame, già preparata e disposto ad un miglior avvenire.
Ed e pur grande senza dubbio la consolazion nostra nel pensare, che i nostri redenti fratelli stiansi non mezzanamente cooperando, d’accordo col novello Ministero, e col nostro savissimo Re, a sottrarre gl’interi popoli napolitani all’abbrutimento ed al l'ignominiosa servitù, con elaborate leggi d’irretrattabili garantìe; che tutte le amministrazioni dello stato saranno avvedutamente immegliate, ed in forza delle loro rispettive leggi organiche, e coll’intervento di uomini probi ed eminentemente illuminati; che le Province, i Distretti e le Comuni non più amministreransi da un sol uomo capriccioso, e nella guisa orientate; che eligeransi le municipalità, e verran quindi i popoli governati moderatamente, e liberamente protetti; che il potere de' Regi Giudici e degl’Intendenti sarà non mezzanamente frenato; che la legge elettorale sarà per provvedere a un tempo all'ordine pubblico, e farà onore alle proprietà intellettuali; che tra i corpi di Armata, tra' negozianti, tra gli uomini di lettere e di scienze, tra le accademie Reali e le Università, essendovi non pochi individui oltremodo forniti di eminenti cognizioni teoretiche e pratiche, pieni di patriottismo e di vera filantropia, saran questi prescelti e compresi tra gli eligibili alla rappresentanza nazionale; che provvederà il Parlamento a far rientrare ogni cosa sulle vie del progresso, mettendo in armonia le antiche nostre istituzioni, a noi tolte da invasione straniera, con gli attuali bisogni dello Stato; che leggi particolari discusse nello stesso Parlamento regoleranno le provviste e promozioni di Magistrature e di Uffiziali d’Armata; che la stampa sarà libera e refrenata soltanto dalle leggi penali, ma non impedita da qualunque autorità, a segno da non dover temere che i soli perversi; che l’accordata Costituzione sarà sempre un vantaggio nazionale, e non già un appoggio al fellone, uno scudo al ribaldo ed al misfattore; che un densissimo velo sarà posto sugli antecedenti politici, anzi che sulle ruberie e sur altri misfatti di peculato o di omicidi senza forma di processo; che raddodoppierassi infine di cure e di sforzi, affinché le garantìe nazionali non tramutassersi in protezione di facitori di misfatti, e non s’incominciasse dal violar la Costituzione, col far tacere pe’ potenti le leggi, o col farle rimaner sospese e scempie affatto di esecuzione.
Come mai, in effetto, far rimanere impuniti ed in carica tanti magistrati indegni e corrotti, venali ed ingiusti, che hanno seviziato tanti esseri sventurati, che han fatto spegner la vita a molti cittadini, senza forma di processo e senza Giudizio; che si son fatti doviziosissimi per via di malversazioni, e di progettati lavori, ma non mai incominciati od eseguiti; con la vendita di cariche pubbliche, e con ignominiosi furti di comunali beni?... E non dovrem poi esultare di gioia nel solo riflettere, che ogni cosa andrà a rientrare nell’ordine; che ulteriori scene di sangue, di corruzione e di terrore non saran più riprodotte; che ne saranno severamente puniti e perseguitati gli autori; invalidati i titoli fastosi ed aristocratici, aboliti gli ordini cavallereschi, e rese nulle tutte le odiose distinzioni accordate nella discordia civile; che lenostre garanzie saranno effettive, e non più dipendenti dall’altrui cieco volere; che la nostra Guardia Nazionale, in miglior modo organata, servirà loro di saldo sostegno ed appoggio; che tutte le diverse amministrazioni dello Stato saran poste d’accordo e fatte omogenee col novello ordine costituzionale, tanto per le leggi ed i regolamenti, quanto per le persone che sono inseparabili dalle stesse garanzie; che la Consulta peranco sarà assorbita dal nuovo Consiglio di Stato, e che questo sarà eletto dal Re sulle terne degli Elettori provinciali; che saranno infine instituite Cattedre di diritto costituzionale in Napoli e nelle Province, affine di guidar meglio la pubblica opinione in partiti moderati, ma nazionali, energici, forti e saggiamente acconci a preparare una Camera di deputati che fosse accomodata alla condizione de' tempi?
Ed osiamo veramente sperare, che nella prima Sessione legislativa avransi a trattare le più ardue e malagevoli quistioni interne e di diritto internazionale europeo. E però fa d'uopo consolidare questa grand'opera senza ritardo; ma, indipendentemente da un buon Parlamento, da salutari e savie leggi, dalla ferma fidanza nell’opinion pubblica, sarebbe assai vano il tentarla; perocché i nostri interessi sono ormai solidari ed intimamente appiccali a quelli degli altri popoli d'Italia, che, sotto la guida e direzione dei magnanimi Principi italiani, sono avviati sullo stesso calle di ordine e di libertà, di pubblico vantaggio e d’italiana indipendenza.
Mentre cosiffatti voti andavansi ferventemente volgendo nel cuore di ciascun cittadino, e cotal i speranze avean luogo fermamente nell’animo di tutti, un annunzio ufficiale facea noto al Pubblico napolitano, che nel giorno 24 di Febbraio del 1848 doveva aver luogo l’augusta ed imponente Cerimonia del Giuramento solenne, riguardato dall'intera Nazione come sicura guarentigia e religiosa consecrazione alle costituzionali riforme. E però, se la religione de' potenti non suol essere comunemente che il potere e la materi al forza; se parecchi di costoro, in tempi di ferocia e di barbarie, nel giurar fede ai popoli, appressavansi all’altare della tremenda ed eterna Giustizia col tradimento nel cuore e con la maledizione del cielo sulla fronte; se il nome dell’Eterno, cui indegnamente profferivano, osavan costorofar complice della loro nera perfidia; se nello stender la mano sul Vangelo, obbliavan quella che aveva anticipatamente segnato la loro condanna; assai ben diverso da un giuramento sì nefando ed infame fu quello già prestato in tal giorno da Ferdinando II nel Tempio augusto di S. Francesco di Paola.
Dinnanzi a coloro, che sanno quanto sia calda e verace la fede nel cuore del Re, aveva egli giurato la Costituzione sin da quando la proclamava nel nome dell’Eterno, cui solo è dato di leggere nel profondo de' cuori, e ch'egli invocava a Giudice della purità delle sue intenzioni e della sua coscienziosa lealtà. Quest'atto sovrano intanto venne pur troppo adempiuto nel modo più solenne ed imponente. Il saluto de' castelli invitava i cittadini tutti a goder della solennità più lieta e più memoranda per la nostra Nazione. Il cielo stesso peranco, dianzi sì fosco ed ammantato di nere nubi, e divenuto poscia sì tranquillo e sereno, parea che volesse mescere il suo sorriso alla comune esultanza, e giugnere maggior ornamento alla festosa cerimonia, ornando de' più bei raggi del sole questa nostra contrada.
Non men gradito spettacolo offrivan poi allo sguardo universale i Reali Legni a vapore che trovavansi in rada, del pari che i legni inglesi e francesi, che, facendo eco al nazionale tripudio, aveano sventolato il costituzionale vessillo. Sulla gran piazza del Palazzo Reale dodici Compagnie scelte dei battaglioni della Guardia Nazionale a piedi vedeansi schierate in doppia fila, dalla Reggia al Tempio anzi detto, per fare nobil corteggio alla Reale Famiglia. La Nazional Guardia d’Onore a cavallo, la Guardia Nazionale a piedi, e quelle tra le Reali Milizie di terra e di mare, eran ivi rappresentale da diversi drappelli di tutti i Corpi, con le rispettive bandiere e con la banda musicale.
Il resto poi della piazza era tutto ingombro e gremito d’innumerevol popolo; pieni del pari di molta gente i balconi de' Reali palagi; tutti occupati da ogni generazione di persone i portici di quel grandioso edificio, che nel giro delle sue magnifiche logge appariva allo sguardo come gigantescamente ornato di mobili ghirlande di uomini sino alla sommità della cupola. Né diverso spettacolo appalesavasi nell’interno, le cui cappelle, le tribune e le ringhiere, infra il variato novero de' nostri concittadini, comprenderán anco un immenso stuolo d’italiani e stranieri, cui era dato essere spettatori d'un sì grand’Atto, che rende in gran parte famosi gli annali della nostra patria storia.
Il Real Trono ed una provvisoria tribuna accoglievano il Re e la Regina co’ Principi Reali, la Regina Madre, le Reali Principesse e l’Infante di Spagna D. Sebastiano. Miravansi poscia ordinatamente disposti il Corpo Diplomatico, i Ministri Segretari di Stato, i Direttori delle Reali Segreterie e Ministeri di Stato in attività, la Real Camera con le Dame della Real Corte, i general i dell’Esercito di terra e dell'armata di mare, il Consiglio di Stato, e gli Ordini, giudiziario, scientifico ed amministrativo. Non ci facciam qui punto a descrivere le altre più minute particolarità d’una cerimonia sì sontuosa ed eminentemente nazionale, perché note pienamente fra noi; ai lontani ed ai posteri èbastevol solo accennare, che verun altra regal pompa e stata qui finora più splendida e più imponente a un tempo.
Celebrata la Messa, il Re e tutti gli altri levaronsi in piedi; un silenzio profondo regnava nel Tempio pronunziò allor egli ad alta voce la consueta formola del sacro giuro; i sensi più alti di religione, i più grandi affetti che muover possano un Padre il quale consacra per sempre la prosperità della sua rigenerata famiglia, eran pinti sul volto del nostro Monarca, in quel momento d’ispirazione sublime ed istintivamente profonda ch’ei giurava inviolabil fede alla napolitana Costituzione. Profferì costui il giuramento con voce sì ferma e sì vigorosa, che venne dà tutti distintamente ascoltata; e le solenni parole, che dall'intimo cuore fuor muovevan per le labbra, furono nel cuor di tutti indelebilmente impresse. In quel momento, fu estrema l'universal commozione, non ebbe più limite il sentimento di grata riconoscenza verso un Re sì magnanimo e caro. L’intervento della Maestà dell'Eterno, visibil per fede, e non per occhio mortale, la magnanimità del Sovrano, la santificazione del Patto, la conferma solenne della nazionale redenzione, il lieto avvenire della Patria comune, l’immegliamento futuro de' nostri destini, l’idea consolante d'una vita novella, di nuovi e più sacri doveri, mille pensieri dolcissimi, mille sentimenti affettivi destaronsi in un punto, e tutti confusi in un sentimento solo ed immenso, che sprimer possono esclusivamente le lacrime.
Prestaron poscia il giuramento gli altri membri componenti la Real Famiglia, del pari che tutte le altre Autorità e Capi, ond’essi teste fatto cenno. Il Re intanto, montato a cavallo, e circondato da parecchi general i, percorse le schiere militari in mezzo a dimostrazioni di gioia e di general i acclamazioni: postosi quindi in un punto centrate, fè leggere ad alla voce dal Tenente general e Selvaggi la formola del giuramento al Re ed alla Costituzione; ciò fatto, rientrò nella Reggia tra le reiterate acclamazioni di giubilo, tra l’armonico fragore de' militari strumenti, ed il rimbombo della salva delle fortezze.
Una Solennità sì grandiosa ed imponente, che mise in lieto movimento questa immensa Capitale, non venne punto sturbata da qual siesi più lieve inconveniente. Han tutti giurata la Costituzione del Regno; l’han tutti ad ogni costo proclamata e voluta; e tutti accingeransi, lo speriamo almeno, con la mente e col cuore, col senno e con la mano, col generoso sacrifizio delle proprie passioni e con lo spargimento del proprio sangue peranco, ad eternamente consolidarla. Chi non pensa e non sente siffattamente, o non l’ha mica giurata, o e spergiuro ed infìnto. Tra la vita e la morte una Nazione non può restare indecisa; ed oramai la nascente vita politica della nostra cara patria ò tutta riposta nel santo patto che abbiamo rifermato con giuramento solenne.
Che questo patto adunque di fraternale e sacra alleanza ci stringa insieme come in un corpo perfettamente morale, ci avvinca fra noi con indissolubili nodi di vero patriottismo, di cittadinanza non infinta, ci leghi infine con saldi vincoli filiali al Padre comune, all'adorato Monarca che ci ha generosamente affrancati e redenti. Ove siamo conseguenti a noi stessi e fermamente fidiamo nella comunanza delle nostre forze; ove la virtù sovrana a covrir facciasi come impenetrabile scudo i suoi fedeli suggelli, costantemente intesi a difender con le armi i sacri diritti con tanto stento riacquistati, e sovranamente ancor consecrati; ove i cittadini tutti dello Stato, giunti strettamente in uno, sien presti a ricovrarsi sotto le ale vastissime del nostro savio Re, sorgan pure infestissimi nemici all’augustissimo Trono, al nostro Statuto Costituzionale, a questa nostra patria valorosa, a questa terra d’Italia, non dovrem punto temerli né curarli gran fatto. Entreranno i nemici nel profondo della terra; verran dati alla strage; saran pastura di animali; esulterà di gioia e di gloria il Sovrano; chi ha giurato nell'Eterno trionferà combattendo; gl’iniqui invasori torneran muti e frementi di fierissimo sdegno. —
Havvi di lai sentimenti negli animi nobili e generosi, che, per quanto manifestinsi al di fuori con segni energici ed espressivi, non mai si affievoliscono, né vengon meno giammai. Di tal fatta or sono ne’ cuori napolitani i profondi sensi di gratitudine e di riconoscenza inverso l’augusto Monarca, per le concesse franchigie che han fatto risorgerea novella vita di nazional gloria la nostra Patria. Ogni più ardita immaginazione mal può concepire con qual tripudio e con quali dimostrazioni di pubblica gioia sia stato quella sera accolto in S. Carlo. Ei vi apparve sotto le onorate divise della Guardia Nazionale, portando quasi impresso sull'augusta sua tonte un novello raggio di patrio amore. Lo spettacolo fu tutto a un tratto interrotto, perché ognuno volgevasi a lui con lo sguardo e col cuore, con la voce e con la mente. Il levarsi tutti a un punto in piedi, sentirsi invasi come per elettrica possanza d’un inconcepibil entusiasmo, e proromper tutti in festose grida di Viva il Re, fu solo una cosa. Con una cordialità non ordinaria accoglieva costui quel prorompimento istintivo, quell'espressione fedele della più sentita e verace riconoscenza.
Era incapace di freno, in effetto, di misura e di modo quell'affettuoso slancio, e nol contenne allora che solo l’impaziente desiderio d’ascoltar l’inno allusivo al regal giuramento già dato. Quando finalmente la scena fè vedere agli spettatori la più bella piazza di Napoli, ed in mezzo la Statua di Ferdinando IIcon in mano il cappello in atto d’indirizzar il saluto al suo popolo; quando l’inno cantassi in armoniose note e quegli accenti divini di cittadino affetto via più destaran conformi sensi nel cuor d’ognuno, i concitati applausi scoppiarono con veemenza maggiore, e l’unanime grido di smodata esultanza più fortemente rimbombò.... —
Né deesi qui punto obbliare che tutto quel vasto teatro magnificamente folgorava di luminarie grandi, e che vi comprendeva il fiore della Nobiltà napolitana, del pari che i più insigni ed esimi personaggi stranieri, sovra tutto un buon numero d’Uffizialiinglesi e francesi. Grande, senza dubbio, fu lo spettacolo di quella sera, e tale da non potersi pigner acconciamente a parole. Segnerallo la storia a caratteri indelebili negli Annali del risorgimento de' popoli e della vera grandezza de' Principi.
L’entusiasmo intanto e la gioia che animaron questo popolo per quasi tutta intera quella notte; le dolci dimostrazioni di riconoscenza per un atto sì solenne che sanzionava al cospetto dell’Eterno la felicità d’una Nazione, il regno della Giustizia e della verità; i variati modi onde la pubblica esultanza fu rappresentata ed espressa, meritano pur troppo qualche rimembranza in queste pagine di storia nostra, che sono l’espression libera di ciò ch'è nel cuore, la manifestazione fedele ed ingenua di ciò ch'è chiuso nell’umano pensiero.
Innumerevole stuolo di cittadini, ed in cocchio, ed in piedi, ingombravan la vasta Toledo, il largo del Castello, le principali vie della Capitale, e sovra tutto il vasto spianato della Reggia. Ornava l'ordine della passeggiata ed impediva a un tempo l'allagamento della straripante folla l’infaticabil Guardia Nazionale a piedi ed a cavallo, rinforzata da numerosi drappelli di ausiliari, che facean dignitosa mostra di patriottico attaccamento. Ognuno intanto con rispettosa ilarità salutava i tre colori italiani, omai congiunti per sempre alla Nazionale Bandiera, e quel saluto era degno d'un popol libero e forte, politicamente uno ed indiviso.
Facendo eco spontaneo al dolce invito del Corpo di Città, ad illuminar fessi il popolo le. proprie case, e per impulso di cuore, e per irresislibil sentimento di vivissima gioia. Cosa veramente ben degna d’un’augusta ed imponente cerimonia, non ancor veduta da tutta intera la generazione presente! I palazzi, gli abituri, le botteghe, i pubblici edilizi, il palagio de' ministeri, tutto mirabilmente offriva allo sguardo dell'immensa popolazione uno scintillar di lumi magnifico, un chiarore ammirabile ch'emulava quasi quello del più perfetto meriggio; né vedeasi allora certamente cosa più bella della decorazione dei prospetto delle Finanze, che, splendidamente illuminato, facea di sé vaghissima mostra.
Pio Nono colmò di benedizione e di gloria le nostre itale contrade. Tutte le dimostrazioni di pubblica gioia manifestavano in quei momenti di universale tripudio un pensiero veramente religioso, che avea per compagno il pensiero di libertà. Facea pur di mestieri che gli artisti mostrassero come la libertà del pensiero sia principio per essi e condizionale cagione d’ispirazioni sublimi. E però ravvisavansi in diversi punti della Città i più bei trasparenti, che raffiguravano in diverse fogge il Re, e quello peculiarmente che il rappresentava in alto di giurare la Costituzione del nostro Reame.
Il porticato poi e la cupola della Basilica di S. Francesco splendidamente illuminati, imitavan le luminarie grandi del porticato e della cupola di S. Pietro. Quel vasto spianato pieno zeppo di gente; l’imagin del Re toccante con la destra il libro de' Vangeli; il Palazzo del Fontana in fondo; il cielo sereno e stellato; i musicali concenti d’un coro di dilettanti che con l’armonia della voce e del suono rendean più soave e più toccante l'inno Nazionale; gli innumeri spettatori che eran per via e pei balconi; lo splendore incantevole e gradito di mille faci accese; il suono delle bande musicali e gli applausi interminabili al Re, alla Patria, all'Italia, formavano un insieme veramente indefinibile ed arcano. —
Mentre nella Capitale si stava in gran festa, e gli animi di tutti i cittadini eran forte compresi di vivissima gioia e d’una galleria senza limite, per l’atto solenne della giurata Costituzione, stavansi pienamente compiendo gli ardenti voti degli altri nostri fratelli toscani. Leopoldo Secondo, rendendo degna la Toscana di quel bene e di quella felicità, cui l’ordin novello di cose le andava già maturando, le concedeva uno Statuto fondamentale, come l’esigevano i tempi nostri, come lo richiede l’altissima impresa della Nazionalità Italiana.
Uno Statuto fondamentale e la più grande e la più bell’opera che far possa un Principe; ed è a un pari il più grande de' benefizi che possa ricevere un popolo rigenerato. Un’era novella schiudevasi ancora per quella cara parte della nostra bella Italia, l'era costituzionale! E quella redenta gente facessi intanto sollecita ad inaugurarla con atti profondi di ringraziamento all'Eterno che avea sì bene ispirato il suo principe, col raddoppiare di sforzi per rendersi via più degna del novello patto Nazionale, e fuor manifestando la gioia estrema del cuore con parole di concordia e di fraternale alleanza, con accenti di pace e di magnanimità italiana.
E però il dì 17 febbraio del 1848, dalla Comunità Civica di Firenze pubblicarsi il Programma della gran festa, in occasione del già concesso nazionale statuto. E di qual festa, grandini di quali dimostrazioni d’affetto e d’attaccamento, di riconoscenza profonda e di gratitudine somma non è mai degno un Principe, che dà le più chiare e luminose prove di generosa cura, di sapiente sollecitudine ne’ suoi grandi atti legislativi, e che, a seconda de' tempi, tutto inteso si mostra a far pago il voto generale del popolo, ed a fondare la felicità della patria? —
Alle ore 10 della mattina impertanto il rimbombo del cannone ed il suono della campana della torre di Arnolfo davano il segna e che il toscano statuto faceasi pubblico nella Capitale, del pari che in tutta l'Etruria. E tosto, dinanzi alla metropolitana, numerosa schiera di militi cittadini si raccoglieva; e numeroso stuolo di concorrenti affollavasi con cuor tranquillo ed esultante di gioia, per le altissime speranze avverate. Ondeggiavan intanto sopra quella moltitudine un’infinità di bandiere, coi colori di tutti gli stati italiani. Leggevasi poi nel pontificio vessillo questo bel motto: BENEDITE, GRAN DIO, L’ITALIA!e a quel vessillo, cui stava fiso ogni sguardo, cui stava volto ogni pensiero, era indiritto il comun saluto degli spettatori commisto a lacrime d’italiana tenerezza.
In questo, sotto la loggia dell’Orgagna leggevasi ad alla voce il novello statuto al popolo, che, con profonda attenzione ascoltando, iva di tratto in tratto prorompendo in acclamazioni alla saviezza ed alla magnanimità del legislatore, che quell'immortal documento aveva dettalo. Ed èben degno di nota che, a quella parte in cui dichiaratasi affidata la tranquillità interna e l’indipendenza della patria ai militi cittadini, ed ai toscani tutti, levaronsi. in uno più voci che interruppero, interrogando, se i Toscani eziandìo non ascritti alla guardia civica, eran chiamati a quella sacra tutela; ed alla risposta affermativa, echeggiaron più forti e più concordi gli applausi. Chi leggeva quell’Atto Sovrano imprese peranco a rilevare la magnanimità del Principe che nello Statuto apertamente si svela, per variate prove, e peculiarmente per aver egli rinunziato all’aumento d’assegnazioni sulla lista civile, che dovuto si sarebbe alI’A. S. per la reversione degli stati lucchesi alla sua corona, e e?r la conseguente perdita delle signorie di Boemia. Gli ascoltanti allora espresser con vivi plausi il giusto senso d’ammirazione, onde profondamente commoveali la generosa rinunzia del principe, che le toscane assemblee legislative scambiar sapranno a suo tempo con debiti omaggi di riconoscenza e di laude.
Alle ore dodici di quel giorno, già convenuti nel designato tempio, facendo ala i militi cittadini, la civica magistratura, l’uffizialità della guardia civica e lo stato maggiore delle truppe di linea, in mezzo all'affluenza d’un popol devoto e redento, solenne intuonavasi l’inno consueto di lode e di ringraziamento all'Eterno. Ciò fatto, tutta la Magistratura e le Uffizialità anzidette, da lunga ordinanza di popolo, tranquillamente lieto; seguite, riduceansi al palazzo Pitti. L’adiacente piazza era giù ingombra d’affollata gente, alle cui acclamazioni quel generoso principe cortesemente rispondea. Avuto poscia ricevimento od ammissione nella Reggia la Magistratura, presentò il Gonfaloniere all’Augusto Sovrano l’infrascritto indirizzo:
«Altezza! I tempi sono grandi; ma l’animo vostro ch'è grande al pari di essi, gli ha soddisfatti con l’ampiezza delle Sovrane concessioni. Se il paese era preparato a riceverle, eran eziandìo apparecchiate ad elargirle la Bontà e la Sapienza vostra. Quest’opera ch'è frutto del senno Regio per un secolo intero, e della vita d’un popolo da lui ravvivato, comprende tutta la grandezza delle cose presenti e l’antiveggenza dell'avvenire italiano.
«Questo nuovo e massimo benefizio Sovrano, mentre stringe il legame di affetto annodato da' benefizi del passato, stringe il novello patto politico fra Principe e Popolo, che li rende per sempre inseparabili.
«Altezza! Il Municipio di Firenze è altero di potervi il primo offerire l'omaggio d’una riconoscenza che niuno potrebbe porgervi maggiore.
«Questo municipio vide l’estremo della libertà e della servitù. Ora èsicuro, che la servitù e impossibile quanto la licenza. Egli vide per fanti secoli tante mutazioni di Signoria. Ma quale de' principi gli rapì la libertà; quale gliela promise. Voi gliel’avete data, ed io modo che la libertà della Toscana assicuri quella d’Italia, e sia pegno a un tempo che voi e la vostra discendenza sarete in qualunque tempo ed in qualsiesi evento custodi dell'una e dell'altra.»
Né fu punto scempio di risposta un sì magnanimo ed eloquente indirizzo, cui quel generoso Granduca siffattamente ricambiava:
«Le generose parole del Municipio fiorentino risvegliano nel mio petto sensi di nobile orgoglio, perché mi porgono la desiderata assicurazione che le novelle Istituzioni hanno destato. nel cuore del mio Popolo un eco di riconoscenza e di affetto. La stessa fiducia nel senno de' Toscani che mi consigliò a concedere queste franchigie, mi rende certo ch'eglino sapranno far sì che a vantaggio della Patria comune si volgan tutti quei benefizi i quali dal nostro Statuto fondamentale possono svilupparsi. Io continuerò a porre ogni mio studio per contribuire al maggior bene della Toscana; e confido che mentre i nostri sforzi. uniti vi assicureranno la tranquillità ed il libero godimento delle nuove Istituzioni, sarà questo per l’Italia tutta un argomento positivo di felicità e di gloria.»
Mentre tali riforme politiche concedeansi in Toscana dal generoso e magnanimo Leopoldo, e teneansi beati quei popoli nel vedersi risorti ad un novello reggimento civile; mentre gioiva ed esultava del pari il popolo napolitano, per gli stessi benefizi a lui largamente impartiti da Ferdinando II, non minore era il tripudio e l'universale allegrezza, ond'eran altamente invasi gli animi dei Genovesi, al lieto annunzio della napolitana restaurazione.
Un nazionale avvenimento, degno pur troppo di esser infuturato nelle generazioni avvenire e che sublima un regno all’altezza e dignità di nazion libera ed indipendente, ha per sestesso cotal efficacia nell’animo da preoccupare ogni altra facoltà, da vincer anco ogni possanza di stile. Il cumulo degli affetti ond’è forte il cuor inebbriato, mentre lo riempie d’un confuso senso di gioia profonda, fortemente infrena il limpido corso delle idee, ne turba l’ordine ed ingenera tosto una specie di estasi che si adora facendo. Non pertanto il debito sacro d'un vero amatore della patria comune, di narratore fedele ed esatto degli avvenimenti politici ed italiani, che han luogo ed esistenza in questi nostri tempi e nella nostra Penisola; il dovere ancor più sacro d’uomo riconoscente alla maestà dell'Eterno, che a noi primi in Europa largiva il dono d’un patto rappresentativo, senza che nella Capitale almeno ci costasse una lagrima ed una stilla di sangue; l’obbligo finalmente di cittadino devoto ad un principe che liberalmente precorre all’inchiesta, e concedendo si compiace di trascender financo l’espettazione comune, hanno cotal forza ed impero di legge per noi da obbligarci a volger per punta la parola a' no«stri concittadini e fratelli. Parliam dunque in quel modo che il patrio amore ci vien neutro dettando, e riserbiamo ad altri momenti di men agitata od istintiva allegrezza il linguaggio della mente pacata e ragionatrice.
Lo stesso giorno in cui eravamo tutti intesi a vergare queste poche pagine di patrie rimembranze, doveva schiudersi per noi col lieto annunzio di quanto poteva far pieni i nostri desideri, consolare le nostre speranze, soddisfar pienamente le nostre bramosie, assicurar in somma i futuri destini del nostro reame; e ciò che poneva il colmo alle nostre nazionali venture, era il pensiero della gloria, l’idea consolante del riscatto e della possanza che sarebbe per esse derivata all'Italia. Direm dunque laconicamente a' nostri fratelli delle altre italiane province con noi risorti a novello regime civile, od in via pur essi di pieno risorgimento, che il mattino de' 9 febbraio destassi Genova novellamente libera e forte; e non più sola a godere d’un tanto inestimabil tesoro, ma stretta con sacro nodo d’alleata sorella ai valorosi custodi delle Alpi, e franca rispondente a' lontani gridi di cittadina gioia ch’elevansi dall'Italia meridionale e forte rimbomban sulle rive Partenopee.
Diffusa appena colà la lieta novella d’uno statuto rappresentativo a noi dal Sovrano generosamente concesso; divulgati appena e dapertutto benedetti i larghi provvedimenti, omai dal nostro regno provvidenzialmente ottenuti, un festivo affaccendarsi, un percorrer le vie con canti ed evviva alternati, uno scambiarsi gli amplessi tra noti ed ignoti da non potersi descrivere, ha tramutato in pubblica festa un avvenimento siffatto. Sventolar vedeansi i patrii vessilli dalle finestre, da' veroni, dai tetti, per tutte le vie, mentre diffondeasi ovunque il suono de' sacri bronzi, e quello sovra tutto della gran campana della Torre di Palazzo, che ha sempre pei Genovesi un’eco risvegliatrice di grandi memorie.
Turbe immense di giovani irrompevan da ogni lato intuonando gl'inni cittadini e forte plaudendo al nome del Re, finché giunto il mezzodì, volgendo i cittadini il pensiero là donde ogni gran bene discende, ed in COLUI drizzando la mente che pose finora il sacro suggello ad ogni italica lesta, avviaronsi in ¡schiere ordinate, precedute da variopinte e ricche bandiere, inverso la cattedrale, che sotto le vaste e severe sue volte tutta accolse e comprese quella gente esultante. Vedeansi fra quelle brune colonne e in mezzo a un’onda di popolo immenso rosseggiare, biancheggiare, agitarsi le Sarde Croci e le Liguri, e luccicarne le punte astate ed adorne aurei pennoncelli; leggeansi inoltre sa quelle e nomi gloriosi, e motti sublimi, e consolanti cifre, ed energiche frasi, intra lequali ispiravan possente fiducia le sempre acclamate ed accolte: DIO È CON NOI,L’ITALIA FARA' DA SÈ! Uno fra' nostri patrizii più amati dal popolo, e il cui nome suona chiarissimo nelle scienze, impugnava trionfalmente un vessillo, a cui gli altri facean cerchio e corteo nell’entrare al Tempio.
All'esterna parte di questo, un altro spettacolo ancor più meraviglioso s’offriva allo sguardo di chiunque. Le case circostanti eran ornate di arazzi di vario colore; sulla gradinata della chiesa vedessi disposta una doppia fila d’altre bandiere e stendardi d’ogni orma, d’ogni grandezza. Elevavasi in mezzo, sotto l’arco della porta maggiore, il vessillo dell'immortale Pio Nono, che dapertutto era segno di plausi iterati, animatissimi, ben dovuti a quel Sommo che primo diede l’impulso possente e la religiosa sanzione all’Italico risorgimento. Di prospetto alla moltitudine sulla piazza raccolta, fra un’immensità di sventolati vessilli, dalle braccia d’alcuni cittadini era dignitosamente sorretta l'effigie del re. Entrato nella cattedrale il corpo civico, ed intuonato l’inno Ambrosiano dal popolo che tutto riempiva il tempio, le sacre note si diffuser sulla piazza e nelle vie adiacenti, e delle une e delle altre formossi quasi un altro tempio immensamente prolungato.
Compiuta la sacra cerimonia, e, postisi novellamente quei drappelli in ¡schiera, ricominciaron le grida di Viva il Re, Viva l'Italia, Viva la Costituzione! Intanto il carpo decurionale, raccolto nelle sottoposte sale del palazzo ducale, votava per acclamazione un atto di ringraziamento al Sovrano, che applaudito venne col più vivo entusiasmo.
Nella sera poi, i pubblici stabilimenti, i palazzi, le case degli agiati, i tuguri financo del basso popolo erano splendidamente illuminati. La popolazione tutta festante e in tripudio percorreva le vie alternando il canto degl'inni nazionali, e facendo accompagnamento ad una specie di marcia trionfale composta d’una schiera foltissima di cittadini, esprimenti nel volto la gioia delle compiute speranze.
Nel teatro, splendidamente illuminato, era immenso il concorso degli spettatori. Due trofei collocati stabilmente sul palco scenico, a cui intrecciavansi le bandiere dello stato, eran allusivi allo scopo della straordinaria festa; l’uno portava il motto: La Costituzione e il più saldo sostegno del Trono; nell’altro leggevasi: Sorgete Italiani. Tutto insomma manifestava eloquentemente che un’altra base saldissima al soglio di Carlo Alberto sarà l’amore de' suoi redenti soggetti, elevati omai alla maestà di grande nazione. I voti, in effetto, che ora proromperanno liberissimi dagli animi de' suoi figli, saranno la ricompensa più degna d'un Re veramente Italiano rafforzato da tanto amore; e il cuore di Carlo Alberto del pari prova sicuramente a quest'ora il senso dolcissimo, il nobile orgoglio di avere col promulgato Statuto beneficato non solo i suoi popoli, ma tutta intera l’Italia.
Mentre siffatti avvenimenti nazionali avean luogo in diversi Stati Italiani, dall’attual nostro Governo, e propriamente dal consiglio ordinario di Stato deliberavasi di farsi pronto acquisto di cinquantamila fucili da distribuirsi alla Guardia Nazionale, per la difesa della patria, non mezzanamente agitata da un secreto ed occulto fermento, e per la conservazione dell'ordine pubblico, pur troppo disturbato dalle infernali macchinazioni nel tenebroso genio del male. Nello stesso tempo, non pochi cangiamenti ha subito il Ministero; moltissime e frequenti sono state le dimissioni; le grida di malcontento, di sedizione e di tumulto, continue, imprudenti, irrefrenabili; si è stabilito di passare nelle attribuzioni del Consiglio di Stato, provvisoriamente, tutti gli affari ch'eran pendenti presso la Consulta del Regno, rimasta abolita; si eccettuò la discussione ed il provvedimento di quelli che sopravverranno, e di cui dovran prendere conoscenza le Camere legislative, ai termini della Costituzione del Regno; fu provveduto che, in quanto all’ordinamento, alle altre attribuzioni ed al servizio interno del Consiglio di Stato, si dovesserosservare in esso per la spedizione degli affari le norme stabilite per le Consulte con la legge e col regolamento de' 14giugno 1824, e con altri decreti e regolamenti successivi; si stabilì che i Segretari, i Relatoripresso la Consulta in attuale servizio, e gl'impiegati d’ogni grado addetti alle Segreterie della Consulta medesima passasser a servire provvisoriamente presso il Consiglio di Stato; che la distribuzione de' Consiglieri, da ultimo, nelle varie Sezioni del Consiglio venisse fatta dal Ministro Segretario di Stato di Grazia e Giustizia come Presidente del Consiglio medesimo. E parecchie altre mutazioni avvenivan peranco indiverse altre branche o rami ministeriali, di cui sia miglior consiglio e prudenza il non fare alcun motto.
Malgrado però le allarmanti voci, provvenienti da' nemici più fieri della nostra patria, e corrive sempre al popolar tumulto ed alla discordia cittadina, non cessava il nostro Re di confermar sempre più nell’animo de' suoi popoli diletti la consolante idea, che dal giorno in cui piacque all’Eterno ch’ei fosse chiamato a governare uno Stato distinto per tanta civiltà ed illustrato da tante glorie, la concordia non mai smentita e la fiducia in lui posta dal Pubblico, han sempre formata la gioia del suo cuore e la felicità della patria comune.
Tutto inteso, in effetto, a promuovere la maggior prosperità dello Stato per via di quelle riforme economiche e civili, cui volse il pensiero con zelo indefesso per tutto il corso del suo governo, benedisse il cielo le sue cure in tal modo, che fosse dato a lui ed ai suoi popoli di giungere ad un’epoca novella di civil risorgimento, senza che alcuna perturbazione positiva, tranne sempre il siciliano scisma onde farassi cenno qui appresso, togliendo la possibilità di operare il pubblico bene, rendesse necessario il ricorrere alla istituzione di nuove forme politiche.
Ed ha egli fermamente persistito nel coscienzioso desiderio di adempier con ferma, costante e deliberata volontà quel proposito che fu da lui annunziato antecedentemente ai suoi suggelli, di procurar loro quella maggior ampiezza di vita civile e politica, alla quale e chiamata non solo questa nostra patria, ma l'Italia intera, in una tanto solenne inaugurazione di comun risorgimento.
Né il sinistro procedimento intanto di non pochi felloni e traditori accaniti della patria, ha ora tanta possanza ed efficacia da modificare o scemar menomamente un sì salutare pensiero che tutta tiene occupata la generosa sua mente. Il compiuto sistema di governo rappresentativo ch’ei viene in questi giorni a fondare, èprova della fiducia da lui posta nel senno de' pochi cittadini dabbene e nella già compiuta maturità de' destini d’Italia. E però a divider farassi co’ più savi e benemeriti dello Stato il peso di quei doveri, de' quali possiamo con piena sicurezza confidare che sia tanto vivo il sentimento nel cuore de' popoli, quanto è, e fu sempre nella coscienza d’un tanto principe e padre.
La più chiara e convincente prova di esser egli conseguente a sestesso ed a' giurati princìpi di nazionale indipendenza, ci viene offerta in questi tempi di pubblica urgenza dall’energico provvedimento da lui generosamente adottato, e già comunicato al Ministero di Guerra e Marina, intorno alla necessità d’un pronto e valido armamento; e ciò, non solo pel fondato timore d’invasione straniera, ma per ismentire eziandìo le voci sediziose ed importune di chi addebitava imprudentemente il Ministero di freddezza ed indolenza.
Ed in ciò si è ben avvisato, e con molta prudenza condotto il nostro savissimo Re; perocché le Costituzioni degli Stati Napolitani e Sardi, degli Stati Toscani e Romani, del paro che quelle degli altri Stati Italiani, sono e saran sempre il più forte legame della Nazionalità UNA ed INDIPENDENTE. E quanto più l’organazione nazionale progredisce e si avanza, tanto più fassi manifesto il pericolo che sia interrotta da' suoi nemici più fieri. E se presentemente non ha che un solo nemico, perch’ella e ancor debole e quasi nascente; ne’ tempi avvenire ne avrà forse più d’uno, perché fatta gigante e più forte. Fa di mestieri adunque che la Nazionalità Italiana s’armi valorosamente, e tosto, per divenire più forte; e per esser forte e trionfante in qualsiesi lotta, e assolutamente d’uopo che si mantenga sempre desta ed armata.
Invano si crede da taluni che il nostro comun nemico non vorrà romper guerra, perché anco il Piemonte è costituzionale, e però forte custode della libertà e dell'indipendenza italiana; e perché tutti gli Stati Europei costituzionali saran pronti a respingere l’ingiusto invasore. Le cagioni di guerra sono oramai cresciute, non mica scemate di valore e di forza, perché non più cagioni di guerra italiana, di guerra europea sì bene; non più di guerra territoriale o continentale, ma bensì guerra di princìpi e di ambiziose teorie; non più di lotta parziale o passeggiera, ma di lotta universale ed estrema.
Né puote aver fine questa nazional lotta, indipendentemente dal braccio italiano; perocché l’Italia avrà da perdere o da guadagnar sempre, e più d’ogni altra nazione; e perché non potrà esser veramente nazione, se non dopo una grande e decisiva battaglia. Per l’Italia la battaglia ètrionfo, ed il trionfo èvita.
É dessa, in effetto, la prima ad esser assalita; anzi ha già dentro sestessa il nemico, un nemico forte e concitato a fierissimo sdegno. Il suo campo di battaglia e già pronto; ma dov'è il campo italiano? Evvi un esercito nel Piemonte; havvi in Napoli del pari un esercito: e che cosa vi è negli Stati Romani? che cosa vi ène’ Toscani? Il nemico deride ed insulta le Guardie Civiche o Nazionali, le quali potran farlo piangere pur troppo, ove sian però dalla milizia sostenute e rafforzate. E milizia toscana e romana chiedon appunto i Napolitani ed i Piemontesi; perocché, ove sia. indispensabilmente necessario un campo italiano, tutti i prodi e liberi Italiani star vi dovranno valorosamente armati.
«Armati tutti ci trovi il nemico (così scrive un Piemontese, esimio statista italiano), e non immersi nel torpore e nel sonno. Che più si attende sulle ordinanze guerresche? Ah! dite ai nostri fratelli, per Dio! che corran all'armi, s’apparecchino alla difesa, se non voglion cadere vilmente, e forse per più non risorgere, ché, ove si dovesse per nostra ria ventura soccombere, risorgerassi certo ogni qualvolta si soccombe con farmi alla mano. Quando i Francesi scesero a conquistar l’Italia, noi Piemontesi ci siam battuti come tanti leoni. Fummo vinti; ma siamo risorti. Venezia non volle combattere, ed è tuttora provincia di straniero oppressore.»
Anch'ella risorgerà, e forse più valorosa e più forte. La riportata pena superò di gran lunga il suo fallo. Nella penosa e dura servitù patì pur troppo il danno e l’onta del suo cadere inerme. Risorgeranno eziandìo gli altri Popoli ancor giacenti d’Italia, purché la gente già risorta e redenta s’armi repente, e s’armi per combattere, vincere, trionfare. Roma e Toscana non han più tempo da perdere. I primi a provveder l'armi e ad apparecchiar le difese, esser deono i Governi, cui e affidata la vita e la conservazione dello Stato. La negligenza e il torpore, nella difesa della comun causa, nel grave ed imminente pericolo che ci sovrasta, hanno tal nome che far dee raccapricciare ogni uomo d’onore, ogni buon italiano, ogni cittadino generoso ed onesto.
Ed in tale opinione è stato sempre tenuto dal popolo napolitano l'attuai Ministro di Guerra e Marina. A lui quindi si volge il fratello. come a primo custode e difensor della Patria, ed altamente l’esorta a non volere por mente che agli apparecchi di guerra, ad anteporre ad ogni altra cura la conservazione e salvezza del nostro paese. La guerra, in effetto, scoppiar potrebbe da un momento all’altro: come resistere questa nostra Terra, come trionfar onorata la Toscana e l’Italia tutta, se inerme ed immersa in un profondo torpore? Come inchieder aita e soccorso al Re della generosa Unione Italiana, se nell'Italiana Unione non si ravvisa tuttora che impotenza e periglio?—
Ed in tempi di grave pericolo sovra tatto, allorché non evvi a difesa della patria che lievissima forza armata, ed in cui tutto e raggirato peranco da un intrico impudente, da un sinistro e tenebroso mistero, e ognor sufficiente, per destare il vetusto valore nei pelli cittadini, e per renderli favorevoli alla sacra causa comune, l’impiegare repente i mezzi più liberi ed efficaci, più franchi ed arditi
Presso gli antichi Governi, in coi gl’interessi più seri e gravi della civil comunanza venian d’ordinario trattati o discussi dalle nazionali assemblee, l’opportuno soccorso d’una forza armata era ardentemente proda malo e voluto. Ogni cosa allora dipendeva dal popolo, e 'l popolo stesso dipendeva dall’energia del Governo e dall’armi. La Grecia, che appellar puossi meritamente il primo e più perfetto modello di nazionale indipendenza, affine di sottrarsi all'indegno ed ignominioso giogo straniero, raddoppiò costantemente a incredibili sforzi, egualmente ammirabili per la sublimità dello scopo, che per la felicità del successo.
Prodi Italiani! e sino a quando starem noi perdutamente immersi nella dissipatezza e nell’ozio, nell'indolenza e nel torpore, addivenuti omai per effetto di smodato lusso quasi effeminati e molli, occupati del continuo e sol di spettacoli, di puerili e folli rappresentanze? Perché tranquillamente soffriamo, e quasi senza avvedercene, che l'ambizioso straniero, l’invido e tristo oppressore di tante italiane contrade, proceda ulteriormente ad opprimerci, con infame disegno d’insignorirsi di esse, e renderle perpetuamente al suo dispotico volere soggette? — Se fin da questo istante, poiché punto non vi è stato concesso di agire molto tempo innanzi, vaghezza vi prende di scuotervi dal vostro profondo letargo; se ciascuno di voi, or che il tempo stringe, e più forte il bisogno sentir fassi, vuole senza infingimento e senza rigiro tenersi apparecchiato a servire con tutte le sue forze la Patria, contribuendo il facoltoso co’ suoi beni, col suo ingegno l’uomo di affari, col suo coraggio il prode, l’ardita e franca gioventù con le armi; e, per dir tutto in una parola, se ama ciascuno agire per se stesso, e più non aspettare in una colpevol inerzia che altri agisca per lui; allora, con l’opportuno intervento della giustizia e con l’immanchevol soccorso del cielo, ristabilirete certamente gli affari politici della nostra Italia, riparerete i mali e le sciagure delle passate vicende, sarete pienamente vendicati in tutti i vostri torti. Imperocché non vogliate immaginar punto che la presente prosperità e grandezza del fiero nemico della nostra Penisola sia immutabile, permanente, eterna, come ei forse supponsi: havvi di quei, senza dubbio, che l’hanno fieramente in odio; di coloro che forte lo temono e vorrebber vederlo schiacciato ed oppresso; di quelli finalmente che portangli somma invidia, anche fra il novero di quegli esseri parassiti che gli paion più attaccati e fedeli, più cari ed accolli: tutte insomma lo passioni umane, qualunque elle sieno, agitano, contristano, muovon contro di lui buona parte di quei Grandi ond’egli e del continuo il bersaglio fatale.
Se le più generose passioni, per lo avverso, sono state sino a questo istante, o magnanimi Italiani, dal terrore compresse ne’ vostri petti; se non han mica potuto energicamente svilupparsi e metter in movimento; s’è pur troppo riuscito al comun nostro oppressore di porre una volta e fermare il suo piede di piombo nelle nostre itale contrade, non vogliate attribuirne la colpa che a quella mollezza, a quell’ignavia, a quella vile ed assurda pigrizia, ch’oggi conviene altamente scuotere e detestare.
E non vogliate già creder punto che sia pago e contento costui delle usurpazioni sin ora tentale; perocché incessantemente e di grado in grado va pur travarcando i limiti delle sue frontiere; e mentre noi ci stiamo tranquillamente immersi nella più stupida indifferenza; mentre ci attalenta di viver dolcemente nell'ozio, in luogo d’agire e d’operare, egli circonda e preme da tutte le parti non pochi di quei nostri cari fratelli, gl'investe ed opprime, ed altri sgozza, ed altri stringe in aurissimi ceppi. Quando verrà dunque quel giorno, o valorosi Italiani, in cui vi disporrete a fare ciò che far vi conviene pur troppo? che attendetevoi? qualche strano avvenimento senza dubbio, ovvero la più dura necessità? e qual altro nome dar mai potremo all’orribile sciagura che ci sovrasta? — Io per me non veggo né conosco punto un bisogno più stringente, più posi tiro, più forte, per le anime veramente libere, che l’istante fatale dell’oppressione e della servitù, dell'ignominia e del disonore. Vorreste voi sempre per avventura passeggiare alla lunga per le pubbliche piazze, chiedendovi del continuo l'un l’altro: Che cosa abbiamo di nuovo?— E qual altra cosa, giustissimo cielo! vi potrebb’esser di nuovo che un despota del Nord, carnefice superbo di buona parte de' nostri sventurati fratelli, e dominatore insultante di più d’una delle nostre itale contrade? — Vassi intanto dicendo dall’oziosa gente del nostro bel paese, e pubblicando nei periodici fogli da più d’una penna curiosa e leggiera: Ha dichiarato, o non ha dichiarato guerra all’Italia il NORDICO LEONE?Ha ritratto, o via più esteso sur essa i suoi artigli? —che valgon mai, o Italiani, cosiffatte domande? e qual sollievo o conforto arrecar mai potranno a quei nostri oppressi cittadini le più oziose e sterili risposte? — Ove il Cielo si degnasse pure una volta di sottrarre al duro giogo d’un tanto Tiranno quegl'inviliti nostri fratelli, e non però di meno non si cambiasse punto la vostra condotta, ben presto si andrebbe incontro alla stessa sciagura; perocché debbe assai meno costui le italiane conquiste alle sue proprie forze, che alla vostra colpevol vigliaccheria. —
E qui richiederebbesi, senza dubbio, un più caldo e magnanimo scrittore, per pignervi con colori più vivi, con tratti più dilicati e sensibili, cotanto dure verità; un amico onesto dell'umanità, che portasse non solo scolpita ed impressa nel proprio cuore la patria, ma un benemerito difensore di lei altresì, che non potesse pronunziarne il nome nei suoi franchi e liberi eloqui, senza provarne un’emozion calda e forte; un cittadino zelante che punto non amasse di piacere o di dilettare, ma di esser utile ed avvantaggioso sì bene alla comuncausa italiana; un savio ed eloquente dicitore insomma, il cui buon senso soltanto parlasse, d'ogni altro ornamento scempio, tranne che della propria forza.
L’amico vero della patria, in effetto, nei casi urgenti e perigliosi, come quello in cui trovati, di presente quella parte d’Italia al Tiranno suggella, studiar deesi a tutt'uomo di render la verità eminentemente sensibile a tutti i popoli che han comune la stessa causa; e però procurar dovrebbe di destarli dal loro profondo letargo, forte animarli, incessantemente pungerli, far loro vedere del continuo spalancato un abisso in cui stanno per immergersi irreparabilmente.... Tutto ciò ch’ei dice insomma, debb’esser consecrato alla pubblica salvezza; una sola parola non pure dovrebb’essere spesa o profferita a vantaggio di se stesso; non solo un caldo ed ardito scrittore; in cosiffatte circostanze, perder debbe affatto di vista il proprio individuo, ma dal pubblico stesso eziandìo, in una causa comune e di tanta importanza, dovrebb’esser dell’intuito obbliato; non dovrebber anzi i prodi cittadini trasportarsi col pensiero che al capriccioso Tiranno, all'ingiusto invasore, all’oppressor fiero de' nostri fratelli, e rappresentarselo in atto d’invadere, di soggiogare, di spegner vita e valore, di sparger sangue italiano, di rapir libertà, d’inceppar pensieri e parole financo. —
Tale dovrebb’esser senza dubbio, nelle urgenze presenti, la vera eloquenza degli scrittori eminentemente italiani, l’eloquenza del libero sentimento, dell'invilita natura, delle affezioni forti ed istintive, dell'amor di patria veramente caldo e sentito.
Ove prestar vogliasi piena credenza a Tito Livio, la salvezza di Roma e della cittadina libertà fu tutta dovuta, ne’ tempi della gallica invasione, all’eloquenza tribunizia e vibrata, energica e popolare del valoroso Manlio. Quest'uomo liberate e prode della persona, che avea costantemente, e più d’una volta, difeso e salvo il Campidoglio contra le barbariche violenze, sollevar volendo il popolo contro l’infestazione de' Galli, in cosiffatta guisa si esprime:
«E sino a quando, o Romani, ignorar volete le vostre proprie forze, mentre la natura, il suolo, l’istituzione ricevuta, e la storia financo de' vostri valorosi padri, vi rendo» pienamente istrutti di quelle istintive facoltà che havvi il cielo largamente trasfuso? Fate almeno un’esatta enumerazione di voi stessi; vedete bene quali e quanti sono i vostri nemici; supponete pure ch’ei siano a voi superiori di numero; senza dubbio voi combatterete, con più di coraggio e di valore per la libertà, che costoro per la tirannia. E sin a quando terrete voi fiso sa di me il vostro sguardo? lo non mancherò certamente ad alcun. di voi; ma e d’uopo intanto che ciascun di voi si cooperi a non far che venga meno il mio valore, o che restio dell’intutto deluse le mie speranze.»
Ed appunto d'un sì possente e formidabil difensore della patria libertà, che mettesse in movimento tutti i popoli italiani, avrebbero pur troppo bisogno i nostri fratelli veneti e lombardi, per esser gagliardamente difesi e salvi dal nostro comun nemico, che a tante migliaia di cittadini inermi ha già spento barbaramente la vita; d’un sì valoroso e prode commilitone, che metteva in pubblica mostra le spoglie degli estinti nemici, che offriva agli altrui sguardi le corone e i militari premi che aveagli meritato il suo coraggio, svelava le cicatrici delle tante onorate ferite che avea ricevuto per difendere la cara sua patria, additava sovra tutto ai suoi cittadini quel superbo Campidoglio, che avea più volte dal tirannico furore prodigiosamente scampato. —
Non havvi cuore italiano intanto che non abbia esultato di cittadina gioia, al consolante pensiero di festeggiar degnamente l’altissimo beneficio largito a' loro popoli da' generosi principi 'italiani. I grandiosi preparativi fatti dapertutto dalle masse redenti, la mirabile adesione delle province tutte e di tutti quasi gli stati componenti la nostra penisola, le solenni dimostrazioni di pubblica esultanza per tanto dono concesso, son bastevoli omai a provare al mondo non tanto la grandezza della riconoscenza comune, quanto l'eccellenza e sublimità delle ottenute forme costituzionali.
Nulla però di manco, in mezzo a tante feste ed a tante gioie comuni, fra tanti voli pienamente compiuti ed in tanta universale esultanza, le più sinistre relazioni de' casi tristi e miserevolissimi de' lombardi fratelli, e peculiarmente degli oppressi Milanesi, martellanci disperatamente il cuore. Inique leggi che lasciano ben lungi dietro di sé i tempi miserabili del romano decadimento, e proprie soltanto d’uno stato ridotto agli estremi confini di debolezza e di oppressione, d’abbrutimento e di violenza fatale; leggi stranamente innestate a quanto l'umana gravità e la più mostruosa tirannia hanno di più abbietto, di più immorale, di più esecrando, emanatisi del continuo da un governo di ferro a minaccia ed a flagello di quei miserandi nostri fratelli de' Lombardi e Veneti Stati.
Genovesi, Piemontesi, Romani, Toscani, Napolitani, Italiani tutti, quanti noi siamo dalle Alpi al mare, io lo domando a tutti, e coscienziosamente lo domando: E’ egli mai decoroso e fratellevol per noi l’esultare d’una gioia smodata, mentre dal Ticino al ragliamento, proclamata la LEGGE STATARIA, tenuta in vigore l’infernal legge di proscrizione e di condanna, di esecuzione e di sangue, i nostri sventurati fratelli stan fremendo di disperato dolore, e solo assistili da confortevole speranza, in noi altamente riposta e nella GIUSTIZIA DELL’ETERNO? —
Udite pure, o generosi Italiani, le parole di doglianza e di preghiera a un tempo, che v’indirizzan costoro: Fratelli nostri, fratelli di fede e di credenza, di speranza e d'amore, fratelli di sangue e di patria, ascoltate la nostra preghiera, soccorrete chi geme nell’assurdo avvilimento e nell’ignominioso dolore. Non è tempo di feste e di gioia, non è tempo di esultanze e di tripudi. Noi, e questi nostri fratelli Lombardi e Veneti, o siamo inabissati in fondo alle torri, o spiriamo sotto il ferro d’infami sicari, o muoiamo del continuo, o morremo per sempre, e per un’opinione soltanto, per una sola idea, per quell’opinione e per quell’idea che fa in tuonare un canto all'Eterno, un inno alla Patria ed al Re. La gioia si èconversa in lutto; in dolore il tripudio; in angoscia mortale la comune esultanza. L’esultanza, la gioia, il tripudio son grave insulto a chi soffre. La nostra festa non èpiù nazionale; o non dovrebb’essere almeno che la battaglia e la lotta, la vittoria ed il trionfo. I nostri principi italiani comprenderanno anch’eglino l’italiana sventura, comprenderán pure l’italiano silenzio. —
Tutti i ministeri italiani, nella santissima causa in cui sono vivamente impegnati quei miseri schiavi di nostri fratelli, sentir deonsi solidalmente responsabili. Pensino dunque seriamente al grave peso che forte li preme; badino pure al tremendo giudizio d'Italia, del mondo, della posterità. Firenze e Siena furon un tempo le ultime a cadere sotto le armi imperiali, ma caddero valorosamente; ogni cittadino pugnò da prode; pugnò lo storico Varchi, l’artista Buonarroti, Ferruccio mercante. La libertà toscana cadde finalmente pugnando; e pugnando risorgerà, anzi risorse a novella vita di gloria nazionale. Armi chiedansi dapertutto, armi a Napoli, armi all’Inghilterra, armi alla Francia, ch'essi pur dichiarata in questi ultimi tempi guardiana e sostegno de' popoli deboli.
Ma l’armi non sieno un inutil pondo, un arnese inutile pei valorosi Italiani; si addestri, si apparecchi, s’istruisca nelle strategiche evoluzioni colui ch'è addetto all’onorevol mestiere di guerra; si rafforzino e fortifichino i punti più deboli. Ogni governo italiano provveda energicamente al maggior uopo; operi pure senza ritardo ogni popolo; non è più tempo di torpore e d’indugio. Il nostro risorgimento è stato così rapido, che non vi fu quasi intervallo di mezzo fra l'ora del risorgere e quella di combattere. E sì agevole e pronta e stata la rigenerazion nostra civile, che sembra quasi inconcepibile ogni altra più grave difficoltà. Ma il facilcompimento d’una cotanta impresa nazionale fu più tosto il prodotto della forza morale, che del fisico potere; ed ora di materiale possanza fa d’uopo pur troppo; ora il diritto solo e insufficiente, l’opinion sola non basta: son necessarie le armi, e necessaria l'arte di saper combattere ed atterrare il nemico, e necessario il braccio forte da ultimo, del pari che un cuor risoluto e disposto a vincere od a morire, a combattere e trionfare da vero Italiano. —
A questo sol modo operando, abbiam ferma fidanza che non andrà guari e resterà pienamente convinto il comun nostro nemico, l’oppressore superbo de' nostri più cari fratelli, che costeragli assai caro il sostener d’avvantaggio un dominio illegittimo, un’oltraggiante e tirannica signoria nell’Italia. Assicurando vassi, in effetto, che il consigliere e ministro crudele del più malvagio dei tiranni, avendo fatto variate inchieste a più d’una casa commerciale per prestiti assai rilevanti, non abbia ottenuto che la seguente risposta da' più accreditati capitalisti: «Noi non anticiperemo danaro per far la guerra all’Italia.»Le spese intanto pel mantenimento dell'esercito riunito e da riunirsi in Lombardia, sono enormi pur troppo. Corre voce peranco che in breve tempo le forze riunite in quel paese ascenderebbero a centocinquanta mila uomini. Si stenta a credere per seguenza che cosiffatti marziali apparecchi, e tutte queste spese eccessive abbiano per iscopo la semplice difesa soltanto. —
E tante sventure italiane non procedon in gran parte che dal reo suggerimento di ministri infami e perversi! E nulla di buono sperar puossi, giammai per gli stati, pei popoli, per l'umanità gemente ed oppressa, sino a che par fermo il volere d’iniquo fato che star dovesse a lato
A un re malvagio un consiglier peggiore!
Se vi fu mai più convincente argomento che dimostrar potesse un tanto vero; se vi fu mai cosa alcuna al mondo che avesse tanta efficacia da provare quanta parte abbiano alla gloria ed al disonore de' principi i consigli de' savi o de' tristi ministri, e senza ¡dubbio quest’ultimo avvenimento politico, prodigiosamente operalo in Italia. Ei non è mica possibile covrir d'un velo sì denso tutto il passato, da nasconder l’odio che andavasi accumulando e rapidamente propagando ne’ popoli contro il principato; ed era sì forte quell'odio, sì possente ed accanito che congiurar te rilavasi financo un rovescio fatale di dinastie e di troni, per un cambiamento compiuto e radicale di forme di governo. .
Su di chi mai rifonder deesi la colpa d'un odio sì universale e profondo? Su’ rei ministri, sui consiglieri felloni e ribaldi. Nella condizione presente de' tempi, i Seiani e i Caligola, i Neroni e i Tiberi sono ancora possibili; ma gli Achitofelli iniqui, i Burri esecrati e nefandi, di cui scrisse il famoso Racine:
Détestables flatteurs! présent le plus funeste,
Que puisse faire aux Rois la colère céleste, non sono che realmente esistenti e moltiplicati dapertutto, per orrenda sciagura del genere umano!
Ai tempi presenti nondimeno più non havvi via di mezzo da scegliere, né addur puossi ragione veruna a personale giustificazione. Perocché, o il principe e non mezzanamente fornito di saviezza e d’ingegno, e agevolmente allora conoscer dee, che una feroce crudeltà non puote aver lunga durata in mezzo alla civile cultura de' popoli presenti; o è maturato d’intelligenza ottusa e limitata, ed in tal caso, avendo ricevuto un’educazione che ingentilisce il costume, umanizza il cuore, ed appiccasi a principi d’una religione fondata sull'amore, abborrir dee necessariamente lo spargimento di cittadino sangue, e tutto inclinare ad altissimi sensi di amor efficace ed operoso inverso i suoi soggetti. Non però di meno, per alcune anime ambiziose e corrotte l’unico mezzo d’ascendenza e di dominio, e sempre l’impossessarsi dell’animo del principe, e poscia, alienandolo interamente dal popolo e rendendolo a tutti odioso, ridurlo nello stato fatale di non aver altro confidente che un vile ministro, altro sostegno che un traditore ed un nemico fiero della patria, altro appoggio che i satelliti di costui, altra speranza infine d’assicurar la sua vita che l’incrudelir sempre più contra i pretesi nemici del trono, creali dall’arti menzognere d’un astuto ed infinto cortigiano.
Rimosso costui dal fianco del principe, e circondato questi da cittadini onesti, conoscitori de' tempi, amanti di patria gloria, compirassi tosto una radicale trasformazione, ed il principe, odiato pria, diverrà poscia senza dubbio l’amore del suo popolo, e l’obbietto d’un cullo che risguardar potrebbesi talvolta come degradante l’umana dignità, ove s’ignorasse per avventura esser non tanto indiritto alla dignitade e al merito, quanto all'altezza ed importanza del principio ch'ei rappresenta.
Ed e senza dubbio un dominio d’istoria l'applicazion logica di teorie cosiffatte; e noi per via meglio raffermarle negli animi de' nostri concittadini, farem rapido cenno del bisogno che sentir deono i principi italiani di farsi omai circondare da ministri savi ed umani, che non ascondan loro ma lignamente parte alcuna del vero, ma onestamente gl’indirizzino per l’indeclinabil calle che possa assicurar loro e gloria, e possanza, e pace, ed onore. E quale sia stato questo glorioso calle, l’hanmostro pur troppo alla nazione i ministri ed i consiglieri FAMOSI del tracorso governo, gl'ippocriti tristi, i lupi rapaci, i falsi e bugiardi amici del Trono, gl'iniqui PRELATI di Corte, i quali avventurosamente, comunque un po’ tardi, per giustissima ragion di stato e di salvezza pubblica, obbligati vennero a deporre una volta l’indegna benda che copriali, a sbalzar tostamente da quel posto che occupavan indegni, ed avviarsi, forse per sempre,
Chi ver Gerusalem, chi verso Egitto. —
La Provvidenza Sovrana, che veglia incessantemente sui destini de' popoli, e tutta intesa par che si mostri a sottrarre la patria nostra all'invilimento ed all'abbiezione fatale, volle che il primo esempio d’una costituzione italiana fosse tipo ed occasionale cagione a un tempo di tutte le altre. E questa verità e per se stessa sì chiara, che ha indotto ora mai parecchi principi riformatori d’Italia ad avvicinarsi a quella in tal guisa, da far trasparire ne’ loro concessi statuti quelle poche modificazioni soltanto che, lungi dall'alterarne le basi, fosser ognora bastevoli a soddisfar pienamente a' bisogni ed alle peculiari condizioni degli stati.
La Costituzione napolitana non è mica l’opera del momento o del caso; i novelli ministri che la consigliarono al nostro Sovrano, che l’ispiraron peranco agli altri Riformatori Italiani, avean già fatto uno studio accurato e profondo sulla nobiltà dell'umana specie e sa tutto ciò che la moderna civiltà conquistò su l’antica barbarie, quando volle inviolabilmente assicurati i diritti dell'uomo, ponendo un’insormontabil barriera all'arbitrio ed alla violenza, al dispotismo e al capriccio.
Non evvi verun’opera umana che sia di difetto o d’imperfezione scema; ma non havvi altresì una sola infra le tante moderne costituzioni che si accosti in perfezione alla nostra, o che abbia meglio tutelata la libertà individuale, l’ingenita uguaglianza innanzi alla legge, la libera e franca espressione del pensiero nelle politiche cose. Tutto fu saggiamente previsto; fu tutto espresso con tanta semplicità e chiarezza da toglier ogni timore d’interpetrazion falsa e capricciosa. L’iniziativa per la formazione delle leggi appartiene non solo al Re, ma alle due Camere pur anche; l’interpetrazione generale nondimeno appartiensi esclusivamente al potere legislativo; ed ecco chiusa per sempre la via che l’assolutismo indiscreto si lascia sempre aperta per l’arbitrio insultante e fatale.
Quel Governo, che spontaneamente interdice a se stesso il diritto di ricorrer all'intervento di truppe straniere, per l’interna ed esterna sicurezza, e che crea per lo avverso una Guardia Nazionale, lasciando libera ad essa l’elezione de' suoi uffiziali fino al Capitano, mostra apertamente di non voler più ricorrere, alla violenza per regnare ed aver lunga durata, e che alle armi cittadine con piena sicurezza si affida.
Accordar il diritto di petizione; dichiarare i cittadini tutti indistintamente uguali al cospetto delle leggi; por mente soltanto alvero merito personale per ascender a posti onorevoli; proclamar sempre e legalmente la libertà individuale; invalidar gli arresti non emanati in conformità delle leggi; vietare che l’accusato esser possa tradotto innanzi ad un Giudice non determinato dagli statuti in vigore; appellar inviolabile la proprietà e il domicilio de' cittadini; assicurare come inviolabile e sacra la proprietà letteraria; render solenne ed illeso il secreto delle lettere, violato impunemente sinora da tutti i Governi, e da quelli peranco che nomansi liberi per eccellenza: son questi cotal i atti sublimi che, altamente proclamando gl’imperscrittibili diritti dell'uomo, e la sua invilita dignità rialzando, svelan nell’animo degl’illuminati ministri, appalesan nel cuore del savio moderatore de' popoli un alto e forte sentire, un filosofico e profondo pensiero, un amor caldo ed ardente di patria, una bramosia positiva e verace di render sì glorioso il secondo periodo d’un regno, da cancellare per sempre ogni odiosa memoria del già tra varcato.
Non si arrestaron costoro a meschine e sterili considerazioni, non illusero vilmente i popoli con un vano giuoco di parole, non si fecer ad imporre ali altrui esaltata immaginazione con lusinghiere e mentite apparenze; saliron sì bene alla cima del novello edilizio sociale innalzato da tanti esimi pensatori, rafforzato da terribili lolle, reso più saldo da tanti contrasti, inaffiato dal sangue di tanti generosi cittadini. E però meritaron bene di quella Patria cui stimaron degna di goder l’intero frutto della moderna civiltà, senza passare per lente gradazioni accompagnate sempre da tempestose reazioni, da violente e subitane scosse; perocché in queste gradazioni insensibili, in questo giusto mezzo non mai si lascia tanto libero campo al partito cittadino direttamente opposto all’esecrato assolutismo, da poter vincere le oscure macchinazioni o le aperte e vergognose lotte di COLOROche visser vita assai lieta e fortunata in mezzo alla miseria ed al tutto degli oppressati popoli. Né s’ingannaron punto allor ch'ebbero a concepire tutt'altra idea ed una stima più dignitosa ed alta de' popoli italiani.
La stampa èor libera in questo nostro avventuroso Reame, ed essa parla nondimeno un linguaggio così dignitoso e moderato, e piena di sentimenti sì generosi e sublimi, da non far trapelare veruna idea di reazion vile o di bassa vendetta, verun desiderio che sia men legale ed onesto, verun pensiero che tracorra al di là d’un governo costituzionale e saggiamente moderato. Sia pur questo un esempio luminoso d’incitamento possente per gli altri Principi ad imitare, nella scelta de' loro consiglieri e ministri, il nostro savio Monarca; e tolga loro ad un pari ogni mal fondato timore di sfrenati desideri, di smodate e criminose tendenze ne’ loro suggelli!
Diciamolo pur francamente e senza orgoglio: i popoli d’Italia hanno oramai acquistato, inmezzo a tante prove d’avversa fortuna, un fatto così squisito, un’intelligenza sì viva e profonda nello studio dell'uomo, che alle prime parole, ai primi fatti sovra tutto, a giudicar fansi irremisibilmente coloro ch’elevati vengon al potere. Niunosperi impertanto d’ingannarli o sedurli.
L’Italia tutta, ai dì nostri, tributa giustissime lodi all’attualnostro Ministero ed a CHI modera i nostri destini; perocché quando deliberarono nella legge costituzionale che la votazione nelle camere legislative avesse luogo in pubblica forma; quando ammisero che non il solo censo fosse requisito necessario per esser elettore ed eligibile, ma venisser anco risguardati come requisiti i doni dell’intelligenza ed i servigi resi allo stato; quando infine sceverandosi d’ogni iniziativa lasciaron libero alle Camere l’arbitrio di formare una legge elettorale, radical base d’ogni ben fondato costituzionale governo, han mostro assai chiaro allora di non aver altro in mira che il bene positivo e reale della nazione, il quale non puote oggi punto del mondo ottenersi senza accordare ai popoli quelle guarentigie che, consacrando i diritti dell'umanità, rendon affatto impossibile il ritorno dell’abborrito dispotismo o mascherato od aperto.
Essi detto dianzi, che non havvi quaggiù ver un’opera umana che dir si possa dell’intuito scevra d’imperfezione; ma quando sarà scrupolosamente ammessa ne’ tribunali tutti del nostro reame la bella conquista della moderna legislazione, la più sicura guarentigia dell’accusato; quando alla ragionata disposizione, che dichiara unica religione dello stato la cattolica, e proibisce l’esercizio d’ogni altro estraneo culto, si aggiunga pubblico esercizio; quando, da ultimo, ben organata la legge elettorale, un maturo escine delle due Camere avrà fatto subire qualche lievissima modificazione a talune parti non fondamentali della Napolitana Costituzione; non vedrassi allora certamente un tipo più bello d’umana perfezione fra quante produzioni eminentemente politiche sian apparse in questi ultimi tempi fra noi.
La novità del fatto che rovesciar sembra le attuali condizioni sociali, spaventar non debbe i principi italiani. Le attuali condizioni sociali sono in pericolo di esser rovesciate sin dalle loro basi, ove non pongasi tosto un saldissimo appoggio al vetusto edilizio che crollar dappertutto minaccia; e questo appoggio può solo ottenersi dalla rinata fiducia nei popoli, dalla rediviva venerazione pel trono, dalla piena osservanza delle leggi in vigore.
Sino a qual segno intanto promettian fiducia i popoli e venerazion somma al novello ordine di cose, e pur troppo noto a chiunque. Ed e cosa notissima altresì che, in un sì rapido e general cangiamento di leggi fondamentali, non perderan certamente qualche cosa se non quei pochi che regnavano invece de' Principi iniquamente raggirati e traditi. S’egli e vero non pertanto che la possanza e la gloria degli attuali governi sta in ragion diretta della possanza e della gloria, della sicurezza e tranquillità de' popoli, null’altra cosa veggiam oggi al mondo che render possa più temuti e rispettati gli uni, più sicuri e più forti gli altri, quanto l'adesion franca e leale a quei politici cangiamenti che son richiesti dai tempi, e proclamati dal senno maturo d'una nazione non più fanciulla, ma sviluppata ed adulta. —
Mentre intanto esultava di pubblica gioia i napolitani cuori, pel patto solennemente fermato tra il sovrano ed i suoi soggetti; mentre sorgeva dal petto dell'universale una commozion viva e forte, alla consolante idea d’una rigenerazione a vita novella mentre infine alla piena traboccante de' cittadini affetti poneasi modo e suggello con amplessi di pace, che tutto un popolo di collegati fratelli generosamente scambiavasi in segno di concordia e di coscienziosa simpatia; contro queste solenni testimonianze di comune esultanza sorgeva importuno più d’un timore, si elevava indiscreto più d’un sospetto, volgeasi indecoroso più d'un dubbio negli animi vacillanti e perplessi di taluni, che, sul fondamento di mal raccolte o di mal digerite informazioni, a rimproverar faceansi la tarda pubblicazione della tanto sospirata ed attesa Legge Elettorale.
I rappresentanti il potere esecutivo intanto han già reso pienamente pago quest’altro pubblico voto, il voto di tutta intera una nazione. Quindi non più anatema ed esecrazione alle mostruose ambagi in che si avvolgeva la svelata turpitudine de' vetusti sistemi comunicativi. E quell'atto pubblico del novello Ministero compì in gran parte la legalità del nostro riscatto, pose anzi il suggello all’iniziativa che precedette il giubilo cittadino de' giorni tracorsi.
E però, avuto riguardo a ciò che venne stabilito nell’Articolo 62 della Costituzione, che per la prima convocazione delle Camere Legislative sarebbe pubblicata una legge elettorale provvisoria, la quale non diverrebbe definitiva, se non dopo essere stata esaminata e discussa dalle Camere medesime nel primo periodo della loro legislatura; preso inconsiderazione tutto ciò che contiensi negli articoli 53, 54, e seguenti della stessa Costituzione, co’ quali venne stabilito che il numero de' Deputati corrisponderebbe sempre alla forza della popolazione, computala secondo gli ultimi censimenti; che, dovendo esservi un deputato per ogni complesso di quarantamila anime, la legge determinerebbe l’occorrente, ove nella circostanzade' Collegi Elettorali vi fosse difetto od eccesso di popolazione; che annoverar deonsi fra gli elettori e gli eligibili tutti coloro che posseggon una rendita imponibile, di cui sarebbe determinata la quantità, dalla medesima legge elettorale; cd ènecessario il definir permanentemente, per un dato periodo di tempo, dall'un canto il computo delle popolazioni che inviar deono i Deputati alla Camera, e dall'altro i centri ove possa eseguirsene l’elezione; tutte siffatte cose, in una parola, e molte altre che per amor di brevità si trasandano, prese dal Ministero in considerazione, pubblicossi finalmente la tanto applaudita Legge Elettorale, nel dì 29 Febbraro del 1848.
Il Ministero, in effetto, mostrossi quasi più sollecito nel compilare un tanto lavoro su la legge elettorale, che noi nell'annunziarlo ed inserirlo in queste pagine di storia patria. Tutto intero il pubblico napolitano felicitollo di cuore, alla vista d’un atto sì solenne da lui ansiosamente atteso, e meritamente risguardato come fondamental pietra del grandioso monumento della civil nostra rigenerazione. Gli scettici politici volean allora, proclamavan anzi altamente un fatto che provasse loro positivamente le vere intenzioni del governo. Si pubblichi pure, dicean costoro, la legge elettorale, e saprem tosto per qual meta avviar vuolsi la nazione; apertamente vedrassi se lo spirito che presiede al nostro risorgimento cinger vuolsi di luce, o fatalmente ammantarsi del buiore del passato, delle più fitte tenebrìe della vetusta politica; scorgerassi pure una volta se il novello sistema di cose e corrivo al benessere sociale, al positivo vantaggio de' popoli, o da lui si diparte e allontana. Ed a chiunque tentava di porre innanzi un NOMEcome guarentigia del bene che universalmente si spera, rispondeasi tosto: Il solo nome non basta; sono i fatti sì bene, ed esclusivamente i fatti il più sicuro termometro della comun guarentigia e salvezza. —
La prova che si desiderava si èfinalmente ottenuta. Alla guarentigia del nome essi appiccata ègiunta ancor quella de' fatti. La legge elettorale ha pur troppo soddisfatto l’aspettativa comune; non ha deluso veruna speranza, non tradito alcun voto; e però risguardare e salutar puossi come un’arra sicura d’un più prospero avvenire. Il plauso che le han largito anco i più schivi, solidamente conferma il nostro giudizio; i pregi che inchiude in sestessa, dilegueran dell’intutto le dubbiezze del politico pirronista.
Chi sarà dunque il miglior deputato? colui che va più nel genio agli elettori, quegli in cui avran costoro maggior fiducia e confidenza. La sola e vera misura d’un’esattaeligibililà e tutta riposta nell'intenzion retta e sincera degli elettori. L’effetto non puot'esser mica discordante dalla cagione che l’ingenera; le qualità dell’eletto risponder deono a quelle di chi lo elegge e propone.
La suprema tutela della libertà nazionale èla stessa nazional rappresentanza. Ove questa compongasi di uomini guasti e corrotti, più non avrassi la rappresentanza della Nazione, ma un cieco strumento di servitù e di bassezza; non un’augusta ed illustre assemblea di uomini liberi, generosi, indipendenti, ma un gregge compro o venduto di pecore matte. Quindi le leggi ch'emaneranno da lei, nonpiù saranno quali il bene della Patria esige che siano, ma quali il potere le desidera e vuole. La storia di Francia in questi nostri ultimi tempi; le leggi di quest'ultimo tracorso settembre; la politica che abbandonò la Polonia e manomise l'Italia; i matrimoni Spagnuoli; l’abbandono dell'alleanza Inglese; la tracotanza smodata ed oltraggiante di Guizot; la dispotica ostinatezza del suo sistema fatale; le condizioni durissime, la tremenda necessità in cui trovasi la grande Nazione nel momento in cui stiam vergando queste pagine; non ne sono per noi che luminoso esempio e convincente prova ad un tempo.... e tutto ciò non riconosce che un solo principio, la corruzione della maggioranza della Camera elettiva. Per essa la Francia trovasi fatalmente rispinta a' tempi della ristorazione e sallo il Cielo che cosa ne avverrà; e lo saprem tosto ancor noi!
Importa dunque moltissimo che la moralità della Camera sia positiva e certa, perché tale sia pur anche l’impossibilità a un travolgimento politico, d’un tostàno ritorno agli abusi del passato. Con ciò non osiam punto far onta al potere, incalzandolo forse t o premendolo con prematuri timori. Ma è tale oramai la sua indole che, ove un freno continuo e possente noi rattenga forte, fuor uscirà dalla sfera prescritta e diverrà non indifferente invasore. Allora il popolo sentirà forte il bisogno di far valere la legge d’una inevitabil lotta; ed in un contrasto siffatto, la prima a traballare sarà sempre la libertà moderata ché il popolo invaderà pure a vicenda; e son sempre tremende le invasioni d’un popolo che proclama altamente la riconquista d’una libertà contrastata.
In qual modo impertanto ottener potrassi una Camera in niun conto accessibile alla corruzione e all’abuso? — Operando in guisa ch’emani dalla condizione del popolo la voce coscienziosa, annunziante il mandato di rappresentanza a' cittadini eligibili. Perocché, s’é agevol cosa corromper gl'individui, èquasi impossibile corromper le masse. Se il deputato rappresenta la confidenza degli elettori, elettori non corrotti, né corruttibili vi daranno ottimi deputati.
A soddisfar questo supremo bisogno mira positivamente la nostra legge elettorale. Dà ella il diritto di elezione alla più sana ed illuminata parte del popolo, escludendo sempre coloro dell'infima plebe che, nulla possedendo, e nulla avendo da avventurare, affidar potrebbero un sì dilicato ed importante ministero alla perduta gente, a gente cieca del miglior dono dell’intelletto, che non promuovere il bene ma la rovina della patria stranamente potrebbe. E ciò dicendo, teniam fiso il pensiero su le vere basi della legge, su le rette mire del suo autore, il quale da quelle santissime basi non potea punto scostarsi; teniam volta la mente alle attuali nostre condizioni, le quali proclamano un cosiffatto linguaggio; e però, accusando la plebe di cecità e d’ignoranza, colpir intendiamo di rigorosa censura quei tristi, che non solo cieca ed ignorante ma selvaggia ed abbrutita l’han fatta.
Né far si dee, per lo avverso, d’una sì dignitosa nazional rappresentanza uno sfoggio di pompa e di lusso. La più stretta decenza sarà pur troppo bastevole a' deputati e rappresentanti della nazione. Ben altra pompa ed altro lusso dovran costoro sfoggiare, quello del zelo cittadino e dell'amor verace di Patria. Questo debb’essere, ove accolga l’Eterno i nostri fervidi voti, e questo sarà il lor primo ed unico pensiero; e per compiersi, non fa mica mestieri di lussuosi apparecchi. Si agisca pure per sentimento istintivo di gloria e di ben inteso disinteresse, sentimento che non lascia d’annunziar sempre un animo assai nobile e grande, filantropico e generoso; che ogni benemerito cittadino faccia prova di saviezza e di non infinta virtù; che ogni deputato, ove il grand’uopo lo esiga, raddoppi di cure e di sforzi, di sacrifizi magnanimi e generosi; che il bello esempio, da ultimo, sia sprone possente a virtuosa e nobil gara. La Nazione sovra tutto sente un forte bisogno, un bisogno imperioso ed assoluto di moralizzare le masse. E non evvi mezzo più efficace ed acconcio a raggiugner un tanto scopo, quanto la rappresentanza affatto scempia di emolumenti e d’interessate vedute.
Il trionfo della libertà, a questi nostri tempi, ètutto affidato a cittadini generosi e zelanti, alla picciola industria ed alla moderata proprietà, all’istruzione e alla scienza; in un campo sì ferace di nobili ingegni rinverransi senza dubbio le ancor vergini virtù della mente e del cuore, disinteresse e coraggio, entusiasmo ed attaccamento ai sacri interessi della civil comunanza.
E la legge intanto, che garantisce il nostro patto sociale, che serve di scudo al nazionale contratto, e interamente corriva al pieno conseguimento del voto comune, ed ampiamente lo soddisfa. Si colmi adunque di benedizioni e di encomi, e si deponga una volta l’inopportuno sospetto. Più non vedransi a noi d’intorno corruttori e corrotti; non più sentirassi il bisogno, né la possibilità scorgerassi di ricorrer a mezzi infami e inonesti. Non sospetta e vana utopia, ma viva fede e salda speranza convinzion alta e profonda, saran fanale e guida alle coscienze degli onesti cittadini. Non l'assurda aristocrazia vien dalla legge appellata ad assidersi orgogliosa e superba in mezzo alla Camera elettiva; sì bene il popolo e chi degnamente lo rappresenta, l’industria e:la scienza. A queste forze imponenti della Nazione abbandonar deesi il pensiero di vegliare alla sacra libertà della patria; né concepir deesi timore che l’onesto e savio cittadino tradir possa la sua missione santissima. Non mezzana fidanza fa di mestieri ancor porre nella condizione de' tempi che vansi rapidamente maturando, e nel gran processo che fassi contro la corruzione del costume, al cospetto del mondo novello. La sentenza contra il vizio e la fellonia sarà capitale, severa, inappellabile. La corruzione, già per se stessa impotenziata a realizzarsi in quest'ordin più legale di cose, sarallo via più, e per sempre, e per forza di legge per anco, grazie alla vigilanza somma ed all'esimia probità de' veri difensori de' patri diritti. —
Un altro voto a questi nostri tempi formando vassi ancor dapertutto, il voto d’una lega doganale e federativa in Italia. Il pensiero comune, il pensiere d'ogni Italiano, esternato con la voce e con la stampa, e che si stringa una lega; e la lega doganale peculiarmente, che debb’esser fermo sgabello alla lega politica, non si è mica conchiusa finora; né ravvisar puossi ragione veruna perch’ella sia nel nostro stato, del pari che negli altri tre dell'Unione, sì fatalmente ritardata. Tutti intanto a protestar fansi altamente contro quest'indugio indecoroso e indiscreto; manifestantutti con ogni generazione di scritture e di dicerie la necessità d'un atto sì collettivamente utile ed avvantaggioso alla comun causa italiana.
E però deliberando vassi di doversi scegliere, infra i quattro Stati Italiani, Commessavi zelanti ed operosi, Plenipotenziari di mente e di cuore; farli venire in consesso; giugnersi in uno sotto il nome complessivo a ITALIA COSTITUZIONALE;stringer finalmente il grande Statuto della lega doganale, donde proceder dovrà incontanente il Trattato federativo, la Lega politica d’Italia.
Che più attendono, in effetto, i principi italiani a confederarsi solidalmente infra loro? Schiuder dunque dovrassi il varco al comun nostro nemico, per ¡scender comodamente sin nel cuore della Penisola, porvi un piede di piombo, sommetterci ad un giogo di ferro, ingrossar d’armi e d’armati il suo cavallo troiano, paralizzare gl'indigeni cuori, sceverar i prodi di valore e di forza, vomitarci addosso le falangi barbariche, tenebrose, opprimenti? Non potran forse le italiche province venir a più salda e più leal federazione, senza punto temere le diplomatiche opposizioni, e senza ricorrere, ove pur fosse possibile, ad estere alleanze? Non è forse certo che la presenza di molte truppe nemiche in parecchi punti della Penisola, èuna muta e continua minaccia all’Italia costituzionale, sia perché quel corpo d’armata rende al nemico più agevole e pronta un’invasione, sia perché glien offre apertamente e varchi più brevi e più sicuri? —
Nulla dunque concepir puossi, a questi nostri giorni, di più legittimo e di più necessario a un tempo che una Lega Italiana, divenuta ormai principalissimo obbietto, non che di nazionale, a italico voto. La lega italiana non produrrebbe attentato o violenza a verun diritto. Sotto la sua benefica influenza, ricupereranno i prodi Italiani la forza con la coscienza della forza. Paragonar puossi l’Italia. ad un infermo lungamente abbattuto e travagliato, che, comunque non mezzanamente guarito, mal si attenta appoggiarsi su le proprie gambe supposte ancor deboli e vacillanti; ma, persuaso appena che son pure da tanto da poter sorreggere il pondo della macchinalsalma, si rinfranca tosto e cammina spedito.
E più spedita e più ratta eziandìo camminar dovrebbe l’Italia nel compier la duplice Lega, su di cui tutte son fondate le migliori speranze; perocché la Lega doganale non mena per diritto ed agevol calle ché ad una più forte e più solidaria Federazione. L’Italia federata aumentar puote in possanza e' valore; diverrebbe anzi una delle Potenze di prim’ordine, quando gli stati italiani, ancor divisi, appiccassero in modo gli uni agli altri da non formare che tanti stati eminentemente federali. Un sol pensiero anima presentemente gl'Italiani tutti, il pensiero d’una perfetta nazional comunanza.
La Lombardia intanto guarda nella sua miseria ed oppressione le nostre operazioni, e le affretta coi suoi più fervidi voti. La Sicilia non verrà certo a lega con altra potenza che facesse di lei quel che di Modena fece l’Impero, cioè un’alleata cui degni un Grande onorare qual meschina vassalla; costituitasi una volta libera e donna, indipendente e sovrana come spera, sarà ella con noi senza dubbio federata all’Italia. Che una sola bandiera s’abbian adunque gli stati della forte UNIONE; che sien solidamente confederati fra loro, e serbi ciascuno nelle proprie terre la convinzion piena e profonda della sua signoria, del suo potere e della sua libertà; che un solo ed imponente esercito acccoglier possa nelle ostilità i vari eserciti parziali de' quattro Stati; che afforzandosi scambievolmente, e completandosi l'un l’altro pe’ loro singoli pregi, dian finalmente l’esempio D'UNA FORZA UNITA che le forze sparte moltiplichi ed avvalori: e questa la meta gloriosa e sublime, cui tende oggi ogni cuore, cui aspira ogni mente, cui mira ogni pensiero de' nostri rigenerati fratelli. —
Ed era questo precipuamente il voto del primo tra i nostri rigeneratori italiani, il quale ad indirizzar faceasi le seguenti caldissime parole ad un suo confratello di ventura appartenente al nostro Reame:
«Io v'invidio, scriveva egli, la dolce sorte che avete di abbracciare coteste eroiche popolazioni che diedero di qua e di là dal Faro sì alti esempi di virtù civile, ed affrettarono con sì lieti auspici i destini di tutta la penisola: popolazioni ugualmente ammirabili per la moderazione e pel coraggio nella resistenza e nella difesa. Resta ch'esse compian con senno ciò che incominciarono con magnanimo ardimento, postergando, se occorre, ai particolari interessi il bene comune, come già gli consecrarono generosamente la vita. Potrà mai essere scarso nei minori sacrifizi chi fu già sì largo ne’ maggiori, offerendo non solo il sangue proprio, ma quello altresì de' suoi pia cari? Oggi l’Italia ha bisogno sopra tutto di unione, alla quale si deve posporre ogni altro riguardo. Ma come mai il regno potrebbe conferire all’unione d’Italia, se fosse diviso in se medesimo, e se un’armonia perfettissima di menti e di cuori non legasse Napoli con la Sicilia? Voi che conoscete il paese saprete qual sia il modo più acconcio ad operare e mantenere l’accordo.
«Ed io fo caldi voti affinché l’accordo segua, e le due parti si risolvano a quei sacrifici che son richiesti a produrlo ed a stabilirlo: e mi affido che li faranno, gareggiando insieme di generosità civile, come testé contesero di energia e di valore; tanto più che non si tratta di due sole province, ma di tutta Italia. Non si domanda che i Napolitani cedano a' Siciliani, o viceversa, ma che gli uni e gli altri eleggano da buoni fratelli quel partito che più giova alla nostra comun madre, rimettenuo ciascuno de' propri interessi in grazia del bene universale.»
Siffattamente scriveva l’immenso e generoso Gioberti, cui tanto sta a cuore l'unione e l’indipendenza, la libertade e 'l trionfo della nostra cara Italia. Eppure correa, non ha guari, funesta una voce, e tale da contristar senza fine l’animo di tutti i buoni Italiani, di tutti quanti i più caldi adoratori della Religione e della Morale, delle Lettere e della Patria. Buccinavasi che mancato fosse ai vivi niente meno che il massimo degl'ingegni che vanti la nostra gloriosa Penisola, il primo tra i moderni apologisti del Cattolicismo, il Precursore di Pio Nono, il più valente Rigeneratore d’Italia.
L’amara novella, uscita forse per intimo desiderio dal labbro incauto d’alcuno fra gli amorosi delle tenebre che sono naturalmente avversi al Filosofo della luce, non fu mica creduta da' ben accorti, e venne tosto smentita da recenti lettere che s'ebbero di quel Grande; ma se per mala ventura d'Italia l’infausto annunzio avveravasi, guai a quei tristi ed invidi Aristarchi che da per tutto e da tutti conoscer fansi così patentemente e con parole e con opere giurati nemici al magnammo Autore del Primato e del Gesuita Moderno. Non ignoriamo intanto ch’ei vive, e di tutta quella miglior sanità che gli consentono i soverchi studi ed il molto occuparsi e consumarsi che fa del continuo a pro del morale e civile risorgimento della nostra comun Patria. Ed osiamo sperare con vivissimo zelo che l’Eterno, il quale sì visibilmente protegge la nostra Italia, darà sana e robusta, lunga e prospera vita a tanto uomo liberissimo, del pari che al sovrumano Pontefice; perocché la nostra Patria per divenir quella che vuolsi lassù, cioè salda e valorosa Nazione, ha bisogno ancora, e pur troppo! della suprema e paterna mano di Pio Nono, della penna forte e possente di Vincenzo Gioberti.
E non mezzanamente ci conforta, il pensare che la nostra fiducia in entrambi e pur la fiducia di tutti i cuori coscienziosamente italiani, fiducia che venne per più mesi manifestata dagliinnumerabili evviva onde risuonò tutto il nostro Reame non solo, ma la Penisola intera dal Cenisio all’ultimo lembo della Sicilia. Ed èpur degno d’osservazione nondimeno, non senza maraviglia e dolore, come in un tempo che Principi e Popoli s’abbraccian insieme e studiansi quanto più possono di camminar d’accordo, essendosi con tante grida levalo a cielo il nome e con tante dimostrazioni onorata la virtù di Vincenzo Gioberti, non abbiano pur fatto il debito loro né cercato ogni maniera possibile di meritamente esaltarlo; della qual cosa non sapremmo in che miglior modo scusarli se non col dire che troppo credansi incapaci di poter sollevarlo più alto di quel che la pubblica fama lo ha degnamente sollevato.
E per fermo ancor noi partiam secoloro una cosiffatta credenza, tanto e il concetto che abbiamo del gran Filosofo e Letterato, del gran Maestro e Dottore de' nostri tempi, degno pur troppo d’occupar una pagina gloriosa nella storia de' grandi uomini che illustran tanto la generazione presente. Dicasi pur apertamente, checché ardiscan susurrarne alcuni impudenti Zoili, bieca ed obbrobriosa razza che mai non si spegne, e sempre fe’ guerra al vero merito degli UOMINI GRANDI, Vincenzo Gioberti e non solo integramente cattolico ne’ suoi inimitabili scritti, ma èla colonna principalissima della cattolica filosofia. Si arrossisca dunque una volta chi per soverchio di balordaggine o di malizia osò ed osa peranco mettere a stampa infami scritture contro di lui ed offendere con ingiurie villane e con ¡stolte calunnie la sua persona sacra, ed avverta che procedendo in tal guisa offende la Religione e Pio Nono, il quale mostrò di stimar altamente quel nobilissimo spirito.
Il risorgimento italiano e il fatto più glorioso e più consolante dell'epoca moderna. L’Italia e sempre la prediletta figliuola della Provvidenza; quando tutti la credean estinta, o per lo meno immersa in profondo letargo, la voce di Dio chiamolla a novella vita di libertà e di gloria, la fece sorgerà grandi ed immortali destini. La sventurata dormiva, ma si è risvegliata; era morta, come dicevano i suoi calunniatori, ma oggi e risuscitata. Il dito dell’Eterno operò visibilmente un tanto portento: stolto colui che non lo vede, empio ed esecrato chi non vi crede! L’intervento della Provvidenza nell’andamento delle cose umane non fu mai. cosi evidente, così incontrastabile come ai giorni nostri: una nazione derelitta ed oppressa, travagliata e infelice, dall’abisso della sventura sorge al colmo della grandezza e della gloria, consegue il supremo de' beni, l’indipendenza, da povera ed invilita ancella risale alla dignità di matrona, e fatta più bella da' lunghi dolori, dalle lacrime di più secoli, ripiglia il posto che degnamente le spetta nella grande famiglia delle nazioni civili.
Ma la Provvidenza nel preparare i più grandi e strepitosi eventi suscita sempre gli uomini grandi destinati a compirli; e l’inopinato evento dell'italico risorgimento fu compito negli ordini civili e politici da Pio Nono, negli ordini ideali e filosofici da VINCENZO GIOBERTI. Fu egli che preparò le vie, qual gran Precursore, a quel savio ministro della volontà dell’Eterno; l’apostolo eloquentissimo che con la forza incruenta della parola conquistò al vero e soggiogò gli animi e i cuori degl'Italiani; l’inspirato dal cielo che appellò a pace ed a concordia i Princìpi ed i popoli italiani, bandendo la santa crociata per l’italiana nazionalità.
L’alleanza del Principato con la nazione parea cosa malagevole ed ardua ad attuarsi nell'Italia nostra; allorché venne ella proposta fu tacciata di delirio e di sogno, di chimera e di utopia, ed anche di peggio; ma la verità vince ogni ostacolo, debella ogni resistenza, abbatte ed atterra ogni barriera, e quell’alleanza che parea sogno e follia a non pochi, delirio e stravaganza a molti, e addivenuta quest’oggi una realità consolante, un fatto assai sorprendente e luminoso. Primo a predicare in Italia la necessità di siffatta alleanza fu appunto GIOBERTI: la ciurma degli altri scrittori che l’han poscia seguito, han comentato il suo pensiero, hanno sviluppato la sua idea, l'han parzialmente incarnata, con più salde ragioni l'han proclamata e sostenuta; ma il primitivo concetto non appartiene che a lui, non conviensi che a lui il glorioso titolo di MEDIATORE FRA IL PRINCIPATO E LA NAZIONE ITALIANA.
Nel leggere il Primato civile e morale degli Italiani, e nel riscontrar poscia tutti i fatti succeduti in Italia dopo l’esaltazione di Pio Nono al Trono, non ravvisansi questi che apertamente vaticinati con tutte le loro particolarità. La libertà di stampa, la monarchia consultiva, il chiericato civile, tutte le grandi istituzioni dell’Italia moderna, tutto è accennato, indicato, predetto in quel libro immortale. Mirabile esempio della facoltà creatrice e divinatrice del genio 1 mirabile esempio della possanza del genio italiano sintetico ed analitico, poetico e pratico, speculativo e politico, ideale e reale, platonico ed aristotelico a un tempo! In VINCENZO GIOBERTI rivive l’antico genio pitagorico od italo-greco; egli e solo della sua stirpe, perché il genio non ha pari né superiore; è figliuolo legittimo di Platone e di Dante; dopo Giambattista Vico insomma è il filosofo più originale e profondo, il pensatore più libero e forte d’Italia.
E come i suoi padri ideali, GIOBERTI non è genio italiano esclusivamente o d’una sola nazione; e cosmopolitico sì bene, di tutti i tempi, di tutta l’umana famiglia. Su le ali della cristiana ontologia, ei poggia al cielo ed abbraccia nella sua meravigliosa comprensiva sintetica Roma e l’Italia, le province ed i regni, il cielo e la terra, Iddio e l’uomo. L’alleanza della religione con la civiltà, il primato morale e religioso del Pontificato, che sono i due perni d’ogni civile moderno progresso, non sono a un pari che sante ed inconcusse verità, avvantaggiose non solo all’Italia ed a Roma, ma al mondo politico intero. La vera civiltà èreligione augusta ed arcana; la religione èmassima efficienza di civiltà e di sapere; il Papato è custode e promulgatore del vero infallibile; il moderatore del mondo religioso e morale èl’arbitro supremo de' popoli; il suo Trono èil palladio degli oppressi èl'asilo della sventura; il suo potere èil centro intorno al quale convergon tutti i raggi dell’umana fa miglia, e dal quale sol essa può tutta ritrarre la sua vetusta e primigenia unità. Chi ha messo fuor di dubbio queste verità sacrosante? chi le ha rese palpabili ed evidenti, irrepugnabili e luminose? chi trasformolle da teoremi in tanti chiari e patenti assiomi? la pubblica opinione, la voce d’Italia rispondon concordi: IL PRIMO RIGENERATORE D'ITALIA, VINCENZO GIOBERTI.
Non havvi storia. contemporanea in Italia, che non si estimi onorata di consecrare più pagine ad un tanto RISTAURATORE dell’italiana famiglia. E perché Italiani ancor noi; e perché i grandi uomini son sempre di tutti i tempi e di tutti i luoghi; e perché la loro gran fama li rende dominio sacro d’ogni storia; e perché ricusar non si puote impunemente da un italiano scrittore sì rispettoso omaggio ad un tanto INGEGNO ITALIANO, ne imitiamo ancor noi l'esempio glorioso, ed arrogiamo al già detto qualche altra cosa d’avvantaggio, affine di dar compimento e pienissima forma all’immortal cronaca dell'uomo immortale.
Ei nacque a Torino il 5 di aprile 1801; e nacque col secolo, ch’esser doveva innova to da lui; col secolo, che intilolerassi un giorno dal glorioso suo nome. Tempo verrà, e non è forse lontano, in cui quel giorno me inorando sarà festeggiato come giorno di grande evento, come il genetliaco DEL PRINCIPE DELLA PAROLA, DEL GRAN DOTTORE DEL SECOLO XIX.
Entrò costui di buon’ora nell’ecclesiastica carriera, fornì con infinita lode i suoi studi nell'ateneo torinese, fu dottore del collegio teologico in freschissima età, salì tosto in gran fama di argomentatore formidabile e invitto. Fu cappellano di S. M. il Re CARLO ALBERTO. Nel 1833, dopo breve prigionia, fu astretto ad esultare di gioia e trionfare. Visse in Parigi tutto l’anno 1834. Nel mese di ottobre si ridusse a Brusselle, dove rimase fino all’autunno del 1845; da quell’epoca scelse a soggiorno Parigi. Pel resto, a vita di Gioberti non si narra: essa èsemplice e modesta come quella degli uomini grandi; sta tutta compresa e chiaramente espressa ne’ suoi libri. Pubblicò la Teorica del sovrannaturale nel 1838 — E introduzione allo studio della filosofia ed una lettera in idioma francese contro gli errori religiosi e politici del Lamennais nel 1840— il discorso del Bello nel 1841— gli Errori filosofici di Antonio Rosmini nel 1842 — il Primato civile e morale degli Italiani ed il discorso del Buono nel 1844 — i Prolegomeni nel 1845 — il Gesuita moderno nel 1847. Tutti gl'Italiani han letto e riletto, approfondito ed ammirato quei libri; a niun di loro è quindi mestieri tenerne ragione.
Altre parole, per quanto a semplice storia pertiensi, ci sembran inutili e vane. VINCENZO GIOBERTI e tal nome da render soverchio od all'intuito nullo qualsivoglia elogio. E qual elogio potrebbe mai pareggiarlo?. Non mancaron avversari e nemici, non vi fu mica penuria di scrivacchiatori e beffardi che studiaronsi a gara d’offuscar quella splendida luce, quella chiara gloria d’Italia: ma ciò null’altro vuol dire se non che la stirpe degli esecrati Zoili e universale ed eterna, e che ogni Galileo suscita sui suoi passi molti Baldassarre Capra. Intanto GIOBERTI e oramai solennemente vendicato dalle passate ingiustizie. Il grido di Evviva Gioberti rimbombò prima nella terra che fu culla a Pio Nono, in Sinigaglia, e dall'eco nazionale fu ripetuto a Roma, a Firenze, a Genova, a Bologna, a Torino, a Modena, in questa nostra Capitale sovra tutto, in ogni città, in ogni cantuccio d’Italia. Evviva Gioberti e grido nazionale per noi; e grido sacro come le grida viva Italia, viva Pio Nono, viva Ferdinando II, onde ancora rimbomba questa nostra patria risorta.
E fra tante acclamazioni, che innoverebbero a delirio non solo uno spirito vanitoso e muliebre, ma un forte peranco ed austero intelletto, GIOBERTI in dignitoso e modesto silenzio continua a meditare cd a scrivere, a viver umile e solinga vita: il fragor degli applausi travarca i monti, va fino a lui, ed egli sorride e non desiste dalla santa opera sua. Gi guardiamo far cenno delle angeliche virtù di VINCENZO GIOBERTI; se ne adonterebbe senza dubbio la sua vereconda e sovrumana modestia: ci basti sol dire che egli e semplice di costumi com’è grande d’intelletto, e che la magnanimità del suo cuore pareggia pur troppo la grandezza del suo miracoloso ingegno. Le doti del cuore sono mirabilmente ed armonicamente contemperatein lui con quelle della mente; di che luminoso attestato e quella sua impareggiabil facondia, quella sua divina eloquenza che rampolla a dirittura da quel felice connubio, e porta la duplice impronta del forte pensiere e del convincimento profondo. Ogni sua parola èun lampo del suo genio creatore, e un palpito del suo magnanimo e forte, del suo generoso ed italiano cuore.
Non io vi esorto, o miei lettori, di perdonare il presente mio eloquio a lui sacro e devoto, comeché alla nostra terra non sia felicemente concesso di possederlo ed accoglierlo; vi dirò sì bene con la mente e col cuore: Contemplate ed inchinatevi riverenti innanzi alla sua effigie venerata! in quella fronte sta scolpita la sapienza del pensatore; in quelle labbra sta scritta l’ironia gentile, il brio vivace della sua parola; in quei lineamenti affabili e spiritosi stanno sensibilmente effigiati i palpiti di quel cuore che arde di amore per la Religione e per la Morale, per la Civiltà e per l’Italia. Egli è l’iniziatore oltre potente del moderno italico rinnovamento; egli èla forza iniziale e generatrice, da cui, come da forza primitiva, dee tutta ripetersi l’attuale felicità della nostra patria rigenerata; egli e il sacerdote intemerato, l’immortale scrittore, il filosofo di genio, l’eloquente pubblicista, l’apostolo della civiltà, il difensore dell'italica indipendenza, il LEGISLATORE DEL PENSIERO ITALIANO.
Mentre una santa letizia diffondeasi intanto per tutti i cuori, in questo nostro Reame. e nella Capitale sovra tutto, sì che l’espressione d’una general e. esultanza ratta espandeasi. di bocca in bocca e si propalava, ovunque, pe’ fortunati avvenimenti che ci avean fatta raggiugner la meta, anco al di là di quanto era dato sperare dai più liberali ed arditi esibenti; mentre raddoppiava di cure e di sforzi il Governo per fondare le sue basi migliori nella coltura delle menti popolari, ridia diffusione de' forti studi, nell’amore di quelle severe lucubrazioni che rischiarangli studiosi sui loro veri diritti, sulo stato vero della cosa pubblica, sugl'interessi positivi del rigenerato paese, sui buoni ed utili mezzi di amministrarlo e immegliarlo; mentre godeaci l’animo oltremodo, al consolante pensiero di avere un Carlo Poerio a Direttore generale della Polizia, carica da lui accettata cori somma gioia di tutti i buoni, punto nonignorando che l’union sua col cav. Bozzelli e col Duca di Serracapriola non potea non esser feconda di prosperevoli effetti per questa nostra patria, ci duole pur troppo di dover annunziare come, per varie cagioni,quel savio Ministero si è inopinatamente e dell'intutto dimesso.
E non pochi tentativi di disordine, per buona sorte infruttuosi sempre, comunque per parecchi giorni rinnovati, son serviti d’incentivo e di sprone ad un sìsubitane ministerial mutamento. Vinta oramai la sacra causa della nazional libertà, prendeva questa tanto più favorevole aspetto per noi quanto meglio il Ministero profittar tentava del tempo, sia con lo sviluppare ed attuare gli elementi della novella forma di governo, sia con l’organizzare le nostre forze materiali e civili. Queste ultime sovra tutto appoggiandosi in gran parte sulle risorse economiche, e però sull’ordinata prosperità dello stato, esigeano non pochi sforzi né pochi intervalli di tempo per esser menate ad un più felice e maturo compimento. Parecchi indiscreti intanto e rei perturbatori dell’ordine pubblico, obliando che pel riordinamento delle cose rigorosamente si esige e tempo e sofferenza, e riflessione e studio; e che ciò ch'era per ¡'innanzi sfogo generoso ed utile di caldissimi spiriti, diveniva poscia imbarazzo e strepito inopportuno, strettisi in crocchio intratteneansi del continuo, ed in diversi punti della città, del lento procedere del Ministero, spiccavan frequenti deputazioni, stringean d’assedio Ministri, incalzavan con. reiterate istanze, profferivan minacce, spargean dapertutto voci di allarme, ingenera van ovunque diffidenze e sospetti, e, dell’intuito simili a' quei riottosi e felli traditori della Patria, che mentre affettano di amar laLibertà, non la voglion però mai scompagnata dal disordine e dal popolare tumulto, osaron peranco d’andar gridando pubblicamente ABBASSO IL MINISTERO.
E queste scene vergognose si son pure ripetute fino alla noia. Nondimeno tutti coloro che han potuto assistere al Progresso del nostro movimento tranquillo, generoso e veramente incolpabile, eran fermamente persuasi che ad esse non prendea parte veruna il nostro buon popolo, il vero popolo, quel popolo che tiene più a cuore l’onor suo che la vita, ch'è tutto inteso e corrivo al miglior bene possibile della propria patria. E però gli sciagurati i quali compivan quegli atti d’indisciplina e di sovversione, non erano che una branca di perduta gente, o vili emissari del nostro comune nemico, od avanzo oscurissimo di qualche setta che vivea nelle tenebre, o cotal genia di ribelli ed anarchici spiriti insomma che per natura sperano lor pro dal disordine, appunto come certi schifosi insetti vivon naturalmente di brago e di fango immondo.
Inluogo adunque di attender il Governo a prevenire si gravissimi scandali e, come esigean le condizioni de' tempi, energicamente reprimerli; in cambio di protestare contro a qualsiasi atto violento, onde un’infame genia tentava macchiar l’opinione di Ministri savissimi e comprometter a un tempo la pubblica salvezza; invece finalmente di punir la baldanza de' veri nemici d'ogni libertà, sempre intenti a trar partito dell’ignoranza e della cieca fede per vomitare sulla civil comunanza il loro veleno, e così screditare profondamente le buone istituzioni che rendon felice un popolo intero, usò tolleranza e prudenza, e fè trionfare il partito ribaldo.
Arrogete a siffatti motivi la SICILIANA DISCORDIA, di cui dovrassi far tosto un ultimo cenno, e di cui la composizione è pur troppo avventata e malagevol'opra; e così avrete pienamente investigato la cagion vera d'una tanto inattesa e strana dimissione, dal latodel Ministero, di cui ci abbella fedelmente sporre la DICHIARAZIONE SOLENNE:
«Sire! Le gravi cure di Stato che V. M. degnava affidarci, esigeano sforzi, cui gli umani poteri non bastano, quando son chiamati a lottar simultaneamente col delirio delle passioni, con la vivacità dell'impazienza, e con le intemperanti sollecitazioni, che negl’istantanei rivolgimenti politici sviluppando vansi dapertutto. Ciò malgrado, inmezzo a commozioni sì tempestose, ed a lavori d’ogni genere, cui abbiamo dovuto consecrarci per non lasciar colpire da paralisi la macchina dello stato, V. M. sanzionava sui nostri Progetti, pria quella Costituzione che resterà sempre a monumento della vostra gloria e della grandezza del vostro animo; indi quella legge provvisoria elettorale che ci aprì l’adito alla pronta convocazione delle Camere legislative nel dì 1.°del vegnente mese di maggio: ed in servizio della Coronae della Patria, ormai divenute inseparabili ed identiche, noi avremmo continuato a reggere con ogni sacrificio in questa difficile situazione, ove le quistioni già insorte intorno alle deplorabili vicende de’ vostri reali domini di là dal Faro, non ci avesser presentato il resistente ostacolo, sul quale osiamo richiamare per poco la vostra sovrana attenzione.
«Tumultuavan quei popoli per impetrare dalla M. V. un format cangiamento negli ordini politici dello stato; ma rimanea in«comprensibile che non però cessassero i tumulti, quando V. M. concedea la Costituzione con sì magnanima sollecitudine; assi curando nell'articolo 87 della medesima, che oltre a quel che in essa vi era di comun vantaggio e di stabile garentia per le due parti del reame, altro avrebbe ancor fatto per provvedere ai bisogni ed alle speciali condizioni di quei vostri amatissimi sudditi. Si cercò d'indagar le cagioni d’un tal fenomeno, e per la mancanza di comunicazioni officiali e dirette, si profittò de' buoni uffizi, onde un onorevol personaggio fe’ sperare di adoperarsi, come organo efficace a determinarne il senso, e così ristabilir ivi la calma e la prosperità civile.
«I desideri de' cittadini erano svariati e moltiplici: noi ci rivolgemmo unanimi al cuor generoso della M. V. che si mostrò ancor più di noi sollecita in cercar modo di appagarli. Si consentì, che ne’ vostri reali domini di là dal Faro, a rannodamento e continuazione delle istituzioni parlamentari che ivi altra volta erano state in vigore, vi fosse un separato Parlamento, composto di due Camere, e coi medesimi identici poteri, stabiliti nella Costituzione per quello de' vostri reali domini di qua dal Faro, affinché vegliar potesse più direttamente a tutte le parti dell’Amministrazione interna; che vi fosse altresì un separato Ministero ed un distinto Consiglio di Stato, composto tutto di cittadini siciliani; e che a cittadini siciliani sarebbero esclusivamente: conferiti gli impieghi civili, i benefici ecclesiastici edi gradi di regia elezione della Guardia Nazionale che vi s¡ sarebbe immediatamente organizzata che all’incarico di Luogotenente V. M. non avrebbe delegato, che o un Principe della Real Famiglia, o un cittadino siciliano, benché da prima ci fosse sembrata odiosa ed inconveniente onesta limitazione della prerogativa reale nella scelta de' suoi Rappresentanti; che secondo si era praticato per lo innanzi, gli impieghi diplomatici e i gradi nell'esercito di terra e nell'armata di mare si sarebbero conferiti a cittadini siciliani promiscuamente coi cittadini napoletani.
«Era inevitabile che intanto si ragionasse, in qual modo si sarebbero decise le quistioni di comune interesse alle due parti del regno, come son quelle che a ragion di esempio si riferiscono alla Lista civile, alle relazioni diplomatiche, al contingente dell’esercito di terra e dell’armata di mare, ai trattati di alleanza d’ogni specie a quelli di commercio e lor corrispondenti, tariffe. Si pensò da prima, che delle Commessioni, tratte dai due separati Parlamenti, e riunite in un Parlamento misto in compendio, vi avrebbero provveduto; ma forzando le proporzioni sotto il prestigio di pompose parole, rivolea che queste si componessero di un ugual numero di Siciliani e di Napoletani: al che fu risposto, non aver noi poteri per darvi consenso, ignorando quel che avesse potuto giudicarne questa parte del regno per organo della sua legai Rappresentanza, affinché non restasse offeso il principio, diplomaticamente riconosciuto, dell'unità del reame. Fra gli altri spedienti fu scelto e suggerito quello di rimetter questa special qui elione al giudizio degli stessi due separati Parlamenti, i quali si sarebber posti di accordo fra loro per trovar modo a risolverla: e noi per amor di concordia non vi ci opponemmo, benché convinti che ciò avrebbe protratte, ma non risolute le gare, le quali probabilmente si sarebber più tardi rianimate con maggior violenza.
«Rimaneva un’ultima quistione, ma la più vitale: èscritto nella Costituzione che al Re solo appartiene, come indispensabil prerogativa, il comandar tutte le forze di terra e di mare, e il disporne a suo giudizio per sostenere l'integrità del Reame contraogni attentato di nemico esterno. Intanto si vuole interdetto al Re di tener altro che truppe siciliane in Sicilia; interdetto che possa inviarvi mai truppe napoletane, le quali con odioso ed improvvido consiglio vengon così assimilate ad ogni altra specie di straniera truppa. Noi vediamo in questa pretenzione un inconveniente di ben altro più grave genere, il quale disordina in sul suo nascere quella general tendenza degli spiriti a' ricomporre in guisa le varie parti della gran famiglia italiana, da prestarsi a vicenda fra loro un possente, generoso ed amorevol sostegno. Poiché non potendo somministrar la Sicilia se non un picciol contingente di forza pubblica, proporzionato; all'attualsua popolazione di circa due milioni di abitanti, nulla di più facile ad un ambizioso nemico, quanto invaderla, organizzarvisi, ed indi proromper sul vicino continente, e portar la conflagrazione, non solo nel resto del reame, ma in tutta la nostra cara e bella Italia, di cui la Sicilia, è sovra tutto Messina, sostenuta da valido braccio è riguardata come integrale al continente, è la propria e natural cittadella; senza che il Re fosse libero di opporvi alcuna efficace resistenza, pel preesistente divieto di mandare in quell’isola soccorso di truppe napoletane; o, in altri termini senza che possa mai attendere al sublime incarico di mantener sempre inviolata la integrità del territorio.
«Sire, la nostra coscienza si solleva innanzi a questo concepimento; né, aderendo alla pretensione, possiam noi lasciar gravitare sul nostro capo una sì tremenda responsabilità. Essendoci d’altro canto impossibile di escogitar nuovi mezzi a risolvere una quistione di tanto importanza chepuò gravemente comprometter la pace tla sicurezza e lo stato di legalprogresso, in cui oggi si trovano tutte le parti dell’Italia, noi le domandiamo in complesso la grazia di poterei ritirar tutti dalle cure dello Stato. Un altro Ministero potrà suggerirle forse modi più acconci ad armonizzar fra loro interessi e desideri sì diametralmente opposti, e gravissimi d’inevitabili pericoli. Voglia dunque la M. V. degnarsi di accordarci, con la giustizia e la benevolenza che le èpropria, la dimissione che osiamo chiederle per quest'unico obbietto. Liberi cittadini, noi saremo sudditi obbedienti e fedelissimi nel ritorno alla nostra vita privata; e con l’intimo sentimento di non aver nulla trascurato per adempiere in sì breve intervallo a tutti i nostri doveri di sudditi e di cittadini, torremo a gloria di andar sempre testimoniando quella franca lealtà, onde la M. V. si mostra sollecita consolidare nuovi ordini politici, che ha ben voluto stabilire in questo reame.»
Una sì solenne dichiarazione venne tosto presentata a S. M. la quale prendendo in considerazione le gravi ragioni in essa sposte dal Ministero, èdivenuta ad accettarne la dimissione già inchiesta. Nulla però di meno, perché il corso de' rilevanti affari dello stato non venga in nulla guisa interrotto, ha disposto il Sovrano che gli attuali Ministri seguisser ad occuparsene sino alla formazione del nodello Ministero.
In questa, il sig. direttore del Ministero dell'Interno Carlo Poerio ed il sig. Prefetto di Polizia Giacomo Tofano han presentato far anche la loro dimissione al Re, che, nell’accettarla, ha voluto che l’uno e l’altro continuasser nell'esercizio della lor carica, sin a tanto che non verranno surrogati da altri individui, nel disimpegno d’una carica sì dilicata e gelosa.
Ogni onesto e savio cittadino intanto fu gravemente colpito, all'annunzio della general dimissione del Ministero, comunque la dichiarazione che accompagnava quell’atto fosse stato sì dignitoso ed italiano ad un tempo. Se al paese non si fosse fatto un profondo mistero della condizion vera delle cose, i buoni e gli addottrinati avrebber fatto plauso; frenali sarebbersi gl’impazienti e indiscreti; i volubili e i tristi, sconsigliatamente corrivi a cittadina discordia, elevata non avrebbero la voce del tumulto e della vulgar sedizione. Gli onesti e dabbene avean pur troppo ed hanno gran fede tuttavia nel sincerissimo spirito che informava quel Ministero a comun nostro vantaggio. Solo per dar calma alla pubblica opinione, lo spronavan talvolta a rompere un sì profondo silenzio; e pia d’uno, in effetto, del partito stesso de' MODERATI unì la sua voce a quella de' veri amici del bene, biasimando sempre le grida intemperanti, gl'indecorosi clamori, le dimostrazioni allarmanti e tumultuose.
Vedendo adunque i veri promotori del pubblico bene il gabinetto quasi in atto di abbandonare il timone dello Stato; osservando che quello spirito di libertà e di saggezza o rallentavasi, o si andava dell'intatto spegnendo; esponendo tutti un convincimento libero e franco, non videro in quella risoluzione che una grave sventura. Non mezzanamente intendessi allora che le fatali quistioni. insorte eran di difficile e malagevol soluzione; non ignoravasì pur anche fra quali angustie avea dovuto penare l’assai travagliato Ministero; ma era ognuno convinto, od almeno appariva di esserlo, che largheggiando sovra tutti i desideri di' quei, nostri siciliani fratelli, e lasciando poscia alla rappresentanza nazionale la definitiva soluzione d’ogni problema, si sarebbe a un pari salvata la responsabilità e la causa comune, ed evitata la continuazione della guerra fraterna.
E dovea veramente ogni coscienziosa ripugnanza ceder il posto all'amor caldo di Patria, al sacro ed imperscrittibil diritto dell’Italiana famiglia, il cui trionfo non era e non sarà mai sempre riposto che nella concordia ed unione de' collettivi suoi membri. Lo spirito animatore del Ministero era suprema guarentigia e validissimo scudo pel nostro paese. Molto sperammo da lui, e molto ci diede col fatto, saggiamente dettando la Costituzione e la Legge elettorale, dueessi, dianzi fatto cenno. E molto attendeasi d'avvantaggio, quando ci si celava nella modestia della vita privata; e chiedeva dimissione e ritiro, mentre il paese trovavasi ancora in preda ad angosciose incertezze inseparabili sempre da un subitano risorgimento; mentre provvedimenti su la Guardia Nazionale eran ansiosamente proclamati ed attesi; mentre l'esercito avea mestieri di chi ne ritemprasse l’ardimento e ne ravvivasse la fermezza; mentre ondeggiavan le province tra mille dubbiezze ed invocaran uomini di valore e di fede che, pari a' già eletti, sapesser reggerle ed ordinarle; mentre l’Italia tutta, da ultimo, palpitava al soffio benefico della novella vita costituzionale, e facea voti che i Principi fermassero in più solenne e nobil guisa l’alleanza morale de' popoli!
Infra tanti bisogni e tante speranze ondeggiando incerta la cara patria nostra, non pur sublime ma sacra risguardar doveasi la missione del primo Ministero Costituzionale. Se i pochi che nulla intendono, perché guasti e corrotti di cuore e di mente, mormoravancagnescamente, fremendo d’ira e dispetto; i molti, per lo avverso, assai addottrinati nelle politiche cose, eran con lui e per lui, perché nel suo spirito assai chiare scorgeano le emanazioni della libertà e dell'attaccamento alla patria, la memoria sacra del giorno del riscatto e della comune esultanza.
E più d’una voce udivasi intanto, più d’una lamentanza cittadina che accagionava d’inopportuna e precipitata quella dimissionedel Ministero. — Ed ei s’invola al glorioso arringo, si andava dapertutto gridando; lascia al meglio la bella impresa della salute d’un popolo, il gran:mandato avuto dal secolo e dalla nazione ei rinunzia formalmente alla più splendida, delle palme, alla palma cittadina ed italiana! — Diciamolo pur francamente: la dimissione del Ministero fugrave sventura per noi. Chi mai dei cittadini avrebbe osato condannare le sue intenzioni? E fosse pur ciò avvenuto! La Nazione l’avrebbe pur troppo sostenuto e difeso; avrebbe fatta sua propria la causa di Ministri si savi ed illuminati. Ci ha forse al mondo un suffragio che sorpassi in efficacia ed in eccellenza quello d’un’intera Nazione in complesso?
E mentre, in effetto, non vi era chi volesse accettare il novello incarico, dopo la dichiarazione di coloro ch’eransi dimessi; mentre provavasi ripugnanza somma d’assumer la responsabilità ch’altri deponea, e d’intender alla direzione d’una nave ch'erasi da costoro abbandonata; mentre convengasi che. nelle presenti circostanze un novello Ministero fosse impossibile, ovvero aveasi fede che, scorte più da vicino le cose, desistesse tosto da sì magnanima e nobile impresa; il più bel fior de' cittadini non iscuoravasi punto; si andavan anzi inanimendo l’un l’altro, e mutuamente esortavansi a darsi conforto, a non uscir di speranza. Inchiese quindi la pubblica opinione che coloro cui ella fe plauso tenessersi fermi o costanti nel campo: e l’ottennero, provvisoriamentealmeno. Ora possiam dire di sostenere in qualche guisa, e con più felice successo, i nostri diritti, i diritti sacri ed inviolabili della libertà, della patria, della sicurezza cittadina. Proteggerà l’Eterno la LIBERTA’ e la PATRIA, la COSTITUZIONE e l'ITALIA. —
Grave ed interessante questione agitansi intanto nel seno della Francia; e propriamente nelle due Camere di Parigi, in ordine alla sacra causa italiana. Due Deputati di gran valore, e rispettabili entrambi pel talento eminentemente politica contrastavansi aquei tempi la palma, il sig. Guizot ed il sig. Lamartine, sostenendo il primo il partito del dispotismo e dell’oppressione della tirannide e dell'assolutismo; perorando il secondo a favor dell’indipendenza e dei risorgimento d'Italia, dell’inviolabilità dei trattati e del moderato liberalismo.
E mentre Guizot fulminava con la parola i radicali in Italia; sosteneva Lamartinei diritti dì essa e di Pio Nono, affermando altamente che, per laconoscenza personale che una coabitazione di dodici anni gli avea dato, per la cognizione che avea del carattere, del genio del liberalismo italiana, la parola radicalismo aver non potea significato veruno nel nostro italo idioma; ch’era un’ingiuria formate, non pure capita al di qua delle Alpi; che il movimento liberale non era mica l’effetto d'un sentimento perturbatore e radicale, agitatore e rivoluzionario, come voleasi far credere al mondo politico dal sig. Guizot, affine d’autorizzare la sua connivenza o la sua inerzia fatale; un movimento sì bene dello spirito umano e dell'indipendenza de' popoli, movimento che cova da parecchi secoli nel cuor dell’Italia, che dal tempo della rivoluzione francese è stato via più accelerato e promosso, e che ha sollevato tre volte, ma sempre ne’ limiti della fedeltade a' prìncipi, i paesi ne' quali scoppiava la volontà delle istituzioni liberali. E convalidava intanto il valente e. tribunizio oratore la sua asserzione col rapportare i venerandi nomi di tutti i capi del movimento, i primi del clero o della sua aristocrazia, i promotori gloriosi ed immortali della rigenerazione intellettuale morale e politica dell’Italia intera.
Citava egli sovra tutti il primo predicatore italiano, il famigerato P. Ventura, il capo dell’Ordine de' Teatini, l’amico prediletto di Pio Nono, e risguardar facealo come il propagator moderato, ma coraggioso e fermo, del liberalismo in Italia e dell’indipendenza de' popoli, non per via di moti rivoluzionari che oltrepassasser i confini dell'onesto e dell’utile, ma d'istituzioni ragionevoli e gravi, che lo stesso Pio Nono adattava a' suoi principi di riforma, e. innanzi all’esecuzione delle quali gli era stato mestieri rincular disperatamente e con sommo dolore.
«Sconfortato il Papa indirizza Lamartine per punta il suo parlare al caldo difensore dell’assolutismo, dal tenore de' vostri dispacci, dalle frequenti conversazioni avute col vostro abile ambasciatore a Roma, si diresse, in uno de' suoi colloqui, al suo confidente ed amico il P. Ventura, dicendogli: Ebbene! vedete voi a qual misero stato ed a quai tristissimi tempi siam noi ridotti! i nostri pensieri abortiscono, i nostri principi vengon contrastati e abbattuti! La Francia ci abbandona; noi siam obbligati ad esitare o a rinculare. — E l'amico della verità e del moderato liberalismo a lui: E’ vero; ma consolatevi e sperate: voi avete un migliore e più saldo sostegno che non èmica gabinetto francese; avete con voi il MODERATORE SUPREMOdell'Universo, il genio dei popoli, l’indipendenza della vostra cara patria».
Una confidenza siffatta ha tutto il carattere officiale d’una nota diplomatica, presenta almeno un carattere di convinzione e di fede profonda, suscettibile pur troppo di commuovere e di persuadere. Né punto dissimile è la convinzione e la fede di parecchi principi italiani favorevolmente disposti ad accordare a' loro popoli, non solo migliori reggimenti amministrativi e civili ma tutte le guarentigie altresì di perpetuità d’un reggimento siffatto. Son tali eziandio i sentimenti del Diplomatico della Corte di Roma, che onorana un tempo il principe e il Suddito fedele nell’uomo veramente liberale, ma che non disgiungon questo liberalismo dal pensièro conservatore che gli è fitto radicalmente nell’anima, quello, cioè, di far adottare le novelle idee dall’antico potere, e non solo farle adottare, ma tutelare peranco: e questo precisamente ciò che politica moderatasi appella, ovvero politica costituzionale e libera.
Ed ecco intanto il brano d’una lettera, che un Rappresentante della Francia in Toscana indirizzava al sig. Lamartine, e che questi pronunziava ad alta Voce dalla ’Tribuna: «Non potremmo mai lodarci abbastanza del granduca di Toscana; non mai principe alcuno fu di sì gran buona fede, e nello spiritò, e nel Sacro interesse della patria. Qui non trattasi, come si crede, d’una rivoluzione fattizia, fomentata da una sola classe in Italia; tutto il paese, credetemi, senza eccezione, tutto il popolo ne fa parte. Sapete pur troppo che in tutta la mia vita non ho predicato che la moderazione; ma questa volta nondimeno fa di mestieri che tutta la Francia parli delle sue simpatie per noi, poiché il momento è decisivo ed imperioso oltre modo.»
Ecco il linguaggio istintivo della verità, ed ecco i sentimenti legali di quei pretesi RIVOLUZIONARI, di quei supposti RADICALI, come eran addimandati dal partito assolutista, di cui voleasi far mettere paura all’Europa, all'Italia, alla nostra nazione pur anche: non eran costoro, e non sono tuttavia che uomini devoti agl'interessi della nostra comun patria, i primi proprietari e capi dell’italiana famiglia, uomini investiti delle dignità pubbliche, nelle corti o ne consigli dei principi, ch’ei spingon alla testa del gran movimento rigeneratore.
Ecco gli uomini che venian appellati radicali! Il conte Borromeo infra questi, dopo aver coscienziosamente reclamato contro l'inumano e barbaro macello delle vie di Milano e di Pavia, quell'esimio ed illustre personaggio, gran dignitario del Regno Lombardo-veneto, si toglie le sue decorazioni, e risponde al governatore che gl'inchiede perché si spoglia delle sue insegne: «Sig. governatore, il mio toson d’oro è troppo tinto del sangue de' compatrioti; e però portarlo non posso d’avvantaggio. Se le cose continuano a questo modo, vi domando per me e per la mia famiglia intera la nostra legale emigrazione dagli stati austriaci.»
Il conte Borromeo intanto è l’ultimo dei nipoti di S. Carlo Borromeo, e possiede mezzo milione di lire di rendita intorno a Milano. Ecco quali erano i radicali ed i rivoltosi del sig. Guizot, del malintenzionato ministro degli affari stranieri! Uomini son questidignitosamente fedeli alla nostra cara patria, i primi dignitari del loro paese, che sanno esser pure i caldi difensori degli interessi de' loto principi e dei loro diletti concittadini.
Non cessava intanto quel sommooratore di sempre più dimostrato la permanenza d’un sacro diritto alla causa della nazionalità italiana; di provare, che il diritto della nazionalità non perisce in un popolo che con l’ultimo cuore; che quando quest'ultimo cuore in cui palpitala nazionalità avrà cessato di battere, allora soltanto annientar potrassi la santa ed ingenita idea d’un sì radicale diritto; che solamente allora le nazionalità cader potranno in polvere, ed incorporarsene i frammenti in nazionalità novelle e più vive e più forti.
Havvi di taluni sintomi non però di meno, a' cui la coscienza del genere umano s’accorge pur troppo se una nazionalità e realmente spenta, se non batte più il polso, se i membri son freddi, se più non havvi palpitazione né aspirazione nel petto d’un popolo, se nel seppellirlo non si corre pericolo di sotterrar anco con lui la vita e la nazionalità d’una grande stirpe. Il suolo integralmente occupato da un’intera stirpe, e che non ha prestato che una frazione soltanto del suo territorio al piede de' suoi oppressori iniqui od ingiusti invasori; la stirpe che non è stata punto alterata mescolandosi con le razze usurpatici della conquista, e ch'essi conservata pura ed intatta nella sua forza, e nel valor suo, nella sua candidezza e vigoria; la lingua finalmente, 1!espressione fedele del pene siero, l’immagino espressiva dell'unanimità, d’intelligenza ne’ popoli, la lingua, ch'è una specie d’affinità o di parentela fra gli spiriti, umani, non mai interrotta o variata infra i vari membri della nazionale famiglia, disseminata e sparsa sul medesimo suolo; quando tutti questi sintomi esiston realmente in Italia, prestar mica non deesi veruna credenza alla diplomazia ed alla falsa politica, ai protocolli ed all'assurdo pensiero degli oppressori crudeli.
E’solo bastevole, lo effetto aver occhio intelligente e penetrante, aver cuore simpatico e generoso, aver avvicinato e studiato gli spiriti italiani, per sentir la vita sotto la morte apparente, per sentir quell'eterna protesta di nazionalità ch’è l’ultima arma d’un popolo, e che sopravvive peranco allorché si trova oppresso ed inerme, come l’arma di Dio e della natura che a niun de' mortali e dato d’infrangere nelle sue mani.
Ed in niun luogo della terra una sì alta protesta e così chiara ed evidente come in Italia; in niuna parte ha ella diritti più sacri alla simpatia de' popoli forti; non havvi stirpe umana che abbia dato al suolo che abita, una consacrazione più sublime di quella che l’italiana famiglia na data, nel corso di tanti secoli di gloria e di eroismo, di libertà e di virtù, a onesto paolo geografico del nostro globo. E quel diplomatico francese nondimeno che avea da sì lungo tempo tenuto infra le mani il peso dell’equilibrio del mondo, che avea dovuto riflettere sì profondamente sull’influenza di 26 milioni di uomini stabiliti a questa estremità dell'Europa, senza alcuna possibilità di conflitto con la Francia, con tutte le realità di simpatia o d'affinità mutua con quella nazione, non mai pensar seppe al destino fatale che fabbricava al suo paese, alla possanza che veniva a negargli respingendo nell’oppressione e nello sconforto, nell’obbrobrio e nella morte l’itala schiatta, la cui simpatia valeva alla Francia quanto, gli eserciti ed i trattati: perocché se i trattati non son garantiti e segnati che dalla mano degli uomini, le mutue simpatie tra popoli fatti per amarsi e proteggersi, per sostenersi a vicenda ed aspirar insieme all'incivilimento, alla libertà, all'indipendenza, non son mica trattati d’un giorno, e sottoscritti poscia da diplomatici guasti e corrotti; sono trattati sì bene, preparati dal provvidenziale intervento dell’Eterno, altamente contrassegnali dalla stessa natura, ed aventi per seguenza la lunga durata de' secoli: e però quando siffatte nazionalità vengono a risorger nel mondo, offron allo sguardo di chiunque, non già quelle miserabili eventualità di turbolenze che fingean soltanto, vedere i politici falsi e bugiardi, ma quelle eventualità di forza e di coraggio, di possanza e di sostegno, che ha spiegato a questi tempi l’Italia contra la nordica invasione che minaccia strage e rovina.
Il sig. Guizot intanto, lasciando da banda, ogni quistione puramente politica, ad esaminar lassi l’interesse della politica religiosa, facendo distinzione tra questa e la Religione, e sostenendo che la Francia non ha religione di stato propriamente detta. Ei stabilisce quindi qual debba essere l’interesse della politica religiosa della Francia in Italia, cioè la riconciliazione della Chiesa Cattolica con le idee moderne. Questo altissimo scopo è stato felicemente raggiunto mercé gli sforzi generosi e magnanimi dell’immortale Pio Nono, che ha consecrato con la sua condotta quel ch’era conforme alla giustizia ed alla convenienza de' tempi, alla morale ed al bene della Cattolica Fede.
Ecco il più grande atto sociale e religioso dell’epoca presente. Ma a quali condizioni pretendea l’infinto oratore e diplomatico francese, che riuscir dovesse il Pontefice nella sublime impresa sì felicemente tentata e promossa? A condizione che non gli si domandi ciò ch'ei, non può, e non dee fare come Papa. Voi potete inchieder al papato, diceva egli, di riconciliarsi con le idee moderne;, ma non potete pretender da lui di sacrificar se medesimo; che anzi, pel meglio dell'opra stessa che sta di presente compiendo, convien ch'ei conservi tutta quanta a sua grandezza, tutto intero il suo prestigio.
Or bene, proseguiva costui; il Santo Padre e oggi sottoposto all’azione di due forze esterne. Vuol farsi di lui un cieco strumento di guerra e di espellimento contro l’Austria; ed in pari tempo pretendesi eh egli, nel progettato riordinamento delle società italiane, divenga lo strumento radicale di novelli statuti, che non convengon menomamente all'italiana famiglia; cercasi in somma da lui che provochi un ordinamento quasi repubblicano di tutti gli Stati della penisola.
In questa, venendo interrotto, e fattogli sentire apertamente, che null'altra cosa si domandava in Italia che una COSTITUZIONE, ei tosto soggiugne, che havvi veramente un tal grado di confusione in certe idee ed in taluni termini, ch'è impossibil cosa l’apportarvi distinzione veruna. Più non trattasi oggidì, proseguiva costui, di MODERATE COSTITUZIONI; scorrerà prima il periodo di trent’anni, e parlerassene poscia; pel momento è assurdo il farne motto peranco. Si pretende intanto dal Papa ciò ch'è impossibile a conseguirsi; ei non può né dee voler altro che la causa della pubblica pace, delle riforme pacifiche. Il capo del ministero apostolico, che da tanti secoli rappresenta nel mondo le idee di conservazione e di pace, di ordine e di perpetuità, non può mica diventarlo strumento delle idee di disordine e di perturbamento sociale, di sovvertimento e di anarchia.
Ecco ciò che il tribunizio oratore appellare sforzavasi la POLITICA RELIGIOSA della Francia e dell'Italia. E mentr’ei raddoppiava di sforzi per sostenere l’assurdità de' suoi principi, del suo meschinissimo assunto; il suo Partito contrario protestava fermamente per indipendenza degli Stati Italiani, raccomandando a un pari la moderazione o la politica del MEZZO PROPORZIONALE E GIUSTO; poiché sol ella, in effetto, ha cooperato a preparare la soluzione della quistione italica, senza punto turbar l’ordine e la tranquillità pubblica, senza offender la libertade e i diritti de' cittadini, senza minacciar la pace e la sicurezza interna od esterna degli stati.
E però, mentre la Francia liberale volgeva un pensiero d’affinità, un sentimento ammirabile di simpatia verso il nostro bel paese, il sig. Lamartine ne difendeva instancabilmente la causa, e non solo con uno splendido linguaggio, ma con un senso profondo ed eminentemente politico, con una convinzion piena e giustissima, con una gran moderazione e sotto l’influenza d’un’ispirazion generosa. Abbiam quindi ragione d’applaudir tanto più altamente alle sue parole, in quanto che ci sembra rispondere a' veri sentimenti della nostra comun patria, ai nostri più grandi interessi, alle nostre tendenze più nobili e giuste.
Nulla però di meno non rifiniva punto l’oscurantista diplomatico d’inculcar alla nostra Italia il rispetto assoluto allo stato attuale di cose, assurdamente sostenendo esser questa la vera politica conservatrice d’ogni ordine sociale. Da per tutto ei subordinava i consigli dimiglioramenti e di riforme, in ordine ai principi italiani, alla convenienza ed alla buona volontà dell'Austria. Il beneplacito del sig. di Metternich, agli occhi di quel ministro degli affari stranieri, era la misura dell’indipendenza e della libertà cui poteva aspirare l’Italia. E però, assicurato anticipatamente della tolleranza austriaca per alcuni. miglioramenti puramente amministrativi, il cui effetto poteva esser quello di assopir novellamente l’Italia e dissipar i suoi SOGNI DI LIBERTÀ’ POLITICA, appellava il sig. Guizot rivoltosi gli uomini più eminenti della nostra cara patria, che ardentemente agognavano al governo costituzionale; raddoppiala di sforzi per combatterli, e, d’accordo con l’aulico suo protettore e maestro, comprimer osava a tutt’uomo lo slancio generoso degl’Italiani verso un migliore avvenire.
Più egli intanto si affaticava con la sua aggiratrice politica da sommelier l’Italia al terrore tedesco, e più questa classica terra di prodi aspirava all'indipendenza; più si sforzava di stringer i ceppi ai popoli italiani, e più questi cercavano di far un passo al di la delle catene stese loro d’intorno nel 1815dalla SANTA ALLEANZA; più egli dichiarava che i trattati di quell’epoca, pur troppo famosa nelle nostre istorie, eran la vera garentigia del liberalismo in Europa, e più gli si dimostrava per lo avverso che ascondeasi una solenne menzogna nelle parole una perfidia e un tradimento negli atti.
Mentre difendea Lamartine valorosamente la sacra causa italiana, e vantava Guizot con entusiasmo la dominazione de' moderatori superbi della Lombardia; mentre veniangli da ogni parte opposte le scene atroci e crudeli dell’invilita Milano, ed ei faceva le viste di non volerne intendere pur nulla; mentre nel calore dell’arringo e nella foga della tribunizia eloquenza, difendea l’uno i diritti dell’umanità oppressa e languente, e conculcavali l’altro con uno sfoggio oratorio, con un lusso di parole ampollose, con false teoriche di moderata politica, e più, con un’audacia sì smodata e sì tracotante da incitar gli animi a ribellione e tumulto, ad indignazione e ad ira fremente; un inconcepibil fermento regnava in Parigi, un ammutinamento irrefrenabile ed universale, che propagavasi in tutti i punti, e che parea furiero tristissimo d’imminente esplosione politica, d’una pronta e subitana rivoluzione.
Non si parlava, in effetto, da pertutto che d’un BANCHETTO da tenersi in ordine alla Riforma Elettorale e Parlamentaria, alfine di far protesta solenne contro un governo vigliacco ed anticostituzionale che da lungo tempo insultava il paese e le libertà conquistate. Più d’uno de' nostri campioni italiani, colà residenti, eran invitati a far parte della solennità riparatrice de' concedenti diritti nazionali; più d’uno de' nostri prodi rigeneratori veniva appellato all’altissimo onore di rappresentare l’Italia, la nobile iniziatrice di energiche e pacifiche manifestazioni della pubblica opinione.
Il governo intanto non protestava che con la violenza e con la forza; annunciavasi nella stessa guisa la polizia con un proclama indiritto agli abitanti della Capitale; da tutte le strade di ferro, per ordinanza del re, piombavan a Parigi novelle truppe; già ottanta mila uomini della forza brutale eran apparecchiati alla carneficina e alla strage de' pacifici cittadini; il ministero sanguinario e cieco non minacciava che fiero dispotismo ed effusione di sangue; stabilivano i membri dell'opposizione di porre i ministri in istato d’accusa; ammutinavasi il popolo e partiasi qua e là in attruppamenti ed in crocchi; da per tutto minaccioso silenzio; le fabbriche e le botteghe general mente chiuse; gli operai adirati e frementi; le truppe ed i municipali a cavallo caracollanti ovunque; molte vie abbarrate o precluse e gli aiutanti di campi portatori d’infausti annunzi e traversanti a fatica la spessa onda del popolo stivatamente adunato; grida furenti udiansi per ogni dove di — Viva la patria! Viva la libertà! Abbasso l’infame governo! le coscienze eran tutte in bilico, sospesi e dubbi i pensieri, fluttuanti ed incerte le menti; grande e ferale l’apparato delle baionette, che non ispaventava punto il popolo coraggioso ed intrepido di Parigi; la preoccupazione del morire non comprendeva né attristava l’anima d’alcuno; il grave problema era già sul punto di sciogliersi; pendea finalmente la vittoria pel lato degli uomini liberi, poich’era l’Eterno con loro.
Tutto a un tratto uno stuolo immenso di truppa di linea e di Cavalleria sbucò da tutti i canti ed occupò peculiarmente ì dintorni della Camera de' Deputati; tentossi forzarne i Cancelli dalla parte del popolo, e ne venne respinto col cader di poche vittime; per tutte le strade udiasi forte il grido di: All'armi! Viva la Riforma! Abbasso Guizot! Tutto era ingombro d’artiglieria e di artiglieri co’ cannoni appostati; le vicinanze della Camera de' Deputati scrupolosamente custodite; l’agitazione assumeva un carattere terribile ne’ dintorni del Palazzo Borbone, ove i cittadini venian maltrattati dalla baldanzosa militar forza; s’invase dal popolo libero la bottega dell'armaiuolo del re, e ne venner tratte fuori le armi; si fecer molte cariche sui liberali, e venner seguite da poderosa reazione; la Guardia Nazionale chiamata al Governo recossi sotto le armi in piccioli drappelli; impegnossi un combattimento tra la truppa ed il popolo; molte morti e gravi ferite dall'un canto e dall'altro; un vessillo rosso venne inalberato dal popolo; parecchie altre barricate incominciaronsi e furon demolite a vicenda; preparativi molti e ratti dal lato degl’insorti; interminabili fucilate da ambe le parti, e forzata a rinculare la guardia municipale a cavallo, che inferocita conduceasi con estrema barbarie e con brutalità troppa.
Notevole e singolar avvenimento! Nell’istante che una compagnia di guardia municipale era per scagliarsi sul popolo, la Guardia Nazionale impedì valorosamente che si facesse a sgozzare quei liberi cittadini; gli ufficiali de' dragoni le intimarono di sgombrare il passo, e rifiutossi dirigendosi verso il baluardo; cinquanta mila uomini della guarnigione e de' contorni piegaron provvidenzialmente dalla parte de' liberali; poche truppe restaron per agire, e parecchi reggimenti eran già stanchi ed abbattuti; il consiglio de' Ministri e molti altri dignitari eran in permanenza presso il re; forti pattuglie percorrenti i quartieri della città, venian accolte con le grida di viva la linea! viva i cacciatori! viva i dragoni! viva i corazzieri! viva la riforma! Giù Guizot, giù il Ministero, alle quali parea che i soldati non restasser freddi ed insensati.
In questa, venne assicurata la Guardia Nazionale, che il Ministero avea già deposta la sua dimissione nelle mani nel re. Il movimento sembrò allora prender un carattere significantissimo per l’attitudine di tutta la popolazione la quale cantava inni patriottici. Da pertutto l’esercito affratellavasi col popolo, e pareva animato dalle medesime disposizioni. La Guardia Nazionale e le deputazioni delle legioni, accompagnate da molti notevoli cittadini, da parecchi alunni della scuola politennica e da gran folla di popolo, con un grido di unione sclamavan forte: VIVA LA RIFORMA!GIÙ GUIZOT.
Propone il re di formarsi un novello Ministero, a condizione che l’attuale continuasse a mantener l’ordine ed a far rispettare le leggi. Il palazzo del sig. Guizot vien circondato repente di birri e di soldati. Un gran numero di pari intanto ed il Presidente, radunati nella Camera, ricevon annunzio, che la duchessa d’Orléans, reggente, ed il re stanno per recarvisi immantinente. Le tribune sono inondate da spettatori e da guardie nazionali. All’ora di mezzodì, in effetto, 2 febbraio, il re partì dalle Tuilleries lasciando fra le mani della duchessa d’Orléans l’atto fatale della sua abdicazione in favore del suo nipote. Procedeva a piedi la duchessa col Conte di Parigi e il duca di Chartres suo secondogenito, scortati da uffiziali d’ordinanza, da semplici guardie nazionali e da deputati dell'opposizione. Entrata nella sala, si assise sopra un gran seggiolone preparatovi attesamente a’ piedi della tribuna. Annunziossi alla Camera che il re Luigi Filippo aveva abdicato, e che legava il suo potere al Conte di Parigi suo nipote, ed alla duchessa d’Orléans, madre di questo, in qualità di reggente. Grandi acclamazioni di viva Luigi Filippo II, viva la reggente! Grida diverse da un altro lato: è troppo tardi; questa e una vera commedia. Si chiede intanto lo stabilimento d’un Governo provvisorio; ma in questo momento, alcuni liberali a piantar fansi i loro vessilli tricolori su La tribuna. Tutto l’emiciclo s’empie repente di uomini in camiciotto armati di spade, di pistole, di fucili e d’ogni altra generazione d’armi. Entra il popolo nelle Tuilleries, e vien devastato il palazzo. Salvansi a prodigio Luigi Filippo e la sua famiglia. Più non si parla d'alcuna forma di governo. Allontanasi il re dalla città, e si rifugia nel forte di Vincennes. Il popolo armato lo insegue e, circondando quel forte, tenta di entrarvi. Il Duca di Monpensier fa intimare di sgombrarsi, e cerca di far eseguire alcune scariche a mitraglia. Quest’alto aumenta via più la rabbia del popolo. Ricusan le truppe di far resistenza e lascian salire la moltitudine su le mura e sfondare le porte. Dassi alla fuga il Duca adirato; rimane come prigioniero Luigi Filippo; e vengon tradotti in giudizio i già decaduti Ministri.
La notte del 2 fu quasi decisivo ed assai sanguinoso il combattimento. Non corrisposer le truppe all’aspettazione del Governo. I legittimisti fecer causa comune co’ repubblicani. 8’inchiese che venisser inserite nel processo verbale le acclamazioni che avean accolto ed accompagnalo il Conte di Parigi e la Reggente. Su la domanda di Lamartine, annunziò il Presidente esser sospesa la seduta finché non fossersi ritirati la duchessa d’Orléans ed il novello re. Venne immantinente avvertita a sgombrar via di quel. luogo. La Principessa rifiutossi e rimase ferma al suo posto. Crescea sempre più il rumore, ed il Presidente intanto sollecitò forte le persone, estranee alla Camera, ad uscirne tostamente.
In questo, la Duchessa, preceduta dal Duca di Nemours eseguita da suoi figliuoli, via si dilegua. Dei Deputati, chi prorompe in grida d(v)acclamazioni, chi resta impassibile e freddo. Il numero delle guardie nazionali e de' cittadini valorosi ognora più aumenta e s’ingrossa. Proponsi novellamente un governo provvisorio, in mezzo agli appiatti delle tribune, ed una convocazione. od assemblea nazionale. Un grosso numero intanto di persone armate, di guardie nazionali e di studenti, entrando con varie bandiere nella sala, gridaread alta voce: Abbasso il re. — La Duchessa d'Orleans ed i Princìpi abbasso. — E poco dopo ancora: VIVA LA REPUBBLICA! Dumoulin, Comandante del Palazzo di Città nel 1830, spiegando dalla tribuna un vessillo tricolore, altamente grida: Il popolo ha omai riconquistata la sua indipendenza e la sua libertà; il trono e già infranto; noi siam tutti liberi, tutti redenti.
Da tutte le parti intanto non si udiva che il grido di — Viva la Repubblica! Viva la Repubblica! Riforme da per tutto; governo provvisorio; amnistia general e; i ministri arrestati e posti in ¡stato d’accusa; dissoluzione immediata delle Camere; convocazione delle primarie assemblee; libertà di parola, di stampa, di petizione, di associazione, di elezione; elettorale riforma; non più nomina reale né aristocrazia ereditaria; assicurazione di lavoro al popolo; unione ed associazione fraterna tra i capi dell’industria ed i lavoranti; eguaglianza di diritti per mezzo dell'educazione general e; libertà assoluta di culto e di coscienza; protezione di tutti i deboli, donne e fanciulli; pace e santa alleanza fra i popoli tutti; abolizione della guerra, dove il popolo serve di carne al cannone; indipendenza per tutte le nazionalità; la Francia guardiana de' diritti dei popoli deboli; l’ordine fondato su la LIBERTA',su l'INDIPENDENZA e su la FRATERNITÀ’ UNIVERSALE; assoluta libertà a tutti i detenuti politici; partenza di Luigi Filippo e di tutti i membri della sua famiglia per Londra; evasione di Guizot da Parigi, e suo asilo nella Capitale dell’Inghilterra: son questi tutti i principali avvenimenti che ebber luogo a Parigi nel breve giro di po’ chi giorni; questi i rapidi e subitaci cangiamenti del Governo attuale, ch'è il governo repubblicano, il governo provvisorio del popolo sovrano di Parigi.
La proclamazione della Repubblica venne accolta in Francia col general e entusiasmo; l’ordine pubblico fu perfettamente conservato. Tutti attualmente stringonsi attorno al novello Governo e trasfondongli maggior vigoria, affinché possa più solidamente organarsi ed assumere attitudin forte e dignitosa, a segno che tutti gli elementi di disordine, che potrebber eccitare inopportuni timori, restan pienamente annullati. Quanto è vivo l’entusiasmo pel nuovo regime di cose, tanto e sentilo universalmente il bisogno dell’ORDINE. Le persone che compongono il governo provvisorio, essendo di provata e ben conta probità, di sperimentata energia e di non equivoci princìpi, ispirano pur troppo una generale fiducia; e però naturale di tal possanza da menare a buon fine la grande impresa ch'è loro affidata.
Assai ben degna di considerazione intanto parmi la Circolare, indiritta agli agenti diplomatici della Repubblica francese dal sig. Lamartine, membro del Governo provvisorio e ministro degli Affari stranieri:
«Voi conoscete gli avvenimenti di Parigi, la vittoria del popolo, il suo eroismo, a moderazion sua, la sua perfetta calma, l’ordine stabilito dall’energico soccorso di tutti i cittadini, come se, in questo interregno di poteri visibili, la ragion generale fosse per se sola il più prosperevol Governo di tutta la Francia.
«La Rivoluzione francese è oramai pervenuta al suo definitivo periodo. La Francia è Repubblica; la Repubblica francese non ha mica bisogno di esser conosciuta, per aver solidità ed esistenza politica; è dessa di diritto naturale; è la volontà d’un gran popolo che non inchiede il suo titolo che a se stesso ed alla sua indipendenza. Desiderando intanto la Repubblica francese d’affratellarsi con l’ampia famiglia de' governi istituiti come una regolare possanza, anzi che come un fenomeno perturbatore dell'ordine europee; e convenevol pur troppo che facciate tosto conoscere al Governo, appo di cui siete tenuti in grande stima ed onoranza, i princìpi e le tendenze che diriger dovranno da quindi innanzi la politica esteriore del Governo francese.
«La proclamazione della Repubblica francese non èpunto un atto d’aggressione contro alcuna forma di governo in Europa. Le forme di governo inchiudon seco talune diversità sì legittime, quanto possan esserlo le difformità di carattere, di situazione geografica, di sviluppo intellettuale, morale e materiale presso i popoli tutti della terra. Hanno le nazioni del paro che gl’individui dell'umana specie, i loro stati, le lor età differenti; i princìpi che le regolano, hanno peranco le loro fasi, le lor evoluzioni successive. I governi monarchici, costituzionali, repubblicani, sono l’espressione fedele di questi variati gradi di maturità del genio de' popoli. Chieggon eglino maggior ampiezza o sviluppo di libertà, a misura che sentonsi capaci di sostenerne d’avvantaggio; esigon anco più d'uguaglianza e di democrazia, in ragione dell’spirazion forte ad istintiva di giustizia e d’amore pel popolo. Procede irreparabilmente il popolo alla sua fatale rovina, allorché tenta compendiare il tempo di questa sua maturità; si disonora e degrada del paro quando si lascia sfuggire di mano sì preziosi momenti. La monarchica e la repubblica più non sono, allo sguardo penetrante de' veri uomini di stato, princìpi assoluti di dispotico volere che collidonsi amorte; sono fatti più tosto o fenomeni politici che contrastansi a vicenda, e che conviver possono infra loro, comprendendosi e rispettandosi a un tempo,
«La rivoluzione presente non è che uno slancio di spiriti ardenti, cui sta molto a cuore il rapido progresso della libertà e dell’indipendenza. Il mondo morale non fa che tender sempre più verso la fratellanza e la pace universale. Se la situazione della Repubblica francese, nel 1792, non manifestava che la guerra; le differenze che regnano fra quest’epoca della nostra istoria e l’epoca in cui siamo attualmente, non offron che pace ed armonia.
«Nel 1792, la Nazione non era mica indivisibile ed UNA; due popoli ben differenti comprendeva lo stesso suolo; una terribil lotta regnava pur troppo infra le classi affatto scevre de' loro privilegi e le classi che avean già conquistato la libertà e l’eguaglianza. Le classi sceverate d’ogni privilegio affratellavansi di leggiero col partito assolutista o realista, col geloso ed invido straniero pur anche, per far ostacolo alla rivoluzione di Francia, o per far risorgere la monarchia e l’assolutismo, l'aristocrazia e la teocrazia. Non havvi oggi fra noi più classi distinte ed ineguali; l’eguaglianza al cospetto della legge ha livellato ogni cosa; la fratellanza comune, di cui noi proclamiamo l’applicazione e di cui la nazionale Assemblea organizzar debba i vantaggi, va tutto ad unire ed a giugner in uno. Non erri ai dì nostri un sol cittadino in Francia, sia qualunque l’opinione cui appartenga, che forte non si appicchi al principio della comun Patria, e che non raddoppi di sforzi per renderla inespugnabile a’ tentativi ed alle inquietezze a un’assurda invasione.
«Nel 1792, non già il Popolo tutto intero era entrato in possesso del suo governo; la classe media soltanto esercitar volea la libertà, ed esclusivamente goderne. Il trionfo della classe media non era allora che apertamente egoista, come il trionfo d’ogni oligarchia radicale. Sforzavasi ella di conservar per se sola il diritto di tutti e da tutti acquistato. E però l’era d’uopo operare una diversion forte all'avvenimento del Popolo, fatalmente sbalzandolo sul campo di battaglia, per contrastargli poscia l’accesso al suo proprio governo; e questa diversione era appunto la guerra: ma non fu già questo il pensiero de' democratici più avanzati ed istruiti, che aspiravan come noi ad un regno sincero ed umano, regolare e compiuto d’un POPOLO indipendente, libero ed uno, comprendendo in un vocabolo siffatto tutte le classi, senza preferenza ed esclusione, onde tutta intera componsi la Nazione.
«Nel 1792, non era il Popolo che un vile strumento della Rivoluzione, ma non n’era punto l’abbietto; essi oggi operata la Rivoluzione da lui e per lui. Facendone parie, ei vi apporla i suoi bisogni novelli di travaglio e u industria, d’istruzione e di agricoltura, di prosperità e di commercio, di moralità e di benessere, di proprietà e di vita, di navigazione infine e d’incivilimento, che son tutti bisogni di pace! La PACEed il POPOLO,in una parola, non sono, che la stessa cosa.
«Nel 1792, le idee della Francia e dell’Europa non eran peranco preparate a comprender e ad accettare la grande armonia delle nazioni infra loro, al comun vantaggio intese del genere umano. Il pensiero del secolo che maturava, non era che nell’intelligenza di ben pochi filosofi. La filosofia, a questi nostri tempi, e assai popolare e comune. Cinquanta anni di libertà di pensare e di scrivere, di parlare e di agire, han prodotto finalmente il loro felicissimo effetto. I libri, i giornati, le scienze, le tribune hanno operato senza dubbio il più sorprendente apostolato dell’intelligenza europea. La ragione umana, balenando da pertutto i suoi fulgidi raggi, e rapidamente travarcando le frontiere de' popoli, ha creato fragli spiriti quella gran nazionalità intellettuale che sarà il compimento del riscatto de' popoli e la costituzione a un tempo della fraternità internazionale sul globo.
«Nel 1792, da ultimo, la libertà non era che una pura novità, l’eguaglianza uno scandolo, la repubblica un problema. Il titolo de' popoli, scoverto appena da Fenelon, da Montesquieu, da Rousseau, era talmente obbliato, invilito, profanato dalle vetuste tra dizioni feodali, dinastiche, sacerdotali, che il più legittimo intervento del popolo ne’ suoi propri affari, ne’ suoi più sacri interessi, sembrava un’assurda mostruosità agli uomini di Stato dell'antica scuola. La democrazia facea tremare pur anche i troni e le fondamenta della società; oggi i troni ed i popoli si sono abituali alla parola, alle forme, alle agitazioni regolari della libertà cittadina ed individuale; abitueransi del pari alla repubblica, ch'è oramai la forma più compiuta ed acconcia delle nazioni più mature. Conosceranno pure una volta che havvi per costoro una libertà conservatrice; convinceransi pienamente che regnar può nella repubblica, non solo un ordine migliore, ma miglior governo eziandìo e reggimento sociale; vedranno insomma che può ragionevolmente sussistere un ordine più vero e più regolare in questo governo di tutti per tutti, che nel governo di uno per uno, o di pochi per pochi.
«Prescindendo pure da considerazioni siffatte, l’interesse solo della consolidazione e della durata della Repubblica Sarebbe pur troppo bastevole ad ispirare a' veri uomini di Stato consolanti pensieri di fratellanza e di pace. Non corre la Patria i più grandi pericoli ne’ tristi casi di guerra; la libertà sì bene. La guerra non èquasi, a un di presso, che una dittatura formate. Obblian i soldati le istituzioni per gli uomini. Tentan i troni gli ambiziosi e corrompono i vili. Abbacina la gloria il patriottismo, lo demoralizza e deprava. Il vano prestigio d’un nome vittorioso fa velo all’attentato contro la sovranità nazionale. Esige la Repubblica molta dose di gloria, senza dubbio, ma per sestessa l’esige, nongià pe' Cesari o pei Napoleoni!
«Nulla però di meno, non v'illudete punto intorno a queste idee che il Governo provvisorio ad offrir fassi alle Potenze come arra solenne di sicurezza europea; non hanno elle per obietto l’impetrar perdono alla Repubblica per l’audacia che ha avuto d’appalesarsi in Europa al par d’un baleno; molto meno d’andar umilmente mendicando un posto esclusivo od un diritto di grati popolo nel mondo politico; hanno esse sì bene un obbietto più nobile e sacro: offrir materia di riflessione ai sovrani ed ai popoli, affine di non lasciar che s’ingannino involontariamente sul vero carattere della nostra Rivoluzione; far apparire nella sua più chiara luce e con la sua genuina sembianza un sì strepitoso avvenimento; offerire un pegno, da ultimo, inviolabile e sacro all'umanità, pria d'accordarlo a' nostri diritti ed al nostro nazionale benessere, ove fosser per avventura contrastati o sconosciuti.
«La Repubblica Francese non dichiarerà dunque la guerra a chicchessia; né ha ella bisogno di dire che sarà sempre pronta ad accettarla, ove s’impongan condizioni di guerra alpopolo francese. Il pensiero dominante degli uomini che governan di presente. la Francia, èappunto il seguente: Felice la Nazione, se le si dichiara la guèrra, e se vien costretta per seguenza a crescer in forza ed in gloria, malgrado la sua moderazione esemplare! Responsabilità terribile alla Francia, per lo avverso, ove la Repubblica a dichiarar facciasi da se stessa la guerra senza esservi punto provocala! Nel primo caso, il suo genio marziale, la sua impazienza d’azione, la sua forza accumulala per tanti anni di pace, la renderebber invincibile e forte, formidabile e temuta peranco al di là delle sue frontiere. Nel secondo, volgerebb’ella contro se stessa la rimembranza delle sue conquiste, che alteran non mezzanamente le nazionali simpatie, e comprometter potrebbe a un pari la sua primitiva e più universale alleanza, ch'è appunto lo spirito de' popoli ed il genio dell'incivilimento sociale.
«Dopo la più solenne dichiarazione di cosiffatti princìpi, che son pure i princìpi della Francia risguardata nel suo perfetto stato d’indifferenza, princìpi che puot'ella offrire senza timore a' suoi amici del paro che ai suoi nemici, voi sarete meglio nel caso di penetrare lo spirito delle dichiarazioni seguenti:
«I trattati del 1815 più non esiston in diritto agli occhi della Repubblica Francese; nulla però di meno, le circoscrizioni territoriali di questi stessi trattati son un fatto ch’ella ammette come base e come punto di partenza ne’ suoi rapporti con le altre nazioni.
«Ma, se i trattati del 1815 più non esistono che come fatti da modificarsi d'accordo comune, e se la Repubblica dichiara altamente che il suo diritto o la mission sua e di pervenire regolarmente e per pacifiche vie a queste modificazioni, il buon senso non pertanto e la moderazione, la coscienza e la prudenza della Repubblica esiston pur troppo, e sono per l'Europa intera una migliore e più onorevol guarentigia che questi stessi trattati sì sovente violali o lesi, modificati od infranti da una politica capricciosa e bizzarra.
«Raddoppiate adunque di cure e di sforzi a far comprender a chiunque e ad ammetter di buona fede cotesta emancipazione della Repubblica da' trattati del 1810, e fate conoscer a un tempo che un atto, sì legale e sì franco non ha nulla d’inconciliabile col riposo dell'Europa.
«E però noi ci facciamo a protestar altamente: Se l'ora dell'organamento essenziale di talune nazionalità oppresse in Europa, od altrove, ci sembra esser suonata negli alti decreti della Provvidenza; se la Svizzera, nostra fedele alleata, è minacciata od oppressa nell’azion sua d’accrescimento che sta nel suo interno onerando, per offrir una forza di più al complesso de' governi democratici; se gli Stati indipendenti dell’Italia son minacciati od invasi; se offrir tentasi un ostacolo alle loro interne trasformazioni; se contrastar vuolsi ad esse con armata mano il diritto di stringer alleanza infra loro per consolidar via meglio una patria italiana, la Repubblica francese crederassi anch’ella in diritto d'armarsi, affine di protegger valorosamente i movimenti legittimi d’accrescimento e di nazionalità popolare.
«La Repubblica Francese ha oramai travarcato nel primo suo passo l’era tristissima delle proscrizioni e delle dittature; èdecisa pur troppo a non violar punto del mondo la libertà nell'interno; e risoluta e presta egualmente a non covrir d’ignominioso velame il suo principio democratico al di fuori. Non permetterà ella del paro a chicchessia di protender una mano disturbatrice fra lo splendore pacificamente balenante della sua libertà ed il sacro diritto de' Popoli. Proclamasi ella, per lo avverso, l’alleata intellettuale e cordiale di tutti i diritti, di tutti i progressi, di tutti gli sviluppi legittimi delle nazionali istituzioni, di tutti gli statuti liberi di quei popoli, che viver vogliono in virtù degli stessi suoi princìpi. Né avviserassi punto di stabilire una specie di propaganda sorda od incendiaria presso i suoi stati vicini; perocché conosce pur troppo che non havvi per essa libertà ferma e durevole, tranne quella che procede spontaneamente dà se stessa, e ch'è radicalmente fondata sul proprio suolo. Ma. eserciterà ella senza dubbio, per virtù di splendore e di luce onde son piene le sue idee, per l’imponente spettacolo di ordine e di pace che spera trasfonder alle altre nazioni, un proselitismo onesto e decoroso; il proselitismo della stima e della simpatia universale. E non è questa una guerra, ma un procedimento istintivo di natura; non un’agitazione secreta per l’Europa, ma conservazione e principio di vita; non è mica un incendio pel mondo politico, e una face accesa sì bene su l’orizzonte de' Popoli, per alluminarli e istruirli, per precederli e guidarli ad un tempo.
«E però desideriamo, pel bene dell’umanità, che sia rispettata e conservata la pace; lo speriam anzi di cuore. Una sola quistione di guerra si era suscitata e promossa, e ormai valico un anno, fra l’Inghilterra e la Francia; e non già la Francia repubblicana l’avea stabilita o proposta; la dinastia sì bene. Inchiude seco la dinastia questo timore di guerra, questo flagello distruttore, onde minacciava l’Europa intera, per la vana ambizione tutta personale d’un’alleanza di famiglia con la Spagna. E però questa politica domestica d’una già spenta dinastia, che sin da parecchi anni duramente gravitava su la nostra dignità nazionale, opprimeva a un pari, con le sue pretenziosi indiscrete ad un'altra corona a Madrid, le nostre alleanze liberali e ne paralizzava la pace. La nostra Repubblica èaffatto scevra d’ambizione e di nipotismo; non ha ella pretenzioni di famiglia né speranza di nazionali eredità. Si regga pur da se stessa la Spagna; aia libera ea indipendente quanto possa mai concepirsi da mente umana; la Francia, per la solidità di questa naturale alleanza, conta più su la conformità di princìpi che su le successioni della casa Borbone!
«Tal è lo spirito de' consigli della Repubblica francese; tal sarà inviolabilmente il carattere della politica vera e franca, moderata e forte che offre la Francia all'Europa. Nel primo momento del nascer suo, ed in mezzo al caldo od alla foga d’una lotta non provocata dal popolo, ha pronunzialo la Repubblica tre sole parole che han tutta svelata la sua bell'anima, e che varranno ad appellare su la gloriosa sua culla le benedizioni dell’Eterno e degli uomini: LIBERTA', UGUAGLIANZA, FRATERNITÀ!
«Ha ella già dato al di dentro, con l'abolizione della pena di morte in materie politiche, il vero comento di queste tre divine parole; procurale or voi di dar ancora al di fuori la lor vera dilucidazione e giustissima spiega. II genuino senso intanto di queste tre voci applicate alle nostre esterne relazioni e il seguente: Libertà della Francia da quei durissimi ceppi che gravitaran forte sul suo principio e su la sua dignità; ricuperazione del posto che debb’ella occupare al livello delle grandi potenze europee; dichiarazione solenne infine d'alleanza e di fede, di simpatia e d’amistà co’ popoli tutti del globo. Se ha coscienza la Francia della missionsua liberale e civilizzatrice nel secolo, non havvi alcuna di quelle tre voci che significar possa GUERRA. Se l'Europa è giusta e prudente, non evvi pur una di quelle tre sublimi parole che non esprima CONCORDIA E PACE.»
Ponendo mente intanto ai casi strepitosi avvenuti in Francia, non vanamente da noi riportati in queste nostre pagine di patrie memorie; e ben riflettendo ai fatti che potrebbero aver luogo nella nostra Italia, ci avvisiamo che il maggior male per noi sia quello di esser colti alla sprovveduta e come d’assalto. E come in tutti i contrattempi o danni previsti rinvenir puossi quasi sempre un opportuno ed acconcio rimedio; nell’antiveggenza del futuro possibile o probabile consister dee principalmente la vera scienza di stato, cui, diciamolo pur francamente, gl'Italiani sono pur troppo disavezzi, trovando più agevole e spedito di lasciarsi portare alla cieca fortuna, che vincerla e signoreggiarla. Ma sarebbe omai tempo di sottrarci valorosamente a questa inerzia mentale e ripigliar la vigilanza de' nostri antichi padri, affinché non ci colpisca un giorno qualcuno di quei disastri che sono irreparabili e gravi a chi non ci ha punto pensato.
Qual è il pericolo più grave, la più fatale sventura che or sovrasti all’Italia? Quello d’imitar disavvedutamente i Francesi e far qualche moto di più, sì come èavvenuto, o come si èalmeno secretamente tentato di fare, in questa nostra Capitale, per sostituire alla monarchia la repubblica. Non si concepisce, èvero, da' savi e costumati cittadini temenza veruna che ciò avvenga nel nostro Reame, tanta e la prudenza del popolo napoletano e l’amor ch'ei porta al suo magnanimo principe: ma non siamo igualmente tranquilli per ciò che riguarda taluni altri punti della nostra Penisola; dove le commozioni ancor vive, la debolezza del governo, i corrotti e guasti consiglieri che assedian tuttavia i moderatori di popoli, la mala contentezza de' sudditi, la prepotenza delle immaginazioni facilmente accendibili e corrive agli eccessi, la vecchia usanza da ultimo d'imitar in politica gli esempi francesi, dar posson un aria di probabilità maggiore al grave pericolo che ci sovrasta. È da sperarsi nondimeno che la Provvidenza sovrana, il cui intervento e tanto visibile nelle cose nostre, vorrà di leggiero distornarlo; e teniam per fermo pur anche che le migliori penne' degl’italiani scrittori, tutta volgeranno la loro facondia ad uno scopo sì sacro ed interessante. Intanto, quand’anco il male accadesse, considerar giova gravemente a qual partito attener si dovrebbero gl’italiani governi.
Ammettasi pure questo radicale principio, la cui verità rivocar non puossi in dubbio da verun uomo di senno; cioè che la nostra Italia, l’Italia del secolo decimonono, uscir non debbe giammai dal moderato perimetro di civil monarchia. Fu questa la meta proposta al subitano corso del nostro politico risorgimento, e travarcar non deesi con audacia tracotante e indiscreta. I sentimenti di onore e di gratitudine, di giustizia e di religione,1 interesse sacro della patria e la stessa nazional dignità non ci permetton punto di tracorrer più oltre. Noi siam impegnati verso i nostri principi e dai loro diritti, e dalle nostre proteste, e dalle inviolate promesse, e dai benefici ricevuti, e dal divino carattere di Pio Nono, autor principale del nostro glorioso riscatto.
E’ però il voler trarre argomento dall'avvenimento politico di Francia, con assurda idea di farne applicazione ai nostri casi presenti, èuno strano paradosso nella politica scienza. Quelle teste francesi furon tratte violentemente alla difformazione d’un governo, non mezzanamente ingrato ad un popolo di eroi che l’avea dianzi fondato e sostenuto col proprio sangue; non dobbiam noi per lo avverso le già conseguite franchigie e riforme, che alla magnanimità di mente e di cuore de' nostri rettori. Il trattar quindi Pio Nono, Carlo Alberto, Leopoldo, Ferdinando II, principi riformatori e larghi di libere concessioni, come quel popolo ha proceduto inverso Luigi Filippo, sarebbe uno scambiare il merito col demerito, un confonder mostruosamente la virtù col vizio, un retribuir la generosità più rara con la pena dovuta allo spergiuro e al tradimento. Non che dunque imitare i Francesi, scimiottandoli servilmente, noi faremmo il contrario di ciò che opraron costoro, e ci renderemmo indegni peranco della somma stima e simpatia che han già spiegato per noi. E però la scimiotteria, dal canto nostro, sarebbe vergognosa e ridicola oltre modo.
Immaginar puossi, in effetto, qualche cosa di più puerile che l’abbandonar a un tratto il calle da noi gloriosamente corso sin da due. anni, gittar via tutto l’acquistato sinora, percorrer un sentiero affatto nuovo e pericoloso, per vana bramosia d’imitar lo straniero, per fare a sproposito, temerariamente e con atto fanciullesco, senza convenienza e necessità veruna, ciò ch'egli ha fatto a ragione, e forse anche costretto dalle malagevoli e straordinarie congiunture in cui si trovava? Un procedere siffatto disdirebbe certamente al popolo più ignobile e meschino! e l’eleggeremo noi Italiani, che andiam tanto fastosi della nostra stirpe gloriosa, e che con tanto ardore aspiriamo al primato morale del mondo?
E per qual altro scopo d’avvantaggio tentare una mutazione di reggimento politico, se non per metter in compromesso quel nostro insperato e tostano risorgimento che formaai dì nostri la più viva sorpresa di Europa? e per qual altro più strano motivo, che per sostituire ad un rinnovamento spontaneo nato in Italia, informato da nobili idee d’immegliamento civile, dal senno e dal genio italiano consecrato, benedetto dalla terra e dal cielo, un’imitazione straniera che non avrebbe nulla del nostro, e che: profondamente contristerebbe,: anzi issofatto: forse indurrebbe ad esser nostro nemico il più benevolo e generoso, il più grande e il più santo de' Dominatori di Roma? per surrogare ad una libertà certa e onorata, sicura e tranquilla, una libertà colpevole e incerta, tumultuosa e torbida, sottoposta forse anco a mille sciagure dal canto degli uomini e della bizzarra fortuna? per distrugger eziandìo quel consenso ammirabile di tutte le Classi, che forma uno de' caratteri più essenziali del nostro ristauro, e metter poscia novellamente in guerra i popoli co’ moderatori loro, i laici coi chierici, i patrizi coi borghesi, e schiuder quindi il varco a divisioni e a rancori, a discordie ed a sette cittadine? per rinnovellare insomma le vili e calamitose scene che chiusero l’italiana storia del tracorso secolo, senza aver neanco per scusa l’inesperienza de' padri nostri e quel variato concorso di circostanze che reser allora quasi fatali le colpe e le sventure? Se l’Italia impertanto si lasciasse ciecamente indurre a tal riprovala follia, sarebbe affatto indegna di esser rigeneral a e libera; e noi, lungi dal gloriarci d’una si bella patria, ci vergogneremmo quasi con noi stessi d’esser compresi nel novero dei suoi redenti figliuoli.
Posto adunque per indubitato che la nostra libertà presente debba esser fondata su la salda base della monarchia, che cosa far mai dovrassi nel caso che in qualsiasi luogo prorompesse un moto repubblicano, e momentaneo si spandesse o trionfasse? A tre soli partiti appigliar potrebbersi in tal caso gl'italiani governi: 0 lasciar fare e vedere con indolenzita inerzia; o intervenir con le armi e distrugger il fatto con la forza: od opportunamente ricorrere alle pacifiche vie d'un’intercessione mediatrice e richiamare a buon senno i traviati e gli stolti. Di cosiffatti spedienti, il primo e assurdo e riprovevole; il secondo e violento e sanguinario; il terzo e più opportuno ed acconcio a praticarsi.
Il tollerare che in qualche parie d’Italia sciaguratamente prevalga il repubblicano principio, sarebbe lo stesso che sporre a gravi rischi la monarchia in tutta la nostra penisola, e metter in compromesso il nostro dignitoso e provvidenzial risorgimento. Tal è a contagione delle idee superlative nelle razze italiane, a questi nostri tempi, che una scintilla non estinta per tempo suscitar puote un incendio irreparabile e tristo. E’ concesso peranco che il fuoco appiccato in taluni punti non si propagasse dapertutto; chi non vede infra i savi e sani intelletti che uno strano miscuglio di elementi repubblicani e monarchici alterar potrebbe l’armonia dell'Italia UNA ed INDIPENDENTE,e distrugger notabilmente l’italica lega sì altamente da noi proclamata?
Il ricorrer d’avvantaggio alle armi per arrestar il male ne’ suoi princìpi, sarebbe in se stesso commendevole e giusto; perocché la lega italiana come rappresentante e vindice a un tempo dell’unità nazionale d’Italia e direttrice suprema degli universali interessi, ha il sovrano diritto di provvedere alla salute comune. Sarebbe quindi gravissimo errore il credere che le varie province nostrali abbian un’assoluta e legale indipendenza; sarebbe questa assai strana ed incompatibile affatto con l’unità nazionale. Non puote un popolo intervenire nelle faccende d’un altro; ma posson pur troppo i capi d’una nazione richiamar al dovere un membro sviato e ribelle. Nulla però di meno, siccome tutto ciò ch'è giusto non è sempre opportuno, sarebbe non poco a temersi che l’uso della forza provocar potesse in tal caso una resistenza disperata e accrescer il male in cambio di curarlo o distruggerlo. Parrebbe a molti senza dubbio un procedimento siffatto un violar apertamente la libera elezione dei popoli; e comeché ciò non fosse, giova sempre evitare l’apparenza financo d’un’ingiustizia o d’una violenza indecorosa. Carattere pellegrino e dignitoso della nostra rivoluzione e l’accordo ammirabile della legittimità de' governi col pieno e libero consenso 'de' governati; e ad un ATTO sìbello la ragion divina e l’origin popolare del sovrano potere concorron a un pari. É un tale infortunio da ultimo la guerra civile, ch'è sempre prudenza riservarla ne’ casi estremi di dura ed inevilabil necessità; e questa non militerebbe punto nel presupposto ond’essi già fatto rapidissimo cenno.
E però l’estremo partito de' tre dianzi accennati preso a tempo opportuno ed acconcio, o con vigoria somma adoperato, sortir potrebbe felicemente il suo fine. Ed e pur da notarsi in effetto che un conato repubblicano non è moralmente possibile in verun luogo d’Italia, che pel falso indirizzo che può prendervi la monarchia costituzionale per colpa delle sette e degli attruppamenti sediziosi, de' ministri e de' consigli del principe. Intervenga adunque la LEGA ITALIANA ed usi pare ogni termine necessario a lor via la cagione del male, a dare un savio indirizzo al principato civile; ed avrassi incontanente il tanto sospirato effetto.
Accetterà il principe certamente la mediazione pacifica, i saggi ed utili consigli nella ferma fidanza che salvar lo potranno dall’estrema ruina. Qual popolo allora tenterà resistere ad un appello sovrano fatto in nome e pel bene dell'Italia intera? chi mai ostinerassi a voler più tosto la repubblica con pericolo e danno universale, che una monarchia rappresentativa ben ordinata e guarentita dall’Italica Lega? — Osiam credere intanto? senza tema d’illusione o d’inganno, che non siavi nella Penisola, non diciam già una provincia, ma neanco una sola borgata capace d’una tanta demenza; ove sovra tutto parlasse la Lega con la voce patema e nella sacra persona dell'immortale Pio Nono.
Ei giova moltissimo l’esporre queste cose nelle nostre storiche memorie, ed assaissimo importa il meditarle ed approfondirle, acciocché i contrattempi non c’incolgano sprovveduti, e non ci rechino per seguenza quell’estremo spavento che seco tragge la debolezza o il torpore. Speriamo non pertanto che il male non accada, che non ci sovrasti la temuta sciagura; ma quando pure avvenisse, guardiamoci almeno dal disperare e succumere. La Lega e la monarchia civile d’Italia sono forti e potenti, perché dall’Eterno protette, dall'opinion pubblica garantite, dal voto universale proclamate ed ambite; e però, in mezzo al contrasto e alla lotta, non potran certamente non conseguire e gloria e trionfo. —
Nulla però di meno, il gran bisogno attuale, diciamolo ancora un'altra volta e più francamente, e tutto riposto nella Confederazione Italiana. Obbiettando vassi intanto che pria di por mente all'Unione dei singoli stati, fa pur di mestieri interamente ordinarli. Noi siam di credere per lo avverso che rimosse le persone incapaci od avverse al novello sistema civile, l'Unione non solo èdivenuta possibile, ma eziandìo avvantaggiosa a quell’interno ordinamento, che addiverrà sempre migliore, quanto meglio inteso concordemente, e general mente applicato. Ove Sicilia e Napoli, in effetti, facesser parte d’una Confederazione italiana, la definizione completa delle loro controversie diverrebbe a nostro divisamento un affare di poca o di niuna difficoltà; confusi entrambi gl'interessi in un solo e grande interesse, più agevolmente rinverrassi un puntodi riunione e di transazione, più efficace diverrà peranco l’opera santissima di mediatori di pace, sotto la gloriosa divisa di veri fratelli e consociati nelle stessa politica denominazione.
Ciò posto gioverà sempre replicarlo, il nostro novello Ministero Italiano entrerà al potere in circostanze veramente magnifiche quanto imponenti. Gloriosa missione gli èoramai riservata, l’unificenza federativa dell’Italia; l’altro passo più ardito e più decisivo sarà ne’ campi d’un più prospero avvenire. Speriamo ancor noi fermamente che l’attual nostro Governo si faccia pur degno di tanta gloria veramente italiana. Di qui la nostra impazienza di veder quanto prima e più operosamente costituito un Ministero di tal carattere da potersi appellare con proprietà di vocabolo, COSTITUZIONALE, ovvero ITALIANO. Nondimeno non ignoriam punto le difficoltà dipendenti dalle condizioni degli uomini e delle cose; le quali trasformano in un affare dilicatissimo e di lento disbrigo ciò che in paese adusato alla vita costituzionale sarebbe opera di poche parole fra i capi ben conti delle varie frazioni politiche, ed i loro amici già preparati ed acconci a secondarli. Ma il Marzo del 1848 trova tutto lento e paralizzato in questo paese; il giornalismo presente, costituendosi interpetre ed organo del pubblico voto, critica e sprona incessantemente la diacciata lentezza del nostro assopito Ministero, del nostro indolenzito od assonnato Governo. Dal Governo provvisorio di Parigi vengon esempi stranissimi di attività e di destrezza spontanea; da quelli di Germania se ne porgon altri non men sorprendenti e ammirabili d'attività generosa, popolo napolitano, cui ogni raro modello di perfezione rapisce od incanta, e fa sdegnoso ad un pari della prosaica e noiosa mediocrità, osserva e desidera, fa continui voti e resta sempre deluso, del continuo reclama e mai nulla consegue. Né ha torto se mormora e morde. Anche fra noi sono imminenti i pericoli e pur troppo temute le sciagure onde siamo minacciati sovente. Ed a conte ai pericoli ed alle sciagure, e rea di lesa sicurezza pubblica ogni superflua o tarda deliberazione.
La forma di governo costituzionale che attualmente ci modera non èmica il risultamento fortuito d’un avventurato movimento, ma il frutto provvidenziale d’una santa e legittima causa già contrastata e vinta. Uscita fremente la rigenerazion nostra da una lotta ineguale ostinatamente impegnata fra un popolo intero ed un pugno d’insensati carnefici, che or più non sono, erasi ella lentamente costituita per mezzo de' progressi della ragion popolare. Quanto più la fazione posta alla testa del ministeriale o politico potere diveniva violenta ed oppressiva, fortificavasi la nazione nel sentimento del suo diritto e nella ferma risoluzion presa di proclamarne alla prima occasione l'irresistibile inviolabilità.
Ecco perché non essi manifestata esitanza o dissentimeno veruno dal lato de' popoli. L’intera nazione non elevò che una sola voce, perché non era informata che da un'anima sola, da una sola volontà, a una sola coscienza. Ci sentivam tutti umiliati, abbassati tutti, inviliti, depressi agli occhi dell’Europa da un ministero opprimente ed iniquo, che delle sue iniquità ed oppressioni crudeli facea misterioso e denso velame agli occhi d’un tradito monarca: ed abbiam tutti alzata fieramente la testa quel giorno famoso per la storia nostra che quel ministero indegno, caduto per sempre sotto la riprovazione dell’universale disprezzo, cedeva il luogo ad un novello governo costituzionale, ad un novello reggimento civile.
Questa unione di tutti in un pensiero medesimo dovrebb’esser il pegno più certo della stabilità e durata dell’attual nostro risorgimento. E questa politica ristaurazione esser dovrebbe pur anche la fonte della moderazione nostra dopo l’ottenuta vittoria. La nostra prima cura adunque sia quella di far comprendere a chiunque che il nostro stato presente e affatto, lontano da ogni idea di vendetta e di men che onesta reazione. Napolitani generosi, prudenti e moderati cittadini, badate sovra tutto che la generosità, la prudenza e la moderazione non degeneri in debolezza ed inoperosità fatale. Astenendovi da ogni ricerca contro le opinioni e gli atti politici anteriori, prendete come regola che le funzioni politiche, a qual vogliasi grado della gerarchia novella, non posson confidarsi che a liberali esperti e provati. Il disprezzato potere ministeriale, che dinanzi al soffio nazionale disparve, aveva iniettato della sua corruzione i rami tutti dell'amministrazione; quegl'individui per conseguenza che han servilmente obbedito alle sue depravate istruzioni, son ora impotenziati a servire lo stato. Nel momento solenne che la nazione, ricuperata la pienezza della sua possanza, disporrassi alla scelta de' suoi eletti, a di mestieri che i suoi magistrati sien profondamente attaccati alla sua causa e coscienziosamente disposti a sostenerne l’impresa. La salute della patria a questo sol prezzo otterrassi.
Se noi c’incamminiamo con fermezza nella via della rigenerazion nostra santissima, niun limite potrà certamente assegnarsi alla nostra prosperità e grandezza; se ci raffreddiamo indolenti, o desistiamo infingardi da una sì salutare impresa, tutto il male possibile e da temersi. Si pongan uomini risoluti e caldi d’amor patrio alla testa degli affari, alla direzione ministeriale, provinciale, distrettuale e comunale. Cittadini napolitani, cui sta molto, a cuore l’immegliamento morale ed intellettuale, l’incivilimento e 'l progressivo sviluppo de' vostri cari fratelli, non risparmiate l’istruzion pubblica e privata, or che se ne fa sentire più forte il bisogno; animatene anzi il trasporto, promovetene ad ogni costo lo zelo. I destini del nostro reame non sono che nelle mani de' buoni e savi cittadini ond'è eminentemente rappresentato; e questi, osiamo ancora sperarlo, saran falli scopo alle già imminenti elezioni; questi geni tutelari della patria nostra che compongan presto le Camere, che formino pure una specie d’Assemblea nazionale, ma che sian però capaci di comprender l’importanza del loro sacro ministero, della loro sublime missione, e sian solleciti a compiere l’opera santa del popolo; in una parola che sian TUTTI UOMINI DELLA VIGILIA, E NON DELL’INDOMANI.
Non minor rigore' eziandìo esiger dovrebbesi riguardo a' funzionari puramente amministrativi. Mantenere e conservar dovrebbersi coloro che hanno acquistato la posizion loro con utili servigi allo stato, rimanendo però sempre stranieri a qualunque azione politica. Cercando in tal modo un Ministro savio e zelante delle cose patrie a rimaner fermo e giusto, relativamente agli agenti posti sotto i suoi ordini, esiger dovranne un concorso attivo ed interessante. Un siffatto concorso tender dovrebbe a rassicurare gli spiriti timidi, a calmare gl’impetuosi e gli impazienti. Gli uni si spaventano di vani fantasmi, vorrebbero gli altri precipitare gli avvenimenti secondo le loro ardenti speranze. Un ministero avveduto e prudente dir dovrebbe ai primi che la società attuale e provvidenzialmente al coverto delle commozioni terribili che hanno agitata, ne’ tracorsi giorni di crisi, la nostra esistenza; far sentire agli altri, che amministrar non possonsi le pubbliche cose con la rapidità del baleno, conl’istantanea prestezza d’un pensiero volubile e fugace. Il suolo e già sgombro d’obbietti intristiti e paralizzati; il tempo accettevole e venuto di riedificare e produrre. Or, qual cittadino dabbene non si sente disposto ad elevarsi sopra tutti i miserabili calcoli dell’assurdo egoismo per compiere questa grand’opera? La nazione napolitana e già pronta a dare al mando politico lo spettacolo d’uno stato abbastanza forte per usarne con pacifica e moderata tutela. In questo ammirabil movimento degli spiriti, con tanta energia trascinati verso la santa applicazione dei princìpi di fratellanza e d’unione, dov’è il pericolo per chicchessia, dove il pretesto d’un vano timore?
Tutti coloro che mostransi inquieti per la proprietà e la famiglia, sono poco sinceri o molto ignoranti. Scevra del suo carattere di personalità egoista, guarentita e limitata dall’interesse e dal diritto di tutti, la proprietà diventa tosto frutto esclusivo del sacro lavoro, degli onorali sudori. Chi oserebbe allora contrastarne l’inviolabilità, l’uso, il diritto? Così rigenerata da un’educazione comune a tutti i giovani cittadini, ogni famiglia e una fiamma ardentissima donde parton direttamente altrettanti raggi di vero patriottismo e di cittadino affetto. Il suo destino è forte giunto ed appiccato a quello della civil comunanza ond’è modello ed immagine.
Quanto all'attual Ministero, ch'essi elevato oramai su le ruine degli altri già sformati e riformati più volte, dall’acclamazion popolare salutalo per preparare il definitivo stabilimento della nazione costituzionale, a lui più che ad ogni altra classe di magistrati intesi alla pubblica salute preme ed importa di ben amministrare l’autorità conferitagli dal pubblico volo. Ma per compier degnamente questo nobile incarico, hassi essenzialmente bisogno di confidenza e di calma. Tutti i suoi sforzi tender dovranno al buon uso del tempo, sì che non vi fosse, per tutti coloro che attualmente compongonlo, un giorno, un’ora, un istante perduto. Che i ministri adunque da un lato, e tutti i membri, dall’altro, componenti le Camere; che i rappresentanti tutti del paese surti questa volta senza infinzione e senza velame u impostura dal seno della nazione rigenerata e monda, si rivniscan insieme, e tosto, per governare e dirigere le pubbliche cose, per regolare. e moderar santamente i destini d’un più felice avvenire.
A quest’assemblea di rispettabili ed illuminate persone e riservato il compimento della nostra grand’opera. Sarà dessa completa nel genere suo, se, nel tempo della necessaria transizione, darassi alla patria ciò ch'ella spera ed attende con estrema impazienza, l’ordine e la pace, la tranquillità e la calma, la sicurezza pubblica e privata, la confidenza e la fede all’attuale Governo. Penetrati costoro d’una siffatta verità, faran senza dubbio eseguire le leggi vigenti in quanto non son punto contrarie al novello sistema di cose. I poteri che saran loro conferiti non porransi al di sopra dell'azion loro che in ciò che riguarda l’organizzazione politica di cui dovranno esser l'¡strumento attivo e zelante. Non dovrebber intanto obbliare gli attuali organi del pubblico ministero che agir deesi d’urgenza e provvisoriamente, almeno pel momento, e che debbe il pubblico immediatamente conoscere le opportune misure che prendendo vansi alla giornata. A questa sola condizione potrem noi mantenere la pubblica pace e guidare le cose del nostro paese senza nuove scosse sino alla riunione de' suoi mandatari o rappresentanti.
Intorno a voi intanto, o novelli ministri, elevando vansi ogni giorno numerosi reclami d’ogni natura; accoglieteli pupe con cura e con sincerezza di cuore. Egli è tempo che il popolo faccia liberamente intendere la. sua voce dolente; né il Governo rimaner puote indifferente al voto comune. Non vi spaventate né offendete se l’espressione ne sarà calda ed ardente; sarebbe pericoloso pur troppo il comprimer le passioni in se stesse legittimee sacre; del pari che vano sarebbe l’adombrarsi di qualche esagerazione inevitabile, e di qualche ardita verità. La compressione altera e corrompe il pubblico pensiero; la libertà per lo avverso lo purifica e dilata, l’ingrandisce e sublima.
Nulla però di meno, ove l’ardimento dell’immaginazione e la temerità del linguaggio, invece d’applicarsi alle idee general i, alla via tenuta dall'attual nostro Governo, colpisser le persone, sarebbe vostro dovere richieder l’intervento di savie leggi e proclamarne la più rigorosa osservanza per far cessare un tanto abuso che, nei tempi presenti, desta oramai la pubblica ammirazione, lo scandalo universale, la comune sorpresa, in questa nostra Capitale. Del resto poi non havvi nulla, a temere; lo slancio istintivo che invade e trascina gli spiriti, saprà pure elevarli al di sopra delle miserabili dispute che son molto frequenti e mordaci nel nostro paese.
Savi e benemeriti cittadini della patria, che regolar dovrete un giorno i destini di essa! vivete pur certi che, nel felice istante del vostro innalzamento a qualche posto elevato e sublime, sarete tosto circondati dei più caldi ed influenti patrioti; i loro consigli prudenti avranno senza dubbio un gran peso su l’animo vostro; ma non dimenticate punto che il miglior mezzo d’attaccarli a voi ed alla popolazione intera, e d’imprimer in tutti i servigi dell'amministrazione un’instancabil attività, un operoso ed efficacissimo zelo. I veri magistrati son sempre gli amministratori fedeli del popolo; e però provar deono con la loro solerzia di esser meritevoji della sua confidenza. Date ovunque l’esempio della vigilanza e del lavoro, dell'amore ed attaccamento alla patria, e voi avrete utilmente adempito al vostro mandato.
Né fa pur di mestieri qui dirvi che tutta l’attenzion vostra dee specialmente fermarsi sul pronto organamento della guardia nazionale. Composta di cittadini prescelti fra tutte le classi, sarà ella la forza e la gloria, l’ornamento e 1 decoro della patria, la guarentigia più sicura della civil nostra libertà. Si proceda dunque senza ritardo all'elezione de' suoi capi, e mantengansi con e so loro sempre attivi rapporti, comunicando a ciascuno lo spirito che vi anima e dirige.
Applicatevi infine, o custodi e promotori della salute pubblica, a riassumer con chiarezza e precisione tutto ciò che interessa la sorte degli operai in questa nostra Capitale e nel seno delle abbandonate province. Fate che si estendan su di loro particolarmente i più sensibili ed immediati vantaggi del nostro novello regime politico, la cui missione e di far cessare le loro più dure e lunghe sofferenze e consecrare i loro, diritti. Se qualche urgenza momentanea proclama altamente l’intervento di straordinarie misure, non esitate punto di adattarle e farle eseguire. Appiccati e giunti infra loro coi più sacri legami d’una fraternale associazione, gli operai ed i padroni non formeranno più che una sola famiglia, i cui interessi saranno perfettamente identici e concordi. Riprendendo l'importanza ed il grado che dall’evirato ministero tracorso le furon barbaramente rapiti, l'agricoltura farà uscire dal suolo le prodigiose ricchezze, che la negligenza pur anche del più recente ministerial governo vi lasciava sepolte; e così getterà ella nella circolazione multi ignoti o paralizzati elementi che rigenereranno l’industria e promuoveranno utilmente il commercio.
Ecco il grande avvenire che ci è riserbato, ove siam francamente uomini costituzionali ed i nostri pensieri, le nostre decisioni, i nostri alti sien pienamente conformi alla legge di fratellanza che debb’esser la regola delle società presenti e future. Felici pur troppo di prepararne il grande avvenimento, e de' magnanimi cittadini e di magistrati prudenti l’incarico di rassicurar gli animi. di sollevare pacificamente i popoli oppressi, di consolidar i materiali del vasto edifizio che sarà elevato dalla rappresentanza nazionale. Che tutti i cuori generosi adunque, tutti gli spiriti liberi ed ardenti, passionati e caldi d’amor cittadino s’accingan all’opera, e porganci aiuto a tanto uopo, e questa una nobile e generosa ambizione. Dare al mondo l’esempio della calma e tranquillità coscienziosa dopo la conseguita vittoria; far bellamente risorgere la repressa possanza delle idee e della ragione; accettar coraggiosamente le dure prove del presente, e mostrare di non succumberne al peso; giugnerci tutti solidariamente in uno e raddoppiare di sforzi per traversarle e vincerle, ecco ciò che caratterizzar dovrebbe veramente ed elevare ad eterna gloria la nostra nazione. E non debb’qsser che questo lo scopo degli sforzi comuni. —
Una lunga e costante esperienza di tutti i tempi e di tutti i luoghi in cui ha regnato ed avuto permanenza la gesuitica setta, rende pienamente istrutti e convinti i popoli dell'incivilita Europa, che la sua malefica esistenza e incompatibile affatto e ripugnante con ]’. attual forma di costituzionale governo. E però con data del primo dì di Marzo 1848, il Governo generale della divisione di Genova notificava in pubblica forma il seguente avviso:
«I Padri Gesuiti sono finalmente sgombrati dagli stabilimenti che occupavano in questa Città.
«Il Governo di S. M. il nostro Augusto Sovrano provvederà ulteriormente in modo definitivo.
«Genovesi! non ¡smentite la fama che vi proclama saggi e temperanti, ossequiosi alaLegge ed amanti dell’ordine pubblico».
Nello stesso giorno della loro espulsione dalla città di Genova, dandosi il guasto al Convento de' Gesuiti, vi si son trovate corrispondenze assai criminose e sinistre di varie persone: una scoverta siffatta non ha destato e prodotto che maggior irritazione nel popolo genovese; sì che furon d'uopo grandissimi sforzi di civico patriottismo, per ristabilire in quel paese la tranquillità e la calma.
Non diversa sorte sovrastava ad un’altra compagnia di Gesuiti, di residenza nella città di Cagliari: ed ecco la sposizione succinta e fedele di quanto e all'uopo avvenuto in quel paese del Genovesato. Sparsa appena nel popolo la fausta notizia della già decisa espulsione de' Gesuiti, deliberossi tosto del modo da tenersi per costringerli ad una precipitosa partenza. Mossi ed animali dalla risoluzione già falla, riduconsi molti sul principiar della notte alconvento di S. Ambrogio, ed altri si affollano dinanzi al palazzo Tursi, ov'eran le scuole tenute da quei famosi dottori: comincian repente le solite grida, i consueti fischi, i ripetuti e frequenti clamori; ingrossa via più la turba furente, e già le porte de' due edilizi cupamente rintronano sotto i continui colpi, onde l’irata moltitudine le urta e le scuote, facendo ogni sforzo o tentando ogni prova per atterrarle: e parendo poco o nulla il già fatto, una tempesta di sassi volanti contro la facciata infrangeva i cristalli e le imposte delle finestre: le cure e gli sforzidi taluni cittadini i quali adoperaronsi a mitigare gli animi, a frenar quelle ire e a dissuadere la moltitudine inferocita da quegli eccessi, produsser poco o niun frutto: e chi sa fin dove sarebber giunti, se non tosse accorsa la truppa inarmi per sedareil tumulto: fu questa accolta in mezzo agli applausi universali ed alle grida di viva la linea; e l'espulsione completa de' Gesuiti fu compimento e corona di quella scena popolare.
In verun modo dissimile fu il tumultuoso spettacolo ch'ebbe luogo in questa Capitale, cui fu meta e scopo l’espulsione totale della gesuitica setta. Quei RR. Padri, scortati da numeroso stuolo di truppa, di guardia nazionale a piedi e a cavallo, e da una folla immensa di popolo, venner obbligati il dì 10 marzo del 1848 ad abbandonare il monistero e quanto vi comprendeva, l’istituzione e le scuole, i beni e la Capitale! Ridottisi tutti sur un vapore, il Flavio Gioia, venner direttamente tradotti nelle acque di Baia. Trasferiti poscia in un altro vapore attesamente apparecchiato, per misure politicamente provvisorie furono sbarcati a Ponza. Di là inchiese ciascun di costoro un passaporto per quella residenza che liberamente fu scelta, ed avviossi ognuno verso quel luogo ove l'appellava il destino.
Anche da Napoli son dunque sgombrati i Gesuiti. Gli accompagni il cielo, ed una terra ospitale gli accolga! Il suolo d’Italia non li vedrà più forse prosperare e fiorire, macchinare e corrompere, sedurre e infettare la civil comunanza! Fuvvi nondimeno chi protestò altamente contro un avvenimento siffatto; chi venne pubblicamente accusato di caldeggiar troppo per onesta importante genia; chi bandì loro addosso la croce senza pietà; chi avea per anco tentato alzar contro la voce, quando il profferir motto contro quegli UMILI POTENTI era grave felloni e reità di stato, e punivasi per seguenza con persecuzioni e prigionie, con tortura ed esilio.
Noi abborriamo quella setta, andavan taluni altri gridando, né alcuna pena per essa ci daremmo giammai; ma non rifinirem punto di produrre le nostre giuste doglianze contro qualunque arbitrio, contro qualsiasi debolezza dell'attuale governo; ed il governo propriamente accusavan costoro dell'anticostituzionale e vergognosa condiscendenza.
La giustizia e la vita de' liberi reggimenti, dicean eglino; non son proprie le violenze che de' poteri dispotici e capricciosi. Se la rimostranza fatta al governo perché bandisca i Gesuiti, fosse stata diretta a provocarne una legge; sarebbe stata pur troppo laudevole, e fra le attribuzioni compresa d’un popolo libero e veramente civile. Ma questa rimostrazione e stata prodotta per aver la sanzione d’un fatto già consumato, per consolidar un atto definitivamente eseguito, per coronar un’opera pienamente compiuta. Il governo, conchiudeasi, non èconcorso a tal bando che per suggellare una decisione illegale, violenta, obbrobbriosa; e però èstato illegale e violento, pauroso e fiacco.
Sei Gesuiti, andavan pubblicando parecchi altri, avesser patentemente destate dissenzioni civili nel paese, sarebbero stati rei, e perciò giudicali e puniti, condannati e posti a bando del regno da una corte competente. Ma i Gesuiti non turbavano la pubblica tranquillità, non destavan ire plebee, a voce levata non calunniavan il potere, non minavan le basi dell’ordine pubblico: e però non eran d’altro colpevoli che d’incompatibilità con l’attuale governo, co’ veri interessi della nazione.
Ed altri ancora più arditi ad inchieder faceansi a' Ministri, per qual ragione si eran messi a convalidare della loro firma la sentenza dell’esilio; in virtù di qual legge eransi indotti a ciò fare; in forza di qual domanda si era siffattamente proceduto; come aveano eglino interpetrato il pubblico voto; chi l’avea fatto loro legalmente pervenire? I Gesuiti, sclamavan costoro, dovean uscire certamente dal nostro reame, ma dovean soltanto le Camere mandarli via, non già pochi individui, esaltati da princìpi generosi ma non legali e decorosi. I Ministri han dunque forte temuto le imperiose inchieste di pochi, le imprudenti minacce d’una branca di stolti e baldanzosi libertini; non han saputo resistere né circoscriversi nella barriera del diritto e della legge; hanno offeso i Ministri la dignità del governo, ne hanno intaccate le attribuzioni più sacre, ne hanno oltraggiata la giustizia e la fermezza, due cardini principali su di cui riposan solamente la tranquillità pubblica e l’individual sicurezza. Non son responsabili soltanto i Ministri de' fatti compiuti, ma delle debolezze e condiscendenze indiscrete altresì; non solo di ciò che operarono, ma di ciò che avrebber dovuto operare eziandìo. Quindi, nel bando di quella gente, conchiudean finalmente, son costoro colpevoli non solo dell’ignavia di aver condisceso alla richiesta importuna di pochi ribaldi e felloni, che han quasi strappato loro di mano il perentorio editto di espulsione; non solo del difetto di energia e di efficacia, del vigor delta mente e del proprio carattere, della fermezza e solidità de' princìpi; ma di non aver consultalo peranco il voto della nazione, di aver demolito e atterrato prima ancor di gittare le basi ed edificare.
Né qui si arrestan le doglianze e i pareri di chi a giudicar fassi d’ogni cosa e per diritto e per rovescio. — Eleviam noi le nostre querele, soggiungean altri d’avvantaggio, non per l’opera santissima dell’esilio di quella gente, ma pel modo sì bene che ha provocato e seguito quell’atto;perocché, a lato ad un esempio così scandaloso della debolezza del Ministero, havvi una condiscendenza che ne oltraggia la dignità e 'l carattere; vi ha un’illealtà che non si puote in veruna guisa convalidare; vi ha un desiderio smodato di violenti che non si può mica legalizzare; evvi un’infrazione di legge! che non può restare impunita; vi ha finalmente una provocazione illegale che fomenta le reazioni morali degl’individui offesi e concitali ad altissimo sdegno. Ne’ liberi governi non havvi peggior male quanto quello di dar il primo passo contro la Carta che regge; guai quando il potere e trascinato a sostegno delle voglie private. La tranquillità pubblica tosto svanisce; l’inviolabilità personale non vi e più; il popolo sfrenato irrompe e trasmoda a sua posta.....
Se oggi i ministri, proseguian d’avvantaggio, han violato la maestà del governo, confirmando un atto, per se stesso necessario e giusto, ma con le leggi in vigore per niun modo compatibile; forzati dimani del pari da circostanza diverse, con la stessa illazione con gli stessi modi, potrian confirmare attentati più turpi e più pregiudizievoli a un tempo. Dovean eglino più tosto accoglier la petizione e provocar poscia una legge per bandire i Gesuiti dal nostro reame, non già sanzionare la loro espulsione stabilita e voluta da pochi: il bando de' Gesuiti era utile al paese, vantaggioso alla social comunanza, pur troppo degno di compiersi; ma non in quel modo precipitato e illegale. Chi vilipende il caduto è vigliacco; ma chi concorre a vilipenderlo davvantaggio è fellone ed iniquo. Non dee mica il potere fecondare gli attruppamenti sediziosi che potran compromettere la pace cittadina; disperderli o dissiparli sì bene. E se il Direttore di Polizia, conchiudean infine, avesse posto sol mente alle attribuzioni personali o di carica, implorato avrebbe certamente il braccio della guardia nazionale per dissipare i complotti; i quali, animati da questa prospera riuscita, potrebbero per l’avvenire dar luogo a conseguenze pericolose e sinistre.
Intendiamoci bene, andavan altri ancora sofisticando; noi non condanniam mica i princìpi, fatto sì bene; non contrastiam punto l’opera, ma l’illegalità del procedimento; non la cacciata de’ Gesuiti, ma il modo ond’essi questo bando ottenuto; non la necessità del lor allontanamento da questo nostro paese, ma la debolezza con cui il ministero vi ha condisceso. E più che ogni altra cosa, temiam molto l'esempio; l'esempio che a cose men lodevoli e giuste non si avesse ad applicare. Quando e ne’ limiti delle leggi e della Carta, dee sempre il ministero star saldo e governare rinunciare più tosto, cadere, se occorre, ma non macchiarsi d’arbitrio o di condiscendenza colpevole. Non debb’egli mirare agli onori o alla carica, non usar blandimenti per conservarsi al suo posto e al suo grado; ma badare sì bene alla giustizia ed alle convenienze legali, al diritto e al dovere; allogar deesi la legge dinanzi dagli occhi; por mente alla prosperità ed alla sicurezza del paese, e proceder diritto pel calle di giustizia e di saviezza. Se perde il prestigio della volontà e della forza, e già dissoluto il ministero; e qual altra garentia resterà poscia alla nazione, tranne quella della violenza e delle armi? — In una parola, faceansi costoro a conchiudere; il bando de' Gesuiti e un atto istantemente voluto dal pubblico, approvalo dalla ragione, proclamato da' tempi, sanzionalo dall'esperienza delle cose presenti e de' fatti passati; ma dovea quest’alto proceder dal ministero ed esser convalidato dal voto solenne d’un’intera nazione. Or, non essendo stato quel fatto che l’espressione del volere capriccioso di pochi riscaldati, non avendo il ministero coadiuvato che l’emanazione d’un corrotto e guasto pensiero, è decaduto issofatto dall'opinione del pubblico, ha commesso per seguenza una violazione di legge, una violenza illegittima, e però colpevole e criminosa.
Un altro grido ancora si andava elevando in diversi punti della città; ed erane questa l’espressione fedele: Pria di discacciare i Gesuiti da Napoli, diceasi, doveva il Ministro dell'Istruzione pubblica provvedere alle scuole di pubblico insegnamento e trovare tra le classi delle persone illuminate ed intelligenti chi dettar potesse lezioni a quei molti giovani avviati allo studio, affinché non si rompesser all'ozio ed alle fatali conseguenze di esso. Chi abbatte od atterra il vecchio abituro pria di aversi edificato un nuovo ostello, dà segno manifesto di stoltezza o follia. E, conchiudendo, a rammentar faceansi a' giovani che avean concepito e compiuto il disegno del bando, facendolo per violenza sanzionare dal ministero, che non fu mica gentile né generoso l’insultare il caduto, e che dovea loro bastare soltanto l'esilio legale di quella gente, senza insultarla con modi vituperevoli e strani. E rammentavan da ultimo al ministero di voler tutta sentire la propria importanza, di provvedere alle cose del paese con fermezza e coraggio, di non dar accesso né peso alle femminili paure, di badare che il suo potere non va più in là della Carta e del voto nazionale, ch'è responsabile, in una parola, non solo delle azioni compiute, ma delle omissioni ed oscitanze eziandìo. —
Ecco le critiche variate e molteplici, cui diè luogo e fomento il gesuitico bando; ecco le opinioni contrarie e diverse che da diversi e contrari partiti si andavan sostenendo a quei tempi. Qual sarà ora la nostra critica, quale la nostra opinione, il parer nostro? — Lo vedran tosto i contemporanei; lo vedran più tardi, e meglio, i posteri nostri.
FELIX QUI POTUIT RERUM COGNOSCERE CAUSAS!....
Nel 1521, Ignazio di Loyola, dopo aver tracorsi i primi 29 anni di sua vita fra le armi ed i piaceri della galanteria, consacrossi al servizio della Madre di Dio nel Monserrato in Catalogna; donde poscia si ridusse in una solitudine non molto lungi di colà, in cui l’Eterno certamente ispiragli la sua grande opera degli esercizi spirituali, poiché ignorava le prime letture quando la scrisse.
Decorato del titolo di Cavaliere di Cristo e della Vergine Maria, si accinse tosto ad insegnare e predicare, a convertir gli uomini con entusiasmo e con zelo, con ignoranza e successo.
Nell'anno 1538, sul finir della quaresima, radunò egli, in Roma dieci compagni, che avea prescelti secondo le sue mire e pienamente acconci ai suoi altissimi disegni.
Dopo diversi piani formati e rigettati a un tempo, Ignazio ed i suoi colleghi si dedicaron di concerto ad illuminar gl'infedeli, a propagare la fede, avendicar la Religione dagli attacchi degli Eretici.
In queste circostanze, Giovanni III, re di Portogallo, principe zelante per la propagazione del Cristianesimo, indirizzossi ad Ignazio per ¡spedire ne’ suoi stati una branca di missionari, con altissimo scopo d’inviarli poscia a propalar il Vangelo tra i Giapponesi e gl'Indiani. Ignazio spiccogli Rodrigo e Saverio. Quest'ultimo partì solo per quelle lontane contrade, in cui operò un’infinità di cose sorprendenti, che noi crediamo, e che il Gesuita Acosta non crede.
Il Papa Paolo III concepì il disegno di formare per mezzo di questi Religiosi una specie di milizia sparsa su la superficie della terra, sottoposta senza riserba agli ordini della Corte di Roma. Dopo molte difficoltà ed ostacoli, dopo molte opposizioni e contrasti, nel 1540 venne finalmente approvato l’Istituto d’Ignazio, e fu fondata la Compagnia di Gesù.
Benedetto XIV, che possedea tante virtù, e che ha profferito tanti bei motti; quel famoso ed illuminato Pontefice, la cui perdita fu general mente rimpianta fino ai nostri tempi, risguardava questa milizia come i GIANNIZZERI della Santa Sede, soldatesca indocile e pericolosa, ma che serve bene.
Al voto d'UBBIDIENZA, fatto al Papa rappresentante di Cristo su la terra. e ad un general e, aggiunser dappoi i Gesuiti quei di POVERTÀ’ e di CASTITÀ’, che hanno sinora osservati come si conosce pur troppo.
Dopo la Bolla che gli stabilì, e che gli appellò GESUITI, ne hanno ottenute novantacinque altre, che si conoscono, e che avrebber dovuto accuratamente nascondere.
Queste Bolle nomate LETTERE APOSTOLICHE accordan loro tutti i privilegi dello Stato monastico, cominciando dal men degno d'osservazione sino all'indipendenza dalla Corte di Roma.
Oltre a queste prerogative, han saputo costoro rinvenire un mezzo assai singolare di crearsen altre d’avvantaggio. Profferisce un Papa inconsideratamente qualche parola che sia favorevole all’Ordine? Se ne forma tostamente un titolo, ed è registrato ne’ Fasti della Società, in un Capitolo ch'ella denomina: GLI ORACOLI DI VIVA VOCE; vivae vocis oracula.
Il general ato, dignità subordinata nella sua origine, divenne sotto Lainez e sotto Acquaviva un dispotismo illimitato e permanente.
Avea stabilito Paolo III il numero di sessanta professi; tre anni dopo annullò una restrizione siffatta, e l’Ordine fu abbandonato a tutti gli aumenti ond’era suscettibile, e che ha preso col fatto.
Quei, che pretendon conoscere l’economia e la Regola di questa loro Società, fansi a partirla in sei classi, che chiamano dei Professi, de' Coadiutori Spirituali, degli Scolari approvati, de' Fratelli Laici o Coadiutori temporali, de' Novizi, degli Affiliati o Aggiunti o Gesuiti di Veste corta. Quest’ultima classe e numerosa, incorporata in tutti gli stati della civil comunanza, e d’ogni sorta di abito fassi maschera e velo.
Oltre a' tre voli solenni di Religione, i Professi che forman il Corpo della Società, fanno ancora un voto di ubbidienza speciale al Capo della Chiesa', ma solamente per ciò che riguarda le missioni straniere. Il solo general e, ad esclusione anche del Papa, puote ammettere o rigettare un suggello.
L’Amministrazione dell'Ordine e divisa in tante Assistenze, le Assistenze in Province, le Province in Case. Non havvi poi che cinque Assistenti, e porta ciascuno il nome del suo Dipartimento, appellandosi l'Assistente o d’Italia, o di Spagna, o di Germania, o di Francia, o di Portogallo.
Il dovere d’un Assistente e di preparare gli affari e di mettervi un ordine che ne agevoli la spedizione al rispettivo general e. Quegli che invigila sur una Provincia porta il titolo di Provinciale; il Capo d’una Casa assume quello di Rettore.
Che cosa è intanto un Gesuita? E forse un prete secolare? È un prete regolare? È un Laico? È un Religioso? È un uomo di Comunità? È un Monaco? —Egli è veramente qualche cosa di tutto ciò, ma non appartiene in effetti ad alcuna di cosiffatte denominazioni.
Quando questi uomini si sono presentati nelle Contrade, in cui sollecitavan con molta cura la fondazione de' loro Stabilimenti, e ch'essi loro domandato: Chi voi siete han francamente risposto: Tali quali, tales quales.
Han sempre costoro fatto un mistero delle loro Costituzioni, e non ne han dato giammai intera e libera certezza ai Magistrati od ai Governi. La loro Regola èassolutamente monarchica; e tutto il potere risiede nell’autorità d’un solo.
Sottoposti al più eccessivo dispotismo nelle loro case, i Gesuiti ne sono i fautori più abbietti nello Stato. Accordano al Papa l’Infallibilità ed il dominio universale, affinché padroni d’un solo, divenisser poscia padroni di tutto.
Correremmo rischio poi di andar all’infinito, ove tutte enumerar volessimo minutamente le prerogative assolute del loro general e. Ha egli il diritto di far novelle Costituzioni o rinnovare le antiche, di ammettere o di escludere, di edificare o di annullare, di approvare o disapprovare, di consultare o di ordinare in modo assoluto, di radunare o di sciogliere, di arricchire o d’impoverire, di assolvere o di condannare, di legare o sciorre, di mandar via o di ritenere, di render innocente o reo, colpevole d’un fatto leggiero o d’un delitto, d’annullare o di confermare un contratto, di ratificare o commutare un legato, d’approvare o di sopprimer un’Opera, di distribuire indulgenze o anatemi, di ascrivere o di cassare: in una parola, possiede egli tutta la pienezza di potere che immaginar possasi in un Capo sopra i suoi sudditi. Egli è lume ed anima, volontà e possanza, guida e coscienza.
Se questo Despota o Capo fosse per avventura un uom violento e vendicativo, ambizioso e perverso; se tra la folla di coloro cui inappellabilmente impone ed imperar si rinvenisse per caso un sol superstizioso o fanatico, ove mai quel principe, o quel cittadino privato, ch'esser potrebbe sicuro sul suo Trono, od in seno nella propria famiglia? — Chi ha lettura ed esperienza lo giudichi.
Viene imposto inoltre ad ogni Provinciale di entrare nelle più minute particolarità intorno agli affari pubblici e privati dell'intera Provincia, e d’inviare i più compiuti cataloghi della condotta, dello spirito, della maniera di pensare, del talento, del carattere, dei costumi degli individui; in una parola, dei loro vizi e delle loro virtù. Il generale per seguenza riceve ogni anno più di dugento stati esattissimi d'ogni Regno e d’ogni Provincia, tanto per le cose temporali, che per le spirituali.
Se fosse per poco questo generale un uomo iniquamente venduto a qualche Potenza straniera; ove fosse sventuratamente disposto per proprio carattere, o trascinalo per vile e sordido interesse a mischiarsi nelle cose politiche, qual male irreparabile e calamitoso, quale orrenda e trista sciagura non potrebbe apportare agli Stati? — L’han saluto pur troppo i nostri antenati; e neanco ignorano le generazioni presenti...
Centro morale e politico in cui a terminar vanno tutti i segreti dello Stato e delle famiglie, delle magioni de' Grandi e de' gabinetti peranco; tanto istrutto delle cose pubbliche e private, quanto impenetrabile nei suoi arcani ed occulti disegni; disposto sempre a desiare volontadi assolute senza ubbidire ad alcuno; prevenuto delle più pericolose opinioni su l’ingrandimento e conservazione della sua Compagnia, del paro che su le prerogative della sua spirituale possanza; capace infine di armare ai nostri fianchi una mano crudele e spietata di cui non si può diffidare: ov’è quell'uomo avventuroso tanto cui questo formidabili Capo suscitar non possa imbarazzi spiacevoli e tristi, ove incuorato dal silenzio e dal mistero, inanimito dal secreto e dall’impunità, osasse obliare una volta la santità del suo stato?—È UN GRAN LIBRO L’ISTORLA!....
Ne’ casi importanti, si scrive al generale in simboliche cifre, in geroglifici egiziani. Gli uomini che compongono la Compagnia di Gesù divengon per giuramento delatori e spioni gli uni degli altri, e tutti di tutti. Appena formata, si vide ricca e possente, numerosa e forte. Con la rapidità del baleno propagossi ella in Ispagna e nel Portogallo, in Francia e in Italia, in Germania ed in Inghilterra, al Nord ed al Mezzogiorno, in Africa e in America, nella Cina e nelle Indie, nel Giappone e da pertutto. Ugualmente ambiziosa e intricante, turbolenta e formidabil sempre; costantemente scuotendo il giogo delle leggi, e portando ovunque il suo inflessibil carattere d'indipendenza assoluta, scrupolosamente lo conserva, procedendo tronfia ed altera, orgogliosa e superba, quasi si sentisse destinata a comandar l’universo. Dalla sua fondazione sino a' nostri tempi, no né pur decorso un sol anno senza che siasi segnalata con qualche azione strepitosa e turbolenta ad un’ora. Ecco il ristretto cronologico della sua storia, com’è a un dipresso compreso nel Decreto del Parlamento di Parigi, datato de' 6 Agosto 1762, che sopprime quest’Ordine, come una setta di empi, di fanatici, di corruttori, di regicidi, di comandati da un capo straniero e macchiavellista per istituto.
Nel 1547,Bobadilla, uno de' compagni d’Ignazio, fu discacciato dagli Stati di Germania, perché osò scrivere contra l’Interim d’Ausburg.
Nel 1560, Gonzales Sylveria fu giustiziato al Monomotapà come spione del Portogallo e della sua Società.
Nel 1578, tutti i Gesuiti d'Anversa furon banditi, per essersi ricusati alla predicazione di Gand.
Nel 1581, Gampian e Briant furon messi a morte, per aver cospirato contro Elisabetta d’Inghilterra. Nel corso del regno di questa illustre Regina, cinque cospirazioni tramaronsi contra la sua vita da' Gesuiti.
Nel 1588, si vider costoro animare la Lega formata in Francia contro Errico III. Nello stesso anno, il tanto famoso Molina pubblicò i suoi perniciosi e condannati sogni su la concordia della grazia e del libero arbitrio.
Nel 1593 Barrière fu armato d’un pugnale contro il migliore de' Re dal Gesuita Varadé.
Nel 1594 i Gesuiti furon discacciati dalla Francia come complici provali del parricidio di Gio: Chatel.
Nel 1595, il loro P. Guignard, sorpreso con gli scritti apologetici dell’assassinio di Errico IV, fu condannato alla Grénve.
Nel 1597, le Congregazioni de' auxìliis si tennero in occasione della novità della dottrina de' Gesuiti su la Grazia; e Clemente VIII disse loro: Uomini turbolenti siete voi che agitate tutta la Chiesa.
Nel 1598, corrompon i Gesuiti uno scellerato e ribaldo, gli amministrano l'Eucaristia con una mano, gli presentano un pugnale con l’altra, gli mostrano la corona eterna discesa dal cielo, e tosto spedisconlo ad assassinare Maurizio di Nassau; son quindi banditi dagli Stati di Olanda.
Nel 1600, la clemenza del Cardinal Federico Borromeo li discaccia dal Collegio di Brada, per nefandi delitti che avrebber dovuto inesorabilmente menarli al rogo o alla forca.
Nel 1605, Oldecorn e Gamet, come autori della cospirazione delle polveri, sono abbandonati al pubblico supplizio.
Nel 1606, ribelli ai decreti del Senato di Venezia, furon cacciati dalla Città e dallo Stato.
Nel 1610 Ravaillac assassinò Errico IV. I Gesuiti caddero in sospetto di aver secretamente diretta la sua mano; e mostrandosene pur troppo gelosi, come se il loro disegno fosse stato di sparger terrore ed allarme nel seno de' Monarchi, nello stesso anno pubblicò Marianne, con la sua istituzione del Principe, l’Apologia dell’assasssinio dei Re.
Nel 1618, furon cacciati i Gesuiti dalla Boemia come perturbatori del pubblico riposo, come sollevatori de' sudditi contra i loro Magistrati, come propagatori del fuoco della discordia tra i membri dello Stato. Nel 1619, furon banditi dalla Moravia per le stesse cagioni.
Nel 1631, le loro turbolente sedizioni sollevarono il Giappone; ed in tutta l’estensione dell'Impero fu bagnato il suolo di sangue idolatra e cristiano. Accesa la guerra civile, 37000 cristiani ritiraronsi nel Castello di Simabora. Ivi furono assediati; il Castello fu preso d’assalto il dì 11 Aprile 1638, ed i cristiani furon tutti distrutti dal ferro e dal fuoco. I Giapponesi, risoluti di non passare sotto un giogo straniero, han giurato d’aver in orrore il nome di cristiano; ed èsì possente fra loro un cotal sentimento, che, grazie ai Gesuiti, ha fatto perpetuare una cerimonia sì esecranda ed assurda da non potersi esprimere a parole senza nota di gravissimo scandalo: cerimonia ignominiosa ed infernale, a cui non pochi Europei, attaccati più tosto al danaro che al loro Dio, si sottopongon senza ripugnanza veruna.
Nel 1641, i Gesuiti accesero in Europa l’assurda contesa del Giansenismo, che costò il riposo e la fortuna di tanti onesti fanatici. E nel 1643, l’isola di Malta, forte adirata per la loro depravazione smodata, non men che per la loro rapacità ed insaziabil sete di ricchezze, rigettolli lungi da sé.
Nel 1709, la loro bassa gelosia distrusse Porto Reale, aprì le tombe de' morti, disperse le loro ossa, e rovescionne le sacre mura, le cui pietre oggi rovesciansi sì aspramente su le loro teste umiliate.
Nello stesso anno, il Gesuita Jouvency, in una storia della Società, osa allogare infra il novero de' martiri gli assassini de' Re di Francia; quei Magistrati accorti e prudenti fanno bruciare il suo libro.
Nel1723, Pietro il Grande non trova sicurezza per la sua persona, e mezzo di tranquillare i suoi Stati, che col dare il bando a' Gesuiti.
Nel 1730, lo scandaloso Tournemine predica a Caen in un tempio, ed innanzi ad un uditorio cristiano, ch'è cosa incerta che il Vangelo di Cristo sia Scrittura santa. Nello stesso tempo Hardovin comincia ad infettare il suo Ordine d’uno scetticismo ridicolo ed empio.
Nel 1755, i Gesuiti del Paraguay conducon in battaglia ordinata gli abitanti di quel Paese contra i loro legittimi sovrani.
Nel 1757, un attentato parricida è commesso contra Luigi XV, re di Francia, da un uomo allevato ne’ lari della Società di Gesù, da quei Padri protetto, e collocato in. molte case: nello stesso anno danno alla luce uno de' loro classici autori, in cui la dottrina dell’assassinio de' Re viene apertamente insegnata. Fecero altrettanto dopo l’assassinio di Errico IV. Le stesse circostanze, la stessa condotta.
Nel 1758, il Re di Portogallo èassassinato in conseguenza d’una congiura tramata e condotta a fine dai Gesuiti Malagrida, Mathos, ed Alessandro.
Ecco le principali epoche del Gesuitismo. Non havvene alcuna cui non se ne possan aggiungere molte altre, e forse di maggior importanza. Questa moltitudine di delitti, quanti altri non ne la presupporre che s’ignoran affatto? —Nulla però di meno, ciò ch'essi rapidamente accennato e oltre modo bastevole a mostrar apertamente, che in un intervallo di trecento anni non evvi misfatto che questa razza di uomini non abbia tentato o commesso.
Arroger puossi, che non havvi dottrina perversa che questa Società non abbia imprudentemente insegnata. L’Elucidarium di Posa soltanto ne contiene più che non ne fornirebbero cento volumi de' più distinti fanatici. La dottrina del probabilismo è d’invenzione gesuitica. Il sistema del peccato filosofico è dello stesso conio.
Leggasi la famosa opera intitolata le Asserzioni, pubblicata nell'anno 1762 a Parigi, e fremerassi d’orrore nel ravvisare le tante assurdità che i Teologi di questa Setta hanno spacciati fin dalla sua origine, su la simonia, su la bestemmia, sul sacrilegio, su la magia, su l’irreligione, su l’astrologia, su lo spergiuro su l’impudicizia, su la fornicazione, su la falsità, su la menzogna, su la direzione d’intenzione, su la falsa testimonianza, su la prevaricazione dei Giudici, sul furto, su la compensazione occulta, su l'omicidio, sul suicidio, su la prostituzione e sul regicidio: assurdità mostruose che, giusta l’opinione del Procurator generale del Re al Parlamento di Brettagna, nel secondo suo conio reso, pag. 70, attaccan apertamente i princìpi più sacri, tendon a distruggere la legge naturale, a render la fede umana dubbiosa, a romper tutti i legami della società civile, autorizzando l’infrazione delle sue leggi più sacre, a soffocare ogni sentimento dì umanità, ad annientare l’autorità reale, a portar le turbolenze e la desolazione negl’Imperi legittimando il regicidio, a rovesciar le fondamenta della rivelazione, ed a sostituire al cristianesimo ogni specie di superstizione e di fanatismo.
Leggasi d’avvantaggio nel Decreto del Parlamento di Parigi, pubblicato il 6 Agosto del 1762, la lista infamante delle condanne, cui sono stati sottoposti in tutti i Tribunali del mondo cristiano, e la lista più infamante ancora delle qualificazioni che loro si son date; ed acquisterassi senza dubbio una più chiara idea di questo CORPO EMINENTEMENTE MORALE.
Chieder potrassi qui certamente come questa Società siesi consolidata, malgrado tutto ciò che ha fatto per perdersi; come illustrata, ad onta di tutto ciò che ha tentato per invilirsi; come abbia ottenuta la confidenza de' Sovrani sgozzandoli; la protezione del Clero degradandolo; una sì grande autorità nella Chiesa riempiendola di discordie e di scismi, colmandola d’obbrobrio e di derisione, pervertendo la sua morale ed i suoi dogmi? Perché si è veduta a un tempo in questo STRANO CORPO la ragione assisa accanto al fanatismo, la virtù affratellata col vizio, la religione allato all'empietà, il rigorismo appiccato al rilasciamento, la scienza giunta all'ignoranza, lo spirito di ritiro accoppiato allo spirito d’intrico e di rigiro, tutti i contrasti in somma riuniti infra loro, le mostruosità più strane ed assurde
Giunte in un corpo con mirabil tempra.
Dati in preda al commercio e all'intrico, alla politica de' tempi e ad occupazioni straniere affatto al loro stato, son costoro necessariamente caduti nell'universale disprezzo, seguito in tutti i tempi, ed in tutte le case religiose, dalla decadenza degli studi e dalla corruzione del costume.
Non l’oro certamente, né la possanza, salvar polea la Società da un fatale ed irreparabil crollo; l’inviolabil rispetto sì bene dovuto alla scienza e alla virtù: han perduto i Gesuiti queste nozioni sì comuni che dovean sostenerli; e però la maledizione di Borgia, lor terzo general e, si è su di loro pienamente verificata. Quest'uomo di sana dottrina e d’incorrotti costumi indirizzava loro siffattamente la parola: «Verrà tempo certamente in cui non metterete più limite al vostro orgoglio insultante, all'ambizion vostra smodata; in cui non d'altro vi occuperete che d’accumulare ricchezze e di estender via più il vostro credilo, l’opinion vostra mondana; non saravvi allora potenza su la terra che rimenarvi potesse alla perfezion vostra primitiva; e se fia possibile distruggervi, vi distruggerà volentieri e senza riguardo veruno. Ci facea pur di mestieri che coloro che avean fondata la loro durata su la stessa base che sostiene l’esistenza e la fortuna de' grandi della terra, subisser finalmente al par di questi non diversi destini! La prosperità de' Gesuiti non è stata che un sogno alquanto più lungo, ma però più tristo e fatale.
In qual tempo intanto, ed in quali circostanze, e caduto infranto nella polve un sì formidabil colosso? Nel momento stesso che sembrava più saldo e più grande; nel momento che i Gesuiti riempivano i palagi dei Re; nel momento in cui la gioventù, che forma la dolce speranza delle prime famiglie dello Stato, correva in folla alle loro scuole variate e diverse; in un momento che la Religione gli aveva elevali alla confidenza più intima de' Magistrali e de' Grandi; in un momento, da ultimo, in cui, meno protetti che protettori del Clero, eran costoro divenuti ovunque e vita ed anima di questo gran Corpo Teocratico. E che cosa mai non si credean di essere questi mostruosi giganti de' tempi favolosi?— Noi abbiam veduto queste querce orgogliose toccar già da presso il cielo; ci siam tosto rivolti, ed esse non eran più.
Del pari che nel mondo fisico, ha pur anche nel mondo morale la sua ingeneratrice cagione ogni fatto fenomenico, ogni qual siesi evento. Qual sarà stata mai quella della rapida e fatai caduta di questa società, iti altre epoche anteriori alla nostra, ed in altre contrade di Europa? —Eccone alcuna fra molte che s’offrono spontaneamente al nostro spirito, cui pur troppo spettò non ha guari di avvicinare tal sorta di gente, di esercitarsi in discussioni di qualche importanza, e sostenere con più d’un di loro gravissime lotte, malagevoli contrasti, allorché gli avemmo a revisori e censori spietati delle nostre filosofiche produzioni.
Hanno i Gesuiti non mezzanamente indignato e innasprito la classe de' letterati, nel più arduo momento in cui andavano a prender partito per essi contro ai loro implacabili e tristi nemici. Né è avvenuto per seguenza che in luogo di covrire ed asconder e loro debolezze, le hanno via più svelate ed esposte, additando ai capi entusiasti, ond'eran forte minacciati, il luogo in cui dovean ferire con più felice successo.
Non si è più trovato d’avvantaggio nella loro Società verun uomo distinto per gran talento e virtù; non poeti, non filosofi, non oratori, non eruditi, niuno scrittore di alta sfera, niun individuo insomma, di cui dir si potesse
Fu letterato grande e' di gran fama;
Fu quindi meritamente abbietto e disprezzato quel Corpo.
Un’intestina anarchia, inoltre, li manteneva quasi scissi da un pezzo; ed ove per avventura possedeano qualche esimio e rispettabil soggetto, era pur troppo malagevolcosa il conservarlo fra loro.
Sono stati scoverti eziandìo gli autori dì tanti torbidi civili, svelate le secrete molle di tante cittadine discordie, e la pazienza dei governi e de' popoli si è finalmente stancata.
Il loro giornalista di Trévoux, autor mediocre e povero politico, ha procurato loro, co’ suoi periodici scritti, mille nemici formidabili che gli han poscia dipinti con nerissima tinta.
Di non buona intelligenza co’ depositari delle leggi, non han mica pensato i Gesuiti che i Magistrati, duraturi quanto le leggi stesse su la terra, avrebber una volta da forti trionfato e vinto. Hanno ignorato del pari la differenza che passa fra individui necessari allo Stato e monaci turbolenti o perniciosi alla comunanza civile; né han preveduto eziandìo che se fosse il governo obbligato a prender finalmente un partito, volgerebbe con dispregio le spalle a persone che non avean più nulla in se stesse di commendevole ed avvantaggioso.
Mentre gli studi fiorivano in tutte le Università di Europa, andavan molto a ritroso ed erano in fatal decadenza ne’ loro Collegi; di quivi la convinzione profonda in ognuno che, per l’impiego migliore del tempo, per la buona cultura dello spirito, per la conservazione de' costumi e della sana morale, non dovessi dar luogo ad esitazione veruna nella scelta o nel paragone fra la pubblica istituzione e l’educazione domestica.
Han voluto questi uomini stranamente intrudersi in affari diversi, ed hanno avuta confidenza molta nel loro credito, nella lor opinione, nel preteso lor merito, mentre la pubblica opinione li covriva d’obbrobrio, e più d’una penna eminentemente italiana, oltre modo vulnerando la loro effimera rinomanza, vergava pagine non dubbie di esecrata memoria per quest'Idra abbattuta e atterrata.
Furon molto imprudenti pur anche nel render di pubblica ragione le loro bizzarre Costituzioni; e furonlo d'avvantaggio quando, provvidenzialmente obbliando cheera affatto precaria la lor esistenza, costituiron il pubblico in istato di conoscer pienamente la loro Regola, i loro Statuti, e di paragonar quindi quel sistema di fanatismo e di superstizione oltraggiarne, di macchiavellismo e d’indipendenza assurda con le leggi dello Stato.
Qual forza possente, qual circostanza felice avrebbe mai potuto salvar l’Ordine contro tante scosse riunite che avean forte minato le sue basi, ed all'orlo ridotto d’un precipizio fatale?—Inevitabile quindi la lor espulsione da tutti quasi gli Stati Europei; necessario e proclamato dal pubblico voto il loro bando dal nostro Reame.
Non già per odio o per risentimento contro i Gesuiti, si son qui riportati fedelmente taluni de' loro fatti principali; con iscopo sì bene di giustificare il governo che gli ha discacciati, i magistrati che ne han fatta giustizia, il pubblico infine che ne ha provocato le misure più energiche ed efficaci; con iscopo peranco di far conoscere ai Religiosi di quest'Ordine, che tenteranno un giorno di ristabilirsi nel nostro reame, a quali condizioni potranno sperare di mantenervisi e render più stabile là loro permanenza o durata.
Né sarà vano il presentimento del loro ritorno e della restaurazion loro nel nostro Regno. Chi trovossi presente alla licenziata di questi PII CAMPIONI, udì chiaramente profferire da taluni di costoro, con tuono torbido e minaccioso, queste profetiche parole: «Quella stessa mano che ci ha cacciati, sarà costretta un giorno a richiamarci». E con ciò facean eco costoro alta profezia da' Gesuiti sparsa nella loro prima espulsione, cioè, di dover essere la Compagnia, non andrà guari, novellamente introdotta e stabilita fra noi. Il vaticinio verificossi allora certamente; ma il fulmine che gli ha questa volta sopragiunti e colpiti, avrà probabilmente tal forza e tal violenza da non farli sì tosto e sì agevolmente risorgere a novella vita civile.
Si espresse assai bene il Genio della Letteratura Francese, nel suo Dizionario Filosofico, quando in una nota dell’Articolo Orgoglio inviar volle il lettore a quello di Gesuita.
Lo spirito di questa fatal Società è stato sempre quello di annientare i lumi della sana Filosofia, per mantener poscia stazionarie ovvero retrograde le sociali masse, e sempre ligie al suo fanatismo orgoglioso le popolazioni abbrutite. Il tempio di Minerva star doveva eternamente chiuso pei popoli, e schiuder soltanto le porte alla privilegiata prole di Loyola. Si conosce pur troppo quanti lacci fatali tendeano all'incauta gioventù, per ammaliarla e sedurla, e quindi attirarla irresistibilmente fra loro. Tutti quei giovanetti che mostravan talenti distinti, venian di furto strappati dal seno della società e delle tradite famiglie, per arricchirne la Compagnia e renderla poscia più colossale e più torte, più rispettata e temuta. Per questa ragione pullulava l’Ordine un tempo di soggetti valenti nelle scienze e nelle Belle Lettere. E quando, per lo avverso, appariva un bell’ingegno fuori del Suo seno, ne diveniva repente il bersaglio fatale; mirava Ognora con occhio di disprezzo gli altri Ordini Religiosi; ed era sempre alle prese coi Filosofi, con le persone più illuminate e di letteraria rinomanza.
Estinta la prima volta la Società, non si estinsero in seno delle sciolte sue membra i semi di ambizione e di avarizia rea. Risorti appena i Gesuiti in Napoli, una delle prime lor cure fu di estinguere o di eclissare almeno in gran parte i balenanti raggi di Filosofia che cominciavano a sfolgorare in questo nostro paese. Ed in ciò si trovavan pienamente in accordo col voler di TALUNI, che con atteso disegno gli avean proclamati ed accolti in queste contrade: qual notte tenebrosa dovea quindi sbucar fuori dalla strettissima lega di queste tartaree Deità!
Alcuni pretesi letterati, ch'esistevan fra gli esuli di ritorno, penetrando appena nella Real Biblioteca, vi apportaron disordine e generale scompiglio. Accostavansi imprudentemente ai giovani studiosi, e quando trovavan fra le loro mani Lodi o Condillac, non mancavan discreditare que’ luminari della ragione e del buon senso, affine d’impedirne l’interessante ed utile lettura. Questa specie di anatema pe’ buoni autori produsse tosto un’indignazione sì profonda negli animi della gioventù, che la Biblioteca restò in breve quasi muta e deserta.
Un Ministro savio ed illuminato avea pur troppo raddoppiato di cure e di sforzi, per non far introdurre questa peste letteraria nella Biblioteca di suo carico; ma cui volea correr direttamente al suo scopo, deluse le mire e le cure dell'uomo di buon senso. Gloria ed onor sommo qui profondasi intanto alla grata memoria del Ministro Seratti, straniero sì bene, ma che si sarebbe dedicato al miglior vantaggio della nostra cara patria cui serviva, se non gli fossero state tarpate le ali da chi dovea più tosto immegliare le sorti della social comunanza.
I Francesi nel 1806 piomban ratti sul Regno di Napoli per vendicare la fede de' trattati vilipesa; e l’ora, tanto desiderata dai buoni, dell'espulsione de' Gesuiti, già suona per costoro. Viene, in effetto, intimato loro lo sfratto dal Regno, ed i presuntuosi figli del fanatismo e della superstizion cieca son forzati ad abbandonar la preda con la disperazione sul viso. La caduta di quella gente abbatte oltre modo i colpevoli suoi adoratori, che avean pria fondato nella Società la fallace speranza d’una disastrosa inquisizione politica.
Grazie sempre all’attual nostro costituzionale Governo, la stessa ora è pur suonata questa volta pei giù fugati Gesuiti, per questa miserabile genia di egoisti e di sucidissime Arpìe. Questi aspidi velenosi non potranno più mordere, osiamo almeno sperarlo, né distillar contagiosi pensieri negli animi ancor vergini de' loro incauti adoratori.
Possa l’intera distruzione del vetusto sistema gotico de' Governi di Europa consoli dar per sempre i princìpi salutari del novell’ordine di cose fondato su la libertà politica delle Nazioni, su la rigenerazione civile de' popoli, già vittime del dispotismo e dell’esecrata superstizione, i cui principali satelliti eran gl'ippocriti della Compagnia di Gesù! —
Ne’ momenti di trambusto e di crisi, molto più quando gli urli politici o le scosse vertiginose delle Nazioni rapidamente succedonsi, havvi sempre delle convulsioni inevitabili e forti, delle oscillazioni più o meno attive e gagliarde che palesati la lotta dei due princìpi opposti. Non dee quindi desiar sorpresa se Roma, al par di Napoli e d’ogni altro paese che trovasi di presente nelle stesse condizioni, fa ora sperimento d’una teoria cosiffatta. Ciò non toglie, nulla però di meno, che la lotta sia deplorabile e trista, e che i buoni cittadini dian opera che il male onde son minacciati sia finalmente ridotto alle minime proporzioni' possibili. L’espulsione de' Gesuiti da Napoli ha provvidenzialmente sottratto il popolo Romano ad un grave pericolo; ed ove il loro bando da questa Capitale fosse stato eseguito men prontamente, ci avrebbe forse con nostro grave danno esposti nella stessa conflagrazione di Roma.
A vantaggio ed istruzione comune ci facciamo ad esporre e consecrare in queste storiche memorie avvenimenti siffatti, affine di prenderne opportuno ed acconcio argomento d’inculcar del continuo a' nostri nomini di stato la necessità d’operar con sollecitudine in tutte quelle cose che pur fare dovransi o presto o lardi; sì che il procrastinarle d’avvantaggio, lungi dal fruttarcene alcun bene, ne accresce forse i pericoli e le complicazioni, e ci procura per seguenza detrimento e danno peggiore.
Pubblicatosi in Roma lo Statuto costituzionale, onde far dovrassi indi a non poco alcun cenno, davansi opera i Gesuiti di preparar secretamente a' Romani un officio funebre, una strage cittadina e funesta, la quale sarà certamente inevitabile, ove Pio nono non voglia porvi rimedio; e dovrà senza dubbio prestarvelo nella sua somma saviezza e prudenza, poi che quella sua lettera o breve che sia, malamente interpretata, destò negli animi una generale perturbazione, da cui l’accorta Compagnia seppe acconciamente trar molto profitto.
I due partiti intanto si guardan ognora in cagnesco, e fu provvidenza che in questi tracorsi giorni non ¡scorresse in Roma il sangue cittadino. Buona parte di popolo èattualmente in tumulto e in pericolo. I capi popolo de' Rioni sono divisi fra loro in conseguenza d’una pubblicata lettera in cui sembra che Pio Nono si esprima a vantaggio de' non più tollerati Gesuiti. Nella decorsa settimana, sì come si è officialmente riferito, otto colonnelli di battaglioni avanzaron reclami a quel Ministero, perché potesse portarsi innanzi al Papa la questione Gesuitica, e provvedersi incontanente alla loro dissoluzione, se non vorrà veder Roma come la Svizzera.
Non son diversi, in effetto, gli elementi; non dissimili le occulte pratiche; saran forse peggiori i risultati. I Gesuiti intanto agiscon orgogliosamente in Roma dopo quella manifestazione fatta per lettera; assoldando vanno clienti dapertutto e speranformarsi un ben grosso partito; spargon voci allarmanti e di equivoca intesa, esagerate e bugiarde peranco. Le fazioni sono del continuo con la lancia in resta, e forte si teme che romper finalmente dovrassi, ove non si accorra energicamente, e tosto: un sol giorno di differimento, una sol'ora forse d’imprudente ritardo, e quella scena indecorosa suggellerassi col sangue.
Gran Dio! pare impossibile! tanta rovina e tanta strage per una setta di proscritti egoisti! tanti torbidi e tanti mali nella società per una branca esecrata di malfattori e sediziosi briganti! La città di Roma trepida intanto, è scissa in frazioni e partiti, è gravemente esposta ad enormi pericoli finché non saprassi quali risoluzioni si dovran prendere dopo l’indirizzò portato da' Ministri perché fosser i Gesuiti allontanati da quella contrada. Siam certi nulla però di meno che, ove non vengan costoro da colà rimossi, per indifferenza del Papa, le fazioni verranno furiosamente alle mani, e sarà quella dominante un orrendo teatro di scompiglio e di orrore, un miserabile ostello di Ghibellini e di Guelfi novelli. Che disgrazia per Roma, l’onor di Pio Nono, per lo Stato, e per Italia intera, che sia ancora intrusa e regnante infra le italiane famiglie questa famiglia eterogenea e perniciosa, questo strano elemento di discordia e di scisma!!!
E discordia e scisma, sommosse e tumulti produsse pur anche nella nostra Capitale il gesuitico bando; perocché nel giorno che seguì l’allontanamento di quella sediziosa gente dalla città di Napoli, un’insolita perturbazione agitò forte e mise in ¡scompiglio il popolo. Una turba di felloni aderenti al loro partito, incitando secretamente a rivolta non pochi della plebe e del lazzarismo sfrenato, cagionaron grave sommosa in tutto il paese; sì che armati di sassi percorrevano indomiti e furibondi le pubbliche vie, con infame disegno di colpire ed atterrare coloro che avean avuto gran parte al discacciamento de' loro fidi PROTETTORI. L’opportuna resistenza della truppa e della Guardia Nazionale salvò valorosamente la patria da un imminente e grave pericolo, cui l’avrebbe inevitabilmente esposto quella licenziosa ed imbaldanzita bruzzaglia.
In quello stesso giorno, 13 marzo, un individuo della guardia nazionale recavasi generosamente nel proprio posto per giungnersi agli altri prodi suoi compagni, ed accorrer sollecito ad impedire le varie turbolenze che comprometter poteauo la pubblica tranquillità. Un’orda di mal intenzionati dell’infama classe della plebe lo assalì da ogni banda, credendo di poterlo disarmare ed obbligarlo a profferire il molto esecrando muoia la Costituzione! Ma il valoroso ed intrepido aggredito, da patriottismo e da coraggio forte animato, e tacendo buon uso di quell’arma che meritamente impugnava, impose loro di sciogliersi e gridare viva la Costituzione! Questa espressione innaspò via più quei mal consigliati e turbulenti felloni, che fecersi tosto a tempestarlo di violenti e ripetuti colpi di sassi. Cinque volte il prode ecrescenzo scaricò su di essi il suo fucile, e riuscigli. di assicurare in mano dell’autorità competente un di quei ribaldi ferito a morte. Ed altri casi di morte e di ferite intervenner pure in quel giorno di scompiglio, che stati sarebbero certamente seguiti da turbolenze funeste, ove non si fosse prestata a tempo la guardia nazionale, sul cui soccorso magnanimo tutta riposa la sicurezza interna ed esterna della patria.
E vi provvide pur energicamente il Governo con apposito Decreto, avente per ¡scopo la più rigorosa proibizione di qualsivoglia attruppamento, prendendo di mira sovra tutto quelle interminabili dimostrazioni popolari, fomentate e promosse da talune teste riscaldate, ch’eran sol paghe d’incitare gli animi a rivolture politiche. E quel Decreto del 13 Marzo 1848 era siffattamente concepito:
«Visto il rapporto del Comandante in capo la Guardia Nazionale, in data di oggi, e l’altro del Comandante la Piazza, dello stesso giorno, con cui si richiedono misure pronte e repressive per mantenere la pubblica tranquillità e l'ordine politico;
«Visti gli articoli 140 e 142 delle Leggi Penali;
«Considerando che per assicurare«l''esecuzione delle Leggi rimaste provvisoriamente in vigore, e necessario di adottare energici mezzi, che sieno riconosciuti da' regolamenti esistenti, e non epposti al Regime Costituzionale;
«Considerando che comunque competa ai Cittadini il diritto di petizione, pure questo debbe esercitarsi in iscritto e ne’ modi legali;
«Considerando che siffatto diritto si è sperimentato ne’ precedenti giorni, e specialmente oggi col mezzo di numerosi attruppamenti, con vie di fatto, con iscritti stampali, con cartelli ed affissi criminosi, compromettendo il rispetto dovuto alla Religione e la sicurezza dello Stato;
«Considerando che per evitare tali inconvenienti, esige la prudenza che abbian luogo misure preventive, e che sono ammesse in tutti i Governi Costituzionali; ecc.
«Abbiamo risoluto di decretare e decretiamo quanto segue:
«Art. 1. La petizione non esercitata a senso della Costituzione, e vietata.
«Art. 2. Qualora il modo illegale della petizione offra un reato previsto dalle Leggi rimaste provvisoriamente in vigore, verrà punito ai termini delle medesime dal competente Magistrato ordinario.
«Art. 3. Se avrà luogo un attruppamento criminoso, verrà disciolto con l’intimazione che si eseguirà per tre volte dalle autorità municipali accompagnate da un uffiziale di Polizia ordinaria o giudiziaria, mostrandosi circondata da un drappello di Guardia Nazionale o di altra Truppa, previo il tocco del tamburo, od il suono della tromba.
«Art. 4, Se dopo tale triplice intimazione non si ubbidisca, sarà lecito d’impiegare la forza pubblica per ottenere lo sgombramento suddetto —
Le rincrescevoli perturbazioni, onde in quei giorni fu gravemente commossa la Capitale, suscitaron nel cuore de' buoni un sentimento di tristezza, che non potea se non avvelenare quella pubblica gioia, a cui pria si eran tutti abbandonati, per la speranza di veder sempre più assicurati gli effetti della nostra politica rigenerazione.
Quelle deviazioni intanto dal sentiero della legalità, quei crocchi diurni e notturni, quelle grida tumultuose ed allarmanti, quelle voci incessantemente ripetute di abbasso il Ministero, eran tanto più di nocumento ai veri interessi della nazione, in quanto preoccupandone il Governo, l’andavan distraendo da' già intrapresi lavori per dover quindi riordinare su novelle basi le svariate parti dell'amministrazione.
Aveva ormai il Ministero cominciata la discussione delle leggi provvisorie dirette ad organizzarprontamente una Guardia di pubblica sicurezza in tutto il Regno, che assumendo il servizio della Gendarmeria, ne tenesse luogo sopra norme più conducenti allo scopo di conciliare la libertà con l’ordine sociale; a ricomporre sopra basi più larghe la forza dell'esercito, ch'oggi sovra tutto concorrer debbe a garantire l’indipendenza italiana da ogni vicissitudine impreveduta e funesta; ad emanar la legge provvisoria per l’organizzazione della Guardia Nazionale, e dare a questa fondamental garentia de' nostri novelli ordini politici i mezzi di cui potesse aver bisogno per non render affatto illusoria la sua salutare istituzione; ad occuparsi immediatamente di preparar gli elementi delle deliberazioni, che, per riordinare le varie parti dello Stato, presentar dovransi alle Camere Legislative, nella lor imminente convocazione. Ma, indipendentemente dall’intervento degli onesti cittadini che facesser uso del loro credito, e principalmente della Guardia Nazionale, per mantener la pubblica tranquillità, era pur troppo malagevol cosa che in mezzo a commozioni ogni dì rinascenti procedesser le cose con celerità e felice successo; commozioni che turba van principalmente a quei giorni gl'interessi della finanza, ed opponeano ad ogni operazione che vi si riferisce le più insormontabili barriere. E questo concorso appunto invocava allora il Ministero, e vientuttora proclamato, poiché senza di esso rimarrebbe paralizzato e sconvolto l'andamento degli affari con general detrimento; e distruggerebbe quella fiducia che la pubblica opinione ha finora mostrato d’accordargli. —
Vengon intanto i Gesuiti legalmente espulsi da Torino, come pochi giorni prima Io erano stati del pari da Genova. Carlo Alberto continua a consolidare via più la vera libertà civile o politica nelle province italiane da lui gloriosamente governale; quest’atto novello della sua civil sapienza e solenne attestato di amore alla libertà ed all'indipendenza italiana. In mezzo ad uomini liberi è affatto incompatibile e strana resistenza dei nostri comuni e più pertinaci nemici, e tanto più perfidi quanto più i loro raggiri son occulti ed impenetrabili, variali e moltiplici i lor artifizi, perniciosi e gravi i lor attentali a qualsivoglia specie di libertà. La loro presenza nella civil comunanza è da evitarsi a qualunque costo e con ogni sforzo possibile. In Inghilterra del paro, in quel paese di Europa dove la libertà e più antica e più vivamente sentita, nell'esser restituiti ai cattolici i diritti civili, il ministero diretto da Lord Russell ne ha formalmente e categoricamente eccettuati i Gesuiti. E l’illustre ministro inglese ha bene in ciò proceduto con saviezza e prudenza somma: Gesuitismo non è Cattolicismo; il Gesuitismo è ripugnante ed assurdo con la libertà de' popoli.
Il Principato civile ha il diritto e il dovere ad un’ora di abborrir forte il Gesuitismo, e tanto quanto l’abborrono i veri Cattolici, gli amici veri e passionati della libertà politica. La famiglia degli Stuardi rovinò, perché collegata a' Gesuiti. Carlo X fu scacciato dal trono, perché strinse anch'egli alleanza co’ RISPETTABILI Gesuiti. L’insegnamento autorevole della storia parla un linguaggio assai chiaro ed aperto; ed i Principi che aminosinceramente il bene de' loro popoli e la conservazione de' loro troni, non deon punto ignorarlo, e molto meno obbliarlo. Ogni fremito di un popolo vendicato in libertà è una coscienziosa imprecazione ai Gesuiti.
In Italia sovra tutto, l’abominio a' Gesuiti e invincibile e vetusto, perché la nostra cara Italia e nazione cattolica e civile; perché i Gesuiti sono gli alleati naturali del già abbattuto colosso austriaco; perché sventuramente l'Italia e la contrada di Europa, dove i malefici effetti degli influssi gesuitici sono più visibili e fatali, più potenti e funesti. Carlo Alberto ha quindi lealmente e sapientemente provveduto al decoro della Religione, all’indipendenza d’Italia, alla libertà de' suoi popoli, alla sicurezza pur anche del suo trono, scacciando da' suoi stati i REVERENDI PADRI. Questa volta ancora ha egli fatto diritto e ragione al suo gran Precursore, all’Apostolo invitto dell’alleanza della Religione con la Civiltà (alleanza implacabilmente e del continuo astiata e combattuta da' Gesuiti) all’illustre Vincenzo Gioberti.
Havvi per avventura di quei che credon esagerati e puerili i timori, che concepisco!! gl'Italiani dell'esecrato Gesuitismo. Noi confessiamo apertamente di parteggiare per la sentenza che dice assolutamente l’opposto; noi siamo in tutto e per tutto del parere del Gioberti. Il Gesuitismo èla mala pianta, la pianta paralizzata e intristita che aduggia l’italico suolo; e però non rifinirem mai dal combattere, non sarem paghi e contenti giammai, se non quando ne sarà svelta dell’intutto, sbarbicata interamente sin dalle proprie radici. Carlo Alberto ha dato all’Europa un grande e salutare esempio, sotto quest'altro rapporto; il nostro Principe costituzionale, il nostro Re veramente italiano Ferdinando II lo ha tostamente imitato; il magnanimo Pio Nono, cui oggi e commessa dalla Provvidenza la difesa della Chiesa e dell'Italia, scaccerà del pari, speriamo, dal santuario pur troppo profanato da quella genia di vipere i nemici della Religione e ella Civiltà, tuonerà dal sacro Vaticano con voce forte e scuotente contro il Gesuitismo, ridurrà in atto il gran pensiero del sommo e cattolicissimo autore del GESUITA MODERNO, pronuncierà novellamente il gran decreto, che uscì fuori altra volta dalle labbra del giusto e pio suo predecessore, Papa Ganganelli. —
Strana cosa ad udirsi! Ciò che prima non era che semplice desiderio di pochi, divenne poscia un sacro obbietto di pubblico volo; dal voto quasi universale si passò tosto ad una formate profezia; e la profezia de' buoni, il vaticinio de' giusti non èora per l’Italia che una realità di fatto, un fatto positivo e certo quanto quello della propria esistenza. E questo fatto inaspettato, questo strano e singolar avvenimento èil bando assoluto, l’espulsione completa de' Gesuiti da Roma!
In tutti i regni di Europa certamente non sì ripete ai nostri giorni che un fatto il quale, nato dalla volontà universale, veste le medesime forme dapertutto, s’appoggia alle stesse ragioni, ed è corrivo alle medesime conseguenze.
La società umana si è tutta finalmente elevata in massa, e con un tuono imperioso cui e vano resistere, ha detto a' Gesuiti: Io vi rispetto come individui, non accuso alcun di voi di quei delitti che han consecrato all'infamia i Ravaillac; ma il vostro istituto, abbandonando le cure celesti per gli affari mondani, associandosi alla politica de' despoti e de' ministri della tirannide, si è posto in guerra aperta coi popoli che chieggon riforme ed istituzioni liberali. Oggi i popoli son vincitori; subite dunque la legge de' vinti; partite: la civil comunanza non puote e non dee più tollerarvi nel proprio seno.
A questo linguaggio, i vinti sono stati costretti a chinare il capo: era inutile e scempia di effetto la resistenza; fra pochi giorni come non saravvi più paese in Europa dove sorgerà una casa gesuitica, così più non udransi le acclamazioni contro quella Società; cesserà certamente ogni scandalo; e quell'istituto che ha fatto parlar tanto di sé, che ha tenuto in convulsione tanti popoli e tanti re per molti anni, diverrà un dominio di stona, un fatto veramente storico che da imparziali scrittori sarà giudicato come meritamente richiede. Forse anco l’istituto gesuitico profferirà grazie un giorno al Cielo di quanto oggi gli accade. Se profittando d’una sì tremenda lezione, se riconoscendo la voce di Dio in questa voce che sorge unanime e gigantesca dal Nord al mezzogiorno di Europa, avranno i Gesuiti e cuore ed ingegno per comprender la necessità d’una radicale riforma, arriverà forse che quell'istituto, rinunziando all'ambizion vana i dominare, all’avidità smodata d’accumulare ricchezze, ed informandosi solo dello spirito evangelico, trasformerassi anch’esso come oggi si trasforma il mondo, sì che risorto a novella vita religiosa e morale, potrà rendersi veramente utile all’umanità ed esser anco saldissimo appoggio della religione.
Questa trasformazione però non poteva accadere in questi nostri tempi; le umane passioni acciecavan troppo quelle menti orgogliose ed altere. Né dee produrre maraviglia o sorpresa: quanti granai della terra si vedon oggi giunger all'orlo del precipizio, e ricusati intanto il sostegno che i popoli presentan loro per potersi salvare I Verrà poscia il sentimento; ma non sarà più opportuno ed accettevole il tempo: nondimeno per l’istituto gesuitico non è ancor morta ogni speranza. Nel silenzio della solitudine, nell'allontanamento da ogni affare mondano, quando l'anima si riconcentra, e nella calma delle passioni giudica gli eventi, forse la ragione tornerà a regnare in quelle teste stravolte, e, conosciuti gli errori tracorsi, la celebre società vestirà nuove forme, assosocierassi alle idee dell’umanità, e porrassi a difendere l’idea democratica con quello stesso vigore onde difese finora il dispotismo oltraggiante, il mostruoso egoismo, gli oligarchi superbi.
Conoscerà allora con quanta ingiustizia fu tentato da essi di associare alla loro causala causa della religione. Far non poteasi maggior ingiuria di questa alla società presente. Andiam superbi pur troppo di questa gran verità: La religione, la religión pura e santa del vangelo torna oggi a regnare ne’ cuori. La società umana tende a costituirsi tutta in società cristiana di fatto e non di nome. Avrà l’Eterno il culto sincero dei cuori, non le ipocrite parole di un labbro menzognero ed infinto.
A questo immenso progresso religioso non sarà certamente un ostacolo la partenza dei gesuiti. Non po; del partito, per ¡stoltezza di mente, per malizia di cuore, per vedute meschine ed interessate, van tuttora ripetendo che la persecuzione di quell'istituto e solo dovuta a pochi settari irreligiosi e immorali. Parecchi altri ancora hanno attribuito le domande di riforme e di buone leggi a pochi visionari: si son poscia avveduti che i visionari e le sette tramutaronsi prodigiosamente in popolo. E sono i popoli, in effetti, che in ogni parte dell’Europa cacciano via i gesuiti dal loro seno. Accuserem dunque i popoli Modenesi, i Parmigiani, i Toscani, i Lombardi, i Napolitani, i Romani, e poi quei di Baviera, e quei di Francia, e quei del Belgio, e tanti e tanti altri, d’immoralità e d’irreligione? La civilcomunanza intera e divenuta adunque un nido di atei, una muda di felloni e di assassini? E quando ad ogni istante in tutti i regni di Europa si manifestan atti di alta pietà religiosa, e tali virtù cittadine, e tali esempi di generosità e di grandezza d’animo da render l’epoca presente degnissima d’ogni elogio; quando da pertutto e sì altamente rispettata la religione de' padri nostri, che non si è fatta ingiuria o violenza a verun ordine religioso; quando il nome di Roma Cattolica, il nome del supremo capo del cattolicismo suonan venerati e sacri in ogni angolo della terra; quando tutto il clero francese si è associato con vero sentimento di gioia e di adesione a quei repubblicani che venivan accusati di tanti delitti 'e di tanta irreligione, dovrà dirsi forse che la società tutta rovesciar tenta il culto santo dell’Eterno e la fede degli avi, perché rispettando gl'individui ha detto all'istituto gesuitico: Tu cerchi di farlo retrocedere, tu ci hai dichiarato una guerra, che costò sangue alle nazioni in alcuni luoghi, che suscitò partiti e rivolte in alcuni altri; allontanati dunque; più non turbar l’opera santa della nostra rigenerazione; non più venire ad eccitar fra noi la guerra civile, a soffiar la discordia fra principi e popoli?
E il dir questo, e il tentare a un tempo ogni mezzo, ogni arte occulta ed aperta per insinuare una siffatta menzogna nell’animo de' popoli, non è forse tal colpa da provocar tosto l’allontanamento immediato della società de' Gesuiti? Come hanmai potuto immaginare i pochi proseliti di quell’istituto di poter ingannare le moltitudini con sì vile mendacio? Come han potuto credere che gridando al martirio, alle persecuzioni, agli insulti, avrebber potuto. eccitare le masse, suscitare i partiti, muover peranco una guerra civile, quando in ogni paese e stata sempre rispettata la personalità individuale, quando i popoli han forte resistito a tutte le provocazioni, a tutti gl’incentivi di guerra? Con quella civiltà. di costumi, in effetto, con quella moderazione di animo che forma oggi il pregio di tutti i popoli rigenerati, furono i Gesuiti invitati a partire; e se in alcuni luoghi apparve il popolo minaccioso e corrivo a fierissimo sdegno, fu astuzia per ¡spaventare, non mai desiderio d’apportar nocumento.
Niuna accusa per seguenza dar deesi ai popoli; si rovesci più tosto tutta la colpa su di coloro che o acciecati da basse opinioni, o da crassa ignoranza colpiti, non conobbero gli uomini e i tempi. All'attento osservatore fu certamente gran materia di riso il sentir encomiato tanto ed innalzato a cielo l’ingegno de' moderni gesuiti. Non havvi pericolo di errare se si asserisce aver eglino perduto ogni bene d’intelletto, e vivere in una non mezzala ignoranza delle cose. Se non fosse così, avrebber afferrala la fortuna che s’offriva loro spontanea e prendeali come per mano, affine di rialzarli nella pubblica opinione, e renderli venerati e potenti.
Gli accusava l’Europa di promuover la guerra nella Svizzera; dovean costoro volontariamente partire da quei paesi e toglier quindi ogni pretesto alle accuse. L’Europa li condannava per essersi collegati co’ despoti e co’ loro ministri; facea loro di mestieri abbandonare le corti e i diplomatici intrighi, dovean farsi protettori de' popoli oppressi, e predicare il regno della giustizia, il termine dell’oppressione e della violenza. L’Europa accusavali di voler accumulare con ogni mezzo, e per tutte le vie abbondanti ricchezze; dovean eglino incontanente spogliarsi di tutto il superfluo a vantaggio della società, e mostrare co’ fatti che la parola evangelica non era parola scevra di senso sul loro labbro. Gli accusava l’Europa di congiurare contro l'incremento della civiltà, contra il progresso de' lumi e delle scienze', tenacemente conservando gli antichi metodi, i vecchi sistemi l'una noiosa, inutile e lenta istruzione; dovean per seguenza riformare le scuole, immegliare gli spiriti, attirare e invogliare la gioventù insegnando ad essa utili e dilettevoli studi sì di lettere che di scienze.
Nulla fecero costoro di quanto pur fare doveano pel loro comune interesse. Che cosa e dunque questo talento che ignora il proprio vantaggio, che resta ciecamente attaccato alle antiche tradizioni, come se la società potesse esser guidata da uomini sciocchi e ignoranti, come se la venerazione d’un nome fosse bastevole a ricovrire gli errori? Perché dunque tante lamentanze della loro caduta? Perché intentare calunnie ai popoli? Perché spinti e animati da una vile vendetta i loro proseliti, van tentando eccitare odi e partiti, van cercando di suscitare e promuovere una guerra civile? Arti antiche ed usate son queste, cui nondimeno i popoli sanno pur troppo resistere, perché le conoscon a fondo.
Le usarono i legittimisti, le usarono i despoti e i loro fautori, le usan oggi tanti Principi dai loro troni sbalzati per sola lor colpa, per aver disprezzata la voce che sorgeva dal seno de' popoli, che gli appellava altamente a porsi per altra via, a seguire ben altri princìpi. E se questi artifizi non riusciron punto a quei potenti che pure vantavano e immenso potere e grandi ricchezze e forti armate, riusciranno ora a coloro che al nome gesuitico soltanto appoggiandosi, innestar tentano la santa causa della religione all’ambizion cieca e furente, alle private passioni di uomini più ignoranti che tristi?
I popoli di Europa sono abbastanza illuminati ed istrutti; e però non havvi timore che cader possano in simili agguati; il popolo napolitano sovra tutto è naturato di troppo buon senso; èquindi malagevol cosa il trarlo in inganno.
Partan dunque i Gesuiti da tutta l’Italia; ma vivan pure sicuri che non gli accompagna l’odio nostro contro gl’individui che compongon 'il lor istituto: e se talun di costoro credesse che per una partenza siffatta si diminuisca nell’italiana famiglia il sentimento religioso e la venerazione alla fede, attenda ancora qualche anno, e vedrà poscia a quanta altezza eleveranno i popoli la religione che adorano, e il sacro culto che le tributan devoti.
Fra il 28 ed il 29 marzo del 1848, hanno i preti dell’Apollinare rimpiazzato in Roma i Gesuiti alle scuole del loro rispettivo Collegio. Molti di costoro han fatto ritorno alle loro case; parecchi altri han preso direzioni diverse. Quel Console Inglese ha segnato un gran numero di passaporti per Malta. É rimaso colà solo TEMPORARIAMENTE qualcuno per regolare gli affari della Compagnia.
Sono stati poscia affissi in van conventi alcuni scritti offensivi per diversi ordini religiosi. Ma non vi è stato cittadino che, disapprovando altamente procedure siffatte, si fosse lasciato sedurre od ingannare. Tutta Roma ha conosciuto da quali conventicole segrete fosser originati Quegli scritti, destinati a denigrare non solo il partito liberale, ma la pietade eziandìo e l’amore dell’ordine di tutti i Romani. —
Mentre siffatte cose avvenivan in Roma, facea lieta e piena di general e esultanza questa nostra Capitale la pubblicazione dell’Organico relativo alla Guardia Nazionale, con data de' 13 Marzo 1848. Ed eran queste le disposizioni general i di quella grande Istituzione:
Una Guardia Nazionale sarà istituita ne’ reali domini di qua dal faro, per difender la sovranità costituzionale, la Costituzione ed i diritti in essa consecrati; per mantenere l’obbedienza alle leggi, conservare o ristabilir l'ordine e la pubblica pace, secondare le milizie di linea nella difesa dette frontiere e delle coste, assicurar l’indipendenza e l’integrità del territorio nazionale.
Sarà ella composta di tutti i proprietari, professori, impiegati, capi d'arte e di bottega, agricoltori, ed in generale di tutti coloro che avendo i mezzi, di vestirsi a proprie spese, presentino per la loro probità conosciuta una sicura guarentigia allo stato.
Saranno eccettuati dal far parte delle guardie nazionali: I magistrati che hanno il diritto di richiedere la forza pubblica; gli ecclesiastici entrati negli Ordini, e gli alunni de' seminari; i militari di terra o di mare, tanto in attività di servizio, che al ritiro; i componenti la forza doganale organizzata di terra e di mare, le guardie addette all'amministrazione sanitaria, le guardie campestri e forestali stipendiate dal Governo.
Saran poi dispensati dal servizio nelle guardie nazionali: Chiunque ha compiuto cinquanta anni di età; i membri delle due Camere Legislative; i Ministri ed i Consiglieri di stato; i giudici de' tribunali; i carcerieri, i custodi delle prigioni, e gli altri agenti subalterni di giustizia e di polizia; tutti coloro che sono in ¡stato di domesticità; i condannati per furto, frode, fallimento, calunnia e falsa testimonianza, i vagabondi ed i mendici.
Le guardie nazionali saranno organizzate in tutto il Regno, e per comuni. Quando sarà prescritto da un decreto del Re, le compagnie comunali di un distretto si costituiranno in battaglioni distrettuali. Le guardie nazionali son poste sotto l’autorità de' sindaci, de' sottintendenti, degl’intendenti, e del Ministro dell'interno. I cittadini non possono prender le armi, né assembrarsi come guardie nazionali senza l’ordine de' capi immediati, i quali non posson darlo senza una richiesta dell’autorità civile.
Una Commessione composta di quattro decurioni, preseduta dal sindaco, procederà nel termine improrogabile di otto giorni in ciascun comune alla formazione delle liste di tutti coloro che son chiamati a far parte della Guardia Nazionale.
Per la città di Napoli, tutti i cittadini che compongon attualmente la guardia nazionale, continueranno a farne parte. Le guardie nazionali saran formate per sezioni, per compagnie, e per battaglioni. L’aiutante maggiore ed un aiutante sottouffiziale saranno scelti nell'esercito per la miglior istruzione del battaglione, e nominati dal Re su la proposizione del Ministro della guerra. Rimarran costoro sotto gli ordini del maggiore; in sua mancanza, l’aiutante maggiore, ancorché capitano, non potrà mai assumer il comando del battaglione, che apparterrà di diritto al più antico fra' capitani nello stesso battaglione.
La città di Napoli avrà per ogni quartiere un battaglione. Ciascun battaglione avrà non meno di sei, né più di otto compagnie, della forza di dugento uomini l’una. Qualora in qualche quartiere della Capitale la popolazione fosse superiore alla forza fissata per le otto compagnie, potrà passarsi all’organizzazione d’un secondo battaglione nel quartiere medesimo. I dodici battaglioni dei quartieri formeranno quattro reggimenti.
La Guardia Nazionale della città di Napoli avrà un Comandante generale ed uno stato maggiore. Fino a che il Parlamento non avrà altrimenti disposto nella legge definitiva, la Guardia Nazionale de' distretti della provincia di Napoli potrà rimanere sotto il comando del generale comandante della Guardia Nazionale della città.
Seguon poscia molte altre particolarità riguardanti quello Statuto della Guardia Nazionale, e precisamente intorno all'elezione degli uffiziali e sottouffiziali; all'uniforme, alle armi ed alle onorificenze; e da ultimo, in ordine all'amministrazione; di cui ci dispensiamo assai volentieri far motto, perché di poca o di niuna importanza per le storiche conoscenze del nostro Reame.
Ci dispensiamo altresì di esaminar accuratamente un siffatto Statuto o Legge che sia, su la Guardia Nazionale. Osiamo sperare soltanto che, ov’abbia bisogno quell’Organico di ulteriori modificazioni o riforme, vorranno le Camere Legislative apporvele di leggiero, e renderlo poscia più acconcio e più conveniente ai sensi d’una nazione che debb’esser veramente forte di proprie armi cittadine, e proporzionate sempre alla popolazione. Facendo però sempre astrazione dal numero degl'individui che compongon questo corpo rispettabile e tutelare del paese, quel che più monta ne’ tempi attuali e la disciplina nel mestiere delle armi, e la sua forza morale, che proceder dee sovra tutto dalla confidenza della guardia ne’ suoi capi o comandanti superiori. —
Molte mutazioni di Ministero e non poche destituzioni di cariche avvenner pure a quei giorni nella Capitale. — La Guardia Nazionale della città fu posta sotto la salvaguardia della Vergine del Carmine. — I fratelli Statella, Marescialli di Campo di Sua Maestà ch'eransi ridotti a Palermo in compagnia di parecchie altre persone per causa della quistione Siciliana, furon di ritorno a Napoli. — Il Signor Giacomo Tofano venne a un tempo promosso alle cariche di Direttore dell’Interno, di Consigliere della Suprema Corte, e di Tenente Colonnello della Guardia Nazionale. — Il sig. Vial, di cui si fece dianzi menzione allorché trattammo degli affari di Palermo, obbligato a partire per Nizza sua patria, e forse colpito da gravi sciagure nel corso del suo malaugurato viaggio. — Il Ministro Santangelo, decaduto dal Ministero, e forzato ad allontanarsi dalla Capitale, rinvenne asilo ed ospitalità in Londra. — Furon destituiti come nemici della libertà costituzionale il cav. Vincenzo Marchese, Segretario generale della Prefettura di Polizia, i Commissari D. Giuseppe Cristofaro, D. Pietro Paolo Campobasso, D. Luigi Morbilli, D. Carlo Capasso, D. Onofrio d’Ambrosio e D. Francesco Lubrano. — Ebber non diversa sorte gl’Ispettori D. Gennaro Cioffi, D. Francesco de' Maio-Durazzo, D. Ferdinando Guarini, D. Giacomo Scala e D. Mariano Durazzo. — Furon aggregati al governo parecchi liberali fra' più famosi e distinti del regno. — il tanto famigerato e magnanimo Pellicano, di cui facemmo pur motto dianzi, fu per decreto sovrano appellato al Ministero del Culto, in qualità di Coadiutore. — Vi fecer lieto ritorno, ed ebber grata accoglienza da' cittadini napolitani, numerevoli uffiziali espatriati per la famosa causa del 1820, e reintegrati al servizio ne’ rispettivi Corpi militari cui apparteneano. — Da una branca di tumultuosi si gridò ripetute volte abbasso il Ministro d'Austria; s’infranse in mille pezzi lo stemma; condannato venne alle fiamme; e forzato poscia quel diplomatico a far ritorno negli stati di COLUIche n’era per via di diritto nazionale rappresentato. — Suscitassi una sanguinosa rissa fra due Compagnie della Guardia Reale e dell’Artiglieria, che fu seguita da gravi e mortali ferite da ambe le parti e dall'uccisione di qualche individuo. —
A quegli stessi giorni, e precisamente la sera del 13 marzo 1848, un grosso drappello di giovani erranti e riscaldati oltre modo, si mosser a gridare altamente dinanzi al quartiere di Gendarmeria abbasso gli sbirri. Gli Uffiziali di quel Corpo, vivamente indignati per un insulto siffatto, pubblicaron l’indomani una proclamazione in cui si leggono questi forti ed energici sensi:
«Quest'arma non vuol fare la propria apologia. La sua istituzione, appropriata all’indole ed ai bisogni del tempo in cui nacque, fu un’istituzione tutelare. L’Arma ne ha fedelmente adempiuti i doveri.
«I torti, de' quali le si fa carico, sono torti degl’individui. Le tendenze abusive, nelle quali si spinsero taluni, sotto una direzione dispotica e soverchiatrice, furon aberrazioni parziali. Richiamarne la responsabilità su tutta l’arma, e lo stesso che volerla sottoporre ad una responsabilità ch’ella punto non accetta; e anzi un’ingiuria, che il Corpo respinge col convincimento, che la grande maggioranza de' suoi componenti non l’ha meritata, ed è risoluta di non soffrirla.
«Rivolgere collettivamente ad un Corpo di ottomila uomini, che ha servito il paese secondo le norme impostegli dal Potere, a cui aveva l’obbligo di ubbidire, ad un Corpo che ora ha la coscienza della sua fedeltà, a qualunque costo, a' nuovi impegni giurati in virtù della Costituzione; rivolger a questo numeroso e compatto Corpo parole dissennate ed insultanti, villanie ed ingiurie, e atto non di stoltezza, ma di codarda cospirazione contro la pubblica pace, contro gli ordini costituiti dello Stato, contro le santo forme del Governo rappresentativo.
«I provocatori sono o uomini usciti da' manicomi, o degni di esservi rinchiusi; sono malvagi venduti allo straniero, sono gente perversa ed immorale.
«La Gendarmeria non pretende, non chiede, non brama di esser conservata sotto l’attuale sua forma. Coloro che la compongono, la grande maggioranza di essi, non ambiscono e non reclaman altro onore, che di serbare la loro spada in servizio dei proprio paese, e di questa cara Italia, pensiero e sospiro d’ogni soldato cittadino.
«Che il governo del Re disponga dunque di loro; provvegga alla destinazione di questi ottomila uomini nel modo più opportuno ai bisogni della Patria. Ciò che domanda la Gendarmeria e di uscire da questa presente posizione equivoca e precaria. Ma fino a che il governo del Re, il Potere legale non avrà deciso del suo destino, niuno arrogar deesi il diritto d’indirizzarle in massa parole oltraggianti e villane.»
Secondar volendo intanto il Re le sue generose ispirazioni; interessandosi vivamente della posizion violenta in cui si vedeva quel Corpo; volendo far pago altresì il volere di coloro che mostravano per la Gendarmeria un animo sfiduciato ed avverso; e standogli molto a cuore più d’ogni cosa la pace e la tranquillità cittadina, l’amor della quiete e dell'ordine pubblico a un tempo, con decreto del 10 marzo deliberò nella saggezza de' suoi consigli di discioglierla dell’intutto ed incorporarla negli altri Corpi. E però dei soldati più. probi e patrioti scelti in tutta la milizia, ha stabilito la formazione di cinque squadroni di cavalleria di 120 uomini l’uno, e di diciotto compagnie di fanteria; cui dassi complessivamente il nome di Guardia di pubblica sicurezza. Ogni provincia ne avrà una compagnia, la Calabria Citra due, Napoli tre. Sarà suo incarico, la guardia delle prigioni, l’esecuzione de' mandati d’arresto, la scorta de' detenuti. Il Corpo dipenderà da' Ministeri della Guerra, della Giustizia e dell'Interno. Col testé citato decreto n’è regolato pur anche l’uniforme. —
FINE.
(1) Come erede di Renato d’Angiò e di Carlo Conte del Maino, figliuolo del fratello di costui, che, morendo senza posterità lasciò successore de’ suoi beni, titoli e pretensioni Luigi XI, re di Francia } padre di Carlo VIII.
(2) É noia pur troppo la pubblica disfida in duello tra tredici Italiani scelti fra le milizie di Prospero e Fabrizio Colonna, le quali tenevano jl parato degli Spagnuoli, ed altrettanti Francesi scelti dal duca di Nemours. Il campo fu scelto tra Barletta, Corato ci Andria; e 'l conflitto ebbe luogo il dì di febbraio del 1303. Un poema latino del Vida ci dà i nomi de' guerrieri italiani quali sono i seguenti:
Carollario………………..Fieramosca………………...Capuano
Lodovico d’Abenavolo Napolitani
Mariano da Sarno…… ………… Braccaleone….Romani
Geleno …………………… ……….. Capoccio…...….Romani
Pachis……………………. Siciliani...Riccio……..Parmegiano
Practius…………………. Miale od Aminale…...Toscano
Salamone………….…….…………….Fanfulla…..Cremonese
(3) Il Codice Carolino fu compilato da uomini distinti in ogni ramo di sapere, spezialmente in giurisprudenza, tra i quali furono più famigerati Francesco Vargas Macciucca, Giuseppe Aurelio di Gennaro, e Giuseppe Pasquale Cirillo, elegante scrittore negl’idiomi latino ed italiano.
(4) Era Bernardo Tanucci di Stia nel Casentino, cittadino di Firenze, e professore di diritto pubblico nell’università di Pisa. Carlo III concepì pe’ talenti di lui stimasi grande, che lo elesse ad Auditore dell’esercito di Spagna, e poscia menollo seco a Napoli, quando prese possesso del regno. Ebbe Tanucci sì amica la ventura, che divenne in breve primo ministro delle due Sicilie, ed occupò Il primo ¡posto nella confidenza del Re.
Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - lho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura! Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin) |
This work is licensed under a Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 International License. |
Ai sensi della legge n.62
del 7 marzo 2001 il presente sito non costituisce testata
giornalistica.
Eleaml viene aggiornato secondo la disponibilità del materiale e del
Webm@ster.